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    Predefinito Le radici cristiane dell'Occidente

    Capitalismo, figlio del cristianesimo

    di Francesco Agnoli

    Sia che si sposi la dottrina di Max Weber, almeno secondo la volgarizzazione e semplificazione con cui viene spesso presentata, sia che si accetti, per esempio, quella di Rodney Stark, che invece fa risalire il capitalismo al mondo cattolico, un dato è certo: il capitalismo, vedremo poi di che tipo, nasce nella e dalla civiltà cristiana.
    Basterebbe mettere un attimo la testa fuori dal Vecchio Mondo e dal Nuovo, che ne è figlio, per capirlo.
    Si pensi alle culture animiste nella loro versione originaria: in esse, come rilevato di continuo da missionari, viaggiatori, mercanti, si vive alla giornata; non esiste neppure l’idea del risparmio, dell’edificare non dico una casa resistente al posto di una capanna, ma anche condizioni che permettano una qualche stabilità futura.
    L’attività dei missionari, in tutta la storia, mira all’evangelizzazione, ma non per caso porta sempre con sé sviluppo e progresso, istruzione e cultura del lavoro e del dovere.
    Ricordo la sensazione provata durante una vacanza a santo Domingo, vedendo che i locali, una volta venduto un quadro o un oggetto a noi turisti, chiudevano il negozio e gioendo come bambini ci dicevano: “già stasera mi spendo tutto”.
    Se dall’animismo passiamo alle religioni orientali, accade qualcosa di analogo: fatalismo, sistema delle caste e quant’altro, bloccano qualsiasi possibilità di capitalismo, mobilità sociale ecc… In India ancora oggi si può nascere paria, con un determinato lavoro prestabilito, bruciare i cadaveri o pulire le fogne, e lo si farà questo tutta la vita.

    Cosa allora ha permesso all’Europa cristiana di partorire una cultura così diversa? Direi che i motivi sono vari: senza dubbio hanno influito anche l’eredità romana, greca ecc, ma, molto di più, la concezione cristiana.
    L’idea biblica della creazione, infatti, comporta alcune conseguenze essenziali: l’uomo è libero; tutti gli uomini hanno la stessa dignità; l’uomo, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, è chiamato a collaborare, ogni giorno, alla creazione; il lavoro è un mezzo per la purificazione e la santificazione; il corpo e la materia, in quanto create e volute da Dio, sono “buoni”; il mondo è affidato all’uomo, re del creato, perché se ne sia il signore.
    [E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
    27 Dio creò l'uomo a sua immagine;
    a immagine di Dio lo creò;
    maschio e femmina li creò.
    28 Dio li benedisse e disse loro:
    «Siate fecondi e moltiplicatevi,
    riempite la terra;
    soggiogatela e dominate
    sui pesci del mare
    e sugli uccelli del cielo
    e su ogni essere vivente,
    che striscia sulla terra».]

    Non è difficile capire, poste queste premesse, perché la civiltà cristiana abbia prodotto progresso, tecnica, ricchezza, sapere, tutte cose che vanno insieme. L’Europa cristiana ha infatti generato sia il capitalismo, che la tecnica per dominare il creato: si pensi alle invenzioni già medievali degli occhiali, del camino, dell’aratro pesante ecc. Ha prodotto le scuole e le università, dove poi è nata la scienza moderna.

    Un certo capitalismo, dunque, è una creazione del cristianesimo.
    Soffermiamoci un po’ meglio ancora su questo fatto.
    In ordine cronologico possiamo partire già dalla Roma imperiale. Gli ideali della Chiesa, scrive Christopher Dawson nel suo “La formazione della civiltà cristiana”, erano opposti a tutte le principali connotazioni della società imperiale più antica: il lusso dei ricchi, la pigrizia e la dissolutezza dei poveri e lo sfruttamento degli schiavi, procurati con guerre di conquista. Essa fece tutto quanto in suo potere per sostituire il dovere e l’onore del lavoro al classico disprezzo del lavoro manuale e delle ‘vili arti meccaniche’, eredità della cultura ellenistica.
    Arrossiamo solo per il peccato, dice san Giovanni Crisostomo, ma ci gloriamo del faticoso lavoro manuale.
    Siamo discepoli di Uno che fu allevato nella casa di un carpentiere, di Pietro il pescatore e Paolo il fabbricante di tende.



    Mediante il lavoro ci allontaniamo dai cattivi pensieri del cuore, siamo capaci di aiutare i poveri, cessiamo di bussare importunamene alla porta di altri e diamo compimento a quella parola del Signore: ‘E’ meglio dare che ricevere’”.

    Questa posizione fu ripresa soprattutto dai monaci, in particolare i discepoli di san Benedetto, che nei primi secoli, oltre a valorizzare e praticare, anche quando erano di famiglia nobile, il lavoro manuale, tanto disprezzato dagli antichi, “mutarono le loro economie di sussistenza rendendole altamente produttive, e loro stessi divennero protagonisti specializzati di reti di scambio commerciale in rapida espansione” (Rodney Stark).



    Poi, dopo l’epoca del caos, delle invasioni barbare, vi furono la rinascita dell’anno Mille, e la teologia di san Tommaso e dei francescani, che approfondirono la materia dell’economia. Il luogo dove questa rinascita assume caratteristiche eccezionali è l’Italia, cioè il cuore stesso del cattolicesimo.
    In Italia nascono le repubbliche marinare - Pisa, Amalfi, Genova e Venezia - e con esse una nuova stirpe di imprenditori, di mercanti, di commercianti, di avventurieri.
    Sempre in Italia, in particolare in Toscana, nascono le banche. “Presto -ricorda Stark - le imprese italiane monopolizzarono il commercio, l’attività bancaria, e il settore manifatturiero di tutta l’Europa occidentale. La potenza commerciale italiana, al suo apice tra la fine del XIII secolo e il XIV secolo, si stendeva fino all’Inghilterra, alla Russia meridionale, alle oasi del Sahara, all’India e alla Cina. Si trattava del maggior impegno economico che il mondo avesse mai conosciuto” (p. 169-170).
    L’Italia di questi secoli è la patria della cattolicità, dunque, ma anche quella dei mercanti, degli artigiani, delle monete più diffuse (dal fiorino allo zecchino d’oro), delle scuole contabili più avanzate del mondo….
    Basterebbero questi pochi dati, insieme a qualche figura, da Marco Polo sino a Cristoforo Colombo, per annullare qualsiasi slogan secondo cui il capitalismo sarebbe nato dall’etica calvinista. Il calvinismo, semmai, come vedremo, ha contribuito ad avvelenare il capitalismo.

    Ma come avviene tutta questa esplosione di attività, di conoscenza, di ricchezza?
    Per capirlo possiamo leggere due autori italiani di questo periodo. Da una parte Dante, che critica la “gente nova e i subiti guadagni”, cioè la smania di arricchirsi dei mercanti; dall’altra Boccaccio, l’uomo che vivrà poi con passione il ritorno alla fede, ma che nel Decamerone, opera eminentemente “laica”, si esalta dinnanzi non solo all’abilità dei mercanti e dei banchieri, ma anche di fronte alla loro mancanza di scrupoli e ai loro inganni.
    Dante non è un immobilista, fuori del mondo, con la testa nei suoi regni ultraterreni. Al contrario è un uomo che vive la vita terrena, anche quella politica ed economica, con partecipazione. La vita terrena non è per lui l’unica realtà, ma è pur sempre la realtà che ci è data per meritarne e guadagnarne un’altra.
    In Dante quindi, possiamo rintracciare un’altra parte della visione cattolica, che deriva dal Vangelo: libertà, individualità, dominio della natura ecc., sì, senza mai dimenticare che la Terra non è il Paradiso, che all’uomo nulla giova “guadagnare il mondo intero”, se perde l’anima.

    Ciò significa che nel cristianesimo c’è dell’altro, rispetto a quanto detto sino ad ora: c’è spazio per la vita contemplativa, oltre che per la vita attiva; c’è spazio per la Provvidenza, per cui al fedele è chiesto di pregare “per il pane quotidiano”, ma anche di guardare i gigli del campo.

    Nel Vangelo - accanto al “chiunque non lavora neppure mangi” di san Paolo (2 Tess.3,10) e accanto al “Chiunque lavora è meritevole della sua mercede” (Matt.10, 10) -, c’è anche il “guai a voi ricchi”; c’è la parabola dell’avido che muore prima di godersi tutto ciò che ha accumulato; c’è la celebre proposizione per cui “è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”.

    Nell’interpretazione autentica della Chiesa, queste immagini evangeliche non hanno portato al pauperismo, ma certo hanno determinato una attenzione molto forte al rischio insito nella libertà e nell’intraprendenza cristiana: la possibilità appunto di scambiare le creature per il Creatore, le ricchezze, che possono essere mezzo buono, per il fine. La Chiesa non ha mai condannato la ricchezza in sé, ma l’avidità, l’attaccamento disordinato ai beni terreni, l’egoismo.

    Con quali effetti? La condanna dell’usura ma nello stesso tempo anche la creazione dei monti di pietà e dei monti dei pegni; l’attenzione, doverosa, al povero ed al malato, incapace di guadagno, visti entrambi come alter Christus; l’obbligo del digiuno, per imparare il distacco del cuore, e dell’elemosina, per far fruttare nel bene ogni ricchezza.

    Ecco, di qui, la faccia esaltante del capitalismo italiano: ricchezza, ma anche tanta arte, tanta come mai nessuna forma di capitalismo ne ha prodotta; libertà di impresa, ma anche corporazioni, che tutelavano lavoratori, consumatori, regolando orari di lavoro, impedendo una concorrenza sleale, persino vietando la pubblicità… Poi, specie nell’Ottocento, per far fronte alla rivoluzione industriale, le cooperative, le casse rurali, le scuole professionali, le case per prostitute e disadattati…
    Il cristianesimo, come ricordava Max Scheler, esalta il lavoro, ma ricorda che il lavoro è in funzione dell’uomo, e non viceversa. Inoltre condanna la ricerca del guadagno fine a se stesso e l’accumulazione illimitata, ricordando sempre all’uomo che ha anche una natura spirituale; che vive non una vita solo individualistica, ma calato in una dimensione comunitaria, accanto ai suoi fratelli; che vi è un regno dei cieli ad attenderlo, perché la vita terrena non dura in eterno.
    L’effetto di questo “capitalismo cattolico” sono personaggi, magari senza scrupoli e furbi come il Ser Ciappelleto di Boccaccio, ma anche come Folco Portinari, il ricco mercante che incalzato dalla domestica Monna Tessa, per la salvezza della sua anima dona i soldi necessari a costruire l’ospedale di santa Maria Nuova, in Firenze.



    Fermiamoci un attimo su questi ricchi mercanti: molti di loro, nell’euforia del guadagno e dei soldi, perdono di vista il fine ultimo, cristianamente parlando, della loro esistenza. Ma c’è una intera società che glielo ricorda. Così alcuni fanno grandi donazioni, per opere di bene; altri, come Pietro Bernardone, resistono in faccia all’amore per la povertà del figlio Francesco; altri, come il citato Portinari, o come Francesco Datini, creatore dell’Ospedale degli Innocenti, opera allora unica in Europa





    dedicano parte delle loro ricchezze agli altri, orfani, poveri, malati e bisognosi. Se si osserva la storia di questi secoli, queste figure sono veramente numerose e convivono, non a caso, con i fondatori di scuole, di ospedali, di luoghi di carità.
    Non mancano, poi, coloro che vivono con senso di colpa l’aver accumulato per tutta la vita, e non riuscendo a staccarsi dalle loro ricchezze, le donano però, per testamento, ai poveri: pauperes Christi eredes nostros instituimus. I mercanti dell’Inghilterra anglicana, o del mondo protestante, raramente faranno qualcosa di simile.

    Non è finita: pensiamo alle corporazioni ed alle confraternite, anch’esse contemporanee alla nascita del capitalismo italiano. Entrambe univano, alla dimensione individuale, quella comunitaria. Entrambe prevedevano il mutuo soccorso e un tempo dedicato alla carità e all’elemosina. Nelle Confraternite, in cui si medita sulla vita eterna, la morte, la Passione di Cristo, persone di ogni classe sociale, ricchi e poveri, nobili e plebei, si trovano, insieme, gomito a gomito, per dedicarsi agli altri.
    Intanto nelle ricche città del Nord Italia, i governi impongono leggi suntuarie: lo sfoggio delle ricchezze non è produttivo, ma non è neppure morale.

    Cosa cambia, allora, nel tempo? Cosa rovina questo quadro, che non sarà paradisiaco, perché pur sempre terreno, ma in cui le luci, anche oggi visibili nell’arte e in ciò che resta delle antiche istituzioni di carità, sono veramente tante?
    Anzitutto c’è una spiegazione umana: le ricchezze, che in sé sono buone, danno facilmente alla testa e l’uomo, specie quello terreno, poco spirituale, facilmente finisce per divenirne non padrone, ma servitore.

    Ci sono poi motivazioni religiose e storiche.
    Qui entrano in gioco anzitutto certo Rinascimento, con la sua condanna della vita contemplativa, che prelude a certo iper-attivismo successivo; in secondo luogo calvinismo, protestantesimo e secolarizzazione. Il calvinismo, come si sa, trasforma le ricchezze, il benessere generato dal lavoro in un segno di benedizione (di conseguenza il povero è colui che è in qualche modo fuori dalla benevolenza di Dio). Il protestantesimo, in generale, dichiara l’inefficacia e l’inutilità delle opere buone, anche quelle più o meno riparatorie di un Portinari o di un Datini; inoltre promuove una visione individualistica del rapporto con Dio, che si traduce, come è ovvio, nell’individualismo tout court. Nello stesso tempo elimina il sacerdozio e la Chiesa, segno tangibile ed evidente del soprannaturale nel mondo, del nostro essere fatti per l’eternità, ma anche della dimensione anche comunitaria, ecclesiale, della Fede. L’ “ora et labora” benedettino, si rovescia, prima nel “labora et ora”, poi soltanto nel “labora”.

    Di qui il tempo sottratto sempre più alla preghiera, al culto, ma anche alla famiglia, al tempo del pranzo e delle feste. Di qui - come notavano un filosofo come Scheler, attento osservatore del mondo tedesco, ed uno storico come Leo Moulin - una scarsa sensibilità, tipicamente protestante, per le “gioie più nobili della vita, per le soffuse forme di godimento che animano la famiglia, la casa, l’amicizia, per la ricreazione e per il riposo, ricchi di significato”.
    Tra le conseguenze inevitabili di questo nuovo spirito, c’è questa: il povero diviene una minaccia, un nemico dell’ordine. Non è un caso che l’Europa cattolica del XVII secolo veda la nascita di ordini dediti a scuole, orfani ed ospedali, mentre al nord sorgono come funghi le workhouses, le case di lavoro, dove vengono rinchiusi bambini, orfani, vecchi, malati, persone improduttive, costrette a terribili lavori forzati. Siamo all’anteprima dello sfruttamento minorile che nell’ “anglicana” Inghilterra conoscerà livelli inauditi (la prima legge importante che in Gran Bretagna eleva l’età minima per l’impiego nelle fabbriche a 10 anni è del 1878).

    C’è da fare un’ulteriore considerazione: il protestantesimo, così come l’anglicanesimo, subordina la Chiesa al potere statale (generando così, nel breve periodo, solitamente, una forte secolarizzazione). Lo Stato, a sua volta, agisce pro domo sua. Anche qui non è un caso che il colonialismo più duro sia quello degli stati protestanti, Inghilterra e Olanda, in cui compaiono Compagnie commerciali che hanno potere di fare guerre, che gestiscono eserciti, che trafficano schiavi. Un colonialismo, quello inglese, ad esempio in India, che Edmund Burke



    descriveva così: “Noi non abbiamo alcun tipo di pregiudizio compensativo, di quelli grazie ai quali una fondazione di carità compensa nel tempo i poveri per la rapina e l’ingiustizia di un giorno. L’Inghilterra non ha eretto chiese, né ospedali, né palazzi, né scuole; l’Inghilterra non ha costruito ponti, non ha fatto strade…Ogni conquistatore di qualsiasi altro genere ha lasciato dietro di sé qualche monumento, di Stato o di beneficenza. Fossimo scacciati oggi dall’India non resterebbe nulla per dire che è stata posseduta, durante l’inglorioso periodo del nostro dominio, da qualcosa di meglio di un orangutang o di una tigre”.

    Andiamo brevemente alle origini del capitalismo anglosassone, destinato ad una supremazia secolare. All’origine vi è Enrico VIII, la confisca delle terre comuni e la rapina delle terre della Chiesa, su cui spesso vivevano molti bisognosi. Il sovrano requisisce tutto, vende e regala a nobili e ricchi, creando così, a sostegno del suo scisma, il primo embrione del capitalismo inglese. Anche monasteri ed ospedali, uniche forme di Welfare volontario e non statale, vengono confiscati. Roy Porter, storico della medicina, ricorda che l’Inghilterra rimane due secoli indietro rispetto all’Italia nel campo dell’assistenza ai malati e delle strutture di accoglienza.

    Nel contempo, in quella che sarà la patria della rivoluzione industriale, la mannaia cala sui marginali: decine di migliaia di vagabondi vengono decapitati. Basti dire che tra il 1560 ed il 1601 i mendicanti inviati nella prigione londinese di Bridewell si decuplicano. Intanto le corporazioni vengono smantellate del tutto, ed anche le festività religiose si riducono, per fare spazio agli affari.
    Sarà Elisabetta I, compiendo un altro passo in avanti nella degenerazione del capitalismo, a stabilire un patto d’acciaio tra la Corona, Francis Drake e suo cugino John Hawkins, pirati e commercianti di schiavi (tanto che lo stemma del secondo rappresentava un nero in catene): entrambi, costoro, ricchi oltre misura e perciò degni di essere accolti tra la nobiltà. Prende corpo sempre più il motto Business is business, non a caso in inglese, evidente in tutta la sua mostruosità, per fare un solo esempio, nelle guerre dell’oppio.

    Inevitabile, alla luce di questi fatti, concordare con Ettore Gotti Tedeschi e Rino Cammilleri che nel loro “Denaro e paradiso. I cattolici e l’economia globale” (Lindau), dimostrano che il protestantesimo non ha creato il capitalismo, come vorrebbe qualcuno, ma le sue più evidenti degenerazioni: affarismo, legge del più forte, sfruttamento, totale laissez faire…

    Se così stanno le cose non è ora difficile scorgere il formarsi, per opposizione al capitalismo materialista e senza limiti dei liberisti, il materialismo, anch’esso ateo, dei socialisti.
    Marx scrisse molto osservando la sua patria, la Germania protestante e secolarizzata, e l’Inghilterra, zeppa di ingiustizie sociali, di alcolismo, di disperazione, oltre che di ricchezze mirabolanti e di ascese incredibili. Zeppa di libertà, si dice spesso, ma per chi poteva permettersele, non per gli altri, né per i lavoratori, né per le donne ed i bambini impiegati nelle fabbriche, né per i cattolici, né per gli irlandesi…

    Cosa fece Marx, l’uomo secondo cui “l’accumulatore di tesori, dal momento che il suo ascetismo è congiunto con la sua energica laboriosità, è essenzialmente di religione protestante e, specialmente, puritano”? Riprese il primato dell’economia, in parte già formulato da Kant, teorizzatore di un mondo guidato da mercanti e banchieri, e sostenne che essa è la struttura della realtà. Giocava dunque sullo stesso terreno dei suoi avversari, incapace di proporre una visione globale dell’umano. Anche questa volta non è un caso che il comunismo sovietico, applicazione più o meno fedele del marxismo ateo, secondo cui il lavoro “è il creatore di ogni progresso e di ogni cultura”, è stato solo questo: capitalismo di stato, corsa allo sviluppo selvaggio, stakanovismo, industrializzazione accelerata e campi di concentramento (gulag). “Il lavoro rende liberi” ricordiamolo, era il motto non solo dei lager nazional-socialisti, della Gemania protestante e industrializzata, ma anche dei luoghi di reclusione sovietici, come lo è oggi dei laogai cinesi.

    Ridotto a creatura che lotta solo per il benessere materiale l’uomo comunista non conosce alcuna nobilitazione dal momento che viene definito come sola materia, come homo oeconomicus, e la sua redenzione viene fatta derivare da un cambiamento della struttura economica soltanto.
    Anche in questo il comunismo non è morto, ci ha lasciato, esattamente come il capitalismo borghese, l’idea che per cambiare la realtà occorra cambiare non il cuore dell’uomo, ma il suo portafoglio (chi lo vuole più grosso e chi lo vuole “in comune”).

    A questo si oppone lo spirito cattolico, che dà al lavoro ed al capitale il loro giusto peso. Uno spirito presente, ancora, seppure sempre meno, nel popolo forse più segnato dal cattolicesimo, quello italiano: un popolo di persone con i più alti tassi di risparmio del mondo; con regioni come il Veneto e la Lombardia, già all’avanguardia nel Medioevo, ancora tra le più ricche del globo; un popolo che ha i più alti tassi al mondo di casa di proprietà, e un forte spirito di autonomia e di intraprendenza… ma anche un popolo che ama ancora l’arte, la bellezza, le feste; che ha dato sino ad oggi alla famiglia, al volontariato, alla fede uno spazio irrinunciabile.
    La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online: Capitalismo figlio del cristianesimo

    Ultima modifica di FalcoConservatore; 08-01-12 alle 11:35

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    Predefinito Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    I diritti dell’uomo? Non li ha "scritti" l’Onu ma Cicerone e San Tommaso
    Giuseppe Bonvegna
    «C’è incompatibilità tra libertà e cristianesimo? Quando è nata la moderna idea di libertà? E quando è accaduto che essa si traducesse in istituzioni politiche?»
    Maurizio Ormas, col suo ultimo saggio La libertà e le sue radici. L’affermarsi dei diritti della persona nella pastorale della Chiesa dalle origini al XVI secolo, mostra come molte risposte a tali domande devono essere ricercate nel Medioevo, l’epoca in cui il cristianesimo ha espresso maggiormente, almeno nell’Europa occidentale, la sua influenza sulla società.
    Il volume ricostruisce un lungo percorso storico all’interno del quale risulta chiaro che, se è vero che l’Occidente poté giustificare le libertà personali e sociali, politiche ed economiche sulla base di una dottrina del diritto naturale che risale almeno a Cicerone
    [ "La vera legge è la retta ragione, conforme alla natura, universale,
    costante ed eterna, la quale con i suoi ordini invita al dovere, con i suoi
    divieti distoglie dal male." "A questa legge non è lecito fare alcuna
    modifica, nè sottrarne qualche parte, nè è possibile abolirla; nè per mezzo
    del Senato o del popolo possiamo affrancarci da essa." "E non vi è una
    legge a Roma e una ad Atene, una ora, una in seguito; ma una sola legge
    eterna e immutabile governa tutti i popoli in tutti i tempi, e un solo Dio è
    la guida e il signore di tutti: lui che ha concepito, redatto e promulgato
    questa legge, alla quale nessun uomo può disobbedire senza fuggire da se
    stesso e senza rinnegare la natura umana, e senza perciò stesso scontare una
    gravissima pena, anche se sfuggisse alle punizioni terrene."




    ]
    è altrettanto e ancor più innegabile che i vertici di tale riflessione vennero raggiunti durante il periodo medievale.
    Fu infatti dal II al VII d.C. che la dottrina dei pensatori latini precristiani venne integrata, nella riflessione dei Padri della Chiesa e dei pontefici romani, con il concetto di persona (introdotto grazie alla riflessione teologica sulla rivelazione) e con l’apporto del diritto consuetudinario delle tribù germaniche (una volta che furono inserite nell’alveo della romanità cristianizzata) basato sulla fedeltà personale e sull’idea della pari dignità tra signore e vassallo.
    Alla fine del V secolo, inoltre, papa Gelasio



    formulò la dottrina della distinzione del potere temporale da quello spirituale e della loro reciproca indipendenza nelle rispettive sfere di competenza; essa costituirà uno dei cardini del pensiero politico medievale e contribuirà a dare all’Occidente il volto di società distributrice di giustizia e di diritti che noi conosciamo, perché romperà la concezione monistica del potere cara a tutto il resto del mondo e introdurrà quella della distinzione fra Chiesa e Stato.
    Con il cristianesimo, quindi, alla divinizzazione della persona degli imperatori romani subentra una dottrina dell’autorità politica cui viene sì riconosciuta un’origine divina, ma solo in vista di garantire quell’equità e quella giustizia di cui Dio stesso è la fonte, e di cui il diritto, che ne derivava, costituiva un tentativo sempre imperfetto di attuazione.
    I due poteri, talora collaboranti, talora in conflitto tra loro anche quando erano concepiti come entrambi interni all’unica societas christiana, vennero comunque considerati in una relazione armonica - essa sarà al centro della sintesi tomista - destinata purtroppo a entrare in crisi. Tra la fine del secolo XIII, epoca in cui visse Tommaso d’Aquino, infatti, e l’inizio di quello successivo, cominciarono a essere messi in discussione i fondamenti metafisici del diritto: si negò alla ragione la capacità di cogliere l’ordine inscritto nella natura. Ciò fu opera della scuola di Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, che giunse a concepire il diritto come frutto esclusivo della volontà individuale del governante, aprendo così la strada all’assolutismo.
    Nonostante il grande influsso che tale scuola ebbe nei secoli successivi, essa non riuscì però a impedire che, in pieno XVI secolo, il domenicano spagnolo Francisco De Vitoria (1492-1546), professore all’Università di Salamanca, riprendesse la dottrina tomista del diritto naturale. Fu grazie a questa che egli poté affermare i diritti degli indios americani e di tutti gli uomini, consegnandoci - quattrocento anni prima della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo - quella che è stata definita la prima “carta dei diritti umani”.




    Ormas, Maurizio - La libertà e le sue radici
    Enrico Leonardi
    Nella mentalità comune è riscontrabile un pregiudizio circa una presunta incompatibilità tra libertà e cristianesimo. Per mostrarne l’infondatezza, l’autore mette in luce come nel Medioevo europeo occidentale, l’epoca in cui il cristianesimo ha espresso la sua influenza sulla società più che in ogni altra, affondano le loro radici gran parte delle libertà e dei diritti che costituiscono il patrimonio del nostro vivere civile. Non solo, ma anche delle istituzioni che danno loro espressione e garanzia.
    Come osserva Buttiglione nella sua prefazione al libro, «in questa visione non esiste una cesura epocale fra Medio Evo ed età moderna, non c’è un uomo del Medio Evo essenzialmente diverso dall’uomo moderno, con un orizzonte di pensiero e di esistenza assolutamente diverso ed incomunicabile…, quasi che esistesse una rottura assoluta fra il Medio Evo e la civiltà moderna». Al contrario, «la libertà moderna ha le sue radici proprio nella cosiddetta età di mezzo». Infatti, solo in Europa occidentale, a differenza di tutto il resto del mondo, la libertà ha avuto modo di svilupparsi e consolidarsi.
    Che cosa ha fatto sì che ciò accadesse?
    Qual è dunque l’elemento che ha reso unica l’esperienza del nostro mondo occidentale, con le sue libertà individuali e collettive, politiche ed economiche?
    Innanzi tutto il monito di Gesù «rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ormas lo individua appunto nel dualismo tra Chiesa e Stato, un dualismo che conosce fasi alterne, ora di conflitto, ora di collaborazione, e che si dispiega per tutto il corso della storia, anche oggi, come la cronaca ci ricorda.
    Dualismo indagato e approfondito sulla scorta di alcuni autori di riferimento a cui non è stata resa piena giustizia dalla cultura europea e in particolare da quella italiana. I fratelli Carlyle, con la loro monumentale Storia del pensiero politico medievale, Lord Acton con la sua Storia della libertà, che arricchisce il dualismo Stato-Chiesa dei Carlyle con quello Stato-società e il nostro don Sturzo, col suo Chiesa e Stato, saggio sociologico storico, che affina in chiave sociologica lo strumento concettuale del dualismo con quello della diarchia.
    Il periodo indagato da Ormas va dal V secolo, quando Papa Gelasio ha elaborato la dottrina della distinzione tra potere temporale e spirituale - nonché dell’indipendenza di quest’ultimo -, al XVI secolo, quando Francisco de Vitoria, teologo della Scuola di Salamanca, ha redatto quella che è stata definita la prima “carta dei diritti umani”. Vitoria infatti, col suo recupero del giusnaturalismo classico di san Tommaso, rappresenta il culmine della riflessione medievale sui diritti umani. Al tempo stesso segna il momento di passaggio al nuovo modo di sentire il tema del diritto naturale, tipico dell’epoca moderna, quello che vede in Ugo Grozio la sua prima e più tipica espressione.
    L’orizzonte culturale che abbraccia questo lungo arco di tempo è quello della christianitas medievale che nasce nel IX secolo grazie all’integrazione di tre culture: l’eredità del mondo classico, la rivelazione cristiana rimeditata dai Padri e le tradizioni dei popoli germanici subentrati al crollo dell’Impero d’Occidente. Tale orizzonte è caratterizzato da quattro principi.
    Il primo afferma che tutti gli uomini sono uguali per natura.
    Il secondo che il potere politico deriva dal popolo.
    Il terzo riguarda la persona, considerata indisponibile per lo Stato in quanto è immagine di Dio e a lui solo appartiene.
    Il quarto sostiene che l’autorità del governante non è mai assoluta ma è limitata, oltre che dalla dignità dell’uomo, dalle consuetudini giuridiche nazionali: non è il sovrano infatti la fonte del diritto, ma la tradizione del popolo, come dice l’Edictum Pistense dell’869: «Quoniam lex consensu populi et constitutione regis fit».
    Grazie a questi principi, matura il riconoscimento delle libertà individuali e sociali nei confronti del “potere” che saranno tipiche del mondo moderno. Infatti si consolidano usi, costumi, convinzioni oltre che una mentalità connotata di evidenze etiche tali da originare la coscienza dei diritti che noi oggi abbiamo.
    É importante notare che non si tratta solo di intenzioni ma anche di prassi, di istituzioni, di leggi, di ordinamenti, di fatti, insomma. Appartiene infatti al pensiero medievale, secondo Lord Acton, il merito di «ridurre ogni autorità politica entro limiti definiti».
    Per tale ragione Ormas si è soffermato non sullo sviluppo delle vicende storiche ma, all’interno di tali vicende, sull’intreccio delle dottrine teologiche, filosofiche, giuridiche circa la libertà e sulle loro conseguenze a livello politico e sociale.
    A suffragare la sua tesi concorrono una quantità di testi e documenti che danno ragione della ricchezza delle problematiche e delle acquisizioni di quel mondo così lontano e insieme così vicino a noi.
    Ormas, Maurizio - La libertà e le sue radici


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    Predefinito Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    Bell’intervento di Cameron che valorizza le radici cristiane. Speriamo che rinneghi la sua recente e dissennata apertura verso il riconoscimento delle coppiette di invertiti…



    Chiesa: su Osservatore Romano l'elogio della Bibbia del premier Gb Cameron
    (ASCA) - Citta' del Vaticano, 11 gen - ''La Bibbia e' un libro che ha forgiato non solo il nostro Paese, ma il mondo intero''.
    Lo ha detto David Cameron, primo ministro del Regno Unito, nel suo intervento in occasione del quarto centenario della King James Bible, riportato oggi sull'Osservatore Romano.
    Il primo ministro britannico afferma che ''e' giusto riconoscere l'impatto di una traduzione della Bibbia che e', credo, una delle piu' grandi imprese di questo Paese''. Si tratta quindi di ''un libro importante per comprendere il nostro passato, e che continuera' ad avere un profondo impatto nel costruire il nostro futuro collettivo''.
    ''La Bibbia di re Giacomo e' rilevante oggi, cosi' come lo e' stata in ogni momento dei suoi quattrocento anni di vita'', ha osservato Cameron, che ha illustrato tre motivi per cui nessuno ''deve avere paura di riconoscerlo: ''Essa ci ha consegnato in eredita' una struttura di linguaggio che permea ogni aspetto della nostra cultura''; della Bibbia e' impregnata anche ''la nostra politica'', dai diritti umani alla democrazia parlamentare; e infine, perche' ''siamo un Paese cristiano'', pure nel senso che ''la Bibbia ha aiutato a dare al nostro Paese una serie di valori e una morale che ne fanno cio' che e' oggi, valori e morale che dobbiamo attivamente sostenere e difendere''.
    Chiesa: su Oss. Romano l'elogio della Bibbia del premier Gb Cameron


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    Predefinito Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    NEW YORK ENCOUNTER
    Manhattan e l'orizzonte della politica
    Mary Ann Glendon, una delle più grandi giuriste americane, docente ad Harvard e già ambasciatrice Usa presso la Santa Sede, apre la kermesse con l'incontro sul tema "Politica come vocazione"
    di Suzanne Tanzi
    Sarà Mary Ann Glendon, docente nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Harvard e già ambasciatrice americana presso la Santa Sede, a tenere l’intervento principale del New York Encounter.



    Parlerà venerdì alle 19 sul tema “Politica come vocazione”, un argomento fondamentale e attualissimo in un anno caratterizzato dalla prossime elezioni presidenziali, dalla crisi economica, dalla radicalizzazione dei partiti e da molti interrogativi sul piano sociale. Il suo libro più recente, The Forum and the Tower (Oxford University Press, 2011) testimonia la sua lunga passione e la sua competenza sul tema, presentato alla luce di uno dei più recenti assunti della cultura mondiale: il dialogo fra filosofi e politici che percorre la storia. Durante una recente presentazione del libro a Washington, DC, ha risposto ad alcune domande sul lavoro e sulla vita.

    Che cosa l’ha spinta a intraprendere uno studio così approfondito, da Platone a Cicerone, Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau, Burke, Tocqueville…
    In primo luogo, desideravo conoscere come questi filosofi avevano posto in relazione le proprie idee con gli eventi del loro tempo, e studiare come le loro idee si fossero modificate nel passaggio dalla teoria alla pratica. Inoltre, mi ha sempre colpito il fatto che molti dei miei studenti, venuti all’Università sperando di entrare in politica, cambiavano idea. Molti filosofi e uomini politici si sono scontrati con le stesse domande che turbano questi giovani – tipo: quando il compromesso politico diventa compromesso morale? È possibile per me fare realmente qualcosa di diverso in politica, o tutti i miei sforzi sono destinati a rimanere vani? E così via. Quando Platone e Cicerone si posero di fronte al fatto che la politica è troppo corrotta, affermarono: Questa è una ragione in più per coinvolgersi, piuttosto che lasciare la sfera pubblica ai deboli e ai malvagi.

    È difficile procedere in mezzo a questi rischi, in particolare per un cattolico in America?
    Ciò che sta all’origine della nostra patria è un clamoroso esempio di come può essere fruttuoso l’incontro dei politici con la filosofia e la teologia, come appare nel lavoro di Eleanor Roosevelt e Charles Malik nella stesura della bozza della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, che riflette in modo sorprendente il pensiero sociale cattolico. Uno non sa mai dove porterà il suo lavoro, anche se non ne vede immediati risultati. Per esempio, come avrebbe potuto immaginare Cicerone che la sua opera avrebbe un giorno cambiato la vita di un ragazzo diciannovenne pagano nell’Africa settentrionale? Eppure è ciò che accadde a sant’Agostino di Ippona, il quale affermò che leggendo Cicerone si innamorò della filosofia, e poi «i miei pensieri si sono volti a Te, o Dio!».





    Dove possiamo trovare la forza e il coraggio?
    Nessuno può negare che la politica implica dei rischi sul piano morale. Per questo motivo molti si domandano preoccupati: Non sarò talmente cambiato dai compromessi che mi saranno richiesti per raggiungere un posto di rilievo da non essere più me stesso a quel punto? Ma se leggete The Pilgrim’s progress (Il pellegrinaggio del cristiano, o Il viaggio del pellegrino, di John Bunyan, ndt)



    vi renderete conto che qualunque viaggio nella vita implica dei rischi morali. Una persona deve capire personalmente se è in grado di stare davanti a quel particolare genere di pressioni che la politica implica. E se anche uno pensa di essere abbastanza forte, credo che debba mantenersi allenato – come un atleta – con la preghiera, la Confessione, la Comunione, e il sostegno della famiglia e degli amici.

    Non tutti hanno aspirazioni o possibilità così elevate; che cosa direbbe a un semplice funzionario che desideri porsi in maniera diversa?
    Gli chiederei di pensare a quanto il Papa Benedetto XVI ha detto incontrando, qualche mese fa, un gruppo di funzionari italiani: disse che il loro lavoro è così importante per il bene comune da essere «pressoché sacro».

    Qual è il suo ricordo più significativo del periodo in cui è stata ambasciatrice presso la Santa Sede?
    Quando il Papa Benedetto XVI, nel 2008, venne negli Stati Uniti, ero con il Presidente Bush quando andò alla base aerea di Andrews per incontrarlo. Fu un momento davvero speciale: era la prima volta che un Presidente si recava ad accogliere un capo di Stato straniero e non lo attendeva invece alla Casa Bianca. Quando gli fu chiesta la ragione per cui aveva deciso di seguire questa procedura senza precedenti, il presidente Bush rispose: «Mi muovo io per incontrare il Papa perché è il più grande leader spirituale del mondo».
    Manhattan e l'orizzonte della politica - NEW YORK ENCOUNTER


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    Predefinito Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    Senato: ok a Lega su radici cristiane Ue
    L’Aula del Senato ha approvato un emendamento della Lega che inserisce nella mozione unica Pdl-Pd-Terzo Polo, in riferimento alle radici giudaico-cristiane del Vecchio Continente. Hanno votato a favore Pdl, Lega e Terzo Polo.
    “Evviva!”, esulta Calderoli, autore dell’emendamento, rivendicando la “battaglia da sempre portata avanti dalla Lega”.
    “Finalmente”, dice, questa battaglia “ha trovato una risposta positiva in Parlamento, nonostante il voto contrario del centrosinistra, uscito allo scoperto negando le nostre radici cristiane”.

    UE: GASPARRI, PDL COERENTE SU RADICI GIUDAICO CRISTIANE
    (AGENPARL) - Roma, 25 gen - Afferma il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri: "Il Pdl al Senato ha lavorato alla stesura di una mozione di ampia convergenza sull'Europa, affinché il governo italiano abbia il più forte mandato possibile quando dovrà affrontare tra qualche giorno i negoziati dell'Unione europea con l'obiettivo di difendere l'interesse nazionale. In coerenza con la nostra posizione abbiamo con convinzione votato l'emendamento che ha aggiunto, nella mozione, il riferimento non solo alle radici culturali ma anche giudaico-cristiane dell'Europa. Ed è molto positivo che questa chiara affermazione abbia ottenuto un voto positivo dell'Assemblea del Senato. Perché, al di là degli aspetti economici, delle grandi preoccupazioni di carattere finanziario, l'Europa deve riconoscere se stessa e la sua identità di storia e di valori".

    UE: MURA (LNP), SODDISFAZIONE SU RADICI CRISTIANE
    (AGENPARL) - Roma, 25 gen - Il gruppo della Lega Nord al Senato esprime soddisfazione per il via libera alla mozione sulla politica europea che inserisce, oltre alle comuni radici culturali, anche quelle giudaico-cristiane. "Si tratta di un riconoscimento importante per la Lega - dichiara in una nota il senatore leghista Roberto Mura- da sempre impegnata, in sede europea e nazionale, per una Europa dei popoli che non disconosca la propria origine. Sappiamo che il Trattato di Lisbona, come tutti i trattati europei che lo hanno preceduto, sconta la gravissima omissione di qualsiasi richiamo alla tradizione cristiana come elemento identitario della storia e della realtà in cui vivono i popoli europei. Con la mozione odierna il Senato riconosce la bontà di una nostra storica battaglia, e ammette il valore fondante delle radici cristiane come base del diritto, del pensiero, della cultura storica e della tradizione dei popoli dell’Europa".


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    Predefinito Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    La UE ha un problema di radici
    di Riccardo Cascioli
    Nell’approvare la mozione unica sull’Europa, il 25 gennaio il Senato ha votato sì all’emendamento proposto dal leghista Calderoli che inserisce un richiamo esplicito alle radici giudaico-cristiane. A sostegno dell’emendamento Lega, Pdl e Terzo polo, contrari Pd e Italia dei Valori.
    Si tratta di un fatto politicamente rilevante sia per la proposta in sé sia per la maggioranza parlamentare che l’ha sostenuta. Ma quello su cui vorremmo soffermarci è invece l’intervento su questo tema svolto dal premier Mario Monti durante il dibattito.
    Il presidente del Consiglio in realtà si è mostrato più preoccupato del potenziale effetto divisivo in Parlamento che poteva avere l’emendamento di Calderoli che non della giustezza o meno del contenuto, sul quale ha detto di non voler prendere posizione. Poi però ha detto: «Che ci sia o che non ci sia un esplicito riconoscimento a certe radici culturali nella costruzione europea, è importante vedere che, nel modo in cui è costruita, nel modo in cui le scelte politiche sono avvenute nel corso dei decenni, in grande misura la costruzione europea, l’Unione europea incarna valori etici che molto più spesso sono stati assenti nelle politiche degli Stati nazionali». E a titolo di esempio Monti ha citato: i princìpi di giustizia distributiva, la parità di trattamento fra Stati grandi e piccoli, l’equità intergenerazionale, la disciplina delle politiche di bilancio.
    Monti sostanzialmente pare dire: fa niente se non si parla esplicitamente di radici cristiane, perché comunque queste sono presenti nei valori etici su cui la Ue si fonda. Tali valori, come si può notare, sono essenzialmente legati all’economia.
    Le cose sono due: o il presidente Monti crede che il patrimonio cristiano si riduca ad alcuni valori etici condivisi oppure che le radici cristiane siano un eventuale abbellimento di un’architettura comunque già compiuta in sé.
    Ma in un caso e nell’altro, Monti si sbaglia.
    Perché fare riferimento alle radici cristiane è sì il riconoscimento di una innegabile storia della nostra civiltà, ma soprattutto significa porre quel patrimonio culturale a fondamento della futura casa europea. E il fondamento non sta tanto in quei princìpi citati da Monti quanto nella massima valorizzazione della dignità della persona, della sua sacralità e della sua inviolabilità, in quanto “immagine e somiglianza di Dio”. Ecco allora che quel fondamento si concretizza nella garanzia della libertà religiosa, nella difesa della sacralità e indisponibilità della vita dal concepimento alla morte naturale, nella promozione della famiglia naturale (fondata sul matrimonio tra uomo e donna), nella garanzia della libertà di insegnamento e di educazione.
    Come si può comprendere non si tratta di problemi accessorii o di optional la cui presenza non cambia comunque la sostanza ; è invece il nodo su cui si gioca il futuro dell’Europa.
    La Giornata della Memoria che oggi viene celebrata dovrebbe ricordarci che cos’è uno Stato o un’Europa che nega le sue radici cristiane, anzi le odia. E purtroppo l’Unione Europea pare essersi messa sulla stessa strada.
    Quando il premier Monti esprime soddisfazione per i valori etici incarnati dalla Ue, dovrebbe pensare bene a cosa sta succedendo all’Ungheria, finita nel mirino di Bruxelles e oggetto di una campagna denigratoria proprio per aver approvato una Costituzione che riconosce le radici cristiane del paese, difende la vita fin dal concepimento e la specificità della famiglia naturale. In nome di non meglio precisati valori europei tutti i grandi poteri sono schierati minacciosi contro un piccolo paese che chiede solo di entrare nell’Unione Europea restando se stesso.
    Con buona pace di Monti il futuro dell’Europa dipende molto più dall’esito di questo braccio di ferro che non dai pareggi di bilancio.
    http://www.labussolaquotidiana.it/it...adici-4326.htm

    Il prevedibile attacco a Formigoni, artefice della regione più tedesca d’Italia
    Il peccato originale di Formigoni non è Berlusconi. È che ha fatto quel che ha fatto a partire dalla scuola di don Giussani. E questo è insopportabile a una élite che non tollera l’esistenza di cristiani, uomini vivi e attivi in politica, estranei al magistero laicista e secolarista.
    Luigi Amicone
    Siamo in un momento di crisi e le crisi servono a taluni per cambiare. Soprattutto chi governa. Ecco perché anche Roberto Formigoni è finito nel mirino. Leader di razza popolare, cominciò a fare politica attiva al Parlamento di Strasburgo, dove venne eletto, a metà degli anni Ottanta, con oltre 450 mila preferenze (riattivare l’istituto della preferenza, please, qualunque sia la riforma elettorale che bolle in pentola). Distrutti per mano giudiziaria Dc e Psi, Formigoni è il politico ciellino che, dopo aver rifiutato di accomodarsi nell’Ulivo a egemonia post comunista e dominato dai boiardi di Stato usciti “miracolati” dalle inchieste di Mani pulite, si unisce a quel tale che impedì un regimetto monopartitico e salvò le libertà italiane.
    Lo fece, però, rimanendo in Lombardia, regione che sotto i suoi 17 anni di amministrazione è diventata la parte più “tedesca” dell’Italia. Il peccato originale di Formigoni non è Berlusconi. È che ha fatto quel che ha fatto a partire dalla scuola di don Giussani. E questo è insopportabile a una élite che avverte come radicalmente estranea al proprio sussiego e magistero laicista e secolarista l’esistenza di cristiani, uomini vivi, inassimilabili alla stessa élite. Naturale che si voglia buttarlo giù. Anche per occupare i posti che verrebbero liberati. I partiti di opposizione e i centri di potere contrapposti esistono per questo.
    Oggi poi l’opportunità è grandiosa. Il moralismo divampa e l’individuazione del colpevole “che non sono io” è l’arma più facile per chi altrimenti non sa come affrontare ed eludere i problemi. Sono riusciti a buttare giù Berlusconi. Capiscono che possono fare lo stesso con Formigoni e gli stanno addosso.
    http://www.tempi.it/il-prevedibile-a...desca-d-italia

    Formigoni a Tempi: «Questa è la "nota lobby" che mi vuole massacrare»
    «È in atto l’ennesimo tentativo di delegittimarmi dal punto di vista politico e personale. Ma nessun atto della giunta è stato impugnato dai pm». Il governatore lombardo ci spiega chi sta cercando di far cadere la sua giunta.
    Luigi Amicone
    Domenica 22 gennaio, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia è andato all’assemblea di Sinistra e Libertà a Roma e ha annunciato: «Vi porto una buona notizia, oggi Bossi è stato fischiato dai militanti della Lega. L’altra buona notizia è che il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, si sta per dimettere e se non lo farà lo “dimetteremo” noi».

    Presidente, ma non era nata una certa “amicizia istituzionale” tra voi due?
    Posso dire che nella giornata di lunedì 23 gennaio Giuliano Pisapia mi ha telefonato chiedendomi scusa, dicendo che è stato un errore e che comunque è stato male interpretato…

    Repubblica è stata particolarmente livorosa nei suoi confronti. Come se lo spiega? Solo inimicizia politica o c’è dell’altro tra lei e il giornale di Carlo De Benedetti?
    Nulla di nuovo sotto il sole. È il metodo che conosciamo di quella che l’indimenticato presidente Francesco Cossiga chiamava “la nota lobby”. E cioè il tentativo di massacrare l’avversario e di delegittimarlo dal punto di vista politico, personale, morale, dimenticando che nulla è stato contestato nelle inchieste della magistratura, né alla giunta regionale, né a me personalmente. D’altra parte la parola d’ordine lanciata dal primo editoriale di Repubblica (Gad Lerner, 1 dicembre 2012, ndr) è stata, vado a senso, “ora che abbiamo abbattuto Berlusconi bisogna impedire che il centrodestra rinasca dalla Lombardia, all’armi, occorre radere al suolo il presidio lombardo a partire da Formigoni”.

    Il Fatto quotidiano ha adombrato una presa di distanza dei vertici di Comunione e Liberazione da Roberto Formigoni.
    Anche qui, nulla di nuovo. Del tentativo di distruggere completamente l’avversario fa parte il metodo di descriverlo isolato e scomunicato dal suo partito, dai suoi amici, dai suoi fratelli. Se ripenso a quante volte nel corso della mia storia umana e politica è accaduto questo tentativo di linciaggio, per contarle devo usare ben più delle dita di entrambe le mani.

    Non ha nulla da dichiarare in merito a quanto la magistratura contesta ai consiglieri del Pdl arrestati?
    Intanto Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni si sono prontamente dimessi dalle cariche istituzionali. Mentre non lo ha fatto Filippo Penati, anch’egli indagato per gravissime ipotesi di reato, mentre il consigliere Angelo Costanzo del Pd è stato dichiarato decaduto dalla giustizia ordinaria per gravi irregolarità della sua candidatura. Quanto alle contestazioni della magistratura a Nicoli Cristiani e Ponzoni, esse sono rivolte ad atti personali dei due consiglieri. Atti che non hanno interferito per nulla con l’attività della giunta da me presieduta. Se non riusciranno a dimostrare la loro innocenza ne risponderanno, ma la giunta non ha nulla da temere.

    In Lombardia di indagati ormai ce ne sono davvero tanti: Minetti, Nicoli Cristiani e Ponzoni per il Pdl; Costanzo e Penati per il Pd; Bossi Jr., Rizzi, Ciocca e Belotti per la Lega. Ritiene che sia proprio così indecente questa proposta del Pd di sciogliere l’assemblea e andare a elezioni anticipate?
    Nessun atto della giunta regionale è stato impugnato dalla magistratura e a nessun membro di giunta sono state rivolte accuse. La richiesta di dimissioni è assolutamente strumentale. Forse che qualcuno domandò le dimissioni di Pier Luigi Bersani quando il suo principale collaboratore, Penati, scelto personalmente dall’attuale leader del Pd, fu colpito dalle indagini?

    Bossi vi ha detto che «se Berlusconi non molla Monti, la Lega molla Formigoni». Il Pdl sembra voglia replicare con una manifestazione antileghista. È davvero la fine di una storica alleanza?
    Guardi, abbiamo cominciato la settimana confermando tutti i nostri incontri in programma. Si è appena svolta la riunione di maggioranza tra Lega e Pdl. Ci presenteremo insieme in Consiglio regionale e la giunta si svolgerà regolarmente. Non c’è nessuna avvisaglia di crisi in Lombardia. D’altra parte sarebbe demenziale, per una divergenza sul piano nazionale, l’appoggio a Monti o meno, far saltare tutti i governi del Nord retti dalla coalizione Pdl-Lega.

    A che punto è il rimpasto di giunta?
    Ci sto lavorando, voglio dare un segnale forte pur non avendo nulla da rimproverare a nessuno dei miei assessori.

  7. #7
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    Predefinito Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    Contributi molto interessanti!

  8. #8
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    Predefinito Re: Rif: Le radici cristiane dell'Occidente

    Le “soluzioni finali” esistono soltanto nella mente dei filosofi
    L'esigenza della libertà nasce dal riconoscimento della nostra ignoranza
    Michele Marsonet
    Rispetto alla ciclicità storica del paganesimo, nella concezione cristiana della storia il tempo diventa lineare e carico di responsabilità per l’uomo, attore della storia. Il fulcro della causalità storica subisce uno spostamento radicale dalla natura all’uomo libero, creato a immagine e somiglianza di Dio. La dottrina platonica degli archetipi eterni cede il passo alla creazione dal nulla, l’uomo è chiamato a collaborare con Dio al suo destino di salvezza. Sant’Agostino poteva quindi affermare che col cristianesimo “si sono rotti i cerchi” della fatalità e del destino ineluttabile.
    In seguito però, attraverso un processo di radicale immanentizzazione, sono sorte concezioni le quali hanno in comune l’idea che esistano soluzioni definitive ai problemi dell’umanità e che sia possibile scoprirle e realizzarle qui sulla terra, senza fare alcun riferimento alla trascendenza. Queste idee sono frequenti nelle opere di molti filosofi. I razionalisti del ’600, per esempio, ritenevano che le risposte fossero rintracciabili grazie a una speciale applicazione del “lume della ragione”. Gli empiristi del ’700 sostennero invece che i nuovi metodi scoperti dalle scienze della natura erano in grado di introdurre un ordine perfetto anche nella sfera sociale.
    In realtà le “soluzioni finali” esistono soltanto nella mente dei filosofi. La ricerca della perfezione, intesa in senso puramente mondano, è foriera di tragedie, e le cose non migliorano se autore della ricetta è un idealista sincero. Lo riconobbe Kant scrivendo una celeberrima frase: “Dal legno storto dell’umanità non si è mai cavata una cosa dritta”. I sogni di perfezione terrena sono sempre legati a quelli di una redenzione globale, da realizzarsi qui, nel nostro mondo terreno. Si finisce col postulare una vittoria finale della Ragione, che condurrebbe a un’armoniosa collaborazione universale e all’inizio della “storia vera”.
    Se analizziamo bene tutte le concezioni che puntano alla redenzione globale sulla terra, non tardiamo a capire che si basano su una antropologia filosofica che non tiene conto dei nostri limiti intrinseci. La questione dei limiti della natura umana riveste un’importanza fondamentale, in quanto ci consente di mettere a nudo alcune insufficienze di fondo: il mancato riconoscimento che l’essere umano è inevitabilmente portato a compiere errori di valutazione e, per di più, è spesso incapace di riconoscerli; e il non tener conto del fatto che egli mai possiede una conoscenza “completa” di tutti gli elementi che contribuiscono a determinare l’ambiente in cui si trova inserito.
    Quali sono, dunque, le origini dell’Utopia, intesa come progetto di “redenzione globale” - e terrena - dell’umanità dal suo attuale stato di imperfezione? In fondo, è una nostra tipica aspirazione quella che mira ad eliminare l’ingiustizia mediante la costruzione di un mondo migliore. Tale esigenza, in sé naturale e legittima, diventa tuttavia portatrice di tragedie quando si dimentica la nostra intrinseca limitatezza.
    Vi sono molte - e spesso insospettabili - affinità che collegano le concezioni utopiche. Se pensiamo alle eresie medievali, vediamo che con Gioacchino da Fiore si delinea un nuovo tipo umano: l’intellettuale che crede di conoscere la formula del riscatto dalle sventure del mondo e può quindi predire con esattezza il corso futuro della storia. Ma ancora più interessanti risultano ai nostri fini pensatori più vicini nel tempo come il padre del positivismo Auguste Comte, per il quale lo stato di perfezione è rappresentato dallo stadio finale della società industriale, diretta temporalmente dai managers e spiritualmente dagli intellettuali positivisti.
    Secondo il grande studioso Eric Voegelin



    il marxismo, al pari di altri movimenti ideologici di massa sorti sulla base delle elaborazioni concettuali di circoli intellettuali ristretti, è una variante dello gnosticismo.



    Innanzitutto il pensatore gnostico è radicalmente insoddisfatto della situazione in cui viviamo: il mondo ha in sè una struttura intrinsecamente carente, e non già per colpa all’inadeguatezza di fondo degli esseri umani. L’ordine dell’essere si dovrà cambiare nel corso di un processo storico mondano, cosicché da un mondo cattivo sia possibile far emergere, per evoluzione storica guidata dai sapienti gnostici, un mondo perfettamente buono. Partendo da queste basi, egli elabora una dottrina che promette la salvezza dal male del mondo; di qui ad immaginare un ordine perfetto il passo è breve: si costruisce una formula che viene annunciata alle masse con atteggiamenti di tipo profetico, i quali ingenerano l’illusione che il creatore della formula salvifica conosca la strada maestra per far giungere l’umanità nella terra promessa della completa felicità mondana.
    L'atteggiamento gnostico conduce a un rovesciamento completo dell’idea cristiana di perfezione, della quale, tuttavia, esso è evidentemente tributario. Salvezza e perfezione globale, categorie che per il cristiano appartengono all’aldilà, vengono trasferite su questa terra. Siamo dunque di fronte all’eliminazione della distinzione che sant’Agostino aveva tracciato tra “Città di Dio” e “Città dell’uomo”: la prima viene negata, ma soltanto con lo scopo di trasferire tutte le sue caratteristiche nella seconda. E’ un progetto di radicale immanentizzazione che, in quanto tale, si contrappone al pensiero cristiano.
    Lo gnostico ignora i limiti e si propone di superarli con un progetto astratto e con un puro sforzo della volontà. Eppure la costituzione dell’essere resta quella che è, oltre la portata della brama del pensatore. E’ dunque essenziale rammentare che la realtà circostante non è destinata a cambiare in modo radicale per il semplice fatto che qualche filosofo o teorico politico la trova difettosa e cerca di fuggire da essa. O, ancor meglio, occorre intendersi sulla portata e sui limiti di ogni possibile mutamento, senza pretendere di piegare totalmente il mondo alle esigenze di astratti schemi intellettuali. Eppure, il tratto distintivo di ogni pensiero utopico radicale è costituito proprio dalla preminenza dello schema astratto sulla realtà delle cose.
    Negli scritti marxiani troviamo il concetto di "autocreazione" che implica l’autoemancipazione; l’uomo è il punto di partenza e il punto d’arrivo: al di fuori di lui, nulla è realmente. Il mondo nuovo, dunque, sarà il mondo creato dall’uomo nuovo comunista, che assume sulle sue spalle il peso del proprio destino, cosciente del fatto che è lui, e soltanto lui, a creare il mondo, la società e la storia. Egli andrà incontro, fiducioso e ottimista, alla nuova storia, alla nuova società giusta e perfetta.
    La divinizzazione dell’uomo si può ritrovare in altri autori che almeno in apparenza sono incompatibili tra loro. Anche in Nietzsche, per esempio, lo spirito vuole sentirsi padrone, senza limiti che non siano quelli da lui stesso fissati. Alla realtà effettuale dell’essere, che l’uomo trova in gran parte già costituita, viene sostituita una seconda realtà, immaginata dal pensatore. I filosofi di questo tipo sono preda di una sorta di “complesso di Prometeo”, che li conduce ad ignorare i limiti strutturali della natura umana. Si manifesta nel loro pensiero un “titanismo” che li porta a trascurare la realtà come è per proiettarsi in una realtà come dovrebbe essere.
    François Furet ha scritto che non si può capir nulla del destino dell’idea comunista nel XX secolo, se non se ne portano alla luce l’intima radice messianico-universalistica. Il comunismo non ha nulla da spartire con la religione tradizionale. Non affida alcunché alla trascendenza, anzi la nega. Per esso vale solo la terrestrità assoluta. Eppure, al fondo della sua concezione politica si cela il nocciolo di quella particolare religione di chi - non avendone più una - non rinuncia per questo a caricare storia e politica delle esigenze salvifiche, che un tempo erano rimesse a Dio.
    Per conferire concretezza ai propri sogni di perfezione, l’utopista radicale è in pratica costretto a cancellare con un semplice tratto di penna i molti aspetti sgradevoli della natura umana: l’egoismo, il desiderio di prevaricazione sugli altri, la sete di potere, i tanti vizi. L’uomo, da mera parte di un tutto che egli non può dominare, diviene artefice assoluto del proprio destino, sino a trasformarsi in un tipo ideale che nulla ha a che fare con l’individuo concreto.
    L’utopia è dunque trasferita nel concreto della storia umana, fondendo in un’unica sorte reale e ideale, città terrestre e città celeste; riducendo anzi questa città celeste alla prassi mondana dell’umanità. E quando la storia si vendica mostrando l’assurdità del progetto, l’utopista imputa il fallimento non a cause strutturali, bensì a errori compiuti nel perseguire il suo programma radicale, il suo progetto astratto.








    Abbiamo, insomma, una totale mancanza di umiltà basata sull'incapacità di analizzare, senza pregiudizi e in modo spassionato, la nostra natura limitata, le conseguenze di quello che i cristiani chiamano il Peccato Originale.
    Non è certo un caso che ignoranza e libertà costituiscano un connubio fondamentale per pensatori liberali quali Berlin, Popper e Hayek. E’ dal riconoscimento di questa ignoranza costitutiva che nasce l’esigenza della libertà: il valore della libertà individuale poggia innanzitutto sul riconoscimento delle nostre debolezze e dell’inevitabile ignoranza di tutti noi circa molti fattori da cui dipende la realizzazione dei nostri scopi.
    L'esigenza della libertà nasce dal riconoscimento della nostra ignoranza | l'Occidentale



    Il sociologo Francesco Alberoni: «La morale cristiana è alla base della cultura»
    Sulla prima pagina de Il Corriere della Sera, nella sua rubrica «Pubblico e privato», è apparso un articolo del noto sociologo Francesco Alberoni. Il tema è la presenza della moralità cristiana nella società. Dopo aver criticato il fatto che «la società moderna» sia diventata, in certi ambiti, una babele etica in cui tutto è permesso, ha sottolineato che comunque, oggi, in linea di principio, «quasi tutti accettano le massime del Discorso della montagna». E ancora: «Tutti accettano il comandamento fondamentale del cristianesimo “ama il prossimo tuo come te stesso”, tutti accettano il principio fondamentale che si deve rispettare la parola data anche col nemico». Ha continuato sottolineando che la morale cristiana è alla base del pensiero di Kant, del «Trattato delle virtù» di Jankélévitch, del saggio «Una teoria della giustizia» di Rawls, della condanna della tortura e della pena di morte, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dell’uguaglianza fra maschi e femmine ecc.. Non solo, «resta alla base di quelle che consideriamo virtù: l’amore, la bontà, la generosità, la sincerità, la fedeltà, il disinteresse, la gratitudine». E anche di quelli che giudichiamo come “vizi”.
    Alberoni conclude: «quasi tutti guardano al Pontefice come a una altissima autorità morale, e non solo in Italia e nell’ambito cattolico, ma anche in gran parte del mondo. Il nucleo essenziale della morale cristiana negli ultimi tempi non ha perso terreno, ma si è esteso e continua a estendersi ad altre culture e altre civiltà. Ed è proprio per questo che i cristiani, in certi Paesi, sono temuti e perseguitati».


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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    Se neghiamo l'esistenza di un creatore, è inutile che stiamo a discutere di diritti umani inalienabili
    È una delle tesi di Tristram Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo. «Se Dio non viene riconosciuto come colui che crea gli uomini in un certo senso uguali, come si può dire che gli esseri umani sono uguali? La morale secolare contemporanea è necessariamente contingente»
    Di Benedetta Frigerio
    «Se Dio non viene riconosciuto come colui che crea gli uomini in un certo senso uguali, come si può dire che gli esseri umani sono uguali?». A porre la domanda non è un teologo, ma Tristram Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo, professore all'Università di Houston e direttore della rivista internazionale Journal of Medicine and Philosophy.



    La tesi del professore texano è che l'uomo, se nega un creatore comune, è destinato ad essere schiavo. È impossibile, sostiene, affermare la cogenza di diritti umani inalienabili e uguali per tutti quando manca un punto di vista metafisico.
    Engelhardt prende ad esempio Richard Rorty, che ha affrontato il venir meno della morale nel nostro secolo. «Rorty ha riconosciuto il motivo per cui è impossibile fornire una fondazione alla morale» spiega il professore, ricordando che per lui non esistendo un creatore non può esistere neppure un “metavocabolario” comune. Rorty, però, ammette che così «non possiamo stabilire quali siano la morale e la bioetica». Rorty tenta così di legare la morale alla prudenza degli individui, ma fallisce perché «si resta con una pluralità di morali come strutture normative (alcune delle quali rifiutano persino un punto di vista morale) sostenute da discorsi morali differenti, supportati da differenti condizioni socio-culturali». È in questo modo che si cade nella schiavitù del pensiero dominante. Perché «una volta separate dal proprio ancoraggio in Dio, e/o nell'Essere, tutte le morali e le bioetiche secolari» diventano «socio-storicamente condizionate», affermando «configurazioni particolari».
    Il pericolo per il professore è chiaro: «A differenza delle affermazioni di obblighi morali fondati su una comune origine divina, che potrebbero essere riconosciute persino da un ateo come putativamente fondate nell'Essere – nonostante l'ateo consideri falsa tale pretesa – la morale secolare contemporanea è necessariamente contingente e storicamente condizionata. Tale sradicamento e tale contingenza hanno implicazioni drammatiche riguardo alla forza delle pretese normative avanzate dalla teoria morale contemporanea dominante di stampo secolare su questioni come il significato morale di autonomia, uguaglianza, diritti umani, giustizia sociale e dignità umana».
    Se neghiamo l'esistenza di un creatore, è inutile che stiamo a discutere di diritti umani inalienabili | Tempi

    Apologia del bello
    di Antonio Socci
    Dice Renè Girad che dopo duemila anni, grazie al ribaltamento del mondo dovuto al supplizio di Gesù metabolizzato per secoli nelle culture di tutti i popoli cristiani, "la cura per le vittime, nel bene e nel male, domina la cultura planetaria nella quale viviamo". Ed è un fatto imponente, mai visto prima nella storia.
    Ne coglieva la grandezza- infuriandosi lo spietato Nietzsche, quando scriveva: "Dio fatto uomo in croce. Si continua ancora a non comprendere lo spaventoso mondo di pensieri nascosto in questo simbolo? Tutto quanto soffre, tutto quanto è appeso alla croce, è divino.... Noi tutti siamo appesi alla croce, quindi noi siamo divini". Esattamente questo ha fatto irruzione nel mondo con Gesù Cristo: il valore inestimabile, divino, di ogni misera carne umana, da sempre considerata carne da macello. Noi nel terzo millennio viviamo in questo "splendore accecante" senza renderci conto che questa è pura eredità cristiana.
    E' ancora il cristianesimo che ha vinto l'orrore platonico per la carne, l’assurdità della credenza nella metempsicosi. Nonostante la Chiesa sia stata assediata per secoli dallo gnosticismo (e lo sia anche oggi) sa da sempre, con sant’ Ambrogio, che "la carne è il cardine della salvezza", e che Cristo ci ha salvato incarnandosi e facendosi uomo. Il Cantico delle creature non è un inno ecologista, ma un luminoso manifesto anti cataro, cioè antignostico: la materialità del creato non è il Male, ma è bene.



    La fobia per la bellezza materiale non è cristiana, è il suo contrario. Lo dimostra un classico della letteratura monastica. Il diacono Giacomo di Edessa racconta che ad Antiochia viveva una bellissima donna, Pelagia, un'attrice famosa. Agli occhi degli ecclesiastici era una professione a rischio. Un giorno passò per la via, abbagliante, vestita in abiti molto succinti, con un corteo di giovanotti vivaci fa canti e musiche. Passarono accanto a un gruppo di vescovi che stavano tenendo una discussione all'aperto, sotto un albero. I vescovi tutti si nascondono il volto per non vederla. Eccetto un santo monaco del deserto, Nonno, che "rivolse lo sguardo verso di lei intensissimamente e a lungo, tanto che dopo che fu passata egli ancora la fissava e la guardava". Poi voltò il capo verso gli altri vescovi e disse: "Non vi rallegra una così grande bellezza?". E siccome nessuno di loro rispondeva, riprese: "Io mi sono rallegrato moltissimo e mi è piaciuta la sua bellezza, poiché Dio la metterà al primo posto (Mt 21, 31) e la stabilirà davanti al suo tremendo e mirabile trono (Ap 7,9) per giudicare sia noi sia il nostro episcopato".
    Le lodi della donna proprie della poesia provenzale e stilnovista non sarebbero stata possibili senza la rivoluzione cristiana. Certo, è una poesia che si accende esattamente sul punto di scontro fa manicheismo e cristianesimo, e spiega l'opera capitale di Denis De Rougement, "L'amore e l'Occidente".



    Dove si legge: "Ogni concezione dualista, manichea, vede nella vita del corpo l'infelicità stessa, e nella morte il bene ultimo, il riscatto dalla colpa d'esser nati, il dissolvimento dell’io e la reintegrazione nell'Uno e nel luminoso indistinto". E quindi nell'amore-passione la possibile fusione, e il dissolvimento dell'io, la via d'accesso alla morte. Il cristianesimo è proprio il contrario, perché insegna a dire tu, e a valorizzare l’io. Con una splendida intuizione, Dante, nel XIV del Paradiso, spiega che la felicità delle anime dei beati sarà piena solo con la resurrezione dei corpi



    ma non solo perché soffrono la mancanza dei propri: essi desiderano soprattutto la resurrezione dei corpi delle persone che amarono. Non sarebbe felicità totale senza rivedere e riavere (e per sempre) "quel" sorriso che si amò, "quegli" occhi di madre che ci fecero sentire amati, "quel" volto, "quella" presenza fisica.
    C'è tutto in Dante. Spero che dopo la svolta rappresentata da Auerbach nessuno più voglia considerare la Beatrice del Paradiso solo un morto e gelido simbolo della teologia. E' invece la vera Beatrice, la donna concreta che fa ardere il cuore di Dante e gli avvampa il volto ("conosco i segni dell'antica fiamma"). Quella - come ha spiegato l'italianista Ignazio Baldelli - che in pieno Paradiso si scambia certi segni d'intesa col suo antico amore (quel Paradiso dove, peraltro, stanno dei peccatori carnali, portati per bocca da tutti sulla terra: Cunizza da Romano, la meretrice Raab, Folchetto da Marsiglia...).

    Dice il Salmo
    C'è una parola chiave nel Paradiso: "piacere". Quando Virgilio consegna Dante a Beatrice gli dice: "La tuo piacere omai prendi per duce". Era la citazione di un verso del Virgilio storico ("Ciascuno è attratto dal proprio piacere") che anche sant’Agostino citava in una sua opera proprio per spiegare l'essenza del cristianesimo: il piacere, la felicità dell'"essere attratti da Cristo". Spiegava: "Un uomo innamorato comprende quello che dico. Un uomo che abbia desideri, che abbia fame, uno che cammini in questo deserto e sia assetato, che aneli alla sorgente della vita definitiva, un uomo così sa di che sto parlando. Se mi rivolgo invece a un uomo freddo, costui non capisce neanche di cosa parlo".
    Tutta la bellezza del mondo è una scintilla della bellezza di Cristo. Il Salmo dice profeticamente: "Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo". Nota Karl Adam che anche "la fisionomia esteriore di Gesù doveva esercitare un fascino irresistibile. Un giorno una donna del popolo si lasciò sfuggire, incontenibile, questo grido di lode: 'Beato il grembo che t'ha portato e il seno che t'ha nutrito' (Lc 11, 27)". Gesù rispose che beati erano piuttosto coloro che lo seguivano. Quando Dostoevskij scrive "la bellezza salverà il mondo" è di lui che parla. "Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, Cristo, ma l'apparizione di questo essere immensamente, infinitamente bello è di certo un infinito miracolo".


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    Predefinito Re: Le radici cristiane dell'Occidente

    "Dall'aureola dell'Immacolata le dodici stelle dell'Europa"
    di Vittorio Messori
    Che sia una di quelle ironiche «astuzie della Storia» di cui parlava Hegel? Di certo, il caso è curioso. In effetti a Bruxelles, con solenne cerimonia, è stata presentata la bozza definitiva della Costituzione d'Europa. E' quella nel cui preambolo non si è fatto il nome del Cristianesimo, provocando le ben note polemiche e la protesta della Santa Sede. Ma questa stessa Costituzione, nel definire i propri simboli, ribadisce solennemente che la bandiera europea è azzurra con dodici stelle disposte a cerchio. Ebbene: sia i colori, che i simboli, che la loro disposizione in tondo, vengono direttamente dalla devozione mariana, sono un segno esplicito di omaggio alla Vergine. Le stelle, in effetti, sono quelle dell'Apocalisse al dodicesimo capitolo: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una Donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle». Quella Donna misteriosa, per la tradizione cristiana, è la madre di Gesù. Anche i colori derivano da quel culto: l'azzurro del cielo e il bianco della purezza verginale. Nel disegno originario, infatti, le stelle erano d'argento e solo in seguito hanno preso il colore dell'oro. Insomma: anche se ben pochi lo sanno, la bandiera che sventola su tutti gli edifici pubblici dell'Unione (e il cerchio di stelle che sovrasta l'iniziale dello Stato sulle targhe di ogni automobile europea) sono l'invenzione di un pittore che si ispirò alla sua fervente devozione mariana.
    E' una storia di cui circolano versioni diverse, ma che abbiamo ricostruito con esattezza già nel 1995. La vicenda, dunque, inizia nel 1949 quando, a Strasburgo, fu istituito un primo «Consiglio d'Europa», un organismo poco più che simbolico e privo di poteri politici effettivi, incaricato di «porre le basi per un'auspicata federazione del Continente». L'anno dopo, anche per giustificare con qualche iniziativa la sua esistenza, quel Consiglio bandì un concorso d'idee, aperto a tutti gli artisti europei, per una bandiera comune. Alla gara partecipò pure Arsène Heitz, un allora giovane e poco noto designer che al tempo della nostra inchiesta era ancora vivo e lucido, pur se ultra novantenne. Heitz, come moltissimi cattolici, portava al collo la cosiddetta «Medaglia Miracolosa», coniata in seguito alle visioni, nel 1830, a Parigi, di santa Catherine Labouré. Questa religiosa rivelò di avere avuto incarico dalla Madonna stessa di far coniare e di diffondere una medaglia dove campeggiassero le dodici stelle dell'Apocalisse e l'invocazione: «Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a te».



    La devozione si diffuse a tal punto nell'intero mondo cattolico da fare di quella «Medaglia Miracolosa» uno degli oggetti più diffusi, con molte centinaia di milioni di esemplari. Ne aveva al collo una di latta e legata con uno spago anche santa Bernadette Soubirous quando, l'11 febbraio del 1858, ebbe la prima apparizione della Signora, che apparve vestita proprio di bianco e di azzurro.
    Ebbene, Arsène Heitz non era soltanto uno degli innumerevoli cattolici ad avere su di sé quella Medaglia nata da un'apparizione, ma nutriva una speciale venerazione per l'Immacolata. Dunque, pensò di costruire il suo disegno con le stelle disposte in circolo, come nella Medaglia, su uno sfondo di azzurro mariano. Il bozzetto, con sua sorpresa, vinse il concorso.



    Sta di fatto che alcuni anni dopo la conclusione del concorso d'idee, nel 1955, il bozzetto di Heitz fu adottato ufficialmente come bandiera della nuova Europa. Tra l'altro, a conferma dell'ispirazione biblica e al contempo devozionale del simbolo, il pittore riuscì a far passare una sua tesi, che fu fatta propria dal Consiglio d'Europa. Ci furono critiche, infatti, visto che gli Stati membri erano all'epoca soltanto sei: perché, allora, dodici stelle? La nuova bandiera non doveva rifarsi al sistema della Old Glory, lo stendardo degli Usa, dove ad ogni Stato federato corrisponde una stella?
    Arsène Heitz riuscì a convincere i responsabili del Consiglio: pur non rivelando la fonte religiosa della sua ispirazione per non creare contrasti, sostenne che il dodici era, per la sapienza antica, «un simbolo di pienezza» e non doveva essere mutato neanche se i membri avessero superato quel numero. Come difatti avvenne e come ora è stato stabilito definitivamente dalla nuova Costituzione. Quel numero di astri che, profetizza l'Apocalisse, fanno corona sul capo della «Donna vestita di sole» non sarà mai mutato.
    Per finire con un particolare che può essere motivo di riflessione per qualche credente: la seduta solenne durante la quale la bandiera fu adottata si tenne, lo dicevamo, nel 1955, in un giorno non scelto appositamente ma determinato solo dagli impegni politici dei capi di Stato. Quel giorno, però, era un 8 dicembre, quando cioè la Chiesa celebra la festa della Immacolata Concezione, la realtà di fede prefigurata da quella Medaglia cui la bandiera era ispirata. Un caso, certo, per molti. Ma forse, per altri, il segno discreto ma preciso di una realtà «altra», in cui ha un significato che per almeno mille anni, sino alla lacerazione della riforma protestante, proprio Maria sia stata venerata da tutto il Continente come «Regina d'Europa».



    La vecchia e l’Ave Maria
    di Elena Pagetti
    L’Europa, talvolta, ha un sussulto che fa tornare a galla la “nobiltà ideale” della sua origine, la riporta a prendere coscienza di sé e della cultura che l’ha plasmata al suo sorgere.
    Una cultura rispettosa della vita, animata dalla consapevolezza della dignità della persona umana. I “padri fondatori” dell’Unione, Adenauer, De Gasperi e Schuman, auspicavano un’unione di stati laici, consapevoli delle loro radici cristiane. Lo sviluppo del seme gettato nella terra europea non ha portato i frutti che si erano auspicati. Sono stati dimenticati i popoli per favorire unicamente il mercato; le decisioni di burocrati e tecnocrati si impongono spesso a discapito della sovranità degli stati e delle tradizioni delle singole nazioni.
    Ma in questi giorni una folata d’aria fresca ha riacceso la speranza. Il Consiglio d’Europa, il 26 gennaio, ha varato un testo in cui si afferma che “deve sempre essere vietata l’eutanasia, nel senso di procedure attive o omissive volte provocare intenzionalmente la morte”.
    Una vittoria della laicità positiva. Quella auspicata da Benedetto XVI in tanti suoi interventi o in incontri con diversi capi di stato. Una possibilità in più di vita buona per tutti, anche per chi ha contrastato il testo nella sua formulazione ormai definitiva.
    Il vecchio continente, colpito da una profonda crisi di fede, dal rifiuto del cristianesimo e dalla perdita del senso religioso, ogni tanto sembra ricordarsi che il relativismo dominante, l’indifferentismo diffuso e il conseguente nichilismo non rispondono alle istanze dell’umano. È un riaffiorare dell’antica memoria tra i vapori della dimenticanza.
    Viene alla mente la vecchia serva dell’Innominato, nel XXI capitolo de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni. Questa donna, ormai anziana, dopo una vita trascorsa tra le mura del castello, s’era avvezza al male, al vizio e all’uso della forza. Quando il suo padrone la chiama per ordinarle di infondere coraggio alla povera Lucia che giungeva prigioniera nel suo castello, si rende conto di non sapere più cosa significhi infondere coraggio a una creatura. “Hai tu mai sentito affanno nel cuore? hai tu mai avuto paura?”, le chiede, adirato dalla sua stessa inquietudine, l’Innominato. In effetti, era proprio così. La vecchia non ricordava di aver provato questi sentimenti. Ma accadde un fatto che la ridestò. Fu un’invocazione disperata, pronunciata da Lucia tra le lacrime: “in nome di Maria Vergine…!” a questo punto accadde l’imprevisto, quello che nessuno si sarebbe mai aspettato. “Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne’ primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un’impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino”. Il nome di Maria riportò la luce nel cuore e nella mente della vecchia, un punto di memoria e di innocenza.
    C’è da sperare che anche alla vecchia Europa si accenda la memoria di “quel nome santo e soave”. Che le dodici stelle dorate che campeggiano sullo sfondo azzurro della bandiera europea, memoria inconsapevole delle dodici stelle che circondano il capo della Vergine, tornino a risplendere di luce.
    Alza lo Sguardo: La vecchia e l’Ave Maria


 

 
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