Perché in 38 Stati africani su 55 l’omosessualità è reato? Per la loro visione del mondo e dell’uomo
Rodolfo Casadei
Da questa settimana in Uganda i gay rischiano l’ergastolo. Brevi cenni di antropologia per conoscere una cultura “diversa”
Alle legislazioni riguardanti l’omosessualità nel mondo d’oggi si potrebbe applicare quello che Pascal scriveva quasi quattro secoli fa della giustizia in generale: «Tre gradi di latitudine capovolgono tutta la giurisprudenza, un meridiano decide della verità. (…) Ridicola giustizia, delimitata da un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là».
Succede infatti che in Inghilterra potete essere arrestati e in Spagna denunciati se affermate in pubblico che l’omosessualità è una condizione difettosa e che gli atti omosessuali sono peccaminosi, mentre in Nigeria potete finire in prigione per 10 anni se sostenete un’organizzazione gay e in Uganda, dopo che il presidente Museveni ha firmato la legge approvata dal parlamento, chi persevera in atti omosessuali rischia nientemeno che l’ergastolo. La deriva dei continenti sta allontanando l’Occidente dall’Africa: di qua leggi che puniscono l’“omofobia” anche sotto forma di reato di opinione, di là leggi decisamente omofobe, che puniscono comportamenti e punti di vista.
I progressisti occidentali sono presi da incredulità e sbigottimento, ben espresso dall’attacco di un recente editoriale del Boston Globe dedicato alla firma da parte del capo di Stato nigeriano della legge che inasprisce le pene contro l’attivismo omosessuale: «Il presidente Goodluck Jonathan non poteva non sapere di essere dalla parte sbagliata della storia, quando all’inizio di gennaio ha deciso di firmare una dura legge anti-gay». A Boston sono sicuri di sapere dove va la storia, cioè verso matrimoni fra persone dello stesso sesso e verso lo sganciamento della procreazione dall’atto sessuale. E non riescono a farsi una ragione del fatto che gli africani si muovano nella direzione opposta: anziché diventare tolleranti in materia di omosessualità, diventano rigidi.
Il sondaggio che il Pew Research Center di Washington ha svolto sulla materia è impietoso. A non sopportare gli omosessuali sono gli africani in generale prima che i governi che approvano le leggi: il 98 per cento dei nigeriani, il 96 per cento di chi vive in Senegal, Ghana e Uganda, e il 90 per cento dei keniani è convinto che la società non debba accettare l’omosessualità.
Siamo al solito paradosso: i più accesi fautori della società multiculturale e del relativismo si mostrano completamente sprovvisti di quel minimo di antropologia culturale e di psicologia sociale che permettano di spiegare la diversità delle culture e i motivi per cui la loro futura convergenza non è affatto scontata.
La verità è che tutte le religioni tradizionali africane condannano l’omosessualità, anche se le pratiche omosessuali in Africa sono sempre esistite. Basti pensare che una delle ragioni per cui Mwanga II, re dei Baganda (attuale Uganda meridionale), martirizzò fra il 1885 e il 1887 ben duecento paggi di corte cristiani, cattolici e anglicani, fu che si sottraevano alle sue attenzioni omosessuali in nome della loro nuova fede. I 22 martiri dell’Uganda (san Carlo Lwanga e compagni) sono i primi neri africani canonizzati dalla Chiesa.
Il punto è semplicemente che la cultura tradizionale africana (un tutt’uno con le religioni tradizionali) è tutta centrata sulla propagazione della vita. Il principale dovere di un uomo africano, verso se stesso ma soprattutto verso la discendenza di cui è parte, è di propagare la vita. Pertanto l’omosessualità, come tutte le azioni che ostacolano la procreazione (aborto, malefici per causare la sterilità, eccetera), è considerata un grave peccato contro la vita. E non solo la vita in senso biologico: in ballo c’è nientemeno che l’immortalità, che per gli africani è sia individuale sia collettiva. Riguarda il lignaggio, il clan di cui sono membri. Riguarda gli antenati e i discendenti: chi blocca la procreazione danneggia le chance di vita eterna degli uni e degli altri.
Scrive il teologo e antropologo keniano John Mbiti nel suo capolavoro African Religions and Philosophy: «Per i popoli africani, il matrimonio è il centro dell’esistenza. È il punto in cui si incontrano tutti i membri di una comunità: i morti, i viventi e coloro che devono ancora nascere. Matrimonio e procreazione in Africa sono un’unità: senza procreazione il matrimonio è incompleto. È un dovere religioso attraverso il quale gli individui contribuiscono coi loro semi di vita alla lotta dell’uomo contro la perdita dell’immortalità originaria».
I bantu soprattutto (il più grande insieme culturale africano) credono che nascendo l’individuo è immesso in una corrente vitale specifica, quella dei suoi antenati e della sua comunità. Suo dovere è alimentare la corrente perché aumenti e duri per sempre.
Anche nell’Africa odierna questo substrato culturale e antropologico resta vivissimo, perché oggi come in passato la vita umana dell’africano è costantemente minacciata: dalle malattie, dalla guerra, dalle carestie, dalla povertà. La rinuncia alla procreazione, a meno che non sia sostituita dal sacerdozio o dalla vita religiosa (che garantiscono ai consanguinei del consacrato un rapporto privilegiato col divino), è ancora vista come un tradimento, e la procreazione artificiale pure.
Quelle prospettive inimmaginabili
Provate a immaginare come possono reagire gli africani di fronte alla prospettiva della legittimazione, attraverso il matrimonio fra persone dello stesso sesso, di pratiche sessuali intrinsecamente infeconde; e alla prospettiva che la procreazione, quando ha luogo in quei matrimoni, avvenga tramite la fecondazione eterologa, dove a trasmettersi non è il flusso vitale al quale il membro di una tribù appartiene dall’eternità, ma quello dello sconosciuto donatore di seme.
Gli africani non diventano più tolleranti, ma più intransigenti nei confronti dell’omosessualità perché le nuove legislazioni occidentali mettono in discussione le basi stesse della loro visione del mondo e dell’uomo. Non è difficile da capire.
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La chiesa luterana norvegese dice no al matrimonio religioso gay
Roberto Russo
La chiesa luterana di Norvegia ha respinto una proposta, appoggiata dalla maggioranza dei vescovi, di permettere il matrimonio religioso alle coppie dello stesso sesso.
Lo scorso mese di ottobre alcuni vescovi di questa confessione si era espressa a favore della proposta di celebrare nelle chiese il matrimonio ugualitario. Com’è tradizione delle chiese protestanti, però, la proposta doveva essere approvato dal Sinodo, che è l’organo decisionale della chiesa, per poter entrare in vigore.
Oltre alla proposta di celebrare le nozze religiose tra persone dello stesso sesso, i delegati al sinodo erano chiamati a esaminare alcune proposte alternative per autorizzare i pastori a celebrare una semplice liturgia di benedizione per le coppie dello stesso sesso oppure a confermare la prassi in vigore che permette il matrimonio religioso solo alle coppie eterosessuali. E il sinodo si è espresso in quest’ultima direzione.
Matrimoni gay religiosi | No della chiesa luterana norvegese
Bucarest. Secondo no secco (e bipartisan) alle unioni civili: le chiede l’Europa, la Romania respinge
«Dopo cinquant’anni di comunismo basta leggi che mirano a cambiare la testa delle persone»
Benedetta Frigerio
La Romania non introdurrà nel suo ordinamento le unioni civili nonostante l’”incoraggiamento” dell’Unione Europea. Tutto è cominciato all’inizio di marzo quando l’inter-gruppo dei diritti Lgbt del parlamento europeo ha inviato alle camere rumene una lettera firmata da Michael Chasman e da Urlike Lunacek, in cui si chiedeva l’adeguamento alla legislazione di altri paesi europei. Ma la commissione Giustizia della Camera ha respinto il conseguente disegno di legge, che era già stato bocciato anche dal Senato con una maggioranza di 105 voti contro 2.
IL DDL E L’OPPOSIZIONE. Il padre del testo, Remus Cernea, noto per il suo laicismo, aveva presentato la norma parlando di non discriminazione delle coppie «eterosessuali e omosessuali», per «ottenere diritti all’eredità, all’assicurazione medica del compagno e della proprietà».
Diverse associazioni hanno però inviato al parlamento delle note in cui emergeva che, in quanto a diritti, le coppie di fatto godono già di quelli citati nel testo e che il riconoscimento civile delle convivenze avrebbe avuto solo l’effetto di indebolire l’istituzione matrimoniale. Contro la norma si sono battuti insieme socialisti e democristiani. Daniel Florea, membro del Partito socialista democratico, ha spiegato così alla tv nazionale quella che ritiene essere la reale intenzione del movimento Lgbt: «La loro preferenza è per il loro business».
ABBIAMO GIÀ AVUTO IL COMUNISMO. Diana Tusha, del Partito democratico cristiano nazionale dei contadini, ha dichiarato: «Il tentativo di legiferare sulle unioni civili serve a dimostrare che è sufficiente adottare una serie di leggi che mirano a cambiare la testa delle persone, introducendo l’idea che sia possibile ridisegnare gli ideali e i valori umani secondo la propria volontà». Tusha ha poi aggiunto: «Penso che ne abbiamo già avuto abbastanza della dannosa esperienza di cinquant’anni di comunismo, in cui le leggi ci furono imposte forzatamente, senza riguardo per l’identità rumena. Non c’è bisogno di traumatizzare altre generazioni in nome di qualche progresso illusorio portato avanti attraverso ricette straniere (è il marxismo culturale rappresentato dal signor Cernea). Così si promuove la distruzione della famiglia e si decostruisce la condotta umana, eliminando i pilastri necessari al suo compimento».
Romania, due volte no alle unioni civili dettate dall'Europa | Tempi.it
Ungheria. Stravince il centrodestra di Orban, liberale e cristiano
Redazione
Il partito conservatore ha raccolto il 45 per cento dei voti, solo il 25 per cento per la sinistra. All’estrema destra circa il 20 per cento.
Come era facilmente prevedibile, alle elezioni ha vinto Fidesz (Unione civica ungherese), il partito del premier Viktor Orbàn. Il partito conservatore ha raccolto il 45 per cento dei voti, ottenendo 134 seggi su 199. Debacle del centrosinistra – un’alleanza di cinque sigle – che si è aggiudicata solo il 25 per cento dei consensi (39 seggi), davanti all’estrema destra di Jobbik (26 seggi).
RIFORME ECONOMICHE. Sebbene Fidesz abbia ottenuto meno voti in percentuale rispetto alle precedenti elezioni (era arrivato al 52 per cento), Orban canta giustamente vittoria. Gli ungheresi apprezzano le sue riforme in campo economico. Nel 2013 l’Ungheria è cresciuta dell’1,2 per cento, nel 2014 si prevede un aumento fino al 2,1. Il costo di luce e gas è stato abbassato e sono state messe in campo misure per favorire il pagamento dei mutui.
LA CARTA COSTITUZIONALE. Non solo. Orban ha introdotto nella Costituzione la protezione della vita del feto fin dal concepimento, la promozione della famiglia, rappresentata dal matrimonio fra uomo e donna, la proibizione delle pratiche eugenetiche, limitazione costituzionale all’indebitamento dello Stato non oltre il 50 per cento del Pil, invocazione della responsabilità di fronte a Dio dei parlamentari che approvano la Costituzione, formalizzazione costituzionale dello stemma nazionale centrato sulla Santa Corona e su Santo Stefano, simboli dell’eredità storica cristiana dell’Ungheria.
Ungheria. Stravince il centrodestra di Orban | Tempi.it
L’Ungheria conferma la scelta per la civiltà –
di Paolo Deotto
I risultati elettorali di ieri confermano che un partito conservatore serio e cristiano può guidare controcorrente un Paese, difendendo le proprie radici e la propria identità, promuovendo il progresso economico e sociale, sottraendolo al peonaggio della finanza mondialista (e alle relative catastrofiche conseguenze).
di Paolo Deotto
Ieri gli ungheresi sono andati a votare. I risultati parlano chiaro: la coalizione Fidesz, guidata dall’attuale primo ministro, Viktor Orban, è stata riconfermata per un altro quadriennio con il 44,4% dei voti (al 99% delle schede scrutinate – vedi ANSA). Il premio di maggioranza garantirà a Orban il controllo dei 2/3 del Parlamento. Gli altri partiti sono ampiamente distaccati: l’Alleanza democratica (opposizione di sinistra) ha portato a casa il 25,9% dei voti, il partito Jobbik (nazionalisti) il 20,5%, mentre i Verdi non sono nemmeno sicuri di superare il minimo necessario per avere rappresentanti in Parlamento.
I nostri lettori conoscono la situazione dell’Ungheria. Già tre anni fa denunciavamo l’attacco mondialista contro il popolo magiaro, “reo” di essersi dato, con libere elezioni, un governo che aveva saputo liberare il Paese dal cappio della finanza internazionale, mantenere la propria sovranità (anche monetaria: in Ungheria la moneta circolante è il fiorino ungherese, non l’euro), riportare sotto il controllo statale la Banca nazionale, avviare politiche economiche che hanno portato significativi miglioramenti nel tenore di vita, come ha dovuto ammettere, obtorto collo, anche la nostrana stampa di regime.
Già, perché contro l’Ungheria la nostra grigia e conformista stampa, salvo le solite lodevoli – ma purtroppo poche – eccezioni, aveva all’unisono levato il pianto democratico, parlando di un Paese oppresso da una nera dittatura. Il nostro amico ungherese, Andras Kovacs, ci forniva un quadro ben diverso. Ma per l’informazione di regime l’Ungheria non poteva che essere immersa nella tragedia perché, orrore incredibile, il Parlamento (giova ripeterlo: liberamente eletto dal popolo) aveva anche approvato la nuova costituzione, che nel preambolo riconosce le radici cristiane del paese magiaro, fondato dal Santo Re Stefano. Ohibò, dissero i democratici, un Paese che riconosce nella propria costituzione le radici cristiane? Dove andiamo a finire? E non c’è nemmeno un articolo che difende i sacri diritti dei nuovi dèi, ossia gli omosessuali-lesbiche-trans-echealtrononsaprei!!
Ora gli ungheresi hanno riconfermato per altri quattro anni questo governo, e lo hanno fatto con un numero di voti che non lascia spazio a molte disquisizioni. La sinistra, che mirava a tornare al potere, dal quale nel 2010 era stata scalzata proprio dal Fidesz, ha ottenuto un risultato di molto inferiore alle sue speranze, con quel 25% che parla da solo.
Già si levano grida di dolore dall’asse Berlino-Bruxelles e questo non può che farci piacere per gli ungheresi, perché chiaramente le loro scelte sono giuste, se turbano i centri dell’Europa pederastocratica. La stampa di regime, non potendo nascondere la sconfitta delle sinistre, si scaglia contro il partito Jobbik, che sarebbe, da quanto dicono, una congrega di feroci neo-nazisti, pronti a scatenare terribili campagne antisemite, razziste, a far scorrere fiumi di sangue, eccetera. Repubblica, la bibbia dei veri democratici duri e puri, pubblica un articolo in cui l’angoscia è tale da mandare in frantumi anche la sintassi. A parte ciò, possiamo fare queste pacate riflessioni:
- I “gruppi neonazisti” sono l’immancabile condimento di ogni sconfitta della sinistra. Quindi sull’affidabilità di tali qualifiche, andiamoci piano. Per fare un esempio, due anni fa, quando la Marcia per la Vita registrò a Roma il suo primo grande successo (15.000 presenze), la “buona stampa” farneticò di partecipazione alla Marcia di “neonazisti” che esistevano solo nella fantasia di qualche cronista pazzerellone (per non dire altro…);
- L’appellativo di “nazista” e/o di “fascista” viene affibbiato con grande facilità a chiunque non sia ligio al conformismo radicale sinistrato omosessualista;
- In ogni caso, se anche fosse vero che il partito Jobbik è formato da mostri assetati di sangue, la coalizione Fidesz non ha bisogno di alleati per governare, perché ha conquistato comunque i 2/3 dei seggi in Parlamento.
Gli ululati democratici contro il partito Jobbik lasciano quindi il tempo che trovano. Sta di fatto che, ancora un volta, il radicalume sinistrato dimostra il suo singolare concetto di libertà di scelta elettorale: ognuno è libero di scegliere ciò che è gradito alla finanza mondialista e massona. Altrimenti, diventa un “pericolo” per la democrazia, quella democrazia che notoriamente la UE garantisce, colonizzando e affamando le Nazioni e difendendo i sacri diritti di aborto, pederastia, eutanasia.
Facciamo i più sinceri auguri al popolo ungherese perché prosegua nella sua strada di libertà e di progresso e facciamo i più sinceri auguri al primo ministro Viktor Orban, al quale possiamo solo consigliare di evitare, per quanto possibile, i viaggi in aereo (ricordate ciò che accadde al governo polacco?) e di stare attento ai viaggi in automobile. Sono tempi duri per chi ama e difende la libertà e la civiltà.
Alla nostra “destra” politica, o a quel che ne resta, consigliamo di guardare all’Ungheria e alla coalizione Fidesz, per capire come una destra moderna, libera e solidamente radicata nei valori veri possa governare e far progredire un Paese. Gli ungheresi nella loro costituzione e nei loro cuori ricordano il Santo Re Stefano. Il giorno in cui i nostri politici più o meno sedicenti cattolici si ricorderanno che siamo il Paese di San Francesco e il Paese che ha la singolare Grazia di ospitare il Vicario di Cristo, avranno fatto il primo passo per iniziare a combinare, finalmente, qualcosa di serio per il bene dell’Italia.
L?Ungheria conferma la scelta per la civiltà ? di Paolo Deotto | Riscossa Cristiana
Sogno americano o civiltà? Il “caso” Putin, scolaro disubbidiente – di Luigi Parodi
“… La coraggiosa insorgenza di nazioni, che sfidano il pensatoio crepuscolare dichiarando la loro fedeltà alla Tradizione cristiana interrompe il sogno cosmopolita, strutturalmente anti-cristiano, e di conseguenze costituisce un’opportunità per i fautori della destra cattolica… i cattolici fedeli alla tradizione possono avviare un pensiero/progettante indirizzato all’uscita dall’imbalsamatoio, che le schegge neodestre definirono partito dei moderati, e pensare seriamente alla fondazione di un loro partito. La strada è lunga ma … Forse non moriremo globalizzati dal pensiero americano”.
Abbiamo spesso pubblicato interventi sulla necessità di ricostruire una vera “destra”, una destra cristiana, di forte identità e capace di riavviare l’Italia sulla strada della civiltà. Pubblichiamo molto volentieri questo contributo del prof. Parodi, perché non è solo molto chiaro, ma ha anche l’indubbio pregio di indicare un esempio pratico, realizzabile, di costruire quindi un obiettivo concreto su cui lavorare. È lo stesso incalzare degli avvenimenti che ci consente, se letto correttamente, di vedere che è possibile, perché già c’è chi lo sta facendo, non morire fagocitati dalla felicità a stelle e strisce.
Paolo Deotto
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Sogno americano o civiltà? Il “caso” Putin, scolaro disubbidiente
di Luigi Parodi
Per capire le profonde ragioni della contesa in atto tra Russia e America può esser utile la rilettura di un elzeviro, “La nuova Russia davanti al bivio“, scritto dal noto slavista Vittorio Strada, pubblicato nell’autorevole Corriere della Sera il 14 febbraio del 2005 ed entrato nel nostro archivio grazie alla cortese segnalazione di un illustre amico.
Le tesi politologiche sostenute dall’influente Corrierone e suggerite a Putin, infatti, sono lo specchio fedele del Pensiero Unico & Iniziatico. Il lettore convinto dell’esistenza di una radice esoterica e di una derivazione bancaria della scolastica atlantica, forse peccherebbe di dietrologia ma non cadrebbe in errore. Al fine di chiarire la bontà del consiglio amichevole, che la Voce milanese dell’America rivolgeva a Putin, Strada citava “L’Ucraina tra la Russia e l’Europa”, relazione di uno storico di Kiev, Georgij Kasianov, il quale aveva rievocato la sapiente scelta che l’Ucraina “in più di due secoli di storia recente ha fatto per lo più a favore dell’Europa“. Di qui l’indicazione del compito storico, che il Destino atlantico assegnava alla Russia di Putin: “la scelta tra un’ulteriore europeizzazione e un neo-tradizionalismo retrivo“. In parole povere: la Russia avrebbe dovuto imitare la servizievole Ucraina e mettersi al seguito dell’illuminata e notoriamente fruttuosa politica degli europei ligi e obbedienti all’ideologia mondialista.
L’imperativo lanciato dalla finestra della Casa Bianca e ripreso dal sommo quotidiano, pertanto, suggeriva a Putin di procedere all’europeizzazione del paese: “la Russia, spazialmente eurasiatica e culturalmente europea, può e deve integrarsi sempre più nella realtà occidentale, mantenendo la sua peculiarità che la pone tra l’Europa e l’America (e la Cina) come pezzo di rilievo nello scacchiere internazionale”. Definita la Russia ideale “pedina”, l’autorevole editorialista e Portavoce suggeriva a Putin di conformarsi all’ideologia pedo-thanatofila professata dai banchieri illuminati: “L’attuale dirigenza russa si trova di fronte alla necessità di passare all’attuale autoritarismo formalmente democratico a una democrazia sostanzialmente autorevole”. Va da sé che, in tale contesto, “autorevole” significa obbediente ai superiori atlantici.
Finalmente è arrivata la dura risposta russa ai suggerimenti americani. Circa l’invito a ripudiare il deprecato tradizionalismo retrivo Putin, dopo aver citato Nikolaj Berdajev, ha rammentato ai profeti della democrazia ultramoderna e ai loro ispiratori strutturalisti e sessantottini, che “la distruzione dei valori tradizionali è compiuta al seguito di elucubrazioni in contrasto con la volontà della maggioranza, che non accetta i cambiamenti e le proposte di sovversione dei valori” quindi ha affermato che “il conservatorismo non impedisce il movimento in avanti e verso l’alto, mentre ostacola il movimento all’indietro e verso il basso dell’oscurità caotica ossia un ritorno allo stato primitivo”.
Circa la pressione esercitata dalla potenza americana Putin afferma: “Abbiamo motivo di ritenere che la politica infame di contenimento [di ostilità nei confronti della nazione russa] dei secoli XVIII, XIX e XX continui ancor oggi. Stanno costantemente cercando di chiuderci in un angolo perché abbiamo una posizione indipendente, perché la manifestiamo, perché la manteniamo e perché diciamo come stanno le cose e non scendiamo a compromessi con gli ipocriti. In Ucraina i nostri competitori occidentali hanno attraversato la linea della prudenza, giocando alla caccia all’orso in modo irresponsabile”.
La disubbidienza di Putin (insieme con quella di Orban) altera lo scenario globale che sembrava immodificabile. La coraggiosa insorgenza di nazioni, che sfidano il pensatoio crepuscolare dichiarando la loro fedeltà alla Tradizione cristiana interrompe il sogno cosmopolita, strutturalmente anti-cristiano, e di conseguenze costituisce un’opportunità per i fautori della destra cattolica: il passaggio dall’angusto/astratto margine dei desideranti al campo delle opportunità da interpretare e da tradurre in serio e faticoso lavoro.
Sogno americano o civiltà? Il ?caso? Putin, scolaro disubbidiente ? di Luigi Parodi | Riscossa Cristiana