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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Perché in 38 Stati africani su 55 l’omosessualità è reato? Per la loro visione del mondo e dell’uomo
    Rodolfo Casadei
    Da questa settimana in Uganda i gay rischiano l’ergastolo. Brevi cenni di antropologia per conoscere una cultura “diversa”
    Alle legislazioni riguardanti l’omosessualità nel mondo d’oggi si potrebbe applicare quello che Pascal scriveva quasi quattro secoli fa della giustizia in generale: «Tre gradi di latitudine capovolgono tutta la giurisprudenza, un meridiano decide della verità. (…) Ridicola giustizia, delimitata da un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là».
    Succede infatti che in Inghilterra potete essere arrestati e in Spagna denunciati se affermate in pubblico che l’omosessualità è una condizione difettosa e che gli atti omosessuali sono peccaminosi, mentre in Nigeria potete finire in prigione per 10 anni se sostenete un’organizzazione gay e in Uganda, dopo che il presidente Museveni ha firmato la legge approvata dal parlamento, chi persevera in atti omosessuali rischia nientemeno che l’ergastolo. La deriva dei continenti sta allontanando l’Occidente dall’Africa: di qua leggi che puniscono l’“omofobia” anche sotto forma di reato di opinione, di là leggi decisamente omofobe, che puniscono comportamenti e punti di vista.
    I progressisti occidentali sono presi da incredulità e sbigottimento, ben espresso dall’attacco di un recente editoriale del Boston Globe dedicato alla firma da parte del capo di Stato nigeriano della legge che inasprisce le pene contro l’attivismo omosessuale: «Il presidente Goodluck Jonathan non poteva non sapere di essere dalla parte sbagliata della storia, quando all’inizio di gennaio ha deciso di firmare una dura legge anti-gay». A Boston sono sicuri di sapere dove va la storia, cioè verso matrimoni fra persone dello stesso sesso e verso lo sganciamento della procreazione dall’atto sessuale. E non riescono a farsi una ragione del fatto che gli africani si muovano nella direzione opposta: anziché diventare tolleranti in materia di omosessualità, diventano rigidi.
    Il sondaggio che il Pew Research Center di Washington ha svolto sulla materia è impietoso. A non sopportare gli omosessuali sono gli africani in generale prima che i governi che approvano le leggi: il 98 per cento dei nigeriani, il 96 per cento di chi vive in Senegal, Ghana e Uganda, e il 90 per cento dei keniani è convinto che la società non debba accettare l’omosessualità.
    Siamo al solito paradosso: i più accesi fautori della società multiculturale e del relativismo si mostrano completamente sprovvisti di quel minimo di antropologia culturale e di psicologia sociale che permettano di spiegare la diversità delle culture e i motivi per cui la loro futura convergenza non è affatto scontata.
    La verità è che tutte le religioni tradizionali africane condannano l’omosessualità, anche se le pratiche omosessuali in Africa sono sempre esistite. Basti pensare che una delle ragioni per cui Mwanga II, re dei Baganda (attuale Uganda meridionale), martirizzò fra il 1885 e il 1887 ben duecento paggi di corte cristiani, cattolici e anglicani, fu che si sottraevano alle sue attenzioni omosessuali in nome della loro nuova fede. I 22 martiri dell’Uganda (san Carlo Lwanga e compagni) sono i primi neri africani canonizzati dalla Chiesa.
    Il punto è semplicemente che la cultura tradizionale africana (un tutt’uno con le religioni tradizionali) è tutta centrata sulla propagazione della vita. Il principale dovere di un uomo africano, verso se stesso ma soprattutto verso la discendenza di cui è parte, è di propagare la vita. Pertanto l’omosessualità, come tutte le azioni che ostacolano la procreazione (aborto, malefici per causare la sterilità, eccetera), è considerata un grave peccato contro la vita. E non solo la vita in senso biologico: in ballo c’è nientemeno che l’immortalità, che per gli africani è sia individuale sia collettiva. Riguarda il lignaggio, il clan di cui sono membri. Riguarda gli antenati e i discendenti: chi blocca la procreazione danneggia le chance di vita eterna degli uni e degli altri.
    Scrive il teologo e antropologo keniano John Mbiti nel suo capolavoro African Religions and Philosophy: «Per i popoli africani, il matrimonio è il centro dell’esistenza. È il punto in cui si incontrano tutti i membri di una comunità: i morti, i viventi e coloro che devono ancora nascere. Matrimonio e procreazione in Africa sono un’unità: senza procreazione il matrimonio è incompleto. È un dovere religioso attraverso il quale gli individui contribuiscono coi loro semi di vita alla lotta dell’uomo contro la perdita dell’immortalità originaria».
    I bantu soprattutto (il più grande insieme culturale africano) credono che nascendo l’individuo è immesso in una corrente vitale specifica, quella dei suoi antenati e della sua comunità. Suo dovere è alimentare la corrente perché aumenti e duri per sempre.
    Anche nell’Africa odierna questo substrato culturale e antropologico resta vivissimo, perché oggi come in passato la vita umana dell’africano è costantemente minacciata: dalle malattie, dalla guerra, dalle carestie, dalla povertà. La rinuncia alla procreazione, a meno che non sia sostituita dal sacerdozio o dalla vita religiosa (che garantiscono ai consanguinei del consacrato un rapporto privilegiato col divino), è ancora vista come un tradimento, e la procreazione artificiale pure.
    Quelle prospettive inimmaginabili
    Provate a immaginare come possono reagire gli africani di fronte alla prospettiva della legittimazione, attraverso il matrimonio fra persone dello stesso sesso, di pratiche sessuali intrinsecamente infeconde; e alla prospettiva che la procreazione, quando ha luogo in quei matrimoni, avvenga tramite la fecondazione eterologa, dove a trasmettersi non è il flusso vitale al quale il membro di una tribù appartiene dall’eternità, ma quello dello sconosciuto donatore di seme.
    Gli africani non diventano più tolleranti, ma più intransigenti nei confronti dell’omosessualità perché le nuove legislazioni occidentali mettono in discussione le basi stesse della loro visione del mondo e dell’uomo. Non è difficile da capire.
    Perché in 38 Stati africani su 55 l'omosessualità è reato? | Tempi.it

    La chiesa luterana norvegese dice no al matrimonio religioso gay
    Roberto Russo
    La chiesa luterana di Norvegia ha respinto una proposta, appoggiata dalla maggioranza dei vescovi, di permettere il matrimonio religioso alle coppie dello stesso sesso.
    Lo scorso mese di ottobre alcuni vescovi di questa confessione si era espressa a favore della proposta di celebrare nelle chiese il matrimonio ugualitario. Com’è tradizione delle chiese protestanti, però, la proposta doveva essere approvato dal Sinodo, che è l’organo decisionale della chiesa, per poter entrare in vigore.
    Oltre alla proposta di celebrare le nozze religiose tra persone dello stesso sesso, i delegati al sinodo erano chiamati a esaminare alcune proposte alternative per autorizzare i pastori a celebrare una semplice liturgia di benedizione per le coppie dello stesso sesso oppure a confermare la prassi in vigore che permette il matrimonio religioso solo alle coppie eterosessuali. E il sinodo si è espresso in quest’ultima direzione.
    Matrimoni gay religiosi | No della chiesa luterana norvegese



    Bucarest. Secondo no secco (e bipartisan) alle unioni civili: le chiede l’Europa, la Romania respinge
    «Dopo cinquant’anni di comunismo basta leggi che mirano a cambiare la testa delle persone»
    Benedetta Frigerio
    La Romania non introdurrà nel suo ordinamento le unioni civili nonostante l’”incoraggiamento” dell’Unione Europea. Tutto è cominciato all’inizio di marzo quando l’inter-gruppo dei diritti Lgbt del parlamento europeo ha inviato alle camere rumene una lettera firmata da Michael Chasman e da Urlike Lunacek, in cui si chiedeva l’adeguamento alla legislazione di altri paesi europei. Ma la commissione Giustizia della Camera ha respinto il conseguente disegno di legge, che era già stato bocciato anche dal Senato con una maggioranza di 105 voti contro 2.
    IL DDL E L’OPPOSIZIONE. Il padre del testo, Remus Cernea, noto per il suo laicismo, aveva presentato la norma parlando di non discriminazione delle coppie «eterosessuali e omosessuali», per «ottenere diritti all’eredità, all’assicurazione medica del compagno e della proprietà».
    Diverse associazioni hanno però inviato al parlamento delle note in cui emergeva che, in quanto a diritti, le coppie di fatto godono già di quelli citati nel testo e che il riconoscimento civile delle convivenze avrebbe avuto solo l’effetto di indebolire l’istituzione matrimoniale. Contro la norma si sono battuti insieme socialisti e democristiani. Daniel Florea, membro del Partito socialista democratico, ha spiegato così alla tv nazionale quella che ritiene essere la reale intenzione del movimento Lgbt: «La loro preferenza è per il loro business».
    ABBIAMO GIÀ AVUTO IL COMUNISMO. Diana Tusha, del Partito democratico cristiano nazionale dei contadini, ha dichiarato: «Il tentativo di legiferare sulle unioni civili serve a dimostrare che è sufficiente adottare una serie di leggi che mirano a cambiare la testa delle persone, introducendo l’idea che sia possibile ridisegnare gli ideali e i valori umani secondo la propria volontà». Tusha ha poi aggiunto: «Penso che ne abbiamo già avuto abbastanza della dannosa esperienza di cinquant’anni di comunismo, in cui le leggi ci furono imposte forzatamente, senza riguardo per l’identità rumena. Non c’è bisogno di traumatizzare altre generazioni in nome di qualche progresso illusorio portato avanti attraverso ricette straniere (è il marxismo culturale rappresentato dal signor Cernea). Così si promuove la distruzione della famiglia e si decostruisce la condotta umana, eliminando i pilastri necessari al suo compimento».
    Romania, due volte no alle unioni civili dettate dall'Europa | Tempi.it



    Ungheria. Stravince il centrodestra di Orban, liberale e cristiano
    Redazione
    Il partito conservatore ha raccolto il 45 per cento dei voti, solo il 25 per cento per la sinistra. All’estrema destra circa il 20 per cento.
    Come era facilmente prevedibile, alle elezioni ha vinto Fidesz (Unione civica ungherese), il partito del premier Viktor Orbàn. Il partito conservatore ha raccolto il 45 per cento dei voti, ottenendo 134 seggi su 199. Debacle del centrosinistra – un’alleanza di cinque sigle – che si è aggiudicata solo il 25 per cento dei consensi (39 seggi), davanti all’estrema destra di Jobbik (26 seggi).
    RIFORME ECONOMICHE. Sebbene Fidesz abbia ottenuto meno voti in percentuale rispetto alle precedenti elezioni (era arrivato al 52 per cento), Orban canta giustamente vittoria. Gli ungheresi apprezzano le sue riforme in campo economico. Nel 2013 l’Ungheria è cresciuta dell’1,2 per cento, nel 2014 si prevede un aumento fino al 2,1. Il costo di luce e gas è stato abbassato e sono state messe in campo misure per favorire il pagamento dei mutui.
    LA CARTA COSTITUZIONALE. Non solo. Orban ha introdotto nella Costituzione la protezione della vita del feto fin dal concepimento, la promozione della famiglia, rappresentata dal matrimonio fra uomo e donna, la proibizione delle pratiche eugenetiche, limitazione costituzionale all’indebitamento dello Stato non oltre il 50 per cento del Pil, invocazione della responsabilità di fronte a Dio dei parlamentari che approvano la Costituzione, formalizzazione costituzionale dello stemma nazionale centrato sulla Santa Corona e su Santo Stefano, simboli dell’eredità storica cristiana dell’Ungheria.
    Ungheria. Stravince il centrodestra di Orban | Tempi.it



    L’Ungheria conferma la scelta per la civiltà –
    di Paolo Deotto
    I risultati elettorali di ieri confermano che un partito conservatore serio e cristiano può guidare controcorrente un Paese, difendendo le proprie radici e la propria identità, promuovendo il progresso economico e sociale, sottraendolo al peonaggio della finanza mondialista (e alle relative catastrofiche conseguenze).
    di Paolo Deotto
    Ieri gli ungheresi sono andati a votare. I risultati parlano chiaro: la coalizione Fidesz, guidata dall’attuale primo ministro, Viktor Orban, è stata riconfermata per un altro quadriennio con il 44,4% dei voti (al 99% delle schede scrutinate – vedi ANSA). Il premio di maggioranza garantirà a Orban il controllo dei 2/3 del Parlamento. Gli altri partiti sono ampiamente distaccati: l’Alleanza democratica (opposizione di sinistra) ha portato a casa il 25,9% dei voti, il partito Jobbik (nazionalisti) il 20,5%, mentre i Verdi non sono nemmeno sicuri di superare il minimo necessario per avere rappresentanti in Parlamento.
    I nostri lettori conoscono la situazione dell’Ungheria. Già tre anni fa denunciavamo l’attacco mondialista contro il popolo magiaro, “reo” di essersi dato, con libere elezioni, un governo che aveva saputo liberare il Paese dal cappio della finanza internazionale, mantenere la propria sovranità (anche monetaria: in Ungheria la moneta circolante è il fiorino ungherese, non l’euro), riportare sotto il controllo statale la Banca nazionale, avviare politiche economiche che hanno portato significativi miglioramenti nel tenore di vita, come ha dovuto ammettere, obtorto collo, anche la nostrana stampa di regime.
    Già, perché contro l’Ungheria la nostra grigia e conformista stampa, salvo le solite lodevoli – ma purtroppo poche – eccezioni, aveva all’unisono levato il pianto democratico, parlando di un Paese oppresso da una nera dittatura. Il nostro amico ungherese, Andras Kovacs, ci forniva un quadro ben diverso. Ma per l’informazione di regime l’Ungheria non poteva che essere immersa nella tragedia perché, orrore incredibile, il Parlamento (giova ripeterlo: liberamente eletto dal popolo) aveva anche approvato la nuova costituzione, che nel preambolo riconosce le radici cristiane del paese magiaro, fondato dal Santo Re Stefano. Ohibò, dissero i democratici, un Paese che riconosce nella propria costituzione le radici cristiane? Dove andiamo a finire? E non c’è nemmeno un articolo che difende i sacri diritti dei nuovi dèi, ossia gli omosessuali-lesbiche-trans-echealtrononsaprei!!
    Ora gli ungheresi hanno riconfermato per altri quattro anni questo governo, e lo hanno fatto con un numero di voti che non lascia spazio a molte disquisizioni. La sinistra, che mirava a tornare al potere, dal quale nel 2010 era stata scalzata proprio dal Fidesz, ha ottenuto un risultato di molto inferiore alle sue speranze, con quel 25% che parla da solo.
    Già si levano grida di dolore dall’asse Berlino-Bruxelles e questo non può che farci piacere per gli ungheresi, perché chiaramente le loro scelte sono giuste, se turbano i centri dell’Europa pederastocratica. La stampa di regime, non potendo nascondere la sconfitta delle sinistre, si scaglia contro il partito Jobbik, che sarebbe, da quanto dicono, una congrega di feroci neo-nazisti, pronti a scatenare terribili campagne antisemite, razziste, a far scorrere fiumi di sangue, eccetera. Repubblica, la bibbia dei veri democratici duri e puri, pubblica un articolo in cui l’angoscia è tale da mandare in frantumi anche la sintassi. A parte ciò, possiamo fare queste pacate riflessioni:
    - I “gruppi neonazisti” sono l’immancabile condimento di ogni sconfitta della sinistra. Quindi sull’affidabilità di tali qualifiche, andiamoci piano. Per fare un esempio, due anni fa, quando la Marcia per la Vita registrò a Roma il suo primo grande successo (15.000 presenze), la “buona stampa” farneticò di partecipazione alla Marcia di “neonazisti” che esistevano solo nella fantasia di qualche cronista pazzerellone (per non dire altro…);
    - L’appellativo di “nazista” e/o di “fascista” viene affibbiato con grande facilità a chiunque non sia ligio al conformismo radicale sinistrato omosessualista;
    - In ogni caso, se anche fosse vero che il partito Jobbik è formato da mostri assetati di sangue, la coalizione Fidesz non ha bisogno di alleati per governare, perché ha conquistato comunque i 2/3 dei seggi in Parlamento.
    Gli ululati democratici contro il partito Jobbik lasciano quindi il tempo che trovano. Sta di fatto che, ancora un volta, il radicalume sinistrato dimostra il suo singolare concetto di libertà di scelta elettorale: ognuno è libero di scegliere ciò che è gradito alla finanza mondialista e massona. Altrimenti, diventa un “pericolo” per la democrazia, quella democrazia che notoriamente la UE garantisce, colonizzando e affamando le Nazioni e difendendo i sacri diritti di aborto, pederastia, eutanasia.
    Facciamo i più sinceri auguri al popolo ungherese perché prosegua nella sua strada di libertà e di progresso e facciamo i più sinceri auguri al primo ministro Viktor Orban, al quale possiamo solo consigliare di evitare, per quanto possibile, i viaggi in aereo (ricordate ciò che accadde al governo polacco?) e di stare attento ai viaggi in automobile. Sono tempi duri per chi ama e difende la libertà e la civiltà.
    Alla nostra “destra” politica, o a quel che ne resta, consigliamo di guardare all’Ungheria e alla coalizione Fidesz, per capire come una destra moderna, libera e solidamente radicata nei valori veri possa governare e far progredire un Paese. Gli ungheresi nella loro costituzione e nei loro cuori ricordano il Santo Re Stefano. Il giorno in cui i nostri politici più o meno sedicenti cattolici si ricorderanno che siamo il Paese di San Francesco e il Paese che ha la singolare Grazia di ospitare il Vicario di Cristo, avranno fatto il primo passo per iniziare a combinare, finalmente, qualcosa di serio per il bene dell’Italia.
    L?Ungheria conferma la scelta per la civiltà ? di Paolo Deotto | Riscossa Cristiana



    Sogno americano o civiltà? Il “caso” Putin, scolaro disubbidiente – di Luigi Parodi
    “… La coraggiosa insorgenza di nazioni, che sfidano il pensatoio crepuscolare dichiarando la loro fedeltà alla Tradizione cristiana interrompe il sogno cosmopolita, strutturalmente anti-cristiano, e di conseguenze costituisce un’opportunità per i fautori della destra cattolica… i cattolici fedeli alla tradizione possono avviare un pensiero/progettante indirizzato all’uscita dall’imbalsamatoio, che le schegge neodestre definirono partito dei moderati, e pensare seriamente alla fondazione di un loro partito. La strada è lunga ma … Forse non moriremo globalizzati dal pensiero americano”.
    Abbiamo spesso pubblicato interventi sulla necessità di ricostruire una vera “destra”, una destra cristiana, di forte identità e capace di riavviare l’Italia sulla strada della civiltà. Pubblichiamo molto volentieri questo contributo del prof. Parodi, perché non è solo molto chiaro, ma ha anche l’indubbio pregio di indicare un esempio pratico, realizzabile, di costruire quindi un obiettivo concreto su cui lavorare. È lo stesso incalzare degli avvenimenti che ci consente, se letto correttamente, di vedere che è possibile, perché già c’è chi lo sta facendo, non morire fagocitati dalla felicità a stelle e strisce.
    Paolo Deotto
    *************************************
    Sogno americano o civiltà? Il “caso” Putin, scolaro disubbidiente
    di Luigi Parodi
    Per capire le profonde ragioni della contesa in atto tra Russia e America può esser utile la rilettura di un elzeviro, “La nuova Russia davanti al bivio“, scritto dal noto slavista Vittorio Strada, pubblicato nell’autorevole Corriere della Sera il 14 febbraio del 2005 ed entrato nel nostro archivio grazie alla cortese segnalazione di un illustre amico.
    Le tesi politologiche sostenute dall’influente Corrierone e suggerite a Putin, infatti, sono lo specchio fedele del Pensiero Unico & Iniziatico. Il lettore convinto dell’esistenza di una radice esoterica e di una derivazione bancaria della scolastica atlantica, forse peccherebbe di dietrologia ma non cadrebbe in errore. Al fine di chiarire la bontà del consiglio amichevole, che la Voce milanese dell’America rivolgeva a Putin, Strada citava “L’Ucraina tra la Russia e l’Europa”, relazione di uno storico di Kiev, Georgij Kasianov, il quale aveva rievocato la sapiente scelta che l’Ucraina “in più di due secoli di storia recente ha fatto per lo più a favore dell’Europa“. Di qui l’indicazione del compito storico, che il Destino atlantico assegnava alla Russia di Putin: “la scelta tra un’ulteriore europeizzazione e un neo-tradizionalismo retrivo“. In parole povere: la Russia avrebbe dovuto imitare la servizievole Ucraina e mettersi al seguito dell’illuminata e notoriamente fruttuosa politica degli europei ligi e obbedienti all’ideologia mondialista.
    L’imperativo lanciato dalla finestra della Casa Bianca e ripreso dal sommo quotidiano, pertanto, suggeriva a Putin di procedere all’europeizzazione del paese: “la Russia, spazialmente eurasiatica e culturalmente europea, può e deve integrarsi sempre più nella realtà occidentale, mantenendo la sua peculiarità che la pone tra l’Europa e l’America (e la Cina) come pezzo di rilievo nello scacchiere internazionale”. Definita la Russia ideale “pedina”, l’autorevole editorialista e Portavoce suggeriva a Putin di conformarsi all’ideologia pedo-thanatofila professata dai banchieri illuminati: “L’attuale dirigenza russa si trova di fronte alla necessità di passare all’attuale autoritarismo formalmente democratico a una democrazia sostanzialmente autorevole”. Va da sé che, in tale contesto, “autorevole” significa obbediente ai superiori atlantici.
    Finalmente è arrivata la dura risposta russa ai suggerimenti americani. Circa l’invito a ripudiare il deprecato tradizionalismo retrivo Putin, dopo aver citato Nikolaj Berdajev, ha rammentato ai profeti della democrazia ultramoderna e ai loro ispiratori strutturalisti e sessantottini, che “la distruzione dei valori tradizionali è compiuta al seguito di elucubrazioni in contrasto con la volontà della maggioranza, che non accetta i cambiamenti e le proposte di sovversione dei valori” quindi ha affermato che “il conservatorismo non impedisce il movimento in avanti e verso l’alto, mentre ostacola il movimento all’indietro e verso il basso dell’oscurità caotica ossia un ritorno allo stato primitivo”.
    Circa la pressione esercitata dalla potenza americana Putin afferma: “Abbiamo motivo di ritenere che la politica infame di contenimento [di ostilità nei confronti della nazione russa] dei secoli XVIII, XIX e XX continui ancor oggi. Stanno costantemente cercando di chiuderci in un angolo perché abbiamo una posizione indipendente, perché la manifestiamo, perché la manteniamo e perché diciamo come stanno le cose e non scendiamo a compromessi con gli ipocriti. In Ucraina i nostri competitori occidentali hanno attraversato la linea della prudenza, giocando alla caccia all’orso in modo irresponsabile”.
    La disubbidienza di Putin (insieme con quella di Orban) altera lo scenario globale che sembrava immodificabile. La coraggiosa insorgenza di nazioni, che sfidano il pensatoio crepuscolare dichiarando la loro fedeltà alla Tradizione cristiana interrompe il sogno cosmopolita, strutturalmente anti-cristiano, e di conseguenze costituisce un’opportunità per i fautori della destra cattolica: il passaggio dall’angusto/astratto margine dei desideranti al campo delle opportunità da interpretare e da tradurre in serio e faticoso lavoro.
    Sogno americano o civiltà? Il ?caso? Putin, scolaro disubbidiente ? di Luigi Parodi | Riscossa Cristiana




  2. #142
    Cinico disincantato
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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    I valori cristiani tra la Russia e gli Usa



    Il consenso delle politiche di Mosca presso importanti settori della cultura nordamericana può favorire un dialogo geopolitico e di civiltà fra Russia e Stati Uniti, essenziale anche per l'Europa



    In un articolo tra il serio e il faceto apparso di recente sul quotidiano Il Foglio, Stefano Pistolini affrontava un aspetto solitamente trascurato delle odierne relazioni fra Stati Uniti e Federazione Russa: la contraddittoria popolarità di cui gode negli USA Vladimir Putin (1). A parte gli aspetti più umoristici, relativi a una presunta voglia di «uomo forte» che Putin incarnerebbe provocando le simpatie di un certo elettorato statunitense, il giornalista toccava un punto molto interessante, ossia il giudizio positivo sul Presidente russo da parte di un movimento politico-culturale importante, ancorché poco conosciuto in Europa: il cosiddetto «paleoconservatorismo». Assai diversi, come il nome stesso suggerisce, dai neoconservatori che hanno dominato l’era di George W. Bush, ma anche dai liberal progressisti, i paleoconservatori USA animano una serie di riviste di buona levatura quali The American Conservative, Chronicles Magazine, The American Cause (2).

    Le posizioni di questo movimento non rientrano nel bipolarismo fra Democratici e Repubblicani, pur essendo teoricamente più vicine a questi ultimi. In politica estera i paleoconservatori sono i più ferrei critici dell’interventismo a stelle e strisce nel mondo e del sostegno incondizionato a Israele, predicando un disimpegno geopolitico che riservi agli USA il ruolo di potenza regionale. In ambito economico accompagnano un marcato antistatalismo all’affermazione di posizioni «distributiste», richiamando le teorie di grandi scrittori britannici di inizio Novecento quali Hilaire Belloc e Gilbert K. Chesterton. In nome della sussidiarietà, sono inoltre fautori di un forte decentramento dei singoli Stati rispetto al centro federale; manifestano ovviamente posizioni a tutela del diritto naturale sui temi etici e una prevalente, benché non esclusiva, adesione al Cattolicesimo. Su altre questioni, quali ad esempio il libero porto d’armi e la gestione dell’immigrazione, rivelano invece un’attitudine più nel solco della destra repubblicana.
    Patrick J. Buchanan è forse il più noto esponente del paleoconservatorismo odierno. Ex consigliere di Nixon e Reagan, segnalatosi poi per una critica mordace alla politica di George W. Bush (nella quale accusava i neocon di deformare l’autentico esprit conservateur), Buchanan è molto severo con Barak Obama e di recente ha apertamente apprezzato l’operato di Putin per la sua difesa dei valori tradizionali e per il multipolarismo russo in politica estera (3). In un’intervista al canale Russia Today, richiamando le sprezzanti parole con cui Obama aveva qualificato la condotta di Putin in Crimea, ha persino affermato: «Sono anch’io dal lato sbagliato della storia» (4). Anche se le loro idee non appaiono sempre condivisibili, conoscere meglio i paleoconservatori è dunque importante per comprendere su quali margini politico-culturali potrebbe far leva un rinnovato dialogo fra Stati Uniti e Russia, nonché per contrastare quell’antiamericanismo estremista che identifica negli USA una specie di Leviatano da cui dipendono sempre e comunque tutti i mali dell’universo.
    Il referente teorico del paleoconservatorismo è il filosofo cattolico Russel Amos Kirk (1918-1994), autore peraltro di una delle opere sulla cultura conservatrice forse più importanti del Novecento, The Conservative Mind. From Burke to Santayana (Chicago 1953). In un altro celebre lavoro, tradotto in italiano con il titolo Le radici dell’ordine americano, Kirk cercò di trovare un legame tra l’appartenenza confessionale alla Chiesa cattolica e quella civile agli Stati Uniti, sostenendo che il fondamento storico della società nordamericana fossero le fonti classiche e cristiane della tradizione europea (5). Sul piano storiografico questa tesi, che vede negli USA la prosecuzione oltreoceanica dell’Europa prerivoluzionaria in grado di conciliare il progresso tecnico ed economico con i valori morali tradizionali, non è convincente. È vero che nel loro processo di formazione gli Stati Uniti furono immuni dallo spirito antireligioso e dal nazionalismo etnico dell’Europa delle rivoluzioni. Ma a differenza dell’Europa, dove le tradizioni contro cui fu issata la bandiera della Rivoluzione erano radicate in millenni di storia, la fondazione stessa degli USA rappresentò già in sé un significativo distanziamento geo-culturale.
    Nello sviluppo storico degli Stati Uniti, gli elementi di rottura rispetto alla tradizione europea risultano cioè molto più incisivi delle linee di continuità: sul piano istituzionale, a motivo di quell’orgogliosa rivendicazione della democrazia repubblicana contro la Vecchia Europa monarchica e dinastica; su quello confessionale, non solo per la prevalenza dell’elemento protestante e la nettissima opposizione al «papismo» romano, ma anche per quella religione civile in cui tutti i culti si equivalgono all’altare del patriottismo civico; sul versante economico, a causa della valorizzazione dell’individuo e di una certa industriosità «marittima» contro l’Europa figlia della cultura della terra e delle corporazioni medievali; nell’ambito più ampiamente culturale, per via di quello slancio verso il «nuovo» preminente sul rispetto delle consuetudini. Per questi motivi, d’altronde, la categoria di «Occidente» con cui è d’uso accomunare la civiltà e la parabola storica di Europa e Stati Uniti appare del tutto impropria.
    Al tempo stesso, non si deve sottovalutare quella nostalgia d’Europa che ha accompagnato tutta la storia statunitense. Già Alexis de Tocqueville, nella celeberrima Democrazia in America, notava un forte bisogno di radicamento e di ordine, una presenza di elementi solidaristici e comunitari, cogliendo in ciò un bilanciamento dell’individualismo liberale più che opportuno per garantire le istituzioni democratiche attraverso una base valoriale condivisa. Proprio il paleoconservatorismo costituisce uno dei segmenti della cultura statunitense più affini alla tradizione europea. Il suo rafforzamento sulla scena politica USA, ove oggi risulta debole e frazionato malgrado un’intensa attività intellettuale, potrebbe aprire un dibattito fecondo su almeno due fronti.
    Sul piano geopolitico, le idee dei paleoconservatori sono abbastanza in linea con un’evoluzione multipolare necessaria a gestire con maggiore equità le crisi internazionali. Inoltre, esse favorirebbero i rapporti con la Russia attraverso un dialogo di civiltà che risponda al bisogno trasversale d’una buona cultura politica in un mondo che ha preteso di decretare la «fine delle ideologie», la «fine della fede» e quindi la stessa «fine della storia» (6). Thomas Molnar (1921-2010), filosofo ungherese tanto geniale quanto trascurato, aveva compreso che il più grande ostacolo in questo senso è la difficoltà cronica di attualizzare in modo persuasivo i valori della ragione e della tradizione nella società di massa senza scadere nel ridicolo e nella caricatura (7). Quella difficoltà, soprattutto comunicativa e organizzativa, di sottrarre la cultura della tradizione all’accusa di anacronismo retrogrado sempre arroccato in difesa, e di convincere l’opinione pubblica che l’autentico sviluppo – morale, economico, civile – procede dalla continuità con il passato e non da fratture e rivoluzioni.
    A quali istanze la tradizione è chiamata oggi a ridare linfa, negli USA non meno che in Russia e in Europa? Il nobile richiamo al dovere e alla responsabilità morale contro la banalità della trasgressione e del relativismo, il buon gusto e il senso del pudore in contrasto alla volgarità imperante, lo splendore del sacro e della fede religiosa come architravi su cui poggiare il senso ultimo dell’esistenza, la ragionevolezza quale antidoto al razionalismo tecnocratico e scientista, la ricchezza delle usanze popolari per bilanciare la massificazione del consumismo, la tutela dei poveri e degli indifesi come imprescindibile esigenza di giustizia, il rispetto verso l’autorità di cui la figura del Padre è insieme archetipo metafisico e inveramento sociale. Se ben veicolati, tutti questi valori sono forse in grado di suscitare un’approvazione maggiore di quanto si creda, in quanto riflettono una vocazione universale che in forme diverse si ritrova in tutte le grandi civiltà della storia.
    Il principio di tolleranza, che correttamente inteso significa realistica accettazione delle concrete imperfezioni umane e che però non toglie uno iota alla distinzione oggettiva tra bene e male, costituisce il corollario indispensabile per una diffusione di questi valori in democrazia. Come affermava il grande poeta angloamericano Thomas S. Eliot, l’obiettivo non è costruire un’irrealizzabile società di santi sussumendo la libertà del singolo nella dimensione collettiva, bensì ricercare assiduamente il fine naturale dell’uomo, avere il coraggio di riconoscerlo e permeare la vita civile d’uno spirito ad esso conforme nell’ancoraggio al senso comune e all’eredità storica (8). Il dibattito tra le migliori idee del paleoconservatorismo statunitense, della grande cultura russa e di quella europea potrebbe sostenersi su un patrimonio di intelligenze bimillenario e imperituro, che ha dalla sua parte Dante Alighieri, François-René Chateaubriand, Fëdor Dostoevskij e molti altri. All’eclissi dei valori assoluti, che da Nietzsche ai post-moderni si compendia nella «morte di Dio», la tradizione oppone con loro la verità storica e morale della sua Resurrezione.


    Note:

    1) S. Pistolini, L’invidia maschia per Putin, «Il Foglio», 9/04/2014.

    2) http://www.theamericanconservative.com, https://www.chroniclesmagazine.org, http://www.theamericancause.org.

    3) Si veda ad esempio P. J. Buchanan, Is Putin One of Us? Is Putin One of Us? - Patrick J. Buchanan - Official Website, 17/12/2013; Id. Whose Side is God Now?, The American Cause - PJB Columns, 04/04/2014.

    4) http://www.youtube.com/watch?v=lNIgqfazbqoD.

    5) R. Kirk, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, tr. it., Milano 1996.
    6) Ci si riferisce ai noti pamphlet di D. Bell, The End of Ideology: on the exhaustion of Polical Ideas in the Fifties, New York 1962; F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, News York 1992; S. Harris, The End of Faith: Religion, Terror, and the Future of Reason, New York-London 2004.
    7) T. Molnar, La Contro Rivoluzione, tr. it., Roma 1971. Sul corretto rapporto Europa-Stati Uniti, si veda anche, dello stesso autore,L’Américanologie: Triomphe d’un modèle planetaire?, Lausanne 1991; sulla necessità dei valori della tradizione nel mondo contemporaneo, L’hégémonie libérale, Lausanne 1992, e Authority and Its Enemies, New Brunswick 1995.
    8) T. S. Eliot, L’idea di una società cristiana, tr. it., Milano 1998.

    I valori cristiani tra la Russia e gli Usa | ZENIT - Il mondo visto da Roma

  3. #143
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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Anniversario della fine della guerra civile spagnola
    Quest'anno ricorre il 75° anniversario della fine della guerra civile spagnola, terminata nel 1939 dopo circa tre anni di aspri combattimenti tra le truppe nazionali da una parte e le truppe rosse dall'altra. Mentre nei territori conquistati dai nazionali la Religione Cattolica era rispettata, nei territori sotto il tallone dei rossi le chiese venivano distrutte e i cattolici perseguitati e uccisi.
    Il 28 marzo 1939, Madrid veniva finalmente liberata, e pochi giorni dopo gli ultimi miliziani rossi venivano catturati e disarmati. Il 16 aprile seguente, il Vicario di Cristo in terra, il Sommo Pontefice Pio XII (di immortale e gloriosa memoria), con un radiomessaggio si rallegrava della vittoria degli anticomunisti. Riporto alcuni passaggi:
    "Con immensa gioia Ci rivolgiamo a voi, figli dilettissimi della Cattolica Spagna, per esprimervi la Nostra paterna felicitazione per il dono della pace e della vittoria con il quale Dio si è degnato di coronare l’eroismo cristiano della vostra fede e carità, provato da tante e così generose sofferenze.
    Il Nostro Predecessore di s.m. attendeva con ansia questa pace provvidenziale, frutto senza dubbio di quella feconda Benedizione che fin dai primi tempi del conflitto inviava «a quanti si erano proposti il difficile e pericoloso compito di difendere e restaurare i diritti e l’onore di Dio e della Religione ».
    I disegni della Provvidenza, amatissimi figli, si sono manifestati ancora una volta sopra l’eroica Spagna. La Nazione eletta da Dio come principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che al di sopra di ogni cosa stanno i valori eterni della religione e dello spirito. La propaganda tenace ed i costanti sforzi dei nemici di Gesù Cristo fanno pensare che essi abbiano voluto fare in Spagna una prova suprema delle forze dissolvitrici, a loro disposizione, sparse in tutto il mondo; e benché l’Onnipotente non abbia per ora permesso che essi raggiungessero il loro intento, ha tuttavia tollerato la realizzazione di alcuni terribili effetti, affinché il mondo vedesse come la persecuzione religiosa, minando le basi stesse della giustizia e della carità, che sono l’amore a Dio ed il rispetto alla santa sua legge, può trascinare la società moderna ad insospettati abissi di iniqua distruzione e di appassionata discordia.
    Persuaso di questa verità, il sano popolo spagnolo, con quella generosità e franchezza che costituiscono le due caratteristiche del nobilissimo suo spirito, insorse deciso in difesa degli ideali della fede e della civiltà cristiana, profondamente radicati nel suolo fecondo di Spagna; ed aiutato da Dio « che non abbandona quelli che in Lui sperano», seppe resistere all’attacco di coloro che, ingannati da quello che essi credevano un ideale umanitario di elevazione dell’umile, in realtà combattevano in favore dell’ateismo.[...]
    Esprimiamo inoltre la Nostra doverosa gratitudine verso quanti hanno saputo sacrificarsi fino all’eroismo in difesa dei diritti inalienabili di Dio e della religione, sia nei campi di battaglia, sia ancora, consacrati alle opere sublimi di carità cristiana, nelle carceri e negli ospedali.
    Facciamo discendere su di voi, dilettissimi Nostri figli della Spagna Cattolica, sul capo dello Stato, e sul suo illustre Governo, sullo zelante Episcopato e sul suo Clero così pieno di abnegazione, sugli eroici combattenti e sui fedeli tutti la Nostra Apostolica Benedizione".
    Cordialiter, il blog sulla Tradizione Cattolica: Anniversario della fine della guerra civile spagnola



    «Il Regno Unito è un Paese cristiano». Cameron nella bufera
    Polemica dopo le affermazioni del premier
    Redazione
    Non si placano le polemiche per le parole del premier britannico David Cameron che nei giorni scorsi aveva sostenuto che il Regno Unito dovrebbe avere «più fiducia nel suo status di nazione cristiana». Parole, sostengono gli oltre 50 firmatari di una «lettera aperta» pubblicata sul Daily Telegraph, che rischiano di creare «alienazione» e «divisioni» tra i cittadini e «conseguenze negative per la politica e la società» britanniche.
    Tra i firmatari della lettera compaiono gli scrittori Ken Follett, Terry Pratchett e Philip Pullman, la giornalista Polly Toynbee, il filosofo A.C. Grayling, il presentatore Dan Snow, il presidente della British Humanist Association Jim Al-Khalili e altre personalità del mondo accademico e dello spettacolo. La Gran Bretagna «non è un Paese cristiano», sostengono gli autori della lettera, ma una «società plurale» e «in gran parte non religiosa». Per questo, «i richiami in senso contrario alimentano l'alienazione e le divisioni nella nostra società».
    «Il Regno Unito è un Paese cristiano». Cameron nella buferaPolemica dopo le affermazioni del premier - IlGiornale.it

    L'Inghilterra, Cameron e il cardinale Biffi
    di Riccardo Cascioli
    Davanti ai capovolgimenti culturali di cui siamo testimoni sempre più spesso capita di sentire domandare «Dove andremo a finire?», laddove del futuro non si sa dire molto di preciso se non la vaga percezione che si preparino tempi pesanti. Ebbene, oggi abbiamo la possibilità di avere un’immagine più chiara del nostro futuro: basta dare un’occhiata in Inghilterra e ripensare alle parole profetiche del cardinale Giacomo Biffi di venticinque anni fa.
    Cosa succede dunque in Inghilterra? Cominciamo dal primo fatto: il premier David Cameron nei giorni scorsi ha scritto una lettera al The Church Times, definendo l’Inghilterra «un paese cristiano» e sottolineando l’importanza che la fede cristiana ha avuto per lo sviluppo dell’Inghilterra stessa. Cameron ha arricchito la lettera di ricordi personali legati alla Chiesa, ma centro della lettera era soprattutto sottolineare che la fede è stata «la forza trainante dietro alcuni dei principali progetti sociali del nostro paese», e che quindi bisogna valorizzare maggiormente le organizzazioni sociali ispirate dalla fede. Affermazioni tutto sommato ovvie e perfino banali, e anche vagamente ruffiane da parte di un primo ministro che solo poche settimane prima si era speso per l’approvazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, questione che ha spaccato la Chiesa anglicana. Non a caso nella lettera non ha mai toccato il tema della famiglia, che pure – come qualche commentatore ha fatto notare – con la civiltà cristiana qualcosa c’entra.
    Eppure sono bastate quelle poche parole per provocare una reazione durissima da parte di 55 intellettuali che hanno scritto una lettera ai quotidiani nazionali per stigmatizzare le affermazioni di Cameron. A sentire loro pare che non si possa più parlare di Inghilterra come paese cristiano, è addirittura uno scandalo, mancanza di rispetto per le culture e religioni diverse che popolano ormai l’Inghilterra: con queste dichiarazioni il primo ministro diventa «divisivo» e «settario».
    Non sorprenderà sapere che tra i 55 firmatari della lettera di accusa a Cameron non c’è neanche un islamico, un indù, un sikh o qualsivoglia appartenente a religione non cristiana. E’ la solita menata di laicisti sedicenti atei che sono soprattutto anti-cristiani, ma i cui argomenti oggi sono penetrati nella società e sono condivisi da una fetta sempre crescente di popolazione che ormai possiamo definire post-cristiana.
    Ma proprio nei giorni in cui si discute se la civiltà cristiana vada abbandonata solo nei fatti, oppure anche a parole, da qualche altra parte in Inghilterra spunta qualcosa di nuovo. Ci sono infatti indagini in corso perché nell’area di Birmingham gruppi fondamentalisti islamici sono accusati di aver preso il controllo di almeno 18 scuole statali imponendo silenziosamente gli insegnamenti coranici e discriminando ovviamente non islamici e femmine. Si parla di aree a forte immigrazione, dove gli studenti islamici sono ormai maggioranza e in alcune scuole sono addirittura il 100%. Ma il caso di Birmingham è particolare perché si tratta di un’azione ben studiata da parte di gruppi radicali islamici che in questo modo intendono promuovere l’insegnamento del fondamentalismo. Almeno in una scuola, ad esempio, è stato invitato a parlare un predicatore vicino ad al-Qaeda il cui piatto forte è l’antisemitismo.
    Ora sulla vicenda sta indagando anche l’anti-terrorismo oltre al ministero dell’Educazione, ma è chiaro che questa è solo la punta di un iceberg in un paese dove gli islamici sono in totale il 5%, percentuale che supera però il 10% nella popolazione in età scolare. E soprattutto in un paese dove è già stata accettata la giurisdizione dei tribunali islamici per alcune contese, e dove – come abbiamo visto – ci sono influenti personaggi di provenienza cristiana che combattono perché ogni segno del cristianesimo sparisca dalla vita pubblica.
    C’è anche da essere certi che quanto sta accadendo pubblicamente in Inghilterra è realtà anche in altri paesi europei, Francia e Germania tanto per cominciare. Il domani è già iniziato, ed è qui che entra in gioco la “profezia” dell’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, di cui vale la pena rimeditare alcune parole pronunciate all’interno di un famoso discorso nel 2000 dedicato all’immigrazione, parole che riprendeva da un intervento fatto dieci anni prima. Ecco dunque cosa diceva il cardinale Biffi:
    «Io penso che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la "cultura del niente", della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento largamente dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa "cultura del niente" (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto ideologico dell'Islam, che non mancherà: solo la riscoperta dell'avvenimento cristiano come unica salvezza per l'uomo - e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica anima dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto».
    E proseguiva:
    «Purtroppo né i "laici" né i "cattolici" pare si siano finora resi conto del dramma che si sta profilando. I "laici", osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà: potrebbero accorgersene troppo tardi. I "cattolici", lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria estinzione. La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede».
    Parole di estrema attualità, ma non pare che «la gravità della situazione» per il momento stia risvegliando alcuno. E guai neanche a dirlo: saremmo subito tacciati per coloro che non sanno vivere senza un nemico o – peggio – che vogliono far rivivere lo spirito delle Crociate.
    L'Inghilterra, Cameron e il cardinale Biffi

    San Giovanni Crisostomo e l’omosessualità come passione diabolica
    di don Marcello Stanzione
    San Giovanni Crisostomo, che la Chiesa festeggia il 13 settembre, nacque in Antiochia nel 350 e morì a Comana il 14 settembre 407, fu vescovo della capitale imperiale di Costantinopoli, Primate della Chiesa d’Oriente, ed era un uomo dall’integrità morale assoluta. Integerrimo, dotto, brillante, le sue capacità oratorie lo hanno reso il più perfetto ed elegante fra i Padri Greci. Giovanni Crisostomo è passato alla storia come l’uomo della Bocca d’oro, l’appellativo che i Bizantini gli hanno attribuito tre secoli dopo la sua morte.
    La sua anima reclamava giustizia verso la parola di Dio che rischiava di essere avvelenata dalle eresie dilaganti, dalla bassezza dei costumi, dalle ipocrisie della corte. Per cinque anni si dedicò alla preparazione del sacerdozio e del ministero della predicazione, fino a quando il Vescovo Fabiano lo ordinò sacerdote. E’ a partire da questo momento che le sue doti oratorie hanno modo di mostrarsi. Giovanni si dedica costantemente alla predicazione, ma oltre a diffondere la parola di Cristo, il suo scopo è anche quello di difendere la moralità, rivolgersi ai fedeli per rafforzare il loro credo, allontanarsi dalle tante insidie del quotidiano. La sua fama si diffonde. I suoi sermoni sono lunghi (quasi due ore), complessi, appassionati, incantano gli ascoltatori e li obbligano a pensare. Nel 398, il Patriarca di Costantinopoli, Nettario, muore: Giovanni è chiamato a sostituirlo. La più alta carica ecclesiastica del tempo veniva conferita a un uomo che aveva cominciato ad avvicinarsi a Dio nel silenzio del deserto. Come guida e maestro di tutti i cristiani d’Oriente, la voce d’oro di Giovanni acquistò una risonanza anche maggiore: teologia, morale, politica, arte. Parole ardenti che tuonavano contro i vizi della corte e della Chiesa.
    Cominciarono le reazioni, non sempre positive. La perplessità può sfociare nell’invidia e da lì arrivare al rancore. Lavorando in segreto, un concilio sedizioso noto come Sinodo della Quercia, formato dai vescovi al seguito di Teofilo di Alessandria, riuscì a farlo deporre. L’imperatrice Eudossia, più volte censurata da Giovanni, dette l’aiuto decisivo e, nell’incontro di Calcedonia del 403, Giovanni fu condannato all’esilio. Subito dopo, Costantinopoli venne colpita da un terremoto. Coincidenza? Presagio di più funeste sventure? Fatto sta che il popolo reclamò a gran voce il ritorno del Patriarca e Eudossia non poté impedirlo. Ancora due mesi e una legione di soldati fece prigioniero Giovanni, costringendolo nuovamente ad allontanarsi. Questa volta per sempre. La destinazione era il Mar Nero, ma il Santo non riuscì mai ad arrivarvi, perché si ammalò e morì durante il viaggio.
    Il figlio di Arcadio, Teodosio il Giovane, fece trasferire i resti mortali del Santo dal sepolcro di Comana, luogo del suo esilio a Costantinopoli, il 27 Gennaio del 438, restituendo alla capitale d’Oriente la guida che sino ad allora aveva illuminato il suo cammino spirituale. Il Padre della Chiesa che condannò con maggior frequenza l’abuso sessuale contro natura, ovvero l’omosessualità, fu proprio san Giovanni Crisostomo. Di questo grandissimo Dottore della Chiesa, riporto i passi di un’omelia di commento all’epistola di san Paolo ai Romani: “Le passioni sono tutte disonorevoli, perché l’anima viene più danneggiata e degradata dai peccati di quanto il corpo lo venga dalle malattie; ma la peggiore fra tutte le passioni è la bramosia fra maschi. (…) I peccati contro natura sono più difficili e meno remunerativi, tanto che non si può nemmeno affermare che essi procurino piacere, perché il vero piacere è solo quello che si accorda con la natura. Ma quando Dio ha abbandonato qualcuno, tutto è invertito! Perciò non solo le loro (degli omosessuali, ) passioni sono sataniche, ma le loro vite sono diaboliche. (…) Perciò io ti dico che costoro sono anche peggiori degli omicidi, e che sarebbe meglio morire che vivere disonorati in questo modo. L’omicida separa solo l’anima all’interno del corpo.
    Qualsiasi peccato tu nomini, non ne nominerai nessuno che sia uguale a questo, e se quelli che lo patiscono si accorgessero veramente di quello che sta loro accadendo, preferirebbero morire mille volte piuttosto che sottrarvi. Non c’è nulla, assolutamente nulla di più folle o dannoso di questa perversità”. (San Giovanni Crisostomo, Homilia IV in Epistula Pauli ad Romanos; cfr. Patrologia Graeca, vol. 47, coll. 360-62).
    San Giovanni Crisostomo e l?omosessualità come passione diabolica ? di don Marcello Stanzione | Riscossa Cristiana



    Brunei: da aprile i gay saranno lapidati a morte
    Se sino ad oggi la comunità gay del Brunei rischiava una condanna fino a dieci anni di carcere, la situazione pare destinata a precipitare drammaticamente a partire dal 1° aprile. Secondo la nuova legge, ratificata da Hassanal Bolkiah, i gay e le lesbiche saranno saranno puniti con la flagellazione e con la pena di morte mediante lapidazione.
    Proteste per queste decisioni si sono registrate su Internet, ma Hassanal Bolkiah ha già attuato una controffensiva basata su minacce non proprio velate: «Dobbiamo essere prudenti e cauti nell'accogliere i benefici delle nuove tecnologie -ha dichiarato- al contrario, se ne abusiamo gli effetti deleteri non saranno solo sui singoli ma ricadranno anche su tutta la nazione».
    Brunei: da aprile i gay saranno lapidati a morte


    TAIWAN
    Rino Cammilleri
    Donato Contuzzi, sacerdote della Fraternità di San Carlo che opera a Taipei, capitale di Taiwan, ha raccontato al settimanale «Tempi» (ripreso dal «Timone» del febbraio 2014) che il governo taiwanese ha imposto l’inserimento in tutti i curricula accademici dell’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa. La decisione è stata approvata dal parlamento all’unanimità. Si tenga presente che a Taiwan i cristiani sono solo lo 0,5% della popolazione. Però il governo ha inteso riconoscere la loro eccezionale capacità educativa.
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    «Ecco perché la mia Russia, a un passo dal suicidio umano e demografico, ha deciso di dire sì alla vita»
    Benedetta Frigerio
    Alexey Komov (Congresso mondiale Famiglie): «La svolta “life-friendly” di Mosca? Putin asseconda solo la rinascita del nostro popolo dopo il regime sovietico. E pazienza se voi europei non capite»
    «Noi russi abbiamo vissuto sulla nostra pelle le conseguenze di un’ideologia che ci aveva fatto credere che saremmo stati felici senza Dio. Siamo arrivati a un centimetro dal suicidio umano e demografico. Adesso vogliamo tornare indietro». Alexey Komov è l’ambasciatore presso le Nazioni Unite del Congresso mondiale delle Famiglie, la più grande piattaforma internazionale per la difesa della famiglia naturale. In Italia per un convegno su Russia ed Europa organizzato a Rovereto dalla rivista Notizie Pro Vita, ha accettato di spiegare a Tempi le ragioni della svolta “life-friendly” di Mosca dopo il crollo del comunismo.
    In effetti negli anni Novanta, dopo settant’anni di regime, la Russia aveva indici di sviluppo umano da agonia. Fino alla vigilia della Rivoluzione bolscevica del 1917 il cristianesimo ortodosso era il fulcro della società russa. Nell’Ottocento l’ideologia marxista, partorita in Occidente, fece breccia nel cuore di alcuni intellettuali e borghesi russi. Secondo il materialismo comunista la scienza sarebbe riuscita a rendere l’uomo padrone di tutto. Non c’era più posto per la Chiesa che ricorda la dipendenza da Dio e dalle leggi naturali per la realizzazione dell’uomo e del bene comune. Perché la Russia ora guarda a queste idee con grande sospetto? Perché fummo i primi a conoscerle. Dopo la Rivoluzione d’ottobre fu legalizzato l’aborto, il divorzio, la famiglia come “affare” di Stato. Sull’orlo del precipizio ci siamo voluti fermare.
    Però la svolta “confessionale” di Putin e l’idea di fare della Russia una sorta di baluardo della cristianità non gode di buona stampa in Occidente.
    Senta, innanzitutto il governo sta approvando leggi che proteggono l’essere umano, cosa che si dovrebbe pretendere da ogni governante. Poi la valorizzazione del cristianesimo deriva dal fatto che Putin si è accorto che nel degrado assoluto l’unica cosa che ha resistito è stata la Chiesa ortodossa. La Russia ha provato il dolore di vivere senza Dio, per questo non crede più al comunismo e rigetta l’ateismo. Non a caso oggi il 77 per cento dei russi dichiara di credere in Dio e il 69 per cento è battezzato. Negli ultimi vent’anni sono state ricostruite trentamila chiese, seicento monasteri e altre duecento chiese sorgeranno presto a Mosca. Capisco che l’Occidente non capisca, visto quello che succede da voi. Però è così, il governo non sta imponendo nulla. E Putin sta solo prendendo atto del sentimento religioso riemergente nel popolo russo.
    In Russia vige ancora un sistema autoritario che ha ben poco di compatibile con la nostra democrazia.
    La “vostra” democrazia? In Occidente siete arrivati al punto di vedervi costretti per legge, e senza che nessuno abbia chiesto il vostro parere, a insegnare ai vostri figli che secondo questa “teoria del gender” non esistono “la mamma” e “il papà”, ma solo genitori A e B, che possono essere anche dello stesso sesso, e che si deve “scegliere” se essere “bambini” o “bambine”. Però senza discriminazioni, perché tutti devono essere uguali… Ecco, quando sento queste cose, quando sento che questa sarebbe “democrazia”, ripenso a me bambino. Ricordo che camminando per strada vedevo gli edifici progettati dalla nostra “grande democrazia socialista”, ed erano tutti brutti, tutti grigi, tutti uguali. Poi da qualche parte spuntava ancora qualche chiesa, bellissima, e subito sorgeva in me il desiderio di entrarci, di andare a rifugiarmi lì. Oggi le parti si sono invertite. Il popolo russo non cede all’ideologia Lgbt perché è molto meno ingenuo di quello europeo. La gente sa bene come gli intellettuali possono arrivare a imporre ideologie disumane.
    È sufficiente legiferare secondo il diritto naturale per cambiare un paese?
    Tuttora in Russia c’è una grande crisi demografica. Vent’anni fa siamo arrivati a quattro milioni di bambini abortiti ogni anno. Ora siamo scesi a circa due milioni. La politica da sola non basterà mai. Ma per fermare l’ingiustizia è necessario vietarla per legge. E comunque a ridurre i numeri dell’aborto sono stati anche il divieto del governo di pubblicizzarlo, il fatto che le leggi prevedano il finanziamento dei Centri di aiuto alla vita, lo stanziamento di una somma pari a dieci mila euro per il secondo figlio e concessioni demaniali a chi ne ha più di tre. Per il resto è compito dei cristiani e degli uomini di buona volontà ricostruire il tessuto sociale.
    Qual è la situazione della famiglia oggi in Russia?
    La situazione sta migliorando, ma ancora la metà dei matrimoni finisce in divorzi. La cultura di massa che passa attraverso la televisione, i film americani, le riviste e i media digitali condizionano le nuove generazioni. Anche in Russia i media restano i principali educatori…
    La Russia rischia sanzioni per le sue leggi “contro la propaganda e il proselitismo gay”. Non teme il suo isolamento a livello internazionale?
    No, perché la maggioranza dei russi la pensa esattamente come Putin. Il quale non ha nulla da temere perché il nostro paese dispone di un importante deterrente nucleare ed è lo snodo fra l’Europa e l’Asia. La nostra forza è sotto gli occhi di tutti. Basti pensare che siamo riusciti a frenare la guerra in Siria e a bloccare il piano di Obama di bombardare Damasco. E mi lasci dire che noi russi abbiamo anche un senso messianico della nostra presenza nel mondo. Messianismo che può essere pericoloso, come quando volevamo esportare ovunque il comunismo, ma che ritorna utile ora che vogliamo ritrovare le nostre radici cristiane.
    «Russia: era al suicidio demografico, ora dice sì alla vita» | Tempi.it


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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    LE CROCIATE CI HANNO FATTO MALE?
    di Ulderico Nisticò
    Vi furon non pochi ecclesiastici e Papi, nella storia millenaria di Santa Madre Chiesa, che vissero umili e distaccati ma Antonio Ghislieri, papa San Pio V, certo eccelse in questo. Conosceva bene le vicissitudini della sorte, egli che, apparteneva ad una famiglia nobile, ma decaduta, si era adattato anche a umili lavori. All'età di quattordici anni entrò nell'Ordine dei Frati Predicatori, negli anni di preparazione al sacerdozio, insieme a una solida formazione teologica, facilitata da un'intelligenza vivida, manifestò quell'austerità di vita che gli avrebbe meritato tanta stima negli anni successivi … e, da papa, si adoperò con abilità e decisione per dar vita alla terza Lega Santa tra Venezia, Filippo II di Spagna e le potenze italiane che condurrà al trionfo di Lepanto del 7 ottobre 1571 sulla flotta turca; e che dimostrò per sempre la superiorità navale dell’Occidente e tolse agli Ottomani ogni velleità di conquista per mare.
    Se S. Pio V non avesse fatto ciò, forse la basilica di San Pietro sarebbe divenuta una moschea, e, attraverso qualche laicizzazione, un museo come Santa Sofia; invece combatté e vinse, e la sua umiltà lo condusse ad attribuire il successo alla Madonna Auxilium Christianorum, che intitolò della Vittoria, e poi del Rosario, da buon domenicano.
    Certo, i combattenti di Lepanto non erano propriamente dei santi, ma eran valorosi: marinai, avventurieri, pirati…a loro dobbiamo se siamo rimasti cattolici e non siamo talebani. Anche il lungo periodo di quelle che in futuro, verranno chiamate Crociate è uno dei più contraddittori della storia del Mediterraneo, e vide di tutto, da massacri ad accordi, da tradimenti a magnificenze di cavalleria, da guerre tra cristiani a scontri di interessi a conflitti tra pretendenti a un trono perduto… com’è umano. Purtroppo ogni acquisto cristiano andò perduto entro il XIII secolo. Vero, ma per i due secoli precedenti venne arrestata l’avanzata turca e islamica su Costantinopoli e sull’Europa.
    E non mancarono grandi figure come Goffredo di Buglione e gli Ibelin e S. Luigi IX; e santi e martiri. Insomma, non si possono liquidare le Crociate con una semplificazione di violenza / non violenza, umiltà / trionfalismo, come se noi fossimo seguaci del primo pseudogandhiano di turno.
    Anche oggi ci sono cristiani perseguitati e uccisi. Non dico che dobbiamo per forza lanciarci in battaglie al grido “Deus Vult”; ma una parola anche per loro, una pressione sui governi… prima che facciano come nei Balcani nel XIV e XV secolo, dove i nobili si convertirono all’islam per non pagare le tasse e i poveracci si nascosero e inselvatichirono per restare cristiani.
    Le Crociate ci hanno fatto male? | Radio Spada



    Parole chiare, “parole profetiche”
    di Marco Bongi
    By Riscossa Cristiana
    “Ci troveremo sempre di più di fronte a qualcuno che pretenderà di parlarci in nome di Dio per dirci che non abbiamo bisogno di Dio”.
    Ho ascoltato queste agghiaccianti parole pronunciate da Alessandro Gnocchi l’8 marzo 2014, all’annuale raduno di Civitella del Tronto. L’intervento di Gnocchi aveva per titolo: “La crisi del sacro e la Chiesa inginocchiata davanti al mondo”
    A prima vista sembrano dichiarazioni provocatorie ed un tantino sopra le righe. Ci ho però riflettuto a lungo, non da teologo che non sono, ma da semplice fedele che osserva quanto accade intorno a sè.
    Ebbene: sono giunto alla conclusione che queste sono davvero “parole profetiche”… Così abbiamo fatto contenti anche tutti coloro che amano, a sproposito, questa espressione.
    Ecco allora qualche semplice pensiero in libertà sull’argomento:
    1 – Che cosa è, in fin dei conti, la libertà religiosa enunciata dalla dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae? La diplomazia della S. Sede non si diede del resto molto da fare, negli anni successivi, per chiedere, in nome del Concilio (e quindi di Dio), di togliere dalle loro costituzioni ogni riferimento alla religione di Stato? Si è chiesto, in altre parole, in nome di Dio di dichiarare che Dio non è importante.
    2 – Non è avvenuto forse lo stesso in campo ecumenico? In nome di Dio ci hanno imposto di credere che, in fondo, le differenze fra le varie religioni cristiane, e non cristiane, sono tutto sommato trascurabili. Che Dio sia presente nell’Eucarestia oppure no, che Cristo sia il figlio di Dio incarnato, che “senza la Fede è impossibile piacere a Dio”, non sono cose importanti. Dio stesso dunque, alla fine, non è importante per costoro.
    3 – E la questione della Messa di sempre? I novatori la odiano perchè…, pensateci bene, perchè da troppa importanza a Dio ed alla dimensione trascendente del rapporto con Lui. In nome di Dio ci obbligano a dare invece importanza all’uomo, all’assemblea, alla comunità, alla cena in compagnia…
    4 – E’ anche impressionante la durezza e l’intransigenza, che non ammette discussioni, con cui i moderni pastori si scagliano contro ogni ipotesi di guerra intrapresa in nome della Religione: fare la guerra per difendere Dio è una bestemmia, un crimine inescusabile. Molto più comprensibili invece le rivolte popolari, l’occupazione delle fabbriche, le cosiddette guerre di liberazione. Cosa significa? Ovvio… Dio non è importante, non ha senso combattere per difenderlo e, se non l’avete capito, ve lo ordiniamo in nome dell’autorità di Dio stesso!
    5 – Tanti sarebbero ancora gli esempi ma, per guardare al prossimo futuro, vorrei brevemente soffermarmi anche sulla possibile, e probabile, riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti. Dovremo certo accettarla, in nome dell’autorità di Dio, anche se Dio ha chiaramente detto: “L’uomo non divida ciò che Dio ha unito”. Morale: la legge di Dio non è importante, dovete crederlo in nome di Dio stesso.
    6 – E la prassi, o come usano dire loro la “pastorale”, segue fedelmente la nuova teologia. Che cosa significa, solo per fare qualche esempio, imporre, di fatto, la Comunione nella mano, impedire, di fatto, la genuflessione perchè sono stati tolti gli inginocchiatoi, espellere, di fatto, dalla catechesi come dall’omiletica, il peccato, i novissimi, l’oggettività della morale?
    Ecco perchè, a mio parere, le affermazioni di Alessandro Gnocchi sono davvero profetiche, nel senso più autentico di questa espressione.
    Le domande conclusive sono dunque inevitabili, anche se possono apparire provocatorie:
    Le autorità ecclesiastiche possono insegnare queste cose? Rientra fra i loro legittimi poteri? Noi fedeli abbiamo il dovere di obbedire a tali ordini?
    E, in fin dei conti:
    Dio accetterà ancor per molto di essere messo da parte come un giocattolo inutile?
    Parole chiare, ?parole profetiche? ? di Marco Bongi | Riscossa Cristiana

    Piero Vassallo scrive:
    1 maggio 2014 alle 23:44
    tutte le difficoltà della storia cattolica incominciano dalla “pia” intenzione di facilitare l’adesione alle dure verità di fede – il modernismo (“somma di tutte le eresie”) aveva origine dalla (“pia”) intenzione di moderare e rendere accettabili le verità più “scandalose” del Credo. Per non turbare il popolo i modernisti negavano la Resurrezione di Cristo, la verginità di Maria e i miracoli. Naturalmente alla “pia” intenzione era associata la cecità davanti agli enormi, incredibili errori dei filosofi moderni (all’idea hegeliana di assoluto immanente, ad esempio).
    Si diceva che “dopo Kant” la filosofia di San Tommaso non era più proponibile. Solo ultimamente uno studioso cattolico, il prof. Paolo Pasqualucci, ha osato confutare le tesi di quel Kant, “dopo” il quale non si poteva più leggere l’opera di San Tommaso. (Forse dimostro cattiva educazione ma chiedo: il regnante pontefice conosce e predica in conformità con la filosofia e con la teologia di San Tommaso? Pensa che sia conforme all’insegnamento di San Tommaso e rispettosa del principio di non contraddizione affermare che gli Ebrei non devono convertirsi? Forse la mia domanda è troppo volgare?)
    Ai modernizzanti dispiace riconoscere che la reazione cattolica al modernismo ha riacceso la fede del popolo e suscitato molte vocazioni al sacerdozio. Fino agli anni Cinquanta era in forte aumento il numero dei candidati al sacerdozio (infatti si costruiva nuovi seminari per accogliere i futuri sacerdoti). Domanda indiscreta: per quale causa durante e dopo il Concilio Vaticano II (il concilio della modernizzazione) le vocazioni al sacerdozio solo calate? e perché nel post-concilio si sono verificate migliaia (trentamila) defezioni di sacerdoti?
    Papa Bergoglio raduna folle plaudenti. Ma tra i plauditores quanti sono i vocati al sacerdozio? Come mai la corsa all’applauso non si traduce in corsa ai seminari semi-vuoti? Niente da dire contro gli applausi, ma…


    “Signore delle cime”, canto vietato in chiesa
    di Giovanni Lugaresi
    By Riscossa Cristiana
    …in chiesa si può fare di tutto, dagli applausi in un funerale, ai fervorini, discorsetti, recita di poesie nel funerale medesimo, scandire il Sanctus durante la messa con battimani, ma un coro che canti “Signore delle cime” in ottemperanza al desiderio della famiglia di un defunto, come accaduto di recente in una cittadina del Veneto, no
    di Giovanni Lugaresi
    Si resta sempre più sconcertati, se non a volte scandalizzati, per i comportamenti di certi sacerdoti e certi parroci. Che vietano ciò che non dovrebbe essere vietato e concedono ciò che non dovrebbe essere concesso. A tutto dovrebbe esserci un limite, dettato dal senso del sacro, in primis, e da un minimo di intelligenza, secondariamente.
    Certo che, in un clima di anarchia liturgica (e non soltanto liturgica) tutto può accadere, e cioè che taluni accettino, consentano, e altri no, pur parlando, trattando della stessa “materia”.
    Ci riferiamo ai canti degli Alpini e in particolare a quel toccante, commovente, “Signore delle cime” che il maestro Giuseppe De Marzi scrisse e compose nel lontano 1958, quando aveva appena 23 anni, in memoria di un amico (Bepi Bertagnoli) scomparso in una escursione in montagna.



    Si tratta di un canto pieno di sentimento, ricco di pietas, che innalza lo spirito, che riempie l’anima, diventato il canto religioso per eccellenza delle Penne Nere, ma che ha oltrepassato i confini nazionali ed è stato tradotto in tante lingue, nonché elaborato per diversi tipi di complessi musicali. E’ il canto, poi, che conclude la concelebrazione del sabato pomeriggio nelle adunate nazionali dell’Ana, officiate dall’Ordinario militare e/o dal vescovo della città dove l’adunata medesima ha svolgimento.
    Anche nella basilica padovana di Sant’Antonio, quando gli Alpini di quella città si danno convegno per la tradizionale messa di Natale, alla fine della celebrazione si canta “Signore delle cime”, senza problemi, anzi, dal momento che il rettore del santuario, Enzo Poiana, prima di vestire il saio aveva prestato servizio militare nella Julia.
    Ebbene, sta sempre più diffondendosi nel clero una sorta di fastidio, se non di avversione, per questo motivo musicale, al punto che taluni parroci lo vietano espressamente. E’ un no secco, il loro. Dicono che in chiesa non lo si può cantare. E magari si tratta di una chiesa dove è dato ascoltare quella sorta di canti (pseudo)sacri che il maestro Riccardo Muti ha in più occasioni definito “canzonette”… roba da mettersi le mani nei capelli – possiamo ben dirlo, avendole ascoltate più volte, quelle “canzonette”!
    Sì: in chiesa si può fare di tutto, dagli applausi in un funerale, ai fervorini, discorsetti, recita di poesie nel funerale medesimo, scandire il Sanctus durante la messa con battimani, ma un coro che canti “Signore delle cime” in ottemperanza al desiderio della famiglia di un defunto, come accaduto di recente in una cittadina del Veneto, no.
    Non ci si raccapezza più. Abbiamo parlato di “anarchia liturgica”, e non è una esagerazione. Ci chiediamo soltanto, a questo punto, che cosa aspettino vescovi di retta dottrina, di mente aperta nel verso giusto, e con un po’ di cuore, a richiamare quei tali tipi di parroci.
    Già… Che cosa aspettano?
    ?Signore delle cime?, canto vietato in chiesa ? di Giovanni Lugaresi | Riscossa Cristiana


    piero vassallo scrive:
    28 aprile 2014 alle 22:24
    A Genova ho assistito a una messa funebre (presente cadavere) celebrata da frati che indossavano paramenti bianchi (e uno di loro disse che il morto, suicida, era corso verso il Signore gettandosi dalla finestra) – naturalmente ci fu l’accompagnamento di festose chitarre – uno spettacolo deprimente, al limite dell’assurdo ma… guai a chi esprime dubbi sulla nuova liturgia (espressione della nuova teologia, quella di karl rahner)

    isia scrive:
    1 maggio 2014 alle 0:06
    nella mia parrocchia il sacerdote, riferendosi a persone che si sono suicidate, durante la preghiera dei fedeli ha pregato questi defunti di pregare per noi dal Paradiso e così sempre si prega nella nostra parrocchia, in generale nelle “intenzioni” per i defunti. Cioè, non si prega piu’ PER i defunti, ma si pregano i defunti di pregare per noi dal Paradiso, dando per scontato che siano già tutti là!!!

    ernie scrive:
    28 aprile 2014 alle 22:44
    Mi sono trovata anni fa alla Messa di un raduno di Scouts. Il celebrante era in calzoncini corti, maglietta e ciabatte, né indossò alcun paramento. Nessun altare consacrato: solo un pezzo di legno. come canto venne intonata una canzone tratta dal film a cartoni animati ”La gabbianella e il gatto”. La Messa fu a….fantasia del celebrante, secondo me eretica e non valida. Non potei fare la Santa Comunione, ammesso che tale potesse essere, ero, che il Signore mi perdoni, divorata dalla rabbia.

    Marco Gori scrive:
    29 aprile 2014 alle 12,01
    anni fa assistei sconsolato a una Messa dove il “Padre Nostro” veniva cantato sulle note di una notissima canzone americana, colonna sonora di un film che narra le avventure sessuali di un giovane con la madre di quella che sarà poi la sua ragazza (per la cronaca “Il Laureato” con Dustin Hoffmann).
    La nuova liturgia non conosce limiti alla vergogna in certi casi, che diventano sempre di più. Quanto a “Signore delle cime” mi viene il dubbio che il divieto risieda nel fatto che sia cantata da militari, categoria aborrita dai solerti parroci modernisti e post sessantottini.

    Luigi Candida scrive:
    29 aprile 2014 alle 15:15
    Fate nome e cognome di chiesa e parroco così cominciamo a mettere alla berlina i modernisti…

    Ernie scrive:
    29 aprile 2014 alle 18,02
    Fare nomi e cognomi? E a chi? A chi ha dato la Santa Comunione in pubblico a Vladimir Luxuria?



    Vite indegne
    Pubblicato da Berlicche
    Non può camminare. Non riesce a mangiare da solo. Non parla. Qualcuno deve assisterlo costantemente.
    Eppure è felice.
    Vite indegne | Berlicche





    La Marcia per la Vita. Una realtà che spiazza conformisti e ideologi
    di Paolo Deotto
    By Riscossa Cristiana
    Per il terzo anno consecutivo Roma, caput mundi, ha visto sfilare il Popolo della Vita. E sempre in aumento. Dai 15.000 del 2012, ai 40.000 dello scorso anno, quest’anno si è toccata quota 50.000. Era più che legittimo il timore di un calo delle presenze: l’inarrestabile crisi economica rende ovviamente più oneroso anche viaggiare, pernottare; poi l’ineffabile sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha fatto il possibile per sabotare questa iniziativa così politicamente scorretta, negando il patrocinio del Comune, patrocinio che peraltro miracolosamente c’è per l’immancabile “Gay-Pride”. Ma l’Ignazio lo conosciamo, ha già fatto il possibile lo scorso anno per sabotare anche il Convegno sul Gender; è uno dei tanti piccoli politicanti che non sono nemmeno accecati dall’ideologia, perché l’ideologia comporterebbe almeno la capacità di elaborare idee, seppur sballate. Ama la sua poltroncina, e adesso gli appoggi per chi ama le poltroncine vengono solo se si è conformisti. Contento lui… ognuno del resto frequenta le compagnie a lui più consone. Buon “gay-pride”, Ignazio, siamo sicuri che ti troverai del tutto a tuo agio.
    Crisi economica, sindaco felloncello, e anche tanta confusione in ambiente cattolico: vogliamo negarlo? Tanta confusione che non deriva solo dal caos dottrinario in cui la Chiesa sta soffrendo, ma anche dagli opportunismi di chi ha sempre cercato e tuttora cerca, magari trovandosi nuovi allievi, di utilizzare la battaglia per la Vita per i propri piccoli sogni di potere.
    C’erano tante condizioni perché l’affluenza diminuisse… ed è ancora aumentata. Già, perché si è confermato ciò che diciamo da tempo: la Marcia per la Vita è l’unica iniziativa vera, nel senso più pieno della parola, che nasce dal sano amore per la Vita, dal rifiuto della cultura di morte, dai migliori sentimenti che, nonostante tutto, continuano ad albergare nel cuore degli uomini di buona volontà.
    Abbiamo fatto oggi una piccola cronaca e una fotostoria della Marcia. Da lì vedrete che anche quest’anno la partecipazione è stata massiccia non solo da ogni parte d’Italia, ma anche da tante Nazioni estere. C’è chi ha percorso migliaia di chilometri per arrivare a Roma, dall’America o dalla Nuova Zelanda. E tante altre Nazioni. Ma l’Italia è un paese lungo, le distanze sono grandi. Sapete che dalla sola Sicilia sono arrivati 130, dicasi 130, pullman?
    Cos’era promesso a questi pellegrini della Vita? Il viaggio e il pernottamento pagato, il cestino per il pranzo? No signori, come sempre ognuno si è mosso a sue spese e sappiamo bene quanto può essere duro, nell’attuale situazione economica, tirar fuori i soldi per un viaggio, per pernottare, per mangiare; magari con tutta la famiglia, perché, come gli altri anni, erano numerose le famiglie, con tanti bambini.
    A queste persone è stato promesso ciò che già il Comitato per la Marcia e tanti combattenti pro-life fanno: una posizione chiara, decisa, a difesa della Vita. Senza compromessi. Questa è la molla che spinge a sobbarcarsi anche fatica e spese per venire a Roma a sfilare: la chiarezza dei fini, l’assenza di opportunismi da politicanti, le parole e i messaggi inequivocabili. Il “miracolo” della Marcia per la Vita è anche qui: nel fatto che non ci sarebbe la Marcia se non ci fosse quel Popolo della Vita che ogni anno cresce, e che cresce perché sa che nel punto di riferimento della Marcia trova quella chiarezza che per tanti è ormai un ricordo di un passato remoto, sepolto dal rincorrere “i tempi che cambiano”, le “nuove realtà” e tutte le altre infinite fandonie con cui si mascherano gli opportunisti pronti a barattare una riga di legge 194 con un milligrammo di potere effimero o di notorietà malmeritata.
    La Marcia è nata dal basso e dal basso continua a svilupparsi. Il lavoro degli organizzatori è santo e benemerito; sono, appunto, organizzatori, persone che si dedicano con anima e corpo a organizzare un evento che ha ormai risonanza internazionale. Non sono imbonitori, non sono ras politici o sindacali. E il Popolo della Vita cresce perché sa che la Marcia è un momento di verità e di rifiuto dei compromessi; perché si può solo essere contro la Vita o a difesa; tertium non datur. Ogni “sì, però… “ come esperienza insegna, è servito solo a far dilagare quella cultura di morte da cui è nata l’infame legge 194 e il suo sviluppo “operativo”. Oltre cinque milioni di bimbi uccisi (e sfuggono dal conto le vittime degli aborti chimici, ormai spesso anche a domicilio) scuotono le coscienze di chi non ha accettato questa carneficina.
    La Marcia per la Vita è l’unica manifestazione realmente popolare, e come tale spiazza la stampa di regime, i politicanti e tutti quelli che vivono dei loro quattro schemi fissi. È interessante leggere la cronaca che ne ha fatto oggi Repubblica. Traspare un che di imbarazzato. Gli ordini di scuderia sarebbero di parlar male degli antiabortisti già, ma come si fa? Questi continuano ad aumentare, sono pacifici e civili, le patacche degli scorsi anni (quando si inventarono presenze di “neonazisti” e “criminalizzazioni” di donne) hanno fatto ridere e non stanno più in piedi. Allora si butta lì, come se fosse cosa particolarmente interessante, la presenza di Militia Christi (e che sono, criminali? Non ci risulta), perché qualcosa bisogna pur dire. Insomma, domani il padrone chiederà conto. Che situazione imbarazzante! Non c’è nessun modo per parlarne male, però non si può parlarne bene… e così vien fuori una cronachetta scialba, quasi indegna della bibbia del radicalume-chic.
    La Marcia spiazza conformisti e ideologi. Esce dai loro piccoli schemi e li manda in cortocircuito. La Marcia ci dice che trentasei ani di crimine di Stato (la 194 risale al 1978) non sono riusciti a corrompere le coscienze; anzi, i difensori della vita aumentano, sono pronti a mobilitarsi, affrontando ogni fatica per dire sì alla Vita, no alla cultura di morte. Senza compromessi.
    La Marcia è un messaggio di speranza, ci dice che questa società grigia e triste non è ancora morta.
    La Marcia per la Vita. Una realtà che spiazza conformisti e ideologi ? di Paolo Deotto | Riscossa Cristiana



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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Quella struggente nostalgia di “Democrazia Cristiana”
    di Paolo Deotto
    La “Nuova Bussola” apre il processo di canonizzazione di Giulio Andreotti. Se non altro, è lecito chiedersi il perché. Un’apologia insensata e che poggia sull’omissione, ma che ben rappresenta il “nuovo corso” del cattolico allineato. Cosa ne disse, un anno fa, Mario Palmaro.
    di Paolo Deotto
    Un tempo la saggezza popolare ammoniva: “Parce sepulto!”. Giustissimo. Risparmia le critiche a un morto, ormai è davanti al giudizio di Dio. Peraltro ci sono anche defunti che in vita ebbero così alte responsabilità, che diviene impossibile scordare i loro errori, perché entrano nella Storia. Se poi accade addirittura che di tal sorta di defunti si tessano le lodi più sperticate, allora diventa impossibile non intervenire.
    La “Nuova Bussola” ha oggi aperto, a firma di Ruben Razzante, il processo di canonizzazione di Giulio Andreotti e speriamo, vista l’agilità che sempre di più si sta affermando anche nel delicatissimo campo delle canonizzazioni, che la nostra resti una battuta.
    “La verità interiore di Giulio Andreotti”. Andate a leggervela. Un articolo che gronda dolcezza. “Tra famiglia e fede cattolica, emerge un ritratto solare”… “La delicatezza della coscienza di Andreotti”… eccetera.
    Benissimo. Premetto che non ho mai creduto alla figura di Andreotti contrabbandata dalla Sinistra, che lo ha posto per anni al centro dei mille scandali e scandaletti che hanno vivacizzato la storia della nostra repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma per formulare un giudizio su Giulio Andreotti, e sul suo modo di intendere l’azione politica, basta una data, che ogni cattolico dovrebbe avere ben scolpita nella mente: 22 maggio 1978. In quel giorno fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge più infame che si possa concepire, la legge sull’aborto, che ha reso lecito l’assassinio del bimbo nel grembo materno. Coperta con l’ipocrita titolo di “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, la legge 194 ha già consentito quasi sei milioni di omicidi.
    Chi firmò la legge omicida? Giulio Andreotti, Presidente del consiglio, peraltro in buona compagnia, visto che gli altri firmatari erano, come lui, democristiani (i ministri Anselmi, Bonifacio, Morlino e Pandolfi) e democristiano era il Presidente della Repubblica che la promulgò, Giovanni Leone. Alla gravità assoluta, inescusabile di queste firme si aggiunse la sciagurata giustificazione, che leggiamo sul Diario di Andreotti, dopo l’approvazione della legge alla Camera: “Seduta a Montecitorio per il voto sull’aborto. Passa con 310 a favore e 296 contro. Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi, ma oltre a subire la legge sull’aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave” .
    Mario Palmaro (ce lo ricorda Giuseppe Brienza in un articolo su Italia Domani) il 7 maggio dello scorso anno inviava al direttore di Avvenire, Tarquinio, una lettera (ovviamente non pubblicata dal quotidiano della CEI), in cui tra l‘altro scriveva: “Ho trovato davvero singolare che Avvenire abbia completamente taciuto il fatto che nel 1978 Giulio Andreotti firmò, insieme a ministri tutti democristiani, e a un presidente pure democristiano, la legge 194. Quella legge gravemente ingiusta che in 35 anni ha permesso l’uccisione di circa 6 milioni di italiani con l’aborto di Stato. Il governo Andreotti mandò perfino l’avvocatura dello Stato a difendere la legge 194 davanti alla Corte costituzionale”.
    Insomma, l’ansia di conformismo si spinse fino a fare un atto non dovuto, la difesa della legge davanti alla Corte Costituzionale, mentre la giustificazione per la firma è completamente inaccettabile per qualsiasi coscienza che voglia definirsi cristiana: la sopravvivenza del governo era considerata un bene da difendere, più importante della vita. “… la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave”.
    Gli amici della Bussola di tutto ciò non fanno neanche un accenno. Non è accaduto, è cancellato, non esiste. E invece è accaduto e le nefaste conseguenze continuano: ogni giorno la macchina della morte produce, grazie alla legge 194, firmata per salvare il governo democristiano, circa 300 vittime. Ma la Bussola ci parla della ricchezza della vita interiore di Andreotti… che non ebbe il coraggio di dare l’addio al potere. Sarebbe stata una bella testimonianza di Fede. Già, “sarebbe” stata.
    Peraltro Andreotti non era solo in questa sciagurata mentalità. La Dc di Aldo Moro aveva già iniziato il percorso di sganciamento della politica dalla morale, e il cattolicesimo impegnato politicamente aveva già deciso il suicidio, teorizzando, e mettendo bellamente in pratica, quella schizofrenia per cui il cattolico che varca le soglie del Palazzo del Potere si scorda della sua fede e si inchina ai voleri della maggioranza. Del resto, la costituzione non dice che la sovranità appartiene al popolo? E allora che c’entra Dio? Sulla bara di Don Gallo, uno dei più luminosi esempi di sacerdote, non spiccava anche una copia della costituzione?
    Da questa sciagurata mentalità è nato il resto, per cui oggi abbiamo la consolante visione di politici che si definiscono “cattolici” e che non hanno alcun imbarazzo nel militare in partiti politici che danno spazio alle sacre istanze omosessualiste, nuovo luminoso orizzonte verso cui marciare, nell’inarrestabile cammino del progresso, e che sono vicini alle intoccabili centrali del potere finanziario pirata-massonico. Non a caso i politici cattolici ben inseriti partecipano al coro di lode dell’Unione Europea, nuova luminosa stella polare sul cammino del progresso. Ah, è vero, hanno fatto anche il manifesto con cui giurano che saranno tanto bravi…
    Peccato che una società che rinnega e oltraggia Dio, rifiutando l’ordine naturale da Lui stabilito, sia destinata alla rovina. Distrutta la famiglia, legalizzato l’omicidio degli innocenti, a breve avremo la gioia dello sdoganamento definitivo dell’omosessualità, col corollario inevitabile di “nozze” tra pervertiti e adozioni. Mancano all’appello, ma è solo questione di (poco) tempo l’eutanasia, la pedofilia e la zoofilia. Poi si potrà chiudere il chiusino della fogna in cui la società si sarà immersa e morire tutti democraticamente asfissiati dai miasmi delle acque putride. Satana ringrazia.
    Però ringraziamo anche noi, e ringraziamo gli amici della Bussola. Già, perché l’apologia di Andreotti è un chiaro segnale, se ancora ce n’era bisogno, del nuovo felice corso del cattolicesimo. Sul finale dell’articolo spunta una frasetta che è tanto chiara: “nessuno ha titolo a giudicare”. Già, chi sono io per giudicare?
    Io non sono nessuno. Ma io, e come me tanti altri, sono uno scellerato, complice e pusillanime, se non giudico atti e comportamenti che sono in netto e indiscutibile contrasto con la morale cattolica. Ho il dovere di giudicare di fronte all’empietà palese. A questo punto, sono definitivamente classificabile tra i criptolefebvristi e gli altrettanto disprezzati tradizionalisti. Ne vado fiero.
    Quella struggente nostalgia di ?Democrazia Cristiana?* -* di Paolo Deotto | Riscossa Cristiana

    BERLUSCONI PARLA IN MEZZO A LIBRI MASSONICI?
    A Virus (RAI2), Berlusconi ha parlato in video-conferenza dalla sua residenza (cliccare per vedere l'originale).
    Esclusiva Radio Spada: Berlusconi parla in mezzo a libri massonici? | Radio Spada

    Rai Replay



    La deriva radicale-animalista di Forza Italia
    Da Francesco Agnoli
    Il Corriere della Sera (29 aprile 2014) racconta come “l’ex premier divenne animalista“.
    Accanto a Berlusconi, sempre più attiva, c’è l’ex ministro Michela Vittoria Brambilla. La quale spiega le cose concrete da fare subito, con l’aiuto del supo partito: “L’introduzione di un sistema mutualistico per le cure dei cani e dei gatti delle famiglie meno abbienti e l’ampiamento delle detrazioni per le spese sanitarie. Quindi, l’Iva agevolata sugli alimenti, i farmaci, il veterinario, poi le norme che consentono il libero accesso degli animali nei luoghi pubblici e una serie di provedimenti sul loro benessere dentro casa…”.
    Non è chiaro chi dovrebbe pagare questi “diritti civili” animaleschi, e se nella lista siano destinati ad entrare a breve anche l’aborto e il matrimonio gay di cani e gatti, ecc.ecc.
    Si sa che la Brambila è stata una delle donne più in vista di F.I., insieme alle altre ex ministre Prestigiacomo e Carfagna.
    Brambilla, Prestigiacomo e Carfagna: 3 donne radicali, quasi come la Bonino, che spadroneggiano in un partito che vuole essere di centro destra, e che è sempre più alla deriva. Che ha difeso, con tanti limiti, per alcuni anni, certi valori (un po’ per opportunismo, un po’ per convinzione), dall’attacco forsennato della sinistra, e che è oggi allineato con Pd e Grillini su quasi tutte le materie etiche, divorzio breve compreso.
    Brambilla è oggi, sempre per F.I., presidente della commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza e deputato nella attuale legislatura (XVII); ed è da alcuni mesi membro del Comitato di Presidenza di Forza Italia. Di infanzia e di adolescenza non si occupa affatto. Preferisce di gran lunga i cani e i gatti.
    Nel suo sito si può leggere:
    Nel febbraio 2014, il presidente Berlusconi ha affidato a Michela Vittoria Brambilla la guida del grande “dipartimento per la solidarietà e il sociale di Forza Italia”, organizzato con due divisioni che contemplano tutti i temi legati alla protezione dell’infanzia, alle famiglie indigenti, alla disabilità, ai più deboli (divisione per la solidarietà), così come tutti i temi legati alla tutela dell’ambiente, degli animali e dei loro diritti, anche in riposta alle necessità dei milioni di italiani che con essi convivono (divisione per il sociale).
    Peggio della Brambilla, c’è solo uno degli astri di F.I., Mara Carfagna (di cui ricordiamo la guerra spietata contro Eugenia Roccella, a favore della legge liberticida Scalfarotto).
    La deriva radicale-animalista di Forza Italia | Libertà e Persona



    L’Irlanda del Nord dice no al matrimonio omosessuale
    Il tentativo di introdurre questa legge è stato respinto ieri sera, per la terza volta in 18 mesi, dal parlamento di Belfast
    L’Irlanda del Nord è l’ultimo bastione rimasto, nel Regno Unito, a difesa dei valori tradizionali. Se n’è avuta dimostrazione ieri sera, quando a Belfast l’Assemblea legislativa ha bocciato il disegno di legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il same sex marriage, già approvato in Inghilterra, Galles e Scozia, si è arenato in aula parlamentare grazie alla resistenza condotta da due partiti, il Democratic unionist party e l’Ulster unionist party.
    Ancor prima del voto, i due partiti hanno chiesto e ottenuto la petition of concern, una clausola usata in Irlanda del Nord ogni qual volta un disegno di legge rischia di minare la difficile convivenza tra le due comunità, cattolica e protestante. Attraverso questa clausola, una delle due comunità può ottenere il diritto di veto su una determinata legge al fine di evitare la prevaricazione – da un punto di vista politico, sociale, religioso – di una delle due fazioni sull’altra.
    Così è stato per la legge sui matrimoni omosessuali, bocciata dalla componente protestante del parlamento nordirlandese e approvata, invece, dai deputati repubblicani e di estrazione cattolica. A proporre questa norma, del resto, era stato proprio il Sinn Féin, storica espressione politica dei cattolici nordirlandesi, nato nel 1905 come movimento indipendentista dal Regno Unito, cui a quei tempi apparteneva tutta l’isola d’Irlanda.
    La posizione del Sinn Féin su questo tema non coincide, tuttavia, con quella della Chiesa cattolica. In una lettera aperta ai parlamentari dell’Assemblea legislativa, i vescovi nordirlandesi hanno scritto: “Il matrimonio per tutti mette a repentaglio un fondamento chiave del bene comune. Non siamo di fronte a una mera convinzione religiosa, ma anche di fronte a una questione logica. Tutti, religiosi e non religiosi, sanno che la famiglia è quella basata su una donna e su un uomo, che è il posto ideale per un bambino. Questo è un mattone fondamentale della nostra società”.
    I presuli hanno rammentato ai politici che il bambino “ha diritto di crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva”.
    Indicazioni raccolte non dal Sinn Féin, ma dalla gran parte dei cittadini nordirlandesi a prescindere dall’appartenenza religiosa. Almeno, stando alle dichiarazioni di un importante esponente del Democratic unionist party, Mervyn Storey, che ha difeso il suo voto contrario al disegno di legge ricordando che “sin dagli albori della creazione” il matrimonio è l’impegno di unione tra un uomo e una donna che dura per tutta la vita. “Molti protestanti, molti cattolici, molte persone di altre confessioni non vogliono alcun cambiamento della definizione di matrimonio”, ha aggiunto il deputato.
    Quello di ieri sera a Stormont (nome del Parlamento di Belfast) è stato il terzo tentativo vano, negli ultimi 18 mesi, di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Irlanda del Nord. Esattamente un anno fa, un disegno di legge analogo fu respinto con 53 voti contro i 42 favorevoli. Belfast resiste al “pensiero unico”.
    L?Irlanda del Nord dice no al matrimonio omosessuale

    BPAS
    Rino Cammilleri
    Leggo su notizieprovita.it del 9 aprile 2014 che un’indagine del Bpas (British Pregnancy Advisory Service) ha dovuto ammettere che ben due terzi delle donne che hanno abortito nelle sue cliniche stavano usando anticoncezionali. Il 66%. Poiché la pillola (40%) e il preservativo (35%) avevano fatto cilecca, hanno dovuto rimediare con l’intervento. Eh, è proprio vero che non c’è nulla di sicuro in questa valle di lacrime…
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    Francia. Tribunale impedisce a una coppia lesbica l’adozione di un bambino. Lgbt: «La giustizia è omofoba»
    Un tribunale di Versailles ha impedito a una donna di adottare il bambino di quattro anni che la compagna ha generato tramite fecondazione assistita in Belgio. Si tratta di una «violazione della legge»
    Leone Grotti
    Un tribunale di Versailles in Francia ha impedito per la prima volta a una donna di adottare il bambino di quattro anni che la compagna ha generato tramite fecondazione assistita in Belgio, perché costituisce una «frode rispetto alla legge».
    ADOZIONE SÌ, FECONDAZIONE NO. L’anno scorso il governo Hollande ha approvato il matrimonio e l’adozione gay, che permette alle coppie dello stesso sesso di sposarsi e adottare bambini. In Francia però la fecondazione eterologa per le coppie lesbiche è illegale e il giudice ha considerato la pratica di adozione di Versailles come un tentativo di frodare la legge, avendo la coppia aggirato il divieto francese recandosi all’estero.
    LGBT DELUSI. «La coppia prova oggi un sentimento di collera, di ingiustizia e ricorrerà in appello. Noi siamo certi che ci saranno altri casi, l’apertura di matrimonio e adozione era pensata per proteggere le nostre famiglie», commenta arrabbiata la sentenza la presidentessa di Enfants d’arc-en-ciel, associazione di genitori gay e lesbiche che difende la coppia.
    «GIUSTIZIA OMOFOBA». «La giustizia di Versailles è omofoba e penalizza l’interesse del bambino», ha rincarato la dose l’Associazione delle famiglie omogenitoriali, affermando poi che non sono «sorpresi» visto che alcuni procuratori a Marsiglia e Aix-en-Provence hanno sostenuto la stessa posizione in casi analoghi, chiedendo di vietare l’adozione.
    Secondo la portavoce di Inter-LGBT «la legge Taubira [sul matrimonio gay] è incompleta. Non dà garanzie in caso di adozione». Ma la presidentessa della Manif, Ludovine de la Rochère, ribatte: «Capisco il dispiacere della coppia di donne ma accogliere la loro richiesta significherebbe incoraggiare la violazione della legge. L’adozione è un’istituzione a servizio del bambino. Si tratta di una risposta alla mancanza dei genitori o a un abbandono, non è un mezzo a disposizione degli adulti per realizzare un loro progetto».
    Francia, adozioni gay: «La giustizia è omofoba» | Tempi.it

    L’Iran verso la totale proibizione dell’aborto
    L’Iran sta per approvare una nuova legge che andrà a proibire ogni forma di aborto. Se entrerà in vigore la legge attualmente in discussione in Parlamento, infatti, le interruzioni di gravidanza ed i metodi di contenimento delle nascite dovranno essere approvate, caso per caso, da un ente del Ministero della Salute e dal Dipartimento di Giustizia.
    In ogni caso saranno cancellati i servizi gratuiti per i controlli delle nascite.
    Preoccupato per la caduta del 70% della crescita demografica e delle sue conseguenze economiche, il governo di Theran dichiara fuori legge la vasectomia. La politica di pianificazione familiare, in Persia, incoraggiava a non fare più di tre figli, a distanziarli nel tempo. Favoriva la contraccezione e penalizzava le famiglie numerose. Ora che questa politica ha sortito i suoi effetti (l’indice di fertilità è sceso da 8 a meno di 2 figli per donna) il governo si rende conto del danno e corre ai ripari.
    Soprattutto dopo la rivoluzione del 1979 si è innescato un calo demografico, in parte voluto dalle Istituzioni e comunque conseguenza della scolarizzazione femminile e della diminuzione dei matrimoni.
    L?Iran verso la totale proibizione dell?aborto

    Eurovision 2014: scandalo e manipolazione anti-russa (pro LGBTQ)
    The Indipendent accusa: Le lobby anti-russe hanno truccato il voto popolare di Eurovision 2014. Il vero vincitore è il gruppo folk polacco del compositore russo-polacco Witold Czamara, che è anche un panslavista. Ebbene sì, i popoli d’Europa hanno ancora un sano buon senso. Non le elite marce al potere per grazia dell’imperialismo yankee.
    “Polemiche sulle votazioni dopo che il pubblico britannico ha rivelato di aver votato come vincitori“Donatan & Cleo” – ma la giuria le ha messe per ultime (…) Eurovision 2014, un contesto sempre più litigioso e politicizzato che ha visto le giovani cantanti russe, “Le sorelle Tolmachevy”, venir fischiate da una parte del pubblico”, ha detto ‘The Independent’.



    Ci sono state manipolazioni del voto del concorso Eurovision 2014, per trasformarla in un’operazione anti-russa e anti- Putin?
    Sì, ha detto il quotidiano britannico “The Independent” l’11 maggio, rivelando che il gruppo folk polacco Donatan & Cleosarebbe stato il vero vincitore del voto popolare. Ma una lobby politica anti-russa, in accordo con una lobby gay di sinistra, ha manipolato il voto per fare vincere il travestito austriaco anti-russo “Conchita Wurst”!
    E il vero vincitore di Eurovision 2014 sarebbe stato il gruppo folk polacco. Esempi di voti britannici, ma anche irlandesi, norvegesi e ucraini, come ha rivelato “The Independent”, lo dimostrano. Anche “l’Olanda e l’Islanda ponevano i polacchi al secondo posto, mentre l’Austria, la Macedonia, la Francia, la Germania e la Svezia” in terza posizione.
    E’ stata salutata come la vittoria della tolleranza e come una controrisposta agli striscianti atteggiamenti omofobici. Ma, a quanto pare, il grande pubblico britannico era poco innamorato dell’austriaca “donna barbuta”, Conchita Wurst, mentre lo era delle scollature ampiamente mostrate dal gruppo di rustiche sulle zangole, che ha condotto la Polonia al 14 ° posto.
    Per la prima volta ieri, gli organizzatori di Eurovision hanno rivelato sia i voti del pubblico che quelli della giuria per ogni pezzo musicale. Così, mentre la giuria britannica dava il massimo dei voti, 12 punti, per la disarmante e pelosa travestita Conchita, ha relegata nel contempo il duo polacco Donatan & Cleo all’ultimo posto.
    Eppure, il risultato del televoto nel Regno Unito aveva visto i polacchi nominati come vincitori in fuga. Anche l’Irlanda aveva seguito l’esempio, con il pubblico che in modo simile aveva assegnato il primo posto a “Noi siamo slavi” rispetto all’ultima posizione assegnata dalla giuria.
    Il pubblico norvegese e ucraino eramo rimasti anche loro colpiti dal pezzo polacco, votandola come la loro canzone preferita, però anche qui nuovamente contraddetti dai risultati delle loro giurie nazionali che la ponevano, rispettivamente, al 19° e al 25° posto.
    Il televoto nei Paesi Bassi e in Islanda aveva classificato i polacchi al secondo posto, mentre in Austria, Macedonia, Francia, Germania e Svezia, al terzo.
    “The Independent” ha anche detto: “Un portavoce di Eurovision ha negato che questa sia la prova di una disconnessione culturale tra il vincitore popolare e il favorito dai giudici ufficiali, in quello che è diventato un concorso sempre più litigioso e politicizzato che ha visto le giovani concorrenti russe fischiate da diverse parti del pubblico”. “Queste sono le regole del gioco. Naturalmente, a volte, ci sono discrepanze tra la giuria e il televoto, ma questo è ciò che rende l’intero processo ancora più emozionante”, ha detto a “The Independent”.
    “Anche prima che la canzone fosse cantata nella finale di Copenaghen, il video YouTube di My Słowianie o Noi siamo slavi era stato visto da più di 40 milioni di volte su internet – avendo contribuito senza dubbio a questo successo l’essere descritta come “quasi pornografica” da parte dei critici dopo la sua uscita lo scorso anno. La clip presenta anche giovani donne formose in abiti succinti che partecipano ad attività salutari come la cottura, il lavaggio e l’ormai famigerata zangolatura del burro”.
    “Donatan è uno dei più famosi produttori della Polonia con più di 50 album a suo nome. Il vero nome è Witold Czamara, egli è per metà russo, ed ha suscitato polemiche in passato esaltando le virtù del panslavismo(…)
    La cantante Cleo (del duo polacco Donatan & Cleo) è stata descritta come “la slava ragazza bionda, con il fascino polacco e una voce calda”.
    La giuria britannica ha attaccato il gruppo polacco e ha cercato di respingerlo: “Il conduttore della BBC Graham Norton ha deriso la canzone polacca definendola come un inno femminista” (sic). All’inzio della canzone ha avvertito i telespettatori: “Se vostro nonno si è addormentato, potreste desiderare di svegliarlo. Ho la sensazione che invece potrebbe beneficiare di questo sonno”. Al termine della canzone ha aggiunto: “Non ho mai visto una zangolatura del burro ottenere una reazione del genere prima d’ora” (resic).
    “La vittoria di Conchita Wurst è arrivata dopo le votazioni on-line in Bielorussia, Armenia e Russia – i cui governi hanno approvato l’anno scorso una legge che vieta la ‘propaganda gay’ tra i bambini – e che hanno escluso Wurst dalle loro trasmissioni. La tolleranza è stato il tema principale dei padroni di casa danesi, con le bandiere del gay pride che sono sventolate nella capitale per gran parte della settimana”.
    La realtà che sta alla radice è la russofobia e la propaganda anti-Putin. I politici occidentali dimostrano di essere in grado di arrivare a tutto trascinati dalla loro russofobia. Compresa la manipolazione del voto di Eurovision e la distruzione dell’amicizia artistica paneuropea…
    Eurovision 2014: scandalo e manipolazione anti-russa (pro LGBTQ) | Informare per Resistere

    Video clip del gruppo polacco con più 40 milioni di visite: Donatan & Cleo – My Słowianie – Noi siamo slavi (Polonia). Per l'Europa frocio-multirazziale questo video è di certo troppo provocatoriamente eterosessuale, e troppo caucasico...



    La vittoria di Orbán in Ungheria: un monito per l’Europa post-moderna
    Dario Citati
    La competizione elettorale svoltasi in Ungheria il 6 aprile 2014 ha confermato la rielezione del premier uscente, il conservatore Viktor Orbán. Risulta che le consultazioni si siano svolte in assoluta regolarità, sancendo con il suffragio democratico la vittoria del suo partito Fidesz, che ha conquistato il 46% dei voti. L’opposizione, riunita in una coalizione di socialisti, verdi e liberali, si è fermata intorno al 25%, mentre i consensi al partito di estrema destra Jobbik hanno raggiunto circa il 20%.
    La figura di Viktor Orbán è stata aspramente criticata dall’Unione Europea per il suo programma di «nazionalizzazione» economica, nonché per la riforma costituzionale entrata in vigore nel 2012. La nuova Costituzione ungherese rivendica con orgoglio «il ruolo del cristianesimo nella preservazione della Nazione», pur rispettando «le diverse tradizioni religiose del Paese»; afferma di tutelare la vita umana «fin dal concepimento», l’istituto del matrimonio «quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia come base di sopravvivenza della Nazione». Significativo inoltre il richiamo al battesimo del popolo quale atto d’ingresso «nell’Europa cristiana».
    La storia millenaria dell’Ungheria è d’altronde uno dei migliori esempi di come la tradizione cristiana in Europa abbia costituito il lievito sovranazionale in cui sono fermentate le diverse identità etniche locali. I Magiari, fiero popolo guerriero di ceppo ugrico, nel IX secolo raggiunsero dalle steppe d’Oriente l’antica provincia romana di Pannonia. Alla dinastia degli Árpád apparteneva il re Stefano I (969-1038), che introdusse la fede cristiana e fu un modello di equilibrio, alta cultura e buona amministrazione. Come per le popolazioni germaniche, scandinave e slave che formano il substrato di altre nazioni europee, anche per i Magiari l’acclimatamento in Europa coincise quindi con la conversione religiosa. La Corona di Santo Stefano, per dieci secoli emblema della monarchia ungherese, è custodita oggi nel Parlamento di Budapest come simbolo nazionale.
    Si direbbe che la maggioranza degli Ungheresi contemporanei si riconosca nei valori della Costituzione e della propria storia, visti i risultati elettorali su cui hanno certamente influito le azioni concrete dell’esecutivo conservatore. Dal 2013 a oggi, la disoccupazione in Ungheria è scesa dall’11% all’8%. Il debito pubblico sembra sotto controllo, come dimostra il rapporto deficit/PIL rientrato sotto la fatidica soglia del 3%. Agli indicatori di crescita economica corrisponde un abbassamento dei prezzi al consumo, con il tasso d’inflazione che a settembre 2013 era sceso all’1,3%. Quali politiche si celano dietro a questi parametri, che documentano traguardi economici definiti come «innegabili successi» persino da un quotidiano anticonservatore come Repubblica?
    Da un lato, il governo ungherese ha imposto pesanti tasse sui profitti delle banche e delle società finanziarie straniere, entrando in rotta di collisione con UE e Fondo Monetario Internazionale, ma favorendo le imprese nazionali in base al giusto principio secondo cui gli incentivi alla libera iniziativa privata devono privilegiare i soggetti economici residenti sul territorio che operano nell’economia reale. Dall’altro lato, Budapest ha attratto una discreta quota di investimenti produttivi d’eccellenza dall’estero, in particolar modo dalla Germania, ma anche dal Giappone e dalla Corea. Gli ottimi rapporti con la Federazione Russa (testimoniati anche dal prestito di 10 miliardi che Mosca ha concesso per i lavori alla centrale nucleare di Paks, nell’Ungheria centrale), hanno accresciuto un clima imprenditoriale di fiducia, dimostrando inoltre la funzione geopolitica di ponte verso la Russia cui è chiamata tutta l’Europa Orientale. Alcune popolari misure interne, come il taglio del 20% sulla bolletta dell’elettricità per le famiglie, hanno incentivato il potere d’acquisto contribuendo a generare consenso.
    Molti osservatori hanno rilevato con preoccupazione la crescita del partito d’ispirazione neonazista Jobbik. In realtà, già all’epoca dell’inefficiente esecutivo socialista (2006-2010) i suoi consensi erano molto alti. In luogo di dipingere Orbán come un despota autoritario, persino i suoi oppositori potrebbero onestamente riconoscere che proprio la sua presenza ha arginato l’estremismo xenofobo in Ungheria e che, in ogni caso, i valori e le politiche del suo esecutivo possono certo essere criticati da un punto di vista progressista, ma non delegittimati come estranei al confronto civile. Se davvero gli obiettivi dell’Europa odierna sono quelli di frenare l’ondata di estremismo, riconquistare la fiducia dei cittadini e sostenere la ripresa, la storia recente e il voto ungherese dimostrano che non è saggio affidarsi né alle sinistre giacobine stile Zapatero-Hollande-Tsipras, né a un liberalismo totalmente succube di interessi privati e altrettanto rozzo e inadeguato sul piano culturale. Nonostante la secolarizzazione e i problemi delle società post-moderne, una larga fetta di Europei chiede alla politica soprattutto il sostegno concreto alle classi medie impoverite, alla famiglia naturale, ai valori religiosi e comunitari, al principio di sussidiarietà.
    Già dissidente anticomunista, vicino negli anni Novanta al liberalismo anglosassone, il premier ungherese ha un percorso di difficile valutazione. Ufficialmente di confessione calvinista, secondo diverse fonti negli ultimi anni Orbán si è volto al Cattolicesimo, partecipando con frequenza alla Messa domenicale e visitando per quattro volte Benedetto XVI a Castel Gandolfo. Alcuni commentatori sostengono che le sue idee in campo etico-religioso siano soltanto strumentali. Ciò non si può escludere, ma un politico si giudica dagli atti pubblici, che nel caso specifico non palesano contraddizioni tra princìpi e prassi.
    Il 15 aprile 2013, a Bilbao, il premier ungherese ha tenuto un’allocuzione dal titolo La risposta cristiana alle sfide poste all’Europa, di un tale spessore intellettuale che meriterebbe di essere letta per intero. In un discorso che forse avrebbero sottoscritto politici del calibro di Giorgio La Pira, Orbán proponeva una chiara distinzione tra ordine temporale e spirituale in cui fosse però riconosciuta alla tradizione cristiana – la più solida base storica di unità tra le nazioni europee – la funzione di rammentare i princìpi generali su cui orientare il bonum commune rispettando la libertà personale.
    Il suo nuovo mandato sarà un banco di prova decisivo: il voto ungherese suggerisce che la tradizione non solo non si oppone allo sviluppo, ma ne costituisce valido presupposto. Forse, anche nell’Europa post-moderna, chi pensa ancora che i bambini nascano sempre e solo da un padre e una madre non è per forza «dal lato sbagliato della storia».
    La vittoria di Orbán in Ungheria: un monito per l?Europa post-moderna | geopolitica-rivista.org




  6. #146
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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Vi sono molte considerazioni interessanti in questo thread.
    Complimenti.
    Ultima modifica di Miles; 15-05-14 alle 03:39
    Preferisco di no.

  7. #147
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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Citazione Originariamente Scritto da Miles Visualizza Messaggio
    Vi sono molte considerazioni interessanti in questo thread.
    Complimenti.
    Complimenti a chi scrive gli articoli che io mi limito a copiaincollare!

    «I cristiani che si vergognano delle Crociate sono succubi del laicismo dominante»
    di Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio
    Recentemente su IlSussidiario.net è apparso un articolo di don Federico Pichetto che condanna le Crociate, di cui i cristiani - dice sostanzialmente Pichetto - dovrebbero vergognarsi perché sono un tradimento del cristianesimo. Il giudizio non riguarda solo l'evento storico in sé ma più in generale la posizione che un cristiano deve avere di fronte alle vicende del mondo, anche oggi. Giudizi gravi che meritano, seppure a distanza di tempo, una replica puntuale e autorevole.
    Caro don Pichetto,
    ti scrivo queste righe cercando di rispondere al tuo intervento sulle Crociate.
    In effetti tu parli di Crociate che non sono mai esistite: Crociate sostenute dalla nascente borghesia, che come ognun sa, alla fine dell’XI secolo - quando la prima Crociata fu bandita – non c’era nella società europea, o comunque era una minoranza con un potere limitatissimo.
    E poi riprendi le Crociate come progetto di imposizione violenta del Cristianesimo a popolazioni straniere.
    Non tocca a me rifare il punto su questa vicenda secolare su cui la migliore storiografia, e non solo quella cattolica, ha dato un contributo decisivo. Per dirla con il mio amico Franco Cardini, le Crociate sono state un grande «pellegrinaggio armato», protagonista del quale fu, nei secoli, il popolo cristiano nel suo complesso. Una avanguardia di santi, una massa di cristiani comuni e, nella retroguardia, qualche delinquente.
    Non so quale avvenimento della Chiesa possa sfuggire a una lettura come questa. Sta di fatto che noi – cristiani del Terzo millennio – alle Crociate dobbiamo molto.
    Dobbiamo che non si sia perduta la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terrasanta: nei luoghi della vita storica di Gesù Cristo e della nascita della Chiesa.
    Alle Crociate dobbiamo che si sia ritardata la fine della grande epopea della civiltà bizantina di almeno due secoli, e si sono soprattutto salvate dalla dominazione turca le regioni della nostra bella Italia, che si affacciano sul mare Adriatico, Tirreno e Ionio, falcidiate da quelle sistematiche incursioni di corsari e di turchi che hanno depauperato nei secoli le nostre popolazioni.
    Anche la tua bella Liguria ha dovuto costruire parte dei suoi paesi e delle sue piccole città a due livelli - il livello del mare e il livello della montagna - per poter sfuggire a queste invasioni che hanno fatto morire nel buio della cosiddetta civiltà araba e islamica centinaia e migliaia di nostri fratelli cristiani, a cui era stata tolta anche la dignità umana e di cui noi facciamo così fatica a fare memoria.
    Passare dalla fede alle opere è compito fondamentale del cristiano di ogni tempo. Ora, per recuperare questa bellezza della storia cristiana bisogna guardare la realtà secondo tutta l’ampiezza cattolica. La mia generazione e quella di molti amici dopo di me - che per l’intelligenza e l’apertura di monsignor Luigi Giussani hanno potuto dialogare personalmente per esempio con Regine Pernoud, con Leo Moulin, con Henri de Lubac, con Hans Urs von Balthasar, con Joseph Ratzinger, con Jean Guitton e molti altri - hanno un sano orgoglio della nostra tradizione cattolica. Per questo sentono in modo assolutamente negativo desumere acriticamente l’immagine della Chiesa dalla mentalità laicista che cerca di dominare la nostra coscienza e il nostro cuore.
    Certo, l’essenza di questa tradizione cattolica - e che, quindi, comprende anche le Crociate - è il desiderio di vivere il rapporto con Cristo e di annunziarlo nella concretezza del suo popolo che è la Chiesa, nelle grandi dimensioni che rendono il cristiano autenticamente uomo: la dimensione della cultura, della carità e della missione. È questo il Cristo che sta all’origine di tante iniziative del passato e del presente. Nessuna iniziativa lo esprime adeguatamente, ma l’assenza di qualsiasi capacità di presenza nel mondo e di giudizio sulla vita degli uomini e sui problemi degli uomini fa dubitare che esista una fede autenticamente cattolica.
    La fede in Cristo può rischiare di ridursi a essere spunto per mozioni soggettive e spiritualistiche da cui metteva in guardia il santo padre Benedetto XVI all’inizio della sua splendida enciclica Deus Caritas Est: un Cristo che rischia di stare acquattato nel silenzio della coscienza personale, che non diventa fattore di vita e di cultura, che non tende a creare una civiltà della verità e dell’amore. Ricordo ancora con commozione quando facevo la terza liceo una lezione di Giussani in cui disse letteralmente: «La comunità cristiana tende a generare inesorabilmente una civiltà».
    Nella mia esperienza pastorale e culturale ho sempre sentito come punto di riferimento sostanziale la grande certezza di Giovanni di Salisbury che diceva: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti». È perché siamo sulle spalle di giganti che vediamo bene il presente e intuiamo le linee del futuro. È questo che rende così appassionata la nostra responsabilità, senza nessuna dipendenza dagli esiti, con la certezza di portare il nostro contributo, piccolo o grande che sia, alla grande impresa del farsi del Regno di Dio nel mondo, che coincide con la Chiesa e la sua missione.
    Monsignor Luigi Negri
    «I cristiani che si vergognano delle Crociate sono succubi del laicismo dominante»





    Europee, ecco le pagelle dei candidati
    Europee, ecco le pagelle dei candidati

    IL CARDINALE DI VIENNA DIFENDE LA DRAG QUEEN CHE HA VINTO L’EUROVISION: “MERITA RISPETTO” - E I RUSSI ORA FANNO A GARA A TAGLIARSI LA BARBA: “DIMOSTRA CHE SEI UN UOMO”
    Il cardinal Schoenborn è “contento per Thomas Neuwirth, che col suo nome d’arte Conchita Wurst ha avuto un tale successo” - Tanto successo che oggi sarà a pranzo con il primo ministro austriaco - Le star russe, invece, pubblicano foto mentre si radono…
    1. VIENNA, IL CARDINALE BENEDICE CONCHITA: "MERITA RISPETTO"
    Tonia Mastrobuoni per "La Stampa"
    Nel «giardino variopinto del Signore c'è spazio per tutte le moltitudini». Parola di Christoph Schoenborn, intervenuto ieri sul caso che sta terremotando l'Austria. L'influente cardinale di Vienna ha scritto nella sua consueta rubrica sul quotidiano «Heute», che «non tutti coloro che sono nati uomini, si sentono anche uomini, e la stessa cosa può valere anche per le donne. Meritano il nostro rispetto come tutti gli altri esseri umani». Il riferimento a Conchita Wurst, la drag queen che ha stravinto l'Eurovision song contest, è esplicito.
    Il nodo dell'accettazione, che l'artista avrebbe portato sul palcoscenico della gara canora più popolare d'Europa, «è un grande tema, un tema reale», secondo Schoenborn, soprattutto per persone come Wurst. Dunque, il cardinale è «contento» per «Thomas Neuwirth, che col suo nome d'arte Conchita Wurst ha avuto un tale successo».



    La dichiarazione è clamorosa, ma rispecchia il clima di euforia che si respira in patria da quando la drag queen venticinquenne ha vinto l'Eurovision. E non soltanto perché l'Austria non vinceva da decenni la gara canora che non brilla esattamente per qualità ma è seguitissima soprattutto nel Nord ed Est Europa. I sondaggi di «meinungsraum» dicono che l'80 per cento dei connazionali è «fiero» di Conchita Wurst e pensa che sia un «elemento positivo per la reputazione del Paese». Da notare, tuttavia, che fino alla sera della vittoria era sempre una maggioranza degli austriaci che aveva un parere positivo sull'artista, ma più bassa: il 60 per cento.
    Sondaggi che vanno presi però con le pinze. E che stridono, ad esempio, con quelli che tentano di andare un po' più a fondo della semplice simpatia per Conchita Wurst. Appena il 32 per cento degli austriaci, infatti, appoggerebbe il proprio figlio, se fosse una drag queen o un drag king. Il 16 per cento tenterebbe addirittura di impedirglielo.
    2. MA IN RUSSIA LA BARBA ORA È SOVVERSIVA
    «DIMOSTRA CHE SEI UOMO, USA IL RASOIO»
    Anna Zafesova per "La Stampa"
    «Dimostra che sei un uomo, tagliati la barba». Trecento anni dopo che Pietro il Grande usava il rasoio sui suoi boiari per costringerli a separarsi dal simbolo dell'appartenenza alla tradizione russa e dimostrare di essere diventati europei, tutto si ribalta: ora a Mosca il patriota si fa la barba due volte al giorno. Merito di Conchita Wurst, la stravagante vincitrice austriaca dell'Eurovisione, concorso canoro che la Russia vive con la passione di un campionato di calcio.
    La vittoria di una donna barbuta è stata considerata un affronto politico. E così le lamette vanno a ruba: cantanti e attori pubblicano sul web i loro selfie con la faccia piena di schiuma e slogan come «Dimostra di non essere Conchita».



    Il patriarca Kirill avverte l’Occidente: «Non eliminate il cristianesimo, noi sappiamo cosa significa l’ateismo»
    Redazione
    Il patriarca di Mosca e di tutte le Russie lancia un «grido al mondo»: «In Europa i valori cristiani sono ancora presenti nella vita delle persone. Ma la tendenza politica generale delle élite è anticristiana e antireligiosa»
    «Noi abbiamo conosciuto l’ateismo e quindi vogliamo lanciare un grido al mondo intero: fermatevi, noi sappiamo che tipo di vita è quella». Così il patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill avverte il mondo occidentale di non ripudiare le sue radici cristiane.
    «DISARMO SPIRITUALE». Nell’intervista, ripresa dal Foglio, Kirill denuncia il «disarmo spirituale delle masse» e definisce il laicismo occidentale «una tendenza incredibilmente dannosa». Come il Natale dimostra: «In qualche parte dell’Occidente non si pronuncia più neppure la parola Natale. Si preferiscono altre parole, così come va di moda scambiarsi auguri neutri», come “buone feste”.
    «TENDENZA POLITICA ANTICRISTIANA». Secondo il patriarca esiste «un’azione politica volta a eliminare i valori cristiani dalla vita delle persone» e spesso «il diritto a professare apertamente la propria fede cristiana è violato in un Occidente ossessionato dalla questione della protezione dei diritti umani».
    Dopo aver citato diversi casi di discriminazione avvenuti in Norvegia e Inghilterra, Kirill insiste: «In Europa i valori cristiani sono ancora presenti nella vita delle persone. Ma la tendenza politica generale, la direzione generale delle élite è indubitabilmente anticristiana e antireligiosa».
    CRISTIANI IN RUSSIA. Come un recente sondaggio ha dimostrato, negli ultimi 25 anni le persone che si dicono cristiane in Russia sono quadruplicate passando dal 17% del 1989 al 68% del 2013. Le persone che si dicono atee sono calate invece dal 75% al 19%.
    Kirill all'Occidente: «Non eliminate il cristianesimo» | Tempi.it





    Russia, proibite per legge le parolacce nei media
    Divieto valido anche per cinema, libri e teatro
    Redazione
    In Russia il provvedimento è stato approvato dalla Duma, il ramo basso del parlamento: ora manca il nullaosta del Senato. Chi dovesse trasgredire la legge, incorrerebbe in una multa di 2500 rubli (50 euro) per i privati e di 50 mila rubli per le persone giuridiche (mille euro). I cd-dvd e qualsiasi pubblicazione che non sia inclusa nella stampa dovranno essere venduti con l'avvertenza «contiene parolacce», se ne contengono.
    Il provvedimento fa già discutere, perché non è chiaro quali siano di preciso le parole vietate. A stabilirlo, sarà una commissione di esperti indipendenti. La legge è stata proposta dopo le lamentele dei cittadini russi per l'utilizzo di parolacce nei programmi televisivi.
    Russia, proibite per legge le parolacce nei mediaDivieto valido anche per cinema, libri e teatro - IlGiornale.it



    CODICE ‘LE PEN’ – COPRIFUOCO PER I BAMBINI SOTTO I 13 ANNI, NO AL VESSILLO UE E NIENTE MOSCHEE: I SINDACI DEL FRONTE NAZIONALE SI FANNO SUBITO RICONOSCERE
    Polemiche veementi in Francia, ma i provvedimenti degli 11 sindaci sono legali e non possono essere impugnati dai prefetti o davanti ai tribunali - Tra le decisioni più contestate la scelta del sindaco di Villers-Cotterêts di non celebrare memoria delle vittime della schiavitù.
    Giampiero Martinotti per "La Repubblica"
    Niente bandiera europea al balcone, tagli alle sovvenzioni per le associazioni antirazziste, coprifuoco per i bambini sotto i 13 anni, nessuna commemorazione per ricordare le vittime della schiavitù, tentativi per impedire la costruzione di nuove moschee: gli undici sindaci del Fronte nazionale scelgono i simboli per dare il tono alla loro gestione degli enti locali.
    Le polemiche sulle loro misure sono spesso veementi in loco, ma gli undici cercano anche di evitare gli svarioni più grossolani e soprattutto di mettersi in contraddizione con la legge: tutti i loro provvedimenti sono legali e non possono essere impugnati dai prefetti o davanti ai tribunali. È l'abilità caldeggiata da Marine Le Pen durante la campagna elettorale: l'obiettivo del Fronte è di dimostrare che i suoi uomini sono in grado di gestire la cosa pubblica come gli altri partiti.
    La misura più repressiva è sicuramente quella presa a Béziers da Robert Menasse, l'ex leader di Reporters sans Frontières. Come aveva promesso, ha introdotto il coprifuoco per i minori di 13 anni, che durante i mesi caldi non potranno uscire, se non accompagnati da un adulto, tra le 23 e le 6 del mattino. Misura già presa da anni in molte città governate dalla destra democratica e regolato da una legge del 2010, dovrebbe servire a combattere i baby-delinquenti. Per l'estrema destra, invece, si tratta soprattutto di uno dei provvedimenti più simbolici, una sorta di manifesto per combattere l'insicurezza.
    Sull'immigrazione, l'islamofobia affiora quando si tratta della costruzione di moschee o di sale per la preghiera: in due città, i sindaci studiano la possibilità di opporsi a quei progetti. Quanto alle associazioni antirazziste o vicine alla sinistra, le sovvenzioni saranno tagliate, se non addirittura eliminate.
    Tra le decisioni più polemiche la scelta del sindaco di Villers- Cotterêts, in Piccardia: ha deciso di non celebrare, il 10 maggio, la memoria delle vittime della schiavitù. E ciò malgrado il più illustre rampollo della cittadina sia Alexandre Dumas, figlio e nipote di schiavi: «La Francia non deve continuare a scusarsi per la sua storia», ha detto ai suoi inviperiti oppositori.



    Marine Le Pen: io e la Lega Nord
    Max Ferrari
    Cosa pensa davvero Marine Le Pen della Lega e quali sono le battaglie comuni che potrà condurre insieme al Front National? Ce lo spiega lei stessa.
    D. Signora Le Pen, quali sono i pilastri dell’alleanza con la Lega?
    R. Sicuramente la lotta alla UE, all’Euro e all’immigrazione incontrollata.
    D. A questo proposito cosa pensa della nuova ondata di clandestini in qualche modo spinta ad arrivare dalle dichiarazioni del governo italiano e dalla depenalizzazione della clandestinità?
    R. E’ un dramma per tutta l’Europa perché non ci sono più le frontiere interne e tutti gli stranieri che il signor Renzi fa venire in Italia poi si muovono e molti arrivano in Francia. Grazie Monsieur Renzi! Siamo molti preoccupati sapendo che l’anno scorso, secondo i dati di Frontex, i clandestini nella UE sono aumentati del 48% e che Alfano da un lato lancia allarmi per l’aumento dei clandestini e per quelli pronti a imbarcarsi, ma nello stesso tempo il governo italiano pone in essere delle politiche incitative dell’immigrazione. E’ del tutto contradditorio.
    D. Immigrazione incontrollata e disoccupazione sono fenomeni spesso correlati, ma non tutti la pensano così, nemmeno tra i cosiddetti euroscettici, come ad esempio Grillo in Italia.
    R. Chi è contro l’Euro deve essere anche contro l’immigrazione di massa. Non si può dire di essere contro il disastro causato dall’Euro ma a favore dell’immigrazione utilizzata da Bruxelles proprio per distruggere le conquiste sociali dei lavoratori europei, abbassare i salari e indebolire l’identità dei popoli.
    D. Ma lei crede davvero che l’uscita dall’Euro sia una soluzione?
    R. Non lo dico io, ma ben 10 premi Nobel per l’economia che spiegano come senza la moneta unica si tornerà alla prosperità. Lo studio commissariato dagli olandesi, d’altra parte, ha dimostrato che il ritorno alla moneta nazionale porterebbe ad un immediato rialzo degli scambi economici, delle esportazioni e dell’occupazione. Non è un caso che l’Inghilterra e chi è fuori dall’Euro sta meglio di noi.
    D. I vertici della UE assicurano invece che uscire dall’Euro sarebbe un disastro.
    R. Questi signori non portano prove, parlano dell’Euro come di un dogma indiscutibile. Nell’Europa che nega le proprie radici religiose, l’Euro è diventata una religione addirittura nella terminologia: politici e giornalisti dicono che l’Euro è per l’eternità, che bisogna avere fede nell’Euro, che la moneta unica ci salverà… è ormai una specie di culto con i suoi sacerdoti che scomunicano chi vorrebbe tornare alla normalità. Ricordiamoci che non abbiamo dovuto attendere l’Euro per commerciare tra nazioni, fare impresa, costruire prosperità e occupazione: lo abbiamo fatto per secoli con le monete nazionali, senza problemi, e anzi l’arrivo dell’Euro ha cacciato la prosperità e ha portato le nostre economie al collasso.
    D. La Lega la pensa come lei su Euro e immigrazione, ma su centralismo e autonomismo ci sono differenze. Sarà un problema?
    R. Assolutamente no! Noi siamo sovranisti e pensiamo che i popoli possano fare quello che vogliono a casa loro. Questo concetto è l’essenza stessa del pensiero sovranista: è il popolo che deve decidere, non le sovrastrutture artificiali, e ogni popolo deve essere padrone del proprio destino. Certo che noi partiti dell’alleanza identitaria abbiamo storie e situazioni diverse ma abbiamo una comune visione della UE e delle emergenze che coinvolgono tutti. Ho un lungo e solido rapporto con i fiamminghi del Vlaams Belang (separatisti ndr) e non esistono problemi, forse anche perché il Belgio non è uno stato-nazione e i problemi tra valloni e fiamminghi sono la dimostrazione che il multiculturalismo obbligato, persino tra europei, non funziona. Comunque siamo schietti: la casa comune brucia ed è ridicolo litigare tra noi sul colore delle tappezzerie. Noi insieme alla Lega, abbiamo il senso delle priorità e delle urgenze assolute: lotta alla immigrazione sregolata, NO Euro, ripristino della sovranità, salvaguardia della famiglia.
    D. Sulla questione immigrazione farete un referendum?
    R. Lo abbiamo proposto e lo vorremmo, ma al momento le leggi francesi lo impediscono. Se lo farà la Lega in Italia ne saremo contenti.
    D. In Italia molti militanti identitari sono stati arrestati con motivazioni politiche, sulla base di supposizioni e con arresti preventivi. La stessa cosa è capitata a molti vostri militanti e lei ha denunciato la “psicopolizia”, ha parlato di polizia del pensiero e ha detto che gli arresti preventivi sono tipici degli stati totalitari. La UE sta diventando l’Unione Sovietica Europea?
    R. Noi del Front National siamo abituati ad essere perennemente sotto processo, ma continuiamo consapevoli di essere nel giusto. Una volta si parlava dei dissidenti dell’URSS, oggi noi siamo i dissidenti della UE. Ma dalle prossime elezioni europee cambierà tutto. In meglio.
    Marine Le Pen: io e la Lega Nord | Max Ferrari

    Marine dà la carica: “il 25 abbattiamo il regime UE”
    Max Ferrari
    “Il 25 maggio abbiamo un compito cruciale: abbiamo il dovere di andare a votare per riscrivere la storia della Francia e dell’Europa incarcerata dai banchieri, dalla casta dei non eletti di Bruxelles e dai loro servi sparsi nelle varie capitali nazionali!”.
    Così Marine Le Pen chiude la tradizionale sfilata del 1°maggio organizzata dal Front National a Parigi e sotto un enorme ritratto di una Giovanna d’Arco combattente assapora una prima vittoria: nel giorno della festa dei lavoratori le manifestazioni dei sindacati legati al governo di sinistra sono andate semideserte, mentre con lei, malgrado la pioggia, c’è una folla entusiasta di oltre 20.000 persone tra cui moltissimi giovani, a confermare, come dice Marion Marechal Le Pen, che il Front oltre ad essere in testa a tutti i sondaggi, è anche il partito più gradito ad una gioventù francese sempre più preoccupata per il proprio futuro.
    Naturalmente ci sono anche i vecchi combattenti, la tradizione del FN, capitanati dal mai domo Jean Marie Le Pen che sale per primo sul palco e, tra boati di approvazione, annuncia il discorso della figlia.
    Marine parte all’attacco: “I francesi sono un popolo di leoni, quando non sono guidati da asini. Non ascoltate coloro che vi esortano all’astensione. La Francia è il faro dei popoli d’Europa che si oppongono alla tirannia della UE. Andate a votare e fate vedere a Parigi e Bruxelles che noi vogliamo riprenderci la nostra sovranità e la nostra libertà. Basta con la dittatura dei non eletti che da Bruxelles decidono chi entra a casa nostra, e come amministrare le nostre risorse”.
    “Il 25 maggio, insieme ai nostri alleati negli altri paesi, abbiamo la possibilità di portare in Europa un manipolo di persone che lavoreranno contro gli interessi delle banche per ridare la sovranità a ciascun popolo. Dobbiamo tornare ad essere padroni a casa nostra!”.
    La folla urla: “Noi siamo a casa nostra” e Marine attacca: “Sovranità significa avere una propria moneta, non l’euro, significa controllare la propria economia scongiurando la svendita delle industrie strategiche nazionali come Alstom, significa controllare il mercato del lavoro insidiato dalle multinazionali che importano operai schiavi a 300 euro al mese e mettono i nostri lavoratori fuori dal mercato. Basta coi trattati internazionali che scardinano le nostre dogane e aprono i nostri mercati a merci incontrollate e mortali rivali delle nostre produzioni. Diciamo no a queste decisioni prese senza consultarci, a cominciare dal prossimo trattato transatlantico con gli Stati Uniti che danneggerà gravemente la nostra agricoltura.”
    Economia debole significa disoccupazione e disoccupazione senza ammortizzatori sociali significa vite spezzate, drammi, come ricorda Marine che tante volte ha spiegato: “L’immigrazione senza regole drena e azzera le risorse per i servizi sociali. Bisogna dire basta per garantire gli aiuti a quei francesi che con le loro tasse hanno costruito il sistema dei servizi sociali e oggi ne sono spesso esclusi”.
    Dal palco ritorna sull’argomento per dire che “l’immigrazione è accettabile se fatta da un numero limitato di persone disposte ad assimilarsi alla cultura del paese ospitante, ma l’attuale immigrazione di massa non regolata impedisce l’assimilazione e favorisce la creazione di stati dentro lo stato dove ognuno fa quel che vuole in spregio ai padroni di casa”.
    La piazza applaude di slancio e Marine, probabilmente pensando al disastro della gestione Alfano (che già aveva negativamente citato a Strasburgo) assicura: ”Non possiamo assorbire 200.000 immigrati in arrivo ogni anno: usciremo da Schengen, rimetteremo le guardie alle frontiere, riporteremo ordine e sovranità”. La strada è chiara: ”Un nostro strepitoso successo farà crollare il governo socialista e porterà a nuove elezioni nazionali che vinceremo. Allora potremo rifondare la Francia e con essa l’Europa dei popoli che da noi prenderanno coraggio per liberarsi dalla schiavitù”.
    25 maggio, giorno della Liberazione.
    Marine dà la carica: ?il 25 abbattiamo il regime UE? | Max Ferrari




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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Terrorismo islamico, non è figlio del colonialismo
    di Rino Cammilleri
    Sembra che il rapimento delle studentesse nigeriane da parte di Boko Haram e la ventilata condanna a morte della cristiana Meriem in Sudan abbiano svegliato l’Occidente dal suo torpore nei confronti delle persecuzioni contro i cristiani. Sembra, dicevo, perché temiamo che agli appelli indignati non seguirà altro. Certo, un appello indignato è sempre meglio dell’indifferenza che ha regnato finora. Ma le élites occidentali, si sa, sono molto più sensibili ai diritti dei gay e della c.d. «salute riproduttiva», temi per i quali fanno sentire la mano pesante in ogni angolo del pianeta. Perciò, anche ammesso che le studentesse nigeriane e la dottoressa sudanese vengano liberate, un cristiano ogni cinque minuti continuerà ad essere ammazzato soprattutto per mano islamica.
    Sì, è vero, pogrom anticristiani si hanno anche da parte degli induisti e vessazioni si registrano nei Paesi ancora comunisti. Ma il fondamentalismo islamico è la realtà più diffusa e aggressiva, ed è inutile far finta che non sia così. Ha fatto bene, dunque, Franco Cardini a pubblicare la sua analisi sdegnata per i silenzi occidentali sul «Giornale» del 19 maggio 2014. All’illustre storico mi lega un’amicizia trentennale e almeno un paio di sue prefazioni a miei libri. Credo di aver letto tutto quel che ha scritto in vita sua (decine di volumi), perciò mi sono letteralmente bevuto l’articolo. Tuttavia, qualcosa, sul finale, mi ha lasciato perplesso. Se non ho capito male, Cardini lascia intendere che l’attuale recrudescenza islamica abbia origine nel desiderio di rivincita contro il colonialismo occidentale, così che i cristiani in terra islamica, visti come appendici dell’Occidente, pagano per tutti e in attesa di far pagare tutti.
    Ora, se questa è la tesi (anche se un articolo di quotidiano, pur richiamato in prima pagina, forse non dà agio di spiegarsi con precisione), mi ricorda un po’ quel che diceva Bill Clinton dopo l’11 settembre. Clinton sosteneva, infatti, che gli islamici non avevano mai dimenticato l’oltraggio loro inflitto dalle Crociate. Discorso analogo fece Gad Lerner in suo libro di qualche anno dopo. Ma fu proprio Cardini (che, a differenza di Clinton e Lerner, è un medievista) a far presente che delle Crociate l’islam quasi nemmeno si accorse, visto che compresero solo due secoli e una piccola fetta litoranea di Palestina. A guardare la storia intera, poi, si vede che gli islamisti non hanno alcun titolo per rinfacciare i colonialismi altrui, dal momento che l’islam si è sempre espanso a mano armata e ha, per giunta, distrutto tutte le culture precedenti (come denunciato dallo scrittore indiano Vidiadhar Naipaul, premio Nobel 2001).
    Se poi si vuole andare nello specifico, il colonialismo occidentale, in Africa, fece cessare, per esempio, la tratta degli schiavi, di cui gli arabi musulmani erano i primi responsabili. Il colonialismo, pur tra ombre e luci, mise ordine in un mondo perennemente in stato di guerra tribale, guerra endemica che procurava schiavi ai trafficanti arabi, i quali vedevano schiavi ai loro correligionari ovunque sparsi. Il colonialismo francese in Algeria, altro esempio, iniziò per dire basta alla piaga della pirateria musulmana, che ancora a fine Ottocento rendeva il Mediterraneo un mare impraticabile. La grande rivolta del Mahdi sciita in Egitto e in Sudan, con massacri che costarono la vita anche al governatore inglese di Khartoum, non c’entrava col colonialismo, bensì col conflitto che ancora oggi contrappone sunniti e sciiti per decidere chi deve guidare l’islam alla conquista del mondo.
    Così scriveva Silvio Solero (nel 1928!) ne L’islamismo, sintesi storico-critica (Hoepli): «La potenza islamica ebbe una lunga durata per il fatto che, ad ogni svolta della sua storia, essa trovò forze nuove che si mettevano al servizio dell'Islam (…). L'avvenire dirà se il rogo islamico sia spento per sempre, ovvero sia capace di divampare un'altra volta, incendiario, nel mondo».
    Infatti, se si guarda a tutta la sua storia, l’espansione islamica (sempre militare, si badi) alterna fasi di grande fermento a fasi di torpore e stasi. Fermata alle porte di Vienna e dopo un secolo di permanenza a Budapest e Belgrado, la potenza del califfato dovette vedersela coi russi. Poi, la campagna napoleonica d’Egitto diede il colpo di grazia. Fu allora che torme di studenti musulmani invasero le università europee per studiare le ragioni della superiorità occidentale. E le armi e le invenzioni occidentali vennero usati per far rinascere l’islam. Dopo la sconfitta nella Grande Guerra, i Giovani Turchi copiarono letteralmente le idee di Mazzini, declinandole però in un genocidio anticristiano, quello degli armeni. Quando l’Europa fu in preda dei nazionalismi, ecco il clone islamico, il c.d. nazionalismo arabo. Poi l’Europa scoprì il socialismo e, come da copione, sorsero i vari Nasser, Sadat, Gheddafi. Ora, crollata l’Urss, gli ideologi islamisti sfornano altre due invenzioni occidentali: il fondamentalismo e il terrorismo. Ed è puramente sloganistico il riferirsi da parte del defunto Bin Laden (laureato in Occidente) ai «crociati», visto che nel termine era compreso pure Israele.
    Ma è storia vecchia: anche Maometto II ebbe bisogno di un esperto cannoniere rinnegato per prendere Costantinopoli nel 1453. La verità è che il letteralismo coranico non può produrre niente di originale, e tutto deve prendere dall’Occidente, a cominciare dai kalashnikov. Trae la sua forza dall’arrendevolezza occidentale e, storia alla mano, si siede quando l’Occidente reagisce. E aspetta un momento migliore per ricominciare con altro metodo. Ma non desisterà mai. Non può, a meno di rinnegare se stesso. E’ una religione che, per sua natura, deve dominare su tutto. L’attuale fondamentalismo l’ha trasformata in ideologia, ma anche l’ideologia è invenzione occidentale. Ma che succederebbe se, per ipotesi, ci riuscisse? La mente corre all’Africa romana: quando il rullo compressore islamico le passò sopra, scomparve pure la ruota…
    Terrorismo islamico, non è figlio del colonialismo

    Consigli fraterni e italiani a Giorgia Meloni
    di Federico Catani
    Francamente ci aspettavamo di più. Il 3,66 % ottenuto da Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale alle elezioni europee di domenica scorsa non ha permesso ai suoi candidati di andare a Strasburgo. Un vero peccato. Certo è che, rispetto alle elezioni del 2013, gli elettori sono abbondantemente raddoppiati, diventando 1 milione, e in ben 350mila hanno dato la loro preferenza a Giorgia Meloni. Un risultato, questo, che incoraggia a non mollare e ad andare avanti. E proprio perché bisogna proseguire per la strada intrapresa, il sottoscritto si permette, da italiano, di dare alcuni consigli fraterni alla Meloni e alla classe dirigente di FdI-An, specialmente dopo alcuni gravissimi errori (ma sarebbe meglio dire colpe) commessi.
    L’idea di costruire un Partito della Nazione, che sia erede della gloriosa storia del Movimento Sociale Italiano, è ottima. L’Italia ha infatti urgente bisogno di ricostruire la destra, quella vera. Il richiamo ad Alleanza Nazionale è pure buono, se con essa ci si vuole rivolgere a tutti quegli italiani innamorati del proprio Paese, purché ovviamente, non ci si snaturi troppo. Sappiamo tutti, infatti, come e perché è finita An e c'è da dire che anche alcune premesse della neonata formazione politica lasciano alquanto a desiderare… C'è da chiedersi però come mai tanti elettori di destra abbiano votato, in questa tornata elettorale, Lega Nord. I dirigenti di FdI-An dovrebbero farsi qualche domanda e trovare pure facili risposte. È del tutto evidente, infatti, che l’ottimo Matteo Salvini ha giocato all’attacco, sin da subito, mentre la Meloni ha inseguito e arrancato. Certamente bisogna considerare che il primo congresso di Fratelli d’Italia-An è stato celebrato solo il 9 marzo, mentre la Lega è già rodata. D’altra parte, è comunque innegabile che molte prese di posizione forti (vedi ad esempio la battaglia contro l’euro) sono arrivate un po’ tardi e sono state anche un po’ troppo sotto tono e scarsamente motivate, cosicché non hanno convinto appieno l’elettorato di stampo conservatore. Per ripartire con slancio e rinnovato vigore, occorre quindi tenere a mente alcuni punti fermi.
    Innanzitutto, visto anche l’esito delle ultime elezioni a livello europeo, è necessario rafforzare convintamente e decisamente le posizioni euroscettiche. Dire NO all’euro, all’Europa delle banche, della finanza, del Gruppo Bilderberg, dei poteri forti e della massoneria è ormai un imperativo morale per una formazione che voglia essere autenticamente di destra. Bisogna rivendicare la sovranità nazionale in tutti i campi, compreso quello monetario, per costruire la vera Europa, quella dei popoli e delle nazioni. La Lega su questo è stata chiara e coerente, non ha ceduto a tentennamenti né a sciocche paure di impopolarità e difatti ha ottenuto consensi. Un partito della Nazione che si rispetti non può che fare altrettanto e non può che distaccarsi con forza dal PPE. Sarà la storia a dar ragione agli euroscettici, dobbiamo starne certi. Per cui, avanti su questa strada, con convinzione.
    Altro punto su cui non si può restare indietro sono i quesiti referendari che la Lega propone. Su immigrazione, legge Mancino, legge Fornero e anche, perché no, sulla prostituzione, Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale non deve restare alla finestra. Anzi, c’è da chiedersi perché finora tutti sono rimasti a guardare. Si tratta infatti di battaglie tipicamente destrorse. Un partito della Nazione non può non contrastare amnistie, decreti “svuota-carceri”, immigrazione clandestina, discriminazioni positive degli extracomunitari e via discorrendo. E non deve nemmeno dimenticare la giustizia sociale e l’attenzione verso i più deboli. La destra italiana è stata sempre anche sociale, non dimentichiamolo. Sulla scorta di tutto ciò, anche per ricostruire un polo di “destra-centro” credibile, occorre collaborare con Matteo Salvini. E questo, pare lo si sia capito. Il modello, oltre al Front National di Marine Le Pen, dovrebbe essere il partito Fidesz del premier ungherese Viktor Orban, sebbene si collochi nel Partito Popolare Europeo.
    Non si può poi tralasciare il Cattolicesimo. Certo, i tempi che corrono, soprattutto Oltretevere, non sono entusiasmanti. Ma una autentica destra italiana ha il dovere di attuare fattivamente la dottrina sociale della Chiesa. Su questo punto FdI-An sembra aver fatto più enunciazioni di principio che altro, mettendo in secondo piano battaglie che oggi sono vitali. Anzi, con lo squallido voto a favore del divorzio breve, il partito si è macchiato di una gravissima colpa, che esige subito una riparazione. Il vecchio Msi era contro il divorzio e l'unità della famiglia è sempre stata un punto cardine dei programmi delle destre: vergogna La Russa! Vergogna Meloni! Se si è contro questa Europa di massoni e speculatori finanziari, lo si è anche perché questa Europa non è quella di Carlo Magno, né quella di s. Pio V o del b. Innocenzo XI, ma un’Europa che mira alla creazione di una Res Publica giacobina e sincretista, in cui ogni differenza viene annullata in nome di un mondialismo senz’anima che disgrega i valori della civiltà cristiana. All’Europa del denaro e del mercato, si deve opporre quella dello spirito cavalleresco e crociato, quella, per l’appunto, degli Stati nazionali cattolici e dei Comuni. Giorgia Meloni e collaboratori dovrebbero essere molto, ma molto più attivi nell’ambito dei temi etici, dalla difesa della vita a quella della famiglia (la famiglia naturale e indissolubile, fondata sul matrimonio!!!), dall’opposizione all’ideologia del gender alla lotta contro la dittatura omosessualista: peraltro si tratta di battaglie di buon senso, condivisibili anche da chi cattolico non è. Vi sarebbero tante possibilità di organizzare incontri, conferenze, scuole di formazione, in collaborazione con tante buone associazioni cattoliche non progressiste che potrebbero dare una mano: perché lasciare questo merito ai neodemocristiani del Nuovo Centrodestra, che governano con Renzi e difendono questa Unione Europea all’insegna di un deleterio moderatismo?
    Importante è anche la politica estera, da fondare sugli interessi nazionali e non su quelli di altri Stati. Ridimensionare l’occidentalismo filo-Usa e filo-Israele, senza peraltro diventare filoislamici, è oggi indispensabile: si cerchi invece una visone più ampia, equilibrata, consona alle sfide e agli scenari attuali.
    Concludo ricordando l’importanza della cultura e della formazione delle giovani generazioni. Si studi la storia, la politica, il diritto, l’economia, la filosofia e la letteratura. Si dia spazio alla cultura controcorrente e contro-rivoluzionaria, senza temere di essere politicamente scorretti. Un tempo nelle sezioni del Msi si leggeva Codreanu (ma a me piacerebbe recuperare soprattutto il Cattolicesimo di stampo franchista e salazarista). E oggi? Tutti borghesi in doppio petto? Si compiano poi studi e ricerche di livello sui grandi problemi del mondo e dell’ora presenti, per evitare di parlare a suon di meri slogan.
    Abbiamo bisogno di recuperare l’orgoglio di essere italiani, di tornare a sventolare in ogni occasione il Tricolore (non solo alle partite di calcio) e di inculcare in tutti, specie ai giovani, l’amore per la Patria. Ecco, Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale deve recuperare il mai passato slogan: Dio, Patria, Famiglia. Se non lo farà, e se non si porrà alla testa di una riscossa nazionale e di una purificazione morale del popolo, sarà solo un fallimento.
    Consigli fraterni e italiani a Giorgia Meloni ~ CampariedeMaistre

    FRATELLI D'ITALIA? HA VOTATO "SÌ" AL DIVORZIO BREVE. ALLA FACCIA DELLA TRADIZIONE.
    Sì al divorzio breve. Sei mesi in caso di "scioglimento" consensuale. Al termine della votazione è partito in Aula un applauso. A sostenere il passaggio della legge: Movimento 5 Stelle, Pd, Scelta Civica, Forza Italia, Sel e Fratelli d’Italia.



    La sindrome del coniglio
    Pubblicato da Berlicche
    Ho sentito, poco fa, qualcuno affermare che il divorzio breve in via di approvazione dal parlamento è una cosa ottima.
    Certamente questo è un provvedimento portato avanti, da qualcuno almeno, con le migliori intenzioni. Perché perdere tempo ad aspettare chissà cosa se un amore è finito?
    Da un certo punto di vista il ragionamento è corretto. Se il punto di vista è che ogni cosa è in balia del nostro impulso, del nostro desiderio, tutto torna. Ogni cosa che potrebbe ostacolare il trionfo dell’istinto è da eliminare. Il guaio è che, così facendo, l’istinto più forte che rimane è la paura.
    Si ama con la paura che si potrebbe smettere di amare. E quindi non si ama sul serio, ma con il freno a mano tirato. Mai del tutto. Conservandosi sempre una via d’uscita.
    Si ama con la valigia in mano, senza capire che per amare davvero occorre che quella valigia la si butti via. In maniera che quando arriveranno i tempi grami, ed arriveranno, non si abbia l’impulso di prendere e scappare. Si combatte meglio se si sa di non avere una via di fuga.
    Se si sa di averla, invece, quanti resistono alla tentazione di prenderla? Se l’hanno messa è perché serve, dice il ragionamento. Dimenticando che se hai progettato bene un’uscita d’emergenza non dovrebbe servire mai.
    Le migliori intenzioni fanno sì che si ama frustrati, infelici, rabbiosi, perché non si ama mai del tutto. Pur potendo divorziare, non ci si sposa; pur potendo avere figli, non li si fanno. Per paura di perdere quello che si ha, di non farcela. Creando uno sfacelo delle vite nostre e degli altri. Non è una novità. La realtà, ciò che accade, è lì, basta osservare.
    Si scappa come conigli, spaventati di tutto.
    Non ci si sposa. Non ci sono più figli. Quelli restanti viziati oltre ogni limite, perché ci si stringe a quello che si pensa proprio. L’insicurezza si spinge fino a dubitare del proprio sesso, a teorizzare che anche questo sia opinabile. Con sprezzo totale del reale.
    Siccome ci hanno spiegato che costruire sulla sabbia i palazzi crollano, si preferisce vivere da baraccati. Una baracca piena di gadget, ma pur sempre una baracca. Visto che la realtà è invincibile, si finisce per fuggire in mondi artificiali, chimici o virtuali. Migliaia di amici sui social network, nessun amico vero; nessuno di cui fidarsi. Neanche chi abbiamo giurato di amare.
    Dato che abbiamo dimenticato che siamo fatti per l’eterno. Che solo cercando l’eterno possiamo trovare quella gioia che dura, oltre ogni caso amaro della vita.
    Così togliamo ogni barriera alla nostra fuga: ogni tempo di riflessione sui nostri errori, ogni barriera a mortiferi sogni artificiali. Come conigli spaventati che scattano ad ogni rumore. Scappando.
    Dalla vita.
    La sindrome del coniglio | Berlicche

    Anti-gay e anti-immigrato: ecco il programma di Farage e dello Ukip
    A differenza di Beppe Grillo, Nigel Farage è un politico di professione. Ed è un politico di lungo corso. Ha cinquant’anni appena compiuti, ma è un attivista dai tempi del liceo. Nel partito conservatore, all’inizio, poi la rottura nel 1992. Il premier John Major, successore della Thatcher, firma insieme agli altri leader europei il Trattato di Maastricht. Tra i tory si apre una frattura. Un professore di storia internazionale della London School of Economics – Alan Sked, già membro del think-tank conservatore Bruges Group – fonda nel 1993 lo Uk Independence Party.
    Nigel Farage - come scrive Europa - non ha neanche trent’anni: è il figlio di un broker della City, di origini tedesche, nato nel sudest inglese. Ha lasciato gli studi dopo le superiori per seguire la carriera del padre. Un uomo pratico più che colto. Quando nasce lo Ukip, Nigel è lì.
    Ma dagli early days della polemica contro Maastricht, il partito ne ha fatta di strada. Le elezioni europee sono da sempre il suo punto di forza. Nel 1999 piazza tre eurodeputati, tra cui Farage. Nel 2004 fa il botto, scavalcando i liberaldemocratici al terzo posto: 16 per cento, dieci parlamentari. Ma alle elezioni politiche gli euroscettici non mantengono mai le promesse. Un per cento, due per cento. Fino all’arrivo di Farage alle leadership, nel 2006.
    La svolta: contro la Casta
    Quando Farage diventa leader, sembra impossibile replicare il successo del 2004. Ma la campagna elettorale del 2009 è la tempesta perfetta. Si gioca tutto su due temi. Il primo: il Daily Telegraph pubblica un’inchiesta sui rimborsi spese di una serie di parlamentari britannici, di tutti i partiti. C’è di tutto: dagli affitti delle case di villeggiatura all’“isola delle papere” nel giardino di un parlamentare conservatore.
    Si scatena un pandemonio. Le date sono importanti: il primo articolo del Telegraph è datato 8 maggio. Per tutto il mese continuano a uscire rivelazioni sulle bollette dei parlamentari a spese dei contribuenti. Farage cavalca la campagna mediatica. Il suo partito è “puro”, è estraneo all’establishment. È ora di restituire la politica agli “onesti”, dice. Il 4 giugno si va al voto per le Europee. Farage ottiene il 16 per cento. Ripete il successo del 2004. Anzi, lo migliora. Il Labour di Gordon Brown, al termine del decennio blairiano, è in crisi nera. Lo Ukip lo scavalca: secondo posto, dopo i conservatori. Una rivoluzione.
    Immigrati di serie A e di serie B
    Ma gli inglesi, nel 2009, hanno una seconda priorità. L’immigrazione. In un paese multietnico come la Gran Bretagna, l’inizio della crisi economica rende il clima ostile verso i nuovi immigrati. La stampa di destra attacca i laburisti per esser stati troppo “flessibili” nell’accettare nuovi accessi. Lo Ukip si appropria del tema, e capitalizza in termini di voti.
    Facciamo un salto in avanti, di cinque anni. La questione dell’immigrazione è ancora centrale alle Europee del 2014. Stavolta è chiaro a tutti che Farage può solo confermare il risultato del 2009. Parte una campagna politica e di stampa potentissima contro il leader dello Ukip. Una campagna che usa la sua vita privata per smontare le sue tesi politiche.
    Farage è sposato in seconde nozze con Kirsten Mehr, tedesca, nata ad Amburgo ed ex broker come il marito. La coppia ha due bambini con la doppia nazionalità britannica e tedesca. In campagna elettorale Farage se la prende di continuo con l’“invasione” di stranieri in Gran Bretagna. Spiega di sentirsi a disagio quando in metropolitana sente solo lingue diverse dall’inglese. Dice che se un gruppo di romeni si trasferisse alla porta accanto, si sentirebbe a disagio. E viene massacrato dai media. Anche i tuoi figli parlano un’altra lingua, il tedesco: che c’è che non va? E anche tua moglie è una europea trasferita nel Regno Unito: cos’ha di diverso dai romeni?
    Alla fine il programma elettorale del partito è piuttosto chiaro: sì all’immigrazione “qualificata”, no ai “parassiti” che rubano posti di lavoro alla povera gente. La linea della xenofobia viene varcata in più di un’occasione. Farage è di destra? Lui risponde di sentirsi post-ideologico, «oltre la destra e la sinistra».
    I partiti rivali provano a infilare il grimaldello nelle incoerenze di Farage sull’immigrazione. Gli danno del razzista. Ma gli elettori non sembrano curarsene: 27 per cento dei voti, primo partito britannico.
    Il cortile di casa e il mondo
    Il segreto del successo di Farage non è solo la capacità di usare le paure degli inglesi – la paura dello straniero, la paura dell’Europa oppressiva – a suo favore. Nei cinque anni che ci separano dal voto del 2009, la classe politica dello Ukip penetra in profondità nelle amministrazioni locali. Vincono un’elezione amministrativa dopo l’altra: oltre all’immigrazione, sono costretti a occuparsi di problemi concreti. Sicurezza, riduzione della pressione fiscale. Il loro programma politico non è più limitato alla issue dell’Europa, da cui erano partiti nel 1992.
    Eppure è l’Europa della grande crisi il palcoscenico su cui Farage diventa un politico di rilevanza internazionale. Come capogruppo di “Europa della democrazia e delle libertà” (insieme alla Lega Nord), si fa notare per una serie di invettive anti-austerità. Attacca gli «eurocrati» non eletti da nessuno, attacca il governo di Mario Monti e quello greco di Antonis Samaras, «schiavi della troika» e della grande finanza internazionale.
    Ma Farage guarda anche oltre i confini europei. Prende posizione contro l’ipotesi di attacco occidentale alla Siria, critica il suo governo per il sostegno dato ai ribelli estremisti. Se la prende con l’Europa che ha «le mani sporche di sangue» per aver fomentato le ribellioni in Siria, Libia e Ucraina. Poi, in campagna elettorale, alla domanda su quale sia il politico che ammira di più, risponde: «Vladimir Putin. Per la sua abilità, non come uomo». In bocca a un politico britannico, è una frase che segna un’epoca. Tanto più che Farage è il leader del partito più votato del Regno (anche se solo in un voto europeo).
    Anti-gay e anti-immigrato: ecco il programma di Farage e dello Ukip - Affaritaliani.it

    IL ‘POLLAIO’ DI WESTMINSTER SI INGINOCCHIA A NIGEL - DOPO AVERLO BOLLATO COME ‘IMPRESENTABILE UBRIACONE’, CONSERVATORI E LABURISTI FANNO A GARA A SDOGANARE FARAGE - E CAMERON PENSA A UN PATTO CON L'UKIP IN VISTA DELLE ELEZIONI DELL’ANNO PROSSIMO
    L’editorialista del Financial Times, John Lloyd: ‘Dopo la vittoria di Farage, il governo Cameron è in grande difficoltà, il premier inglese potrebbe cercare un asse con Renzi per costringere la Merkel su posizioni più morbide’ - ‘Ora il referendum sull’uscita dall’Unione europea è sempre più probabile’
    1. ORA LA LONDRA DEI POTENTI DEVE SORRIDERE A FARAGE
    William Ward per ‘Il Giornale'
    Terremoto o controrivoluzione? Per la prima volta da quasi un secolo, le elezioni nazionali in Gran Bretagna sono state vinte da un partito che non fosse o i Conservatori o i Laburisti, i due dioscuri dell'establishment politico britannico che si alternano a Downing St dai tempi della pace in seguito alla Prima guerra mondiale.
    A differenza degli italiani, che dall'inizio della Seconda repubblica si sono abituati a votare per nuove forze nate nell'«anti-politica», per i vari popoli britannici è una novità straordinaria costatare le elezioni europee dominate da un partito fino a poco tempo fa considerato irrilevante e assurdo, capitanato da un leader maverick, Nigel Farage, che rifiuta quasi tutte le regole - scritte e implicite - dell'augusto agone politico del Regno Unito. E per quanto si trattasse di un risultato annunciato (almeno secondo i sondaggi), da alcuni mesi l'intero apparato politico-mediatico-culturale britannico si trova in uno stato di shock dal quale non accenna ancora riprendersi.
    Per la controversa opinionista Melanie Phillips (ex femminista di sinistra che ora critica le sue ex compagne e compagni dalla destra «sociale», e per questo è odiatissima nei salotti «giusti» londinesi) sul Times si trattava più di una controrivoluzione da parte di un settore del popolo che da troppo tempo si sente ignorato e persino sbeffeggiato dai grandi partiti tradizionali (compreso la terza forza centrista gli alto borghesi radical chic Lib Dems), dalla Bbc e dagli altri media.
    «In seguito alla caduta del Comunismo anche nel Regno Unito c'è stato un consenso non solo intorno ai grossi temi politici e economici, ma ormai su tutti i temi politically correct - femminismo, immigrazione, diritti delle minoranze di ogni genere - che ormai è traversale: chi crede ad esempio nei valori cristiani di una volta, nel matrimonio all'antica, o nel rispetto per la cultura nazionale tradizionale si sente etichettato come razzista, omofobo, misogino o reazionario e questo non gli sta bene».
    Nelle ultime settimane sia il premier di centro-destra liberal David Cameron che il leader dell'opposizione di sinistra Ed Miliband - nonché il leader Lib Dem, il vice premier Nick Clegg - hanno cercato di modificare le loro vedute social liberal, a favore dell'immigrazione, e (con qualche variazione di enfasi) di consenso con l'Unione europea, per venire incontro a quegli elettori - ormai verso il 30% - che rivogliono l'Inghilterra di una volta.
    Non solo i Tories temono un'emorragia del loro bacino social-conservative e anti-immigrazione, anti-Euro verso il partito di Nigel Farage (che solo un paio di anni fa lo stesso Cameron definì con una certa spocchia «formato da pazzoidi, paranoici e gente impresentabile»), ma anche i Laburisti, di cui la componente elettorale working class della vecchia generazione non vede di buon occhio tutte le riforme politically correct volute dai loro leader borghesi radical chic. Ben conscio degli umori neri della base Very Old Labour, il leader socialista Miliband ha persino sfidato i suoi sostenitori radical chic nel sentenziare che «Farage non è un razzista», come Cameron ha detto «Farage è comunque un democratico».
    Oltre questo tiepido sdoganamento, c'è chi predica persino il patto elettorale: come insiste l'eurodeputato e fine intellettuale, il Tory Daniel Hannan, «se noi tories non ci mettiamo d'accordo con l'Ukip in vista delle elezioni generali di maggio prossimo, non ci sarà mai il referendum promesso da Cameron, e saremo in mano ai laburisti per sempre». Musica per le orecchie di Nigel Farage, che sta vivendo la sua primavera, in attesa che gli spocchiosi liberal vadano da lui in ginocchio: persino la Bbc, che per anni non l'ha mai voluto riconoscere come politico accettabile, ormai lo invita a tutti i dibattiti politici.

    PUTIN SCEGLIE L’EURASIA E DÀ SCACCO MATTO AGLI USA E ALLA UE
    Puntuale come un orologio svizzero e fedele alla sua natura di giocatore “simmetrico”, Vladimir Putin ha sciolto ogni dubbio e ha deciso di puntare tutto sull’opzione eurasiatica.
    Il gioco “duro” attuato da Washington tramite i suoi satelliti di Bruxelles ha costretto il capo del Cremlino ad abbandonare le sue storiche esitazioni verso l’Ostopolitik e a virare in maniera decisa a favore dell’asse eurasiatico Russia-Cina-Iran prospettato già all’inizio degli anni Novanta da Evgenij Primakov e dalla sua dottrina geopolitica.
    L’accordo trentennale per la fornitura di gas naturale a Pechino rappresenta solo l’aspetto più evidente di questo spostamento di prospettiva strategica, rimasto per lungo tempo “congelato” dai decisori di Mosca.
    C’è voluta tutta l’arroganza della Casa Bianca e la cecità geopolitica dell’Unione Europea per consentire l’attuazione di questo risultato, da diversi anni preconizzato anche in Italia (in modo solitario) dagli analisti della nostra rivista.
    Il partenariato strategico Russia-Cina, destinato ormai ad evolvere militarmente tramite l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, è il primo passo verso la costruzione di un nuovo assetto delle relazioni internazionali realmente multipolare e condiviso, che dovrà portare sicurezza e stabilità proprio nelle aree messe a soqquadro dall’avventurismo militare statunitense in Medio Oriente e in Asia Centrale, Afghanistan e Iraq in primis.
    Questa configurazione geopolitica, così diversa dal Nuovo Ordine Mondiale unipolare sognato dagli Stati Uniti d’America dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, consentirà anche gradualmente di modificare la struttura produttiva globale basata oggi sulla fallimentare finanziarizzazione dell’economia.
    Non è un caso che i termini dell’accordo firmato ieri da Putin e Xi Jinping prevedano l’utilizzo di yuan e rubli per pagare il gas naturale e le infrastrutture necessarie al suo trasporto, escludendo il dollaro (ma anche l’euro) in un’intesa tanto importante per il mercato internazionale delle materie prime.
    L’accelerazione voluta dalla Russia nelle ultime settimane, in conseguenza della crisi ucraina, è perciò destinata a lasciare il segno e inciderà profondamente sul destino mondiale negli anni a venire.
    Putin ha infatti concesso il via libera in Europa alle aspirazioni indipendentiste delle tanti regioni contese come la Transnistria, o la Republika Srpska, ha ribadito il suo sostegno ad Assad in Siria e formalizzato i contratti sul gas e il nucleare in sospeso con l’Iran, ha cancellato il debito della Corea del Nord, ha aumentato il sostegno ai paesi dell’America Indio-Latina stanchi dello storico cappio al collo lasciato in eredità dalla dottrina Monroe.
    Soprattutto Mosca ha ribadito come il progetto dei BRICS, destinato ad allargarsi ulteriormente ad altre nazioni indipendenti, sia destinato a prendere il posto del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale a guida statunitensi, per sostituirne il modello finanziario basato sull’usura e sulla speculazione e inaugurare una nuova era basata sull’economia reale.
    Mentre il Brasile ha già scritto una bozza dello statuto della Banca per lo sviluppo dei BRICS, la Russia sta preparando un accordo intergovernativo per la sua istituzione.
    I flebili tentativi mediatici di immaginare un’alternativa alla “dipendenza” dal gas moscovita non incantano praticamente nessuno nemmeno in Europa, dove i “vantaggi” dello shale gas nordamericano vengono irrisi dagli analisti energetici.
    Non a caso l’Ungheria di Orban se ne frega bellamente delle minacce di Bruxelles e prosegue imperterrita la sua politica di apertura alla Russia, l’Austria invece di attuare sanzioni contro Mosca firma il contratto per il South Stream con Gazprom, mentre l’Italia è addirittura costretta a inviare comunicati stampa per ribadire il suo sostegno al progetto del gasdotto russo-europeo per timore di restarne esclusa.
    A buona ragione, visto il caos libico e le minacce atlantiste sempre meno velate all’Algeria, altro nostro fornitore energetico essenziale insieme a Tripoli e a Mosca.
    Non sarebbe ovviamente comprensibile questa bancarotta della politica europea se concentrassimo l’attenzione solo sull’incapacità e sul servilismo delle nostri classi dirigenti, così come sta avvenendo anche durante l’attuale campagna elettorale in vista delle elezioni di domenica prossima.
    L’unico tema che infatti viene evitato da tutti i candidati e che rappresenta invece il dato concreto sul quale soffermarsi è quello della “nostra” alleanza militare, cioè l’appartenenza anche formale – in base ai Trattati approvati dai Parlamenti dei Paesi membri – dell’Unione Europea alla NATO.
    Questa servitù militare su base continentale è infatti la ragione principale del fallimento del progetto europeo, destinato ad andare in pezzi sotto il peso delle sue contraddizioni; cioè tra l’aspirazione a diventare un polo geopolitico autonomo orientato in maniera naturale verso Oriente e la sua sottomissione ad un’alleanza militare che la spinge verso Occidente.
    Clamoroso il caso dell’Italia, costretta – causa la sua appartenenza alla NATO – con l’intervento militare in Libia del 2011 a fare guerra a sé stessa, perdendo così 14 miliardi di euro di commesse.
    Senza perciò un serio dibattito politico che tragga questa naturale conseguenza, cioè la necessità per l’Europa di sganciarsi dall’Alleanza Atlantica e di espellere le basi statunitensi dal proprio territorio, tutta la dialettica tra UE sì e UE no, Euro sì ed Euro no, perde la sua validità.
    Nel frattempo la Russia, mentre flirta apertamente con la Cina, lascia comunque una porta aperta a quegli europei che cercano un’alternativa anche di tipo culturale, visto che la sistematica distruzione dei valori morali e spirituali nel Vecchio Continente trova il suo corrispettivo nella crisi economica strutturale dell’Occidente.
    Quanti però sapranno in grado di cogliere questa opportunità?
    Putin sceglie l?Eurasia e dà scacco matto agli USA e alla UE


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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Usa leader repubblicano beffato, vittoria storica per Tea Party alle primarie
    (AGI) - Washington, 11 giu. - Storica vittoria del movimento ultraconservatore americano Tea Party che, alle primarie in Virginia per le elezioni di meta' legislatura a novembre, ha lasciato fuori dal Congresso il leader della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, Eric Cantor. Un risultato a sorpresa, che scuote Washington e riscrive la sceneggiatura delle primarie in ambito repubblicano. Potente esponente dell'establishment del partito, secondo solo allo speaker della Camera, John Boehner, di cui era considerato l'erede naturale, Cantor in Virginia e' stato battuto da un candidato praticamente sconosciuto: Dave Brat, professore di economia in un college della Virginia, con una raccolta di fondi molto modesta ma che aveva l'appoggio del Tea Party. Brat ha sconfitto Cantor con il 55,5% contro il 44,5.
    La sconfitta di Cantor, unico ebreo repubblicano al Congresso, e' la prima grande sorpresa delle primarie per il Congresso, dove il repubblicano e' il secondo deputato con maggiore peso nella Camera dei Rappresentanti, dietro solo allo speaker, Boehner, che molti pensavano avrebbe addirittura potuto sostituire.
    Brat, con una campagna decisamente piu' modesta di quella di Cantor, e' riuscito a batterlo attaccando duramente la sua posizione favorevole al 'via libera' alla legge di riforma migratoria e contestando il suo voto per innalzare il tetto del debito, che lo scorso anno consenti' di mettere fine alla chiusura del governo. E' la prima volta da quando si creo' la carica di leader della maggioranza della Camera dei Rappresentanti, nel 1899, che costui rimane fuori dal Congresso. Un vero e proprio terremoto politico a Washington, dove adesso ci si interroga sulle conseguenza sulla struttura del partito e sulle ripercussioni sul futuro della riforma migratoria. La vittoria di Bratt riduce drasticamente la probabilita' che il Congresso approvi la riforma migratoria quest'anno. I democratici leggono la sconfitta di Cantor come la prova che il Tea Party "ha preso il controllo" del partito - lo ha detto la presidente del Comitato Nazionale Democratico, Debbie Wasserman Schultz- e ritengono che questo costringera' i repubblicani a virare ancora piu' a destra.
    Usa: leader repubblicano beffato, vittoria storica per Tea Party alle primarie



    Sì primarie, no cerchi magici. L’arrembaggio del Tea Party
    A sinistra è successo di tutto: Leopolde varie, il fenomeno Renzi, la rottamazione di una classe dirigente. A destra niente, imperversa ancora una nomenclatura di yes-men che senza Berlusconi sono nulla. Per sminare le poltrone, serve un repulisti liberale
    di David Mazzerelli presidente Tea Party Italia
    Partiamo dai fatti, così non ci sbagliamo. Ribadiamo che A è uguale ad A e poi cominciamo il dibattito. I fatti sono questi: il centrodestra non vince dal 2008, un’era geologica per la politica, in cui – di solito – molto cambia, e molto è cambiato. L’altro fatto è che c’è stata la rivoluzione, ma nel centrosinistra (Leopolde varie, dibattito interno fortissimo, nuove idee e programmi portati da Renzi, 2 primarie con un riscontro mediatico altissimo). Nel centrodestra invece non è accaduto praticamente niente. Un altro fatto dunque: Berlusconi è capo di questa coalizione dal 1994. Un centrodestra con un padre-padrone da 20 anni, che ne condiziona presente e futuro, ormai non è più accettabile.
    Proseguiamo con i fatti: dal 1993 ad oggi la spesa pubblica italiana è cresciuta del 53%, record assoluto che fa sembrare risparmiosi e oculati persino i governi della Prima Repubblica. Per metà di questo tempo circa, Silvio Berlusconi è stato presidente del Consiglio, con ampi mandati popolari che gli avrebbero permesso riforme drastiche ed epocali in senso liberale e conservatore. La storia la sappiamo: di liberale è rimasta solo la parola, strattonata da più parti, svuotata del suo significato più nobile. La nostra opera di ricostruzione dovrà essere anche semantica.
    Se provate a digitare su Google i nomi di Renzi e Berlusconi, il principale motore di ricerca mondiale vi suggerisce in automatico le parole più associate a quel cognome. Su Renzi abbiamo: “Twitter, 80 Euro, Governo, Pensioni, Sondaggi, Ministri, News, Facebook, Irpef”. Berlusconi invece ha: “news, servizi sociali, Milan, condannato, Renzi, ai servizi sociali, Pascale, domiciliari”. Basterebbe questo per comprendere come nella testa delle persone l’Ex Cav non condiziona più nessuna agenda politica ma soltanto quella del gossip e della cronaca giudiziaria.
    Dai tempi di Cavour l’Italia non è mai stato un paese di sinistra. Il 40% del Pd non significa un improvviso cambiamento nel tessuto sociale italiano, ma la prevedibile conseguenza di un vuoto assoluto di alternative a destra e la comparsa di qualcuno di giovane, nuovo e decisionista a sinistra che parla di speranza e di cose da fare. Le parole di Renzi non si combattono con la vecchia nomenclatura polverosa degli Yes Men dell’Ex Cav ma con un ripulisti totale dell’area. Perché se è vero che ci sono praterie nel centrodestra, è vero anche che vanno prima sminate da pletore di vecchie carampane e giovani servi che pregiudicano ogni tentativo di rinnovamento. Adesso però ci sono le macerie. Dalle quali ripartire senza coloro che le hanno causate.
    Primo passo da compiere, manco a dirlo, sono le primarie: consultazioni vere, popolari, aperte a tutta l’area che si considera alternativa alla sinistra. Primarie in cui il Tea Party è pronto a schierare il proprio vascello di pirati contro tutti. Forti delle nostre idee, che dovranno essere l’anima del centrodestra che verrà. Badate bene: questa è una via che non ha alternative. O l’area si riorganizza e riparte dalla propria essenza anti-statalista – liberale in economia e conservatrice nei valori – o non riparte.
    E’ il tempo del coraggio e dei NO, come quelli che la Thatcher pronunciò contro l’Europa. Ce ne aspettiamo molti altri da chi sente ordini da capi che ormai non esistono più. Il Tea Party è in attesa dei vostri NO e della vostra schiena dritta. Questa sarà la prima selezione che ci porterà alle primarie, punto di partenza – e non di arrivo – dei prossimi 20 anni.
    Sì primarie, no cerchi magici. L?arrembaggio del Tea Party | L'intraprendente

    Le priorità di Galan (ex governatore, ex ministro) cambiano
    Da Antonio Righi
    Oggi Giancarlo Galan, ex gauleiter veneto (copyright Cicchitto, che aggiungeva: “arrogante e cattivo“), membro dell’Associazione radicale Luca Coscioni, uomo di punta di Forza Italia, è sotto inchiesta. Lo si sapeva da mesi. Si stava solo aspettando che accadesse.
    Cambieranno quindi le sue priorità, almeno rispetto a quanto scriveva su facebook alcuni giorni orsono, festeggiando l’approvazione del divorzio breve (ma auspica che bastino 48 ore), l’introduzione dell’eterologa e auspicando matrimoni gay e quant’altro. Forse anche in F.I., tra dichiarazioni di Bondi, sconfitta sonora alle europee e vicenda Galan, qualcuno capirà che è l’ora di cambiare.
    Le priorità di Galan (ex governatore, ex ministro) cambiano | Libertà e Persona



    Ricostruire il centrodestra?
    di Marco Manfredini
    Il giornale Libero lancia un appello: come ricostruire il centrodestra? L’esigenza in effetti, si fa sempre più pressante, anche su queste pagine se ne parla spesso.
    Vorrei dare il mio piccolo contributo: avete presente Fini? Troviamo un leader che pensi e faccia l’esatto opposto di quello che ha fatto lui. Potrebbe sembrare una boutade o una risposta superficiale, ma contiene l’essenza di quello che occorre. Cerco di spiegarmi, anche se l’impresa, specialmente dopo aver visto il centrodestra attuale votare quasi compatto con la sinistra in favore della legge sul divorzio breve, appare disperatamente vana.
    Cosa ha fatto Fini? Ha pensato (siamo generosi) di modernizzare una destra già moribonda e senza riferimenti, sradicandola del tutto dal suo terreno e cercando di traghettarla verso quel lido di qualunquismo buonista, di fumosità politicamente corretta, di insipidità e inutilità totali, di sudditanza ai poteri forti, in breve verso quella forma di progressismo in avanzato stato di decomposizione chiamato, da chi se ne intendeva, radicalismo di massa. Compiendo cioè l’operazione di cui meno si sentiva il bisogno: ingrossare le file dei politici votati alla dissoluzione.
    L’operazione, tentata grazie a qualche illuminato suggerimento dall’alto facendo leva su meschine ambizioni personali, ha avuto fortunatamente l’esito che abbiamo visto, anche se ha lasciato sul campo morti e feriti. In particolare nelle vesti di defunto ricordiamo tre anni orsono un governo che, per quanto criticabile, era il risultato di libere elezioni: oramai un antico ricordo, in quanto procedura democratica che diventa opzionale quando non fornisce i risultati sperati dai paladini della democrazia stessa. Paladini rivelatisi chiaramente in quell’occasione per quello che sono: utili idioti al servizio delle oligarchie finanziario-predatorie globali, desiderosi di asservire a queste anche il popolo sottostante.
    E’ possibile imparare qualcosa da questa triste vicenda ed evitare di commettere gli stessi macroscopici errori?
    Non so a dire il vero se a tal fine sia veramente necessario rifondare proprio un “centrodestra”, ma mi pare che sia assolutamente necessario fondare un partito, o un movimento (chiamatelo come volete), che parta da un pensiero ed ideali giusti, non mutabili a seconda dell’aria che tira.
    Un partito, di destra o meno, non dovrebbe fondarsi sulla ricerca del consenso, ma piuttosto preoccuparsi di partire da idee sane. Dopodiché, non ci nascondiamo dietro un dito, siamo consapevoli che alla società plasmata dal radicalismo progressista odierno, le idee sane appariranno orrendamente, scandalosamente, impresentabilmente di destra. Una destra becera, reazionaria, fascista e omofoba. Allora noi ce ne faremo una ragione, e se i complimenti saranno questi la prenderemo come definitiva conferma d’essere sulla strada giusta.
    Il consenso poi verrà, e se non verrà si sarà fondato comunque qualcosa di buono. Ma le idee giuste dove si trovano? Chi siamo noi… per indicare quali sono le idee buone?
    Siamo povera gente incapace di contenere in sé la verità, ma che ha un lume per indicarla. Gente che riconosce ancora l’esistenza di una legge naturale che viene prima delle leggi emanate dai parlamenti e dei decreti imposti dai governi; una legge perso il riferimento alla quale tutti i crimini diventano possibili, anzi, vengono incoraggiati. Noi cristiani cattolici, almeno fino a poco tempo fa, avevamo addirittura dei pastori che in caso di dubbio ci aiutavano a riconosce dove stava veramente il Bene.
    Ma sorvoliamo accontentandoci di ciò che passa il convento, e veniamo al pratico con un esempio: un partito fondato sulla roccia della legge naturale, per definizione giusta e immutabile (partito che ci rassegneremo senza grossi complessi a definire di destra), non potrà mai restare sul vago di fronte alla sciagura del divorzio breve; significherebbe non avere un’idea chiara sulle cose importanti da difendere nella drammaticità del momento presente, da difendere anche qualora la propria base elettorale non fosse del tutto d’accordo.
    Le posizioni sui temi cruciali non si decidono in base a sondaggi, per compiacere l’elettorato. Se una parte della base ha idee errate, non può portare fuori strada l’intero partito; cambi sponda e voti uno dei tanti partiti esistenti che gli errori ce li ha nel DNA. La base si crea, si educa, si eleva facendole vedere la bellezza delle idee giuste, che sono conseguenza della Verità. L’esatto opposto, come dicevamo, di chi partendo da un elettorato potenzialmente ben orientato ha cercato di “modernizzarlo” nel senso più deteriore del termine.
    Una destra siffatta dovrebbe sostenere chiaramente che il dialogo su certe cose non esiste. Tra una legge giusta e una legge criminale non si può, nel nome del dialogo, della democrazia o più prosaicamente della poltrona, approvarne una terza che sia “un po’ meno criminale”. Il totalitarismo democratico ne sta imponendo sempre di più di questi abominii: non contento delle leggi su aborto e divorzio degli anni ’70 le forze della dissoluzione, avendo la maggioranza in parlamento, sono tornate alla carica per completare l’opera, allargando ulteriormente le maglie di queste leggi infami e imponendone di nuove su fecondazione, eutanasia, favoreggiamento dell’inversione, corruzione dell’infanzia. Dopodiché presumibilmente ci aspetteranno pederastia, zoofilia, somministrazione ambulatoriale di buona morte, necrofilia e coprofilia per tutti, in una vorticosa e irrefrenabile discesa verso l’abisso.
    Una destra, temo a questo punto senza la speranza di un aiuto da parte del centro, deve dire NO a tutto ciò. Un NO chiaro, inflessibile e motivato, senza complessi, fermo e orgoglioso.
    C’è un popolo che forse inizialmente non sarà numerosissimo, ma che si merita, dopo tanti anni da orfano, tutto ciò. E’ ora di gridare, prima che sia troppo tardi, che il progressismo di sinistra, centro o destra che sia, sa di morte, fame e depravazione. Il progressismo è sempre in ritardo, la tradizione è sempre aggiornata. Il progressismo è sempre in ritardo nel desistere e farsi da parte, perchè continua imperterrito a somministrare in dosi sempre maggiori la sostanza che è causa del male; la vera tradizione è sempre aggiornata, perché i fondamentali dell’uomo non cambiano mai.
    Occorre assolutamente un movimento fondato sulla roccia della legge naturale, che in ultima istanza è la legge di Dio, o quel poco che rimane della nostra civiltà verrà spazzato via, come quel tale di cui si parlava all’inizio.
    Ricostruire il centrodestra?* -* di Marco Manfredini | Riscossa Cristiana

    Il gender non porta bene (Francia e Croazia)
    Da Libertà e Persona
    di Stefano Detoni
    Il PD ha vinto le elezioni europee, ed è evidente che ora anche l’azione di governo di Renzi viene rafforzata da questo risultato. E’ difficile stabilire quanto Renzi sia di sinistra, e su che cosa, e quanto non lo sia. Tuttavia si ode più di qualche sussurro secondo il quale nel cassetto della sua scrivania ci sarebbe il progetto di legge per i matrimoni omosessuali. La dicitura ufficiale è diversa (unioni civili, diritti civili, ecc.), ma il concetto è questo. Non è quindi infondato il timore che, rinvigorito dalla vittoria europea e senza preoccupazioni elettorali immediate, Renzi metta mano prima o poi a questa legge.
    Vediamo ora cosa è accaduto agli altri statisti che hanno imposto i matrimoni omosessuali, l’abolizione dei termini “padre” e “madre”, o nelle scuole l’educazione al sesso sfrenato.
    Il presidente francese Hollande, dopo aver varato tra mille proteste i matrimoni omosessuali e abolito i concetti di “padre” e “madre”, è stato travolto prima nelle elezioni amministrative e poi nelle europee. Ora il partito socialista francese è ai minimi storici, anche se la nostra stampa non azzarda questa interpretazione della sua sconfitta. Noi invece sì.
    Il premier “ex” comunista croato Milanovic ha invece tentato di imporre in tutte le scuole, con appositi corsi, l’ideologia omosessualista e del sesso libero. A questa tornata elettorale europea il suo partito è stato abbondantemente superato dal centrodestra (29% e 42%), dopo che aveva dovuto ritirare il progetto di rieducazione sessuale forzata per la mobilitazione di gran parte della società croata.
    La rottamazione del governo spagnolo di Zapatero, che voleva costruire “un grande stato moderno” con i matrimoni omosessuali e l’aborto alle minorenni senza consenso dei genitori, è cosa risaputa. Ora il partito popolare al governo sta tentando faticosamente di riparare i danni fatti.
    Se è vero che la storia – anche recente – è maestra di vita, il PD italiano dovrebbe ora fare tesoro di queste esperienze e cestinare la bozza di legge sui matrimoni omosessuali, per non prendere le stesse cantonate dei suoi colleghi europei.
    Il gender non porta bene (Francia e Croazia) | Libertà e Persona

    I parlamentari slovacchi si alleano in difesa della famiglia
    Patto bipartisan in Slovacchia in difesa della famiglia. Il 5 giugno 2014 i parlamentari socialdemocratici (SMER) e i cristiani democratici (KDH) slovacchi hanno, infatti, votato congiuntamente per definire nella propria Costituzione il matrimonio come “un’unione unica tra un uomo e una donna”. Il provvedimento, passato con il sostegno di una schiacciante maggioranza di 102 deputati a favore contro 18 sfavorevoli, è stato approvato dal partito “SMER “, guidato dall’attuale premier Robert Fico, che ha accolto la proposta del partito Movimento Cristiano Democratico “KDH ” attualmente all’opposizione.
    La definizione dell’istituto matrimoniale nella Costituzione è stata, dunque, modificata in modo che in futuro sarà più difficile ridefinirne il significato. Nello specifico l’emendamento appena passato stabilisce che “sarà impossibile conferire diritti e doveri legati al matrimonio ad altre forme di unione che non siano tra un uomo e una donna”.
    Con tale norma, la Slovacchia diviene il settimo stato (dopo Bulgaria, Lituania, Lettonia, Polonia, Ungheria e Croazia) ad aver preso una controcorrente e chiara posizione nei confronti delle ideologiche direttive delle istituzioni europee finalizzate a promuovere e diffondere la teoria del gender e i diritti LGBTQI all’interno dei singoli Stati nazionali. (L.G.)
    I parlamentari slovacchi si alleano in difesa della famiglia | Riscossa Cristiana

    La famiglia naturale è ora un principio costituzionale
    di Marco Respinti
    Ha impiegato più del previsto, ma alla fine la notizia è arrivata; ed è una buona notizia. Ieri il parlamento slovacco ha approvato la modifica alla Costituzione che prevede l’esplicita difesa del matrimonio naturale e di conseguenza l’illiceità di qualsiasi equiparazione a esso delle unioni omosessuali. Il testo da ieri aggiunto alla Costituzione slovacca recita testualmente: «Il matrimonio è l’unione esclusiva tra un uomo e una donna. La Repubblica Slovacca protegge il matrimonio in ogni sede, promuovendone il bene».
    Si è insomma verificato quanto auspicato, e in verità era assai probabile, alla vigilia dell’inizio della lunga discussione svoltasi in aula su tale proposta di emendamento ‒ incominciata l’oramai lontano 18 marzo ‒, ovvero l’alleanza virtuosa fra tutte le principali forze politiche rappresentate nel parlamento slovacco a difesa dell’istituto matrimoniale, senza distinzioni ideologiche tra destra e sinistra, cattolici e non cattolici.
    La Slovacchia, infatti, è ancora e sempre governata dalla Sinistra (moderata) dello SMER-SD (Smer-Sociálna Demokracia, ovvero “Direzione-Socialdemocrazia”) cui appartiene il primo ministro Robert Fico, che appunto è da sempre favorevole allo sbarramento costituzionale alle “nozze” omosessuali. Fico è stato dunque in grado di portare la Sinistra socialdemocratica slovacca a siglare un accordo con i partiti centristi e conservatori proprio sulla difesa del matrimonio, e questo nonostante in un primo momento certe rivalità politiche avessero rischiato di mandare all’aria un progetto tanto importante.
    Quando infatti Fico ipotizzò di proporre al parlamento intero, dunque anche all’opposizione, un emendamento costituzionale sostanzialmente dello stesso tenore di quello approvato ieri, erano stati i conservatori e i centristi, tra cui le forze d’ispirazione cattolica, a bocciare l’idea giudicandola demagogica. Subito dopo, però, il 24 febbraio, i conservatori e i centristi hanno proposto quel loro progetto di emendamento che è stato votato ieri e in quell’occasione il premier Fico si è fortunatamente reso disponibile ad appoggiarlo, mettendo da parte dissapori ed rancori.
    Si era del resto in campagna elettorale, giacché gli slovacchi, il 15 marzo, sono stati chiamati al voto per rinnovare il presidente della repubblica, carica a cui ambiva anche il primo ministro Fico. Poi al ballottaggio del 29 marzo Fico è stato sconfitto dall’indipendente Andrej Kiska, è rimasto premier e da allora l’attenzione politica del Paese è tornata a concentrarsi sulla difesa del matrimonio eterosessuale. Adesso quella difesa è una realtà sancita a chiare lettere nella Costituzione, il cui testo riformato entrerà in vigore il 1° settembre.
    Davvero la difesa del matrimonio e della famiglia naturali sono “princìpi non negoziabili”: riescono a ricondurre alla ragione e a far convergere sulla verità oggettiva delle cose schieramenti parlamentari diametralmente opposti, rifondando così una politica sul serio buona.
    La famiglia naturale è ora un principio costituzionale



    Ministro anti gay sarà presidente dell'Assemblea
    Redazione -
    La nuova presidenza dell'assemblea dell'Onu scatena feroci polemiche. Dall'11 giugno sarà eletto (al posto dell'attuale presidente John Ashe) Sam Kutesa, candidato scelto dall'Unione Africana, cui spetta di designare il nuovo incaricato al prossimo, imminente mandato. Ma Kutesa è anche ministro degli Esteri dell'Uganda, un Paese che ha varato quattro mesi fa la legge antigay più severa al mondo. Forti le discriminazioni in base all'orientamento sessuale: ergastolo per i gay «recidivi», vale a dire le coppie omosessuali impegnate in una relazione stabile, 7 anni di carcere per chi li aiuta a non essere scoperti, 5 per chi promuove l'omisessualità.
    Ministro anti gay sarà presidente dell'Assemblea - IlGiornale.it



    I PARTITI E I MOVIMENTI DI DESTRA EUROPEI SI SONO INCONTRATI NEL PALAZZO DEL PRINCIPE DEL LIECHTENSTEIN PER CREARE UN COORDINAMENTO ULTRANAZIONALISTA ANTI-UE -
    Ospitante e sponsor l’oligarca russo Konstantin Malofe’ev, molto vicino a Putin - Poi Marion Maréchal- Le Pen, il popolare leader della Fpö (destra radicale austriaca) Heinz-Christian Strache, il capo dei radical-nazionalisti bulgari Volen Siderov - Obiettivi: nazionalismo, ostilità alla “lobby satanica” degli omosessuali, richiamo ai vecchi valori tradizionali… -
    Andrea Tarquini per “la Repubblica”
    Nasce l’Internazionale nera, la “Santa alleanza” delle destre radicali anti-europee, anti-occidentali e omofobe del Vecchio continente. E nasce con la benedizione e la sponsorizzazione di oligarchi russi vicini a Putin, nonché la partecipazione di Aleksandr Dugin, il noto leader nazionalista del “Movimento euroasiatico” le cui idee sono state riprese, con l’Unione euroasiatica, proprio dal capo del Cremlino.
    Una loro riunione a porte chiuse si è tenuta l’ultimo sabato di maggio a Vienna, nello Stadtpalais del principe di Liechtenstein. E dopo aver concluso il vertice con un gran gala, si sono dati appuntamento per gennaio. Probabilmente a Mosca.
    La notizia, ripresa dal Tagesanzeiger svizzero, ha creato allarme negli ambienti politici e dell’intelligence di diversi paesi democratici, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel. Gli obiettivi comuni non mancano: nazionalismo ed Europa delle patrie, opposta all’Europa come unità politica, e poi ostilità alla “lobby satanica” degli omosessuali, richiamo ai vecchi valori tradizionali di legge e ordine.
    Ospitante e sponsor l’oligarca russo Konstantin Malofe’ev, con la sua Fondazione intitolata a San Basilio il Grande. Malofe’ev, secondo il Financial Times, avrebbe accesso diretto a Putin ed è sospettato di aver finanziato i separatisti dell’Ucraina orientale. Al suo fianco Aleksandr Dugin, ex ultrà di destra, poi spostatosi su posizioni nazionaliste più moderate. E ancora: Marion Maréchal- Le Pen, la giovane nipote della carismatica numero uno del Front national, il popolare leader della Fpö (destra radicale austriaca) Heinz-Christian Strache, il capo dei radical- nazionalisti bulgari Volen Siderov. Dugin ha auspicato la creazione di «una quinta colonna filorussa di intellettuali che come noi vogliono rafforzare le identità nazionali ».
    E ha aggiunto: «Così potremo conquistare l’Europa e le sue anime e unirla a noi», e difenderla dalla decadenza occidentale, progressista e gay. Per quel che riguarda la “Internazionale nera”, il grande interrogativo che inquieta le cancellerie europee, è fino a che punto l’alleanza sia in contatto col Cremlino. In ogni caso la Fpö di Strache ha ottimi contatti ufficiali in Russia, mentre Marine Le Pen fin dall’inizio della crisi con l’Ucraina ha voluto lodare la fermezza di Putin. Intanto prevale la riservatezza. Alla riunione niente immagini: quando Strache ha voluto scattare un selfie col suo smartphone, Malofe’ev lo ha subito rimproverato.

    Il complotto bufala degli uomini neri
    Altro che cospirazione segreta dell'Internazionale Nera a Vienna. I giornali di sinistra se la sono inventata
    Marcello Veneziani
    Sui giornali di sinistra di mezza Europa, tra cui la Repubblica, si è data notizia con grande allarme di una cospirazione segreta dell'Internazionale Nera a Vienna che si sarebbe riunita a porte chiuse e avrebbe stretto un patto diabolico coi russi.
    Dicono gli stessi spioni che si sarebbe mossa l'intelligence europea quasi per scongiurare una nuova guerra mondiale. A leggerla così sembra che ci sia nell'aria un patto nazicomunista tipo Molotov-Ribbentrop in funzione anti-democrazie occidentali.
    Che paura. Poi vieni a sapere che in realtà l'incontro promosso dalla Fondazione russa San Basilio ha riguardato i partiti più votati nelle libere e democratiche elezioni europee di pochi giorni fa, che l'Uomo Nero in questione è la bionda Marine Le Pen col suo partito più votato dai francesi, e la biondissima nipote Marion, parlamentare. E poi la torva adunata non si è conclusa con un'esercitazione militare o un assalto a moschee, sinagoghe e banche ma addirittura con un gran galà con valzer viennese.
    Il loro programma è alla luce del sole: sovranità popolare, nazionale ed economica, alleanza con la Russia, difesa della civiltà europea e della famiglia dalla decadenza. Non contro l'Europa e la democrazia, semmai un argine al loro declino. Mi auguro che l'Europa delle patrie riunisca quei movimenti, coinvolga anche il britannico Farage e magari apra uno sportello pure a Roma (a Milano ci sarebbe già la Lega). Quanto al colore dell'Internazionale è blu. Di nero c'era solo l'abito per il galà.
    Il complotto bufala degli uomini neri - IlGiornale.it




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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Il Brasile respinge l’ideologia gender
    Il Parlamento ha votato per l’eliminazione da un testo di legge di un passaggio che mirava a introdurre l’ideologia gender nelle scuole
    Il Brasile è il primo Paese al mondo ad opporsi all’ideologia gender per via legislativa. “È stata una battaglia superata con successo a favore della famiglia nel Congresso National”, esulta a ZENIT il prof. Hermes Rodrigues Nery, coordinatore della Commissione Diocesana in Difesa della Vita.
    Una Commissione speciale si è riunita per analizzare il Piano Educativo Nazionale, che fissa obiettivi e strategie per i prossimi 10 anni e stanzia importanti investimenti pubblici nel settore dell’istruzione.
    La proposta, scritta dalla Giunta di governo della presidente Dilma Rousseff, era già stata approvata nel 2012, aveva poi subito delle modifiche in Senato ed era quindi tornata alla Camera (Congresso National).
    Nel corso delle votazioni, è stata sollevata la questione relativa a un passaggio del testo di legge che attiene alla “promozione della parità razziale, regionale, di uguaglianza di genere e di orientamento sessuale”. Alcuni parlamentari presenti in Commissione, fiutando la strategia che si cela dietro determinati termini, hanno chiesto di sottoporre a un dibattito e al voto la definizione “uguaglianza di genere e di orientamento sessuale”.
    Il deputato Antonio Bulhões, del Partito Repubblicano, ha spiegato ai colleghi: “Questo passaggio sull’ideologia di genere autorizza i burocrati del ministero della Pubblica Istruzione a invadere le scuole con libri gay, bisessuali, transgender ed altro, e tutto con un supporto legale, etichettato come promozione della parità di genere”.
    Nonostante gli strali dei colleghi socialisti, che hanno difeso il passaggio in questione definendo “un crimine” qualsiasi pregiudizio e scagliandosi contro il “machismo”, la maggioranza dei deputati ha votato per l’eliminazione del passaggio.
    “Non potevamo tollerare l’introduzione dell’ideologia gender nell’istruzione brasiliana, perché si tratta di una questione inerente il singolo individuo, non può essere lo Stato a regolare queste situazioni”, ha affermato ancora, al termine della seduta, Antonio Bulhões.
    Nei giorni precedenti al voto, si è espressa sull’argomento anche la psicologa e scrittrice brasiliana Marisa Lobo. La donna ha redatto una lettera nella quale sottolinea che nei Paesi in cui l’ideologia gender si è diffusa, la famiglia ne ha subito gravi danni. A titolo d’esempio, la Lobo ha parlato della Svezia, laddove “i matrimoni diminuiscono, i divorzi crescono, le famiglie sono vessate e oppresse dallo Stato”.
    “La vittoria dell’ideologia gender – ha scritto ancora la psicologa – significherebbe l’autorizzazione di ogni perversione sessuale (compresi incesto e pedofilia), la criminalizzazione di ogni opposizione all’omosessualità (reato di omofobia), la perdita di controllo dei genitori sull’educazione dei propri figli, l’estinzione della famiglia e la trasformazione della società in una massa informe, potenzialmente dominata da regimi totalitari”.
    L’opinione del prof. Hermes Rodrigues Nery è che “il Brasile, eliminando l’ideologia gender dal suo Piano Educativo Nazionale, ha compiuto un altro passo decisivo nell’affermazione della cultura della vita, per essere un Paese veramente sviluppato, una fiorente nazione”. Pertanto, la vittoria pro-famiglia nel Congresso, conclude Rodrigues Nery, “senza precedenti nel mondo, assume un valore rilevante”.
    Il Brasile respinge l'ideologia gender | ExHomoVox


    NEL CONTINENTE NERO, AI GAY JE FANNO UN CULO VERO - L’UGANDA INTRODUCE L’ERGASTOLO PER GLI OMOSESSUALI - IL PRESIDENTE MUSEVENI: “IL SESSO ORALE TRA UOMINI FA VENIRE I VERMI”
    Rispetto a Museveni Putin l’omofobo è una orsolina: “Le lesbiche sono affamate di sesso per matrimoni con uomini sbagliati. Nessuno può dimostrate che l’omosessualità esista per natura” - La politica di repressione dell’Uganda si deve alla “buona parola” di tre predicatori evangelici americani, uno dei quali si definisce “ex gay convertito”…
    Giampaolo Cadalanu per ‘La Repubblica'
    Non sia mai che gli ugandesi lo considerino poco virile, se si lascia influenzare: Yoweri Museveni ha ignorato i richiami di mezzo mondo, definendoli «un tentativo di imperialismo sociale», e ieri ha firmato la cosiddetta legge anti-gay, rivendicando con orgoglio l'indipendenza del suo Paese. Le pressioni internazionali hanno fatto cancellare almeno la pena di morte, ma resta la possibilità dell'ergastolo per i recidivi, per chi ha rapporti con minori e per i sieropositivi.
    «Ci dispiace vedere che voi in Occidente viviate come vivete, ma non ci intromettiamo», ha detto l'uomo forte di Kampala ai giornalisti. Sulle tendenze sessuali, Museveni ha idee originali: sarebbero stati proprio gli occidentali a introdurre il vizio in Uganda, reclutando nelle scuole. «La bocca è fatta per mangiare e per baciare, il sesso orale omosessuale fa venire i vermi», teorizza il presidente, definendo i gay «anormali» e le lesbiche «affamate di sesso a causa di matrimoni con uomini sbagliati».
    Museveni aveva anche chiesto lumi a scienziati locali ed "esperti" americani, per capire una volta per tutte se le tendenze omosessuali siano naturali o apprese. Nella prima ipotesi, sarebbero state tollerate. Ora, però, ne è certo: «Nessuno può dimostrare che l'omosessualità esista per natura».
    Il tema è tabù in tutta l'Africa: i rapporti fra persone dello stesso sesso sono vietati in 38 nazioni. Ma l'Uganda è un caso particolare. L'entrata in vigore della nuova normativa è il risultato di una campagna cominciata già nel marzo 2009 da tre predicatori evangelici americani. Lo ha denunciato già quattro anni fa, dopo un lungo reportage in incognito, il prete anglicano dello Zambia Kapya Kaoma: la crociata è partita dopo l'arrivo a Kampala di Scott Lively, Caleb Lee Brundidge e Don Schmierer.
    Il primo è uno storico revisionista, autore di libri omofobi: secondo lui, i nazisti erano tutti omosessuali e il movimento gay sta cercando di prendere il potere nel mondo. Il secondo si definisce "ex gay convertito" e propone seminari di "guarigione" per riportare chi sbaglia sulla retta via dell'eterosessualità. Il terzo è rappresentante di Exodus International, un gruppo la cui missione è «mobilitare il corpo di Cristo per portare grazia e verità in un mondo colpito dall'omosessualità».
    Già nel 2010, il New York Times definiva i tre religiosi «ampiamente screditati negli Stati Uniti». Appena un mese dopo il convegno in cui gli americani tuonavano contro il peccato di sodomia, il deputato ugandese David Bahati presentava la sua proposta di legge che proponeva il patibolo per gli omosessuali.
    Da allora, i tre predicatori hanno cercato di ritrattare le tesi virulente espresse a Kampala, ma era troppo tardi: Bahati aveva visto la possibilità di un ruolo politico di primo piano, grazie a un tema popolare, e lo ha cavalcato fino in fondo, stringendo legami con gruppi cristiani fondamentalisti Usa.
    La crociata è andata avanti: giovanissimi in corteo per le vie di Kampala con striscioni come "Uniti contro la sodomia". Liste di proscrizione con tanto di foto e indirizzi dei viziosi che volevano «reclutare i bambini per l'omosessualità», pubblicate sulla stampa. Giornali popolari che strillavano in prima pagina "Impiccateli".











    Dittatura omosex internazionale
    di Anna Bono
    Lo scorso 24 febbraio l’Uganda ha adottato una nuova legge sull’omosessualità che ha introdotto sanzioni più severe di quelle già esistenti. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea e alcuni stati occidentali hanno condannato l’iniziativa, giudicata tanto più preoccupante in quanto poche settimane prima la Nigeria a sua volta aveva approvato norme analoghe e, nel frattempo, altri stati africani, tra cui il Tanzania e il Camerun, avevano annunciato di essere in procinto di fare altrettanto.
    Dalle parole ai fatti: la Banca Mondiale, istituto di credito internazionale delle Nazioni Unite, decideva di sospendere sine die un prestito di 90 milioni di dollari destinato a migliorare il sistema sanitario ugandese. Nei giorni successivi diversi stati europei, tra gli altri la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia e la Svezia, attuavano il congelamento di una parte dei loro aiuti finanziari al paese.
    Gli Stati Uniti hanno fatto di più: dopo aver interrotto ad aprile l’erogazione di fondi ad alcuni ministeri, il 19 giugno hanno deciso di imporre all’Uganda delle sanzioni che includono il divieto di entrare negli USA a personalità ugandesi implicate in gravi violazioni dei diritti umani nei confronti di persone LGBT, la sospensione o riallocazione dei fondi stanziati per la realizzazione di programmi destinati alle forze di polizia, all’istituto sanitario nazionale e al ministero della sanità ugandesi e la cancellazione di un piano di esercitazioni dell’aviazione militare americana nel paese.
    La condanna dell’Uganda non è valsa a impedire che l’11 giugno il ministro degli esteri ugandese Sam Kutesa venisse eletto presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, incarico che svolgerà per un anno a partire da settembre. Si tratta di una carica a rotazione: ogni anno viene assegnata a un diverso continente. Quest’anno tocca all’Africa ricoprirla e, poiché tutti i paesi africani hanno concordato di proporre il ministro Kutesa, l’Assemblea ha dovuto prenderne atto e votarlo all’unanimità, nonostante le proteste di diverse organizzazioni non governative e il malcontento espresso da alcuni governi.
    Nel discorso pronunciato al momento dell’accettazione dell’incarico, Kutesa ha detto che la sua elezione all’unanimità è stata un grande segno di fiducia nei suoi confronti e un riconoscimento dei contributi dell’Uganda in ambito internazionale. A febbraio il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, aveva replicato alle critiche e alla riduzione degli aiuti finanziari dicendo all’Occidente di tenersi i suoi finanziamenti e denunciandone l’«imperialismo sociale», l’intenzione di imporre al resto del mondo i propri valori. Nelle ore successive all’annuncio delle sanzioni USA ha ribadito che l’Uganda non cederà a nessun ricatto e dimostrerà “la propria indipendenza di fronte alle pressioni e alle provocazioni occidentali”.
    In realtà il presidente Museveni aveva rimandato per qualche mese la ratifica dell’attuale legge, dopo l’approvazione da parte del parlamento nel dicembre del 2013, proprio temendo la sospensione di finanziamenti indispensabili al funzionamento dell’apparato statale ugandese. Alla fine però ha prevalso, come in Nigeria, la pressione di un’opinione pubblica quasi interamente contraria all’omosessualità: una ricerca svolta nel 2013 dal Pew Research Center ha rivelato che il 96% degli ugandesi la considera inaccettabile, in Nigeria la percentuale sale al 98%. Né si tratta di casi isolati. Al contrario, l’eccezione è costituita caso mai dal Sudafrica, unico stato africano ad ammettere il matrimonio tra persone dello stesso sesso: e peraltro con il 61% della popolazione ostile all’omosessualità, stando al Pew Research Center. Come l’Uganda, altri 37 stati africani proibiscono l’omosessualità e la puniscono.
    Nessun paese africano, nessun organismo regionale del continente, neanche l’Unione Africana hanno interferito con la decisione dell’Uganda né è prevedibile che lo facciano: forse domandandosi come mai dei paesi che, in nome del relativismo culturale e del rispetto delle altrui tradizioni, ignorano, tollerano e persino giustificano, in Uganda e altrove, istituzioni che costituiscono violazioni dei diritti umani – quali il matrimonio infantile, le mutilazioni genitali femminili, la schiavitù… – improvvisamente si mobilitino, e con così tanta determinazione, contro leggi agli occhi della maggior parte degli africani necessarie e buone.
    Dittatura omosex internazionale


    Walesa. L’operaio protagonista del «miracolo» polacco che tolse alla sua generazione il diritto di essere pessimista
    Il nuovo film di Andrzej Wajda racconta l’elettricista di Danzica fondatore di Solidarnosc, anima di un movimento popolare che riuscì in una impresa impensabile: abbattere il comunismo in Europa senza spargere una goccia di sangue
    Annalia Guglielmi
    Forse per un perdurante pregiudizio ideologico, c’è una data che è stata rimossa dalla coscienza europea di cui nessuna parla, di cui nessuno si ricorda, eppure è da quel giorno di venticinque anni fa che in Europa tutto è cambiato, è da quel giorno di venticinque anni fa che l’assetto dell’Unione Europea è quello che conosciamo oggi e per il quale recentemente si è votato in ventotto paesi.
    Il 4 giugno del 1989, in Polonia accadde un evento straordinario, che portò nel novembre dello stesso anno alla caduta del Muro di Berlino: dopo lunghe trattative, per la prima volta in un paese del blocco socialista si svolsero delle elezioni parzialmente libere, da cui poi nacque il primo governo polacco non comunista, guidato dall’intellettuale cattolico, ed esponente di primo piano dell’opposizione al regime, Tadeusz Mazowiecki, scomparso di recente.
    Uno dei fondatori di Solidarnosc, Konstanty Gebert, ha dichiarato in una recente intervista: «Uno che ha visto l’89 perde per sempre il diritto morale di essere pessimista, perché quello che è accaduto allora non sarebbe mai dovuto accadere: il comunismo che crolla senza che sia sparsa una goccia di sangue? L’Unione Sovietica che dice “scusateci” e se ne va? Ma figuriamoci! Se un anno prima dell’89 qualcuno me lo avesse detto, io avrei riso. Allora, noi che l’abbiamo visto, noi che in qualche modo abbiamo anche contribuito a quegli eventi non abbiamo più il diritto di essere pessimisti, di dire a qualcun altro “non funzionerà, non avete nessuna possibilità di farcela”, perché noi abbiamo visto un miracolo».
    Quell’evento aveva le sue radici nelle lotte degli operai e degli intellettuali polacchi iniziate fin dal 1956, continuate nel 1970 e nel 1976, e culminate negli scioperi di Danzica del 1980 e nella conseguente nascita di Solidarnosc, il primo sindacato libero in un paese comunista, che arrivò a contare dieci milioni di iscritti, e che non venne eliminato neppure durante lo Stato di Guerra introdotto dal generale Wojciech Jaruzelski il 13 dicembre del 1981, perché continuò a vivere in forma clandestina.
    Il film del regista polacco e premio Oscar alla carriera Andrzej Wajda Walesa. L’uomo della speranza, presentato al Festival del cinema di Venezia lo scorso settembre e uscito nelle sale il 6 giugno, ricostruisce quegli eventi, ma è molto più di un film storico, biografico o politico. È innanzitutto un film sul desiderio, la speranza e la certezza del cuore dell’uomo che non falliscono e non vengono meno, neppure quando si scontrano con i propri tormenti, le proprie domande o, addirittura, le proprie debolezze e contraddizioni. Andrzej Wajda aveva espresso il desiderio di girare un film su Lech Walesa già nel 2008, quando aveva dichiarato alla televisione polacca che quello avrebbe potuto essere il terzo film della trilogia iniziata con L’uomo di marmo e L’uomo di ferro. E aveva aggiunto: «Da tempo mi sto preparando a questo film. Dopo i primi due, dopo l’uomo di marmo e quello di ferro, adesso dovrebbe arrivare l’uomo della speranza. Questa mi sembra una buona definizione per Lech Walesa, perché lui mi ha dato, e non solo a me, una grande speranza».
    L’intervista con Oriana Fallaci
    Al Festival del cinema di Venezia lo stesso Andrzej Wajda aveva detto: «Io ho visto la Polonia prima sotto l’occupazione tedesca, poi invasa dalla Russia, e so quanto sia difficile valutare chi siano davvero i colpevoli. Invece non è difficile capire chi è il nostro eroe. Prima di lui, i tentativi di liberare la Polonia guidati dagli intellettuali e dall’aristocrazia erano finiti con l’insuccesso. È dovuto arrivare questo elettricista per portarci alla liberazione dal regime senza spargimento di sangue. Ho ammirato Walesa fin dal primo istante in cui l’ho conosciuto, durante i colloqui tra Solidarnosc e la delegazione del governo. Ho cercato di mostrare oltre alla dimensione psicologica e “locale” il contesto internazionale della sua ascesa».
    Per questo Wajda ha deciso di girare quello che lui stesso ha definito «il film più difficile che ho fatto in 55 anni di carriera», per far sì che soprattutto i giovani avessero la possibilità di conoscerlo: «Per carità, la pellicola si rivolge a tutti, ma a me piacerebbe raggiungere il pubblico più giovane, in quanto Lech Walesa è un buon esempio di come si può partecipare alla vita politica. Una partecipazione che vedo scarseggiare nelle nuove generazioni», ha dichiarato ancora il regista.
    Il film prende come spunto narrativo la famosa intervista che Oriana Fallaci (una sorprendete Maria Rosaria Omaggio) fece al leader di Solidarnosc nel 1981, e che fa da contrappunto ai numerosi flashback e alla narrazione degli eventi anche seguenti quell’incontro, così come fanno da contrappunto la fede e l’orologio d’oro che Walesa, interpretato con incredibile somiglianza e fedeltà dall’attore Robert Wieckiewicz, lascia sul tavolo di casa, perché la moglie li venda per comprare da mangiare, ogni qualvolta egli esce senza avere la certezza di tornare o di non essere ucciso.
    Non c’è alcun intento agiografico nella narrazione asciutta e scevra da ogni tentazione all’esaltazione e o alla mitizzazione. E, quindi, viene affrontata senza timore e reticenze anche la controversa questione della firma che Walesa appose, sotto ricatto, nel 1970 in calce alla dichiarazione di lealtà al regime, quando venne arrestato per aver partecipato alle manifestazioni di piazza, mentre sua moglie partoriva il loro primo figlio, e i suoi compagni venivano massacrati di botte nei corridoi della Milicja comunista.
    La misura tra i materiali di repertorio e la fiction trova nel film un equilibrio perfetto, così da rendere al meglio un personaggio tanto fuori dal comune, un leader insolito e di grande temperamento, da aver cambiato il mondo intero, dotato di un incredibile intuito politico e strategico, che lo ha reso capace in ogni situazione, e di fronte a chiunque, di capire al volo quando ci si poteva spingere oltre nelle trattative con il regime, o quando, invece, bisognava fare un passo indietro per non perdere quello che era stato ottenuto.
    Il ruolo centrale della Chiesa
    Il regista spinge la sua indagine sia nella sfera politica e pubblica, sia in quella psicologica e personale del leader di Solidarnosc, ed entra nel suo privato, nella sua sfera più intima e familiare per cogliere lo sviluppo della sua trasformazione da semplice operaio elettricista in leader carismatico, e inoltre mette in luce il ruolo fondamentale avuto dalla moglie Danuta (interpretata magistralmente da Agnieszka Grochowska) di cui mostra il coraggio anche nei momenti più duri, davanti ai ripetuti licenziamenti e ai continui fermi di polizia del marito, durante le brutali perquisizioni della polizia in casa, riuscendo in tutto questo a combattere la propria lotta contro la dura quotidianità degli anni Ottanta in Polonia, e a prendersi cura dei sette figli, supportando e dando coraggio al marito nella triste e cupa esistenza della Repubblica Popolare Polacca che viene presentata in tutti i suoi aspetti: dai negozi vuoti, alla violenza dei manganelli della polizia, a tutte le sue assurdità, attraverso filmati di repertorio e piccoli dettagli, come spesso accade nei film di Wajda.
    Il ruolo centrale avuto dalla Chiesa polacca nel fondare, far crescere e proteggere la coscienza della nazione polacca, di Walesa e di tutto il movimento di Solidarnosc è indicato da due momenti, apparentemente secondari, ma in realtà centrali: la richiesta degli operai che sia celebrata una Messa all’interno dei cantieri in sciopero e soprattutto le immagini della Messa celebrata da Giovanni Paolo II nel 1979 a Varsavia, quando durante l’omelia disse: «Scenda il tuo Spirito e rinnovi la faccia della terra… di questa terra», che molti in Polonia indicano come il vero momento di inizio del rinnovamento e della presa di coraggio della nazione polacca, come il vero inizio degli eventi che sarebbero accaduti un anno dopo. Walesa in quel momento è in carcere, a casa Danuta deve subire un’ennesima perquisizione, alla radio risuonano le parole del Papa e uno dei poliziotti si inginocchia, subito redarguito dal suo superiore.
    La festa del 4 giugno
    Il 4 giugno scorso in Polonia, davanti ai capi di Stato di mezzo mondo con il titolo di “Spegnere il sistema” si è festeggiato il venticinquesimo anniversario della caduta del comunismo. Il giorno dopo è stato inaugurato a Varsavia il Giardino Universale dei Giusti in cui saranno onorate figure di coraggio civile di tutti i genocidi e di tutti i totalitarismi del XX secolo. Il film di Wajda sul grande protagonista di quegli eventi, come già era accaduto con Katyn e con il film di Rafal Wieczynski su padre Popieluszko, si inserisce in un filone storico e storiografico del recente cinema polacco che di fronte a molti, troppi silenzi di storici e uomini di cultura contribuisce a non farci perdere la memoria di uomini e donne che hanno lottato per la libertà e la verità.
    Walesa l'uomo della speranza di Andrzej Wajda. Recensione | Tempi.it





    [CINESPADA] L'ALBERO DI GUERNICA, DI FERNANDO ARRABAL
    di Willy Bruschi
    Una delle pellicole che merita un posto di maggior rilievo nell'ambito dei film che hanno come tematica la guerra civile spagnola è il film "L'albero di Guernica" del regista, autore di teatro e pittore spagnolo Fernando Arrabal.
    Il film, girato verso il tramonto del regime franchista (nel 1975) in Italia fra i sassi di Matera (per ricreare l'ambientazione della Castiglia degli anni '30) e con un cast che include anche attori italiani (come la compianta Mariangela Melato nel ruolo della protagonista femminile) è un'apologia in chiave surrealista e visionaria dell'ideologia marxista del regista, apertamente schierato con la fazione repubblicana.
    La trama è incentrata sul villaggio feudale di Villa Ramiro (immaginario) dalla vittoria del fronte popolare alla sua sconfitta per mano delle truppe nazionaliste di Franco attraverso le vicende amorose dei due protagonisti: Goya, figlio del conte di Cerralbo e Vandal, giovane contadina del paese. Quello che al di là della parta fantasiosa va messo in rilievo e la parte più vicina alla realtà storica che rappresenta bene l'orrore dell'ideologia repubblicana e che ovviamente il regista con la sua "poetica" esalta. Le scene dove l'orda inferocita di sostenitori del fronte popolare assalta la chiesa del paese (vista nella visione del regista e in quella repubblicana come principale "centro del potere" da abbattere) sono fortemente emblematiche non solo di un generico e vago "anticlericalismo" degli anarco comunisti spagnoli ma sopratutto del loro satanico e viscerale odio verso la religione cristiana e Gesù Cristo, che trova il squallido e abietto apice nel miliziano repubblicano che orina con disprezzo orina sul Crocefisso e su tutto ciò che esso rappresenta.
    Le altre disturbanti scene dell'assalto (la profanazione delle statue delle sante, dei Crocefissi presi a fucilate, il pubblico vilipendio dei resti dei cadaveri dei religiosi) erano la realtà quotidiana che viveva la Chiesa nella Spagna repubblicana, con l'aggiunta del massacro di numerosi sacerdoti e laici per il loro credo religioso e dei conventi ed edifici religiosi bruciati. Scene che nel corso della storia non si sono visto solo nella Spagna del fronte popolare ma anche nella Francia giacobina della rivoluzione dell'89, del Messico post rivoluzionario di Plutarco Calles e nella Russia bolscevica e in tutti i frangenti dove nella storia si è manifestato l'odio satanico verso Cristo e la sua Chiesa.
    La peculiarità della pellicola di Arrabal sta non solo nel aver mostrato la sacrilega ferocia dei "rojos" ma nel fatto che sia una pellicola di un regista filo repubblicano a farlo. Se l'avesse fatto un regista filo nazionalista avrebbe avuto una qualche forma di boicotaggio (come accaduto per il recente "Cristiada").
    [CINESPADA] L?albero di Guernica, di Fernando Arrabal | Radio Spada










    La verità sul cattolico Francisco Franco e sui suoi avversari
    di Piero Vassallo
    By Redazione
    Dopo la leggenda nera
    Un dotto e coraggioso storico, il compianto padre benedettino Manuel Garrido Bonano (1925-2013) è l’autore di “Francisco Franco cristiano esemplare“, un’opera coraggiosa, tradotta a cura di Lorenzo de Vita e pubblicata in questi giorni dalla casa editrice Effedieffe.
    L’opera, che si raccomanda per il coerente e rigoroso sviluppo dell’argomento indicato nel titolo oltre che per la ricchezza dei documenti allegati, ha per fine la confutazione delle menzogne diffuse dai propalatori della mitologia progressista, una suggestione che ha tentato di infangare e dannare la memoria del comandante intrepido e del saggio statista, che guidò la quarantennale, vittoriosa insorgenza del popolo di Spagna contro l’eversione social-massonica.
    Fervente cattolico e intrepido combattente, il generalisimo Don Francisco Franco Bahamonde (El Ferrol 1892 – Madrid 1975) ha organizzato la vittoriosa resistenza dei credenti preconciliari alle passioni delittuose, destate dall’ideologia stalinista e nutrite dall’oro degli usurai democratici.
    L’autore dimostra che le scelte compiute da Franco in età matura furono coerenti con l’educazione religiosa ricevuta in famiglia e con l’assidua pratica della preghiera. Il giovane Franco, infatti, era iscritto alla confraternita degli adoratori notturni del Santissimo Sacramento e “in lui la religiosità andò sempre aumentando, senza subire interruzioni di sorta”.
    Il cardinale Pla y Daniel, Primate di Spagna, ricordò il martirio della Chiesa e riconobbe la nobiltà dell’azione condotta da Franco: “furono assassinati dodici Vescovi, migliaia di sacerdoti e religiosi, migliaia anche tra laici … si voleva annientare la religione in Spagna, alcuni si gloriavano di esserci riusciti, Francisco Franco ha avuto la missione di portare la Spagna nazionale alla vittoria e, come sempre, ha riconosciuto che la vittoria non si ottiene senza l’aiuto divino”.
    Perfino Vicente Tarancòn, futuro cardinale e arcivescovo progressista di Madrid, nell’ottobre del 1943, ha riconosciuto la nobiltà della politica di Franco: “Dinanzi all’immensa opera del Governo sotto la sua [di Francisco Franco] guida, opera penetrata da un profondo senso cristiano, compete a noi far risaltare la benevola attenzione che in ogni momento il Capo dello Stato ha dedicato all’impegno della ricristianizzazione affidata dalla Gerarchia all’Azione Cattolica spagnola. Parola sollecita e generosamente compiuta nel corso di questo periodo, nel quale è avvenuta una generale facilitazione da parte delle autorità pubbliche al fine di favorire questa peculiare opera di apostolato”.
    Di qui l’impegno costante del caudillo per la pacificazione nazionale. L’ex ministro dell’aviazione, Edoardo Gonzales Gallarza, rammenta che “Franco si preoccupò di lasciare un messaggio permanente di pace, una chiamata alla concordia tra gli spagnoli: la Valle dei Caduti. Un giorno si apprezzerà in tutto il suo valore l’appello di Franco all’unione tra gli spagnoli per superare un passato pieno di sconvolgimenti”.
    Vero è che la salma del generalisimo fu onorata anche da numerosi spagnoli che avevano militato nell’esercito comunista. Uno di loro, José Ortega, dichiarò: “Io sono stato sul fronte dell’Ebro ma dall’altra parte. Oggi sono qui perché Franco mi ha convinto”.
    Padre Garrido apprezza specialmente la moralità dello statista Franco, la sua refrattarietà alla maldicenza, la sua lealtà e la sua attenzione agli argomenti dei suoi interlocutori: “ascoltava con pazienza, non si irritava praticamente mai e non gli piaceva imporre i suoi criteri personali”.
    Franco non fu un tiranno e pertanto la sua politica moderata fu apprezzata da Pio XII e approvata (non senza qualche torcicollo) anche da Truman, il quale nella Spagna vide un contrappeso alla prevalenza sovietica nell’est dell’Europa.
    Purtroppo il Concilio Vaticano II instaurò nuovi principi: “l’orizzonte della Spagna in Vaticano arrossì e si alterò in maniera sempre più pericolosa. Il pericolo consisteva innanzitutto nell’atteggiamento politico di Giovanni XXIII e di Paolo VI riguardo al comunismo e nella politicizzazione che entrambi questi pontefici vollero imprimere all’Episcopato spagnolo, fino a farlo diventare un ariete da scagliare contro il regime”.
    Nel 1971 il vento del Vaticano II suggerì alla Conferenza episcopale nazionale il rinnegamento della condotta della Chiesa cattolica nella Guerra civile e la conseguente svalutazione dei martiri la cui beatificazione fu sospesa da Paolo VI. Più tardi, in una tregua concessa dal vento della modernizzazione, “Giovanni Paolo II fece giustizia” proclamando la santità di numerosi sacerdoti e laici spagnoli vittime della feroce persecuzione comunista.
    Le oscillazioni del Vaticano facilitarono purtroppo l’apostasia di una vasta frazione della Spagna e la conseguente corsa democratica al vizio contro natura e all’infame ideologia della banca mondialista.
    La riabilitazione di Francisco Franco, proposta da padre Garrido Bonano, s’inscrive nel processo di revisione della storia del Cattolicesimo nel xx secolo: rammenta, infatti, che l’avversione conciliare al regime autoritario di Franco ha indebolito la Spagna permettendone la discesa all’umiliante rango di avanguardia del vizio contro natura.
    La verità sul cattolico Francisco Franco e sui suoi avversari ? di Piero Vassallo | Riscossa Cristiana








    LA MILIZIA CRISTIANA DI MALULA
    MastroTitta
    "Il kalashnikov contro chi ha distrutto le nostre chiese"
    Constantine con una mano alza il kalashnikov al cielo, con l’altra ti mostra la croce di legno appesa al collo. Poi ti spinge verso il parapetto della terrazza affacciata sulle gole di Malula. Guarda cos’hanno fatto del nostro povero villaggio. Guarda cos’è rimasto. È per questo che abbiamo preso le armi. È per questo che festeggiamo la vittoria di Bashar Assad a queste elezioni. Lui è il solo in grado di salvarci e garantire la nostra sopravvivenza”. Fino allo scorso settembre Constantine, 44 anni, era un aiutante di sacrestia o meglio, come si definisce lui, un “uomo del Vangelo”. Oggi è un combattente infuriato e pronto ad uccidere. Per capire perché basta guardarsi attorno. Sopra e sotto di noi c’è un villaggio fantasma. Un grappolo di case abbarbicate alle rocce dove granate e colpi mortaio hanno scavato voragini annerite.
    Fuoco ed incendi hanno fatto il resto trasformando in scheletri anneriti le abitazioni sopravvissute ai bombardamenti. Un tempo questa era Malula, un villaggio simbolo della cristianità siriana. Qui si parlava l’antico aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Qui erano conservate le reliquie del cristianesimo delle origini. Qui arrivavano turisti da tutto il mondo. Di tutto questo oggi rimane assai poco. A settembre i ribelli alqaidisti di Al Nusra hanno invaso il villaggio, profanato i luoghi sacri, rapito le suore del monastero di Santa Tecla, ucciso e sequestrato una dozzina di abitanti.
    Per riconquistare Malula e cacciare gli intrusi l’esercito di Bashar Assad ha impiegato oltre sette mesi. Ma la riconquista, arrivata lo scorso aprile, non è servita a far rientrare gli abitanti nelle case. “I nostri familiari torneranno solo quando i nostri sei fratelli ancora ostaggio di Al Nusra verranno liberati. Le nostre mogli e i nostri figli rimetteranno piede in queste case solo quando saremo sicuri di poter proteggere da soli la valle di Malula e tutte quelle circostanti. Vogliamo combattere ad armi pari i musallahim e le brigate jihadiste” - spiega Toni Houri. Prima dell’assalto jihadista era il proprietario un officina. Oggi è uno dei capi della milizia cristiana creata dal nulla per proteggere Malula e i suoi abitanti. Una milizia di 250 uomini formalmente indipendente, ma integrata in quella difesa nazionale che fa da corollario alle forze di sicurezza del regime.
    Ora Toni e i suoi uomini ci portano nella chiesa di santa Tecla. Oltre la porta ci sono solo mura annerite su cui campeggiano le scritte lasciate dalle brigate martiri Ain Minin. Del prezioso altare sono rimasti solo i quattro pilasti. Le antiche icone salvatesi dall’incendio hanno tutte il volto sfregiato. “Le hanno sfigurate del nome del loro fanatismo questo è uno dei tanti simboli del loro odio. Abbiamo fatto un salto indietro di tredici secoli, Siamo tornati all’epoca dell’iconoclastia”. Toni e gli altri miliziani ora avanzano sulla terrazza davanti alla tomba di Santa Tecla. “Guarda le cupole delle chiese, là su tetti e facciate non è rimasta in piedi una sola croce. Le hanno abbattute una ad una non appena sono arrivati qui. Ma ora non potrà più succedere. Gli emiri del Golfo che li pagano ora devono fare i conti con i nostri kalashnikov. Distruggere le pietre è facile, distruggere l’uomo cristiano è impossibile”.
    Abu Fahdi, uno dei luogotenenti di Toni, ti fa vedere la tomba svuotata della santa. “Sono entrati qui alla ricerca di oro ed oggetti preziosi, ma non hanno trovato nulla e allora si sono vendicati distruggendo le ossa e le reliquie”.
    Constantine l’ex aiutante di sacrestia abituato in passato ad accompagnare i turisti nel reliquiario scuote la testa, ci dice: “Prima se vedevo qualcuno con le armi lo sgridavo, perché noi cristiani non siamo uomini d’armi, ma quando ho visto il mausoleo distrutto e la chiesa bruciata sono entrato anch’io nelle milizie. Se quei terroristi riprovano a metter piede qua li faccio fuori con il mio fucile. Poi ci penserà Santa Tecla a giudicarmi”.
    La milizia cristiana di Malula | Radio Spada






 

 
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