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Discussione: Scrittori conservatori

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Comunista franchista e ateo santo, il reale surrealismo di Buñuel
    Rivoluzionario ma timoroso di ogni rivolta, considerava il Caudillo "un tipo stupendo". Negatore di Dio, credeva nei miracoli
    Gabriele Morelli
    È talmente noto l'ateismo professato da Luis Buñuel che potremmo ricorrere a una greguería (una specie di capriola verbale) di Ramon Gómez de la Serna per dire che il grande cineasta spagnolo «non ha neppure l'osso sacro».
    Del resto è conosciuta la sua furia iconoclasta contro ogni dogma morale e religioso, in particolare quello cattolico. Ebbene, nel massiccio libro di Max Aub appena uscito in Spagna, Luis Buñuel, novela (Editorial Cuadernos del Vigía, pagg. 604 con accluso dvd, euro 40), che raccoglie interviste e riflessioni critiche sull'opera dell'autore e il movimento d'avanguardia, il motivo è in parte superato o è visto in modo diverso.
    Buñuel è un ateo convinto? Lo sembra, risponde l'amico scrittore, «ma il suo tema è la religione». Aub crede che il problema maggiore di Luis sia quello della fede, «la fede intesa secondo la religione cattolica, apostolica e romana». Il maestro surrealista non cessa di essere un ateo, però a poco a poco «diventa un eretico». Infatti occorre ricordare la sua intensa educazione religiosa, risultato del cattolicesimo intransigente di sua madre che lo adorò e non mancò di fornirgli generosi aiuti economici; ed ancora la sua formazione borghese, la sua concezione reazionaria della famiglia dove la donna, nel suo caso la moglie Jeanne, mai partecipa alle riunioni in casa con gli amici. Le sue affermazioni possono sembrare elusive poiché sovente rispondono ai quesiti, come dire, in modo buñuelesco. Ad esempio quando, interrogato sulla presenza dell'elemento religioso nella sua opera, replica: «Sai che non ho per Gesù Cristo nessuna simpatia, nutro invece un grande rispetto per la Madonna». Conclude Aub: «Buñuel è anticlericale, ma non anticattolico».
    Sulla guerra civile spagnola - alla quale non partecipa ma auspica l'avverarsi di atroci nefandezze («incendi di conventi, guerra, assassini») - Luis dichiara: «Al solo pensiero del conflitto, morivo di paura, ed inoltre ero contrario». Sull'appello alla partecipazione armata, dice: «Sono un rivoluzionario, ma la rivoluzione mi spaventa. Sono un anarchico, ma totalmente contrario agli anarchici».
    Esistono anche dubbi sulla sua adesione al comunismo, che egli comunica ad André Breton nella lettera del 6 maggio 1932. In età avanzata, sull'argomento afferma in modo categorico: «Non sono mai stato comunista. Né del partito francese né di quello spagnolo, la politica non mi interessa». Aub fornisce la seguente spiegazione: Luis aderisce al comunismo per lealtà con i compagni surrealisti per i quali l'impegno marxista era un imperativo; ciò però non spiega il loro entusiasmo verso il maestro spagnolo che, sebbene circondato da marxisti e simpatizzanti, propone un'opera che ignora completamente l'ideologia comunista. Sempre il nostro scrittore valenziano osserva: «Nessun film di Buñuel è stato proiettato nei Paesi socialisti, dai quali non ha mai ricevuto un riconoscimento».
    Il produttore francese Serge Silverman, che ha collaborato a lungo con il grande regista, è ancor più radicale: «Buñuel non è mai stato anarchico né comunista ma, nel suo fondo, è un vecchio liberale ottocentesco». Del resto Luis, come lui stesso riconosce, più che leggere i libri canonici dell'ideologia marxista si interessa alla vita dei santi, ed è uno dei pochi a credere ciecamente nel miracolo di Calanda, suo paese natale dove, raccontano le cronache, la sera del 29 marzo 1640 il giovane Miguel Juan Pellicer, devoto della Vergine del Pilar, si addormentò con una gamba sola e al mattino si svegliò con tutte e due. Buñuel rivela che suo padre fece costruire un carro con la statua di Miguel, portata in processione ogni 29 marzo dai suoi braccianti. E in uno slancio di campanilismo proclama: «Al confronto di Calanda, Lourdes è un luogo mediocre».
    L'atteggiamento anticonformista di Buñuel, ribelle a ogni convenzione estetica e morale, comprende anche una visita a Francisco Franco. «È un tipo stupendo. - dichiara a Max - Con una visione fenomenal. Molto simpatico. Abbiamo parlato per mezz'ora. Quello che più mi è piaciuto è stato il momento del nostro congedo: si avvicinò alla porta e gridò: “Carmencita (la moglie di Franco, ndr), prepara un tortilla con chorizo per Buñuel che va via!”».
    Data la brusca sincerità dell'uomo, è difficile considerare queste confessioni delle mere boutades, come quando dice che non ama il cinema e che va a vederlo solo in occasione del film di un amico. Di certo l'amicizia, insieme al senso di mistero che Buñuel esplora quale evento religioso, è il sentimento che meglio caratterizza la personalità del grande cineasta. Anche di fronte alla burrascosa relazione vissuta con Dalí, che lo denuncia come comunista alle autorità degli Stati Uniti dove egli sta lavorando, confessa: «Sì, un giorno chiamai Dalí a New York per rompergli il muso, ma alla fine abbiamo finito per bere insieme champagne».
    Con García Lorca, per nulla considerato un grande poeta ma solo un uomo straordinario, il rapporto fu ugualmente difficile, soprattutto dopo l'uscita del film Un cane andaluso, nel cui titolo Federico vide una chiara allusione alla sua persona. Jean, il figlio di Buñuel, in un incontro personale ha raccontato che il padre, mentre girava a Toledo le scene di Viridiana, gli chiese di accompagnarlo in macchina a Granada e da lì fino ai dirupi di Víznar, dove Lorca fu assassinato. «Percorremmo il tragitto lentamente e in silenzio - disse -, alla fine papà, con voce roca, sospirò: “Conoscendo la sua paura della morte, non riesco ad immaginare quanto deve aver sofferto Federico in quei momenti”». Un atto che nobilita il rude Buñuel, fustigatore di ogni teologia, ma assiduo frequentatore fino all'ultimo di frati e prelati che lo amano e lo stimano. Non a caso Max Aub, mentre prepara questa biografia, dichiara di non aver trovato nessun religioso che parli male di lui. Insomma una specie di annunciata redenzione e beatificazione dell'eretico Buñuel.
    Comunista franchista e ateo santo, il reale surrealismo di Buñuel - IlGiornale.it



    "Era un anticlericale, un rojo", ricorda un vecchio del villaggio, "ma alla Virgen era devoto, e ancor più al Gran Milagro. Ogni anno tornava qui per la Settimana Santa, ovunque si trovasse". Già, perché nella settimana santa Calanda si trasforma: la gente scende in piazza e, per due giorni e due notti, picchia ininterrottamente sui tamburi per ritmare il terremoto che secondo i vangeli avrebbe accompagnato la morte di Gesù.
    In un'intervista Bunuel -figlio di un ricco notabile calandino- rivela che un suo avo acquistò le stampelle di Juan Pellicer e ne ricavò delle bacchette per i tamburi. Era davvero ossessionato, da quella gamba, Bunuel. Nel film "Tristana" del 1970 racconta la storia di una donna zoppa, della sua gamba amputata e della protesi ortopedica che l'ha rimpiazzata. E Catherine Deneuve, la protagonista, passa e ripassa davanti a un inesistente negozio di Toledo che vende gadget mariani del Pilar. In un'altra Intervista, il regista rivela che suo padre aveva fatto costruire un carro con la statua di Miguel, portata in processione ogni 29 marzo dai suoi braccianti. Esalta addirittura la "saldezza granitica" del miracolo e, In un empito di campanilismo, aggiunge: "Al confronto di Calanda. Lourdes é un luogo mediocre''.













    LA SERA DEL 26 FEBBRAIO 2014 E’ MANCATA LA POETESSA ELENA BONO
    Ieri sera alle 20.20 è mancata la poetessa Elena Bono, terziaria francescana.
    Residente a Chiavari, è deceduta nell’Ospedale di Lavagna.
    Le sue condizioni di salute sono state discrete fino a un mese fa. Poi, lunedì 24 Febbraio è stato necessario il ricovero nell’ospedale di Lavagna e dopo soli due giorni è passata alla vita eterna.
    E’ stata lucida fino a ieri, riconoscendo le nipoti Maria Alberta e Francesca e i pochissimi amici intimi che l’hanno potuta salutare.
    Ha ricevuto tutti i conforti materiali, morali e spirituali fino alla fine, ricevendo ogni mattina la S. Comunione da Padre Pierluigi Canobbio, assistita anche dalla sua badante Stefania, che l’ha accudita per diversi anni con tanta premura e professionalità.
    “Si è preparata a lasciare questo mondo da vera cristiana – scrive Padre Conobbio in una nota – dando un esempio ed una testimonianza di fede autentica e di cristiana sopportazione dell’infermità che l’affliggeva da anni”.
    LA SERA DEL 26 FEBBRAIO 2014 E' MANCATA LA POETESSA ELENA BONO - Liguria Notizie

    Addio a Elena Bono
    Debora Badinelli
    Chiavari - Lutto nel mondo della cultura. Ieri sera all’ospedale di Lavagna è morta la poetessa Elena Bono. Aveva 92 anni.
    Poetessa, scrittrice, autrice di opere teatrali e di critiche d’arte, era nata a Sonnino il 29 ottobre 1921. Figlia di un noto studioso di letteratura classica, Francesco Bono, e di Giselda Cardosi, ha respirato poesia fin dall’infanzia, trascorsa a Recanati dove ha instaurato uno speciale legame con l’animo poetico di Leopardi, che lei chiamava confidenzialmente “Giacomino”.
    Sorretta da una fede profonda (era terziaria francescana) ha chiesto di essere sepolta con lo scapolare francescano nonché con l’inseparabile rosario. «Lucida fino a martedì, ha ricevuto tutti i conforti materiali e spirituali fino alla fine – spiega Stefania Venturino, amica e press agent di Elena Bono. Si è preparata a lasciare questo mondo da vera cristiana, dando un esempio e una testimonianza di fede autentica».
    Un ricordo affettuoso arriva anche dall’assessore alla Cultura di Chiavari, Maria Stella Mignone. «Sono sempre stata vicina a Elena Bono e al marito – dice - Il mio sogno è far entrare le opere della poetessa nelle antologie scolastiche. Per la prossima estate avevo già concordato una serie di letture di Elena Bono. Purtroppo saranno postume».
    Lavagna - Addio a Elena Bono, poetessa leopardiana | Liguria | cultura | Il Secolo XIX

    Addio a Elena Bono, scrittrice di un suo «Quinto Evangelio»
    Massimiliano Castellani
    Una preghiera, prima dell’addio dolceamaro: chi non l’ha mai conosciuta, né sentita nomina*re prima, da oggi provi a cerca*re, ma soprattutto a leggere, i libri di E*lena Bono. A 93 anni (era nata a Sonni*no nel 1921) all’ospedale di La*vagna nella serata di mercoledì è volata via la voce femminile (segue di poco l’ad*dio a Eugenio Corti) più originale e an*che la più “dimenticata” della letteratu*ra di matrice cattolica.
    «Una notte che ero molto malata, im*provvisamente, aprii gli occhi e vidi di spalle una figura umana. Pensai sgo*menta: hanno fatto del male a que*st’Uomo... Lo riconobbi: era Gesù fla*gellato. Il suo volto raccoglieva tutto il dolore del mondo. Da quello sguardo è scaturito Morte di Adamo». Così, poco tempo fa Elena Bono spiegò ad “Avvenire” la gestazione di quel libro epocale, edito da Gar*zanti nel 1956 e poi fini*to ingiustamente nel di*menticatoio. Una perla d’autentica narrativa a sfondo religioso (come tutti gli otto racconti bi*blico- evangelici che lo compongono) che Emi*lio Cecchi salutò come un capolavoro: «Vent’anni in anticipo – scrisse il critico – sul Quinto Evangelio di Mario Pomilio (pubbli*cato nel 1975) e su tutto il filone da esso discen*dente delle riscritture della Buona Novella».
    Una poetica in odore di misticismo quella della Bono, convinta dal profondo del suo buon cuore di non aver mai scritto un solo rigo, del*la vasta e ancora ignota bibliografia, se non sot*to dettatura della “Vo*ce”. «È quella “Voce” che mi presenta i personag*gi dei miei libri e io ho solo il compito di deci*frare i loro pensieri, le diverse lingue in cui si esprimono per poi tra*scriverle», raccontava dal suo piccolo regno di ricordi santi e civili: la palazzina liberty affacciata sul mare di Chiavari, dove oggi - alle 15.30 - nella cattedrale di Nostra Signora Dell’Orto si celebreranno i funerali.
    Con estrema lucidità, seduta alla pol*trona del suo salotto letterario (l’unico salotto che ha frequentato) amava in*contrare le persone desiderose di con*frontarsi con la «Storia» che l’aveva vista impegnata in prima linea come “poe*tessa della Resistenza”. Memorie parti*giane che racconta nel Fanuel Nuti che non si può non far leggere nelle scuole. «Con la mia trilogia Uomo e superuomo (conclusa dal tomo del Fanuel Nuti) ho voluto raccontare anche la guerra vista dalla parte tedesca».
    Luchino Visconti guardò con vivo interesse al testo del ro*manzo Una valigia di cuoio nero, al pun*to da volerne fare un film. «Poi non se ne fece nulla, ma una sera, a casa di Emilio Cecchi, Visconti disse che il mio Ippoli*to (testo teatrale edito da Garzanti nel 1954) gli aveva ispirato il personaggio di Rocco per Rocco e i suoi fratelli», rac*contava orgogliosa la Bono che amava il cinema, così come ha sempre avuto una spiccata simpatia per i giovani ve*nendone ricambiata. Lo dimostrano le tesi di laurea, che in questi anni comin*ciano a a proliferare. Merito anche del*le faticose ristampe dei suoi libri, a ope*ra della piccola e generosa casa editrice di Francangelo Scapolla, Le Mani di Rec*co, che dagli anni ’80 ha pubblicato l’o*pera omnia di colei che non amava sen*tirsi chiamare “autrice”.
    Eppure proprio ora che ci lascia si se*gnalano in aumento le voci critiche che la considerano tale: «Autrice con la “A” maiuscola», dice la ricercatrice Stefania Segatori, che con Giuseppe Langella, do*cente all’Università Cattolica di Milano, da tre anni sta curando una biografia monumentale sulla figura e le opere del*la Bono. Oggi, assieme ai suoi pochi ma resistenti lettori, la piangono le tradut*trici Isabel Quigley (in*glese), Georges Piroué (francese), Marta Ber*telli (francese), Febo Delfi (greco), Nanny Nilsson (svedese), Jaime Berenguer Amenos (spagnolo), Jorge de Se*na (portoghese), Issa Naouri (arabo).
    «Loro testimoniano quanto Elena sia forse stata più apprezzata al*l’estero che non in Ita*lia», spiega Stefania Ven*turino, amica e sodale della Bono, con cui col*labora fin dal 1990 per la riscoperta e la valo*rizzazione della sua o*pera letteraria. Un vuoto da colmare crea*to dalla critica irregi*mentata che nella Bono, come ha sottolineato il critico Giovanni Casoli, ha visto u*na «ex lege, fuori dal*l’industria culturale».
    La Garzanti all’epoca, nonostante le buone re*censioni di Morte d’A*damo preferì puntare tutto su Pier Paolo Pa*solini, il quale quando lesse il testo teatrale La testa del Profeta (pub*blicato nel 1965): anche lui, come Visconti, vole*va portarlo sul grande schermo. Ma la Bono, fiera, sia pur con rispetto, rispose negativamente: «Ognuno vada per la sua strada...».
    Era ferma e coeren*te con le sue idee, sorretta fino all’ulti*mo soffio di vita da una fede profonda. Una spiritualità vissuta a pieno da ter*ziaria francescana che gli faceva dire: «Senza l’esperienza religiosa, l’uomo è u*na bestia, allora tanto vale non essere mai nati». Era nata per incantare e par*lare con gli angeli, e invece gli è toccato un destino dolceamaro come questo ri*cordo, di donna che ha dovuto combat*tere tra pene e oblio per non diventare un’ombra agli occhi della pubblica ot*tusità.
    Per il suo contributo letterario e per a*ver combattuto contro tutte le banalità del male del secolo scorso, anche per il vescovo di Reggio Emilia Massimo Ca*misasca merita il giusto, anche se tardi*vo, riconoscimento: «Sappiamo che su*bito, la sua morte ci invita a riprendere in mano le sue pagine, dove non ci so*no parole di troppo e dove è raccolto tut*to il viaggio esaltante dell’uomo e il suo dialogo drammatico con il Mistero».
    Addio a Elena Bono, scrittrice di un suo «Quinto Evangelio» | Cultura | www.avvenire.it

    24 luglio 2009
    La Bono contro Machiavelli
    Stefania Venturino
    Da oggi a mercoledì la Festa del Teatro di San Miniato proporrà in anteprima mondiale un dramma di Elena Bono: “La testa del profeta” per la regia di Carmelo Rifici. Si tratta della terza opera teatrale della scrittrice presentata dall’Istituto del Dramma Popolare, il più antico d’Italia, FONDAZIONE ISTITUTO DRAMMA POPOLARE SAN MINIATO, dopo la messa in scena di “Le spade e le ferite” nel 2000 per la regia di Ugo Gregoretti e di “I Templari” nel 2002 per quella di Pino Manzari.
    Nonostante la Bono resti poco conosciuta al grande pubblico, è considerata “la scrittrice più importante della seconda metà del XX secolo”, secondo Giovanni Casoli in “Novecento letterario italiano ed europeo” (Città Nuova, 2005) e il suo “Morte di Adamo”, tradotto in molte lingue, è considerato anche all’estero un capolavoro.
    Sulla rivista La civiltà cattolica del 20 giugno, Ferdinando Castelli così scrive: “Quando ci si immerge nella lettura delle opere di Elena Bono si avverte l’atmosfera della grande letteratura, cioè dello scontro tra il bene e il male, la vita e la morte, la libertà e la responsabilità, Dio e il nulla. L’uomo si scontra con le domande radicali sulle quali si gioca il suo destino. E alcuni nomi rimbalzano subito alla mente: Euripide, Sofocle, Dostoevskij, Gertrud von Le Fort. Sulla scia di questi classici, la Bono accosta i suoi personaggi con singolare introspezione psicologica e pietà cristiana, li ascolta, li scruta, li insegue nelle tortuosità della loro anima e delle loro scelte. Ne viene fuori una galleria di gente dall’anima ferita, che urla il suo dolore, sgomenta del suo destino, sollecitata dal richiamo del nulla e della speranza.”
    “La testa del profeta” racconta il dramma della decapitazione di Giovanni il Battista, che non compare mai sulla scena e che pure fa sentire tutta la sua presenza e importanza morale proprio attraverso i dialoghi fra coloro che, tutti insieme, anche se a vario titolo e con scopi diversi, concorrono a decretarne la morte. I personaggi, anche se mossi dalle più diverse passioni, agiscono sempre lucidamente, sul filo di una dialettica serrata che invita il lettore a un ascolto profondo e responsabile, che interpella la coscienza. «È una partita a scacchi giocata con freddezza da tutte le dramatis personae» dice l’autrice «e la posta in gioco è proprio la testa di Giovanni. Come provocazione al mio estro stanno le parole famose di Machiavelli: “Tutti i profeti armati vinsero e i disarmati ruinarono”. Profeta armato per Machiavelli è Mosè, profeta disarmato è espressamente, per Machiavelli, Gerolamo Savonarola, che egli vide sul rogo con raccapriccio e riprovazione di uomo politico. E a questo punto mi sono fatta una domanda: e Gesù Cristo? Vincitore o vinto? E cosa dire degli stessi personaggi del dramma? È un vincitore Erode? E il sacerdote Anna? E Salomè? La piccola volpe emergente su tutto questo convegno di volpi senza pietà e senza pentimento possibile. Ma tutto» avverte la scrittrice «viene trasceso da quel senso di agonia spirituale condensato nella figura di Daniele, in cui si esprime il senso stesso della vita cristiana, così come espresse Pascal: il cristiano è colui che veglia nell’orto degli ulivi fino alla fine del mondo. Di fronte a questa grandezza sublime a cosa si riduce la furbizia del mondo? Tutte le sue trame, e lo scopo finalmente conseguito di far cadere la testa di Giovanni, a una misera partita di ragazzi cattivi e stolti, marchiati per sempre dal sangue dell’innocente sacrificato. Machiavelli o Pascal? Il lettore e lo spettatore devono prendere a loro volta una posizione».
    «Scrivendo questo dramma» conclude la Bono «ho voluto rispondere cristianamente a Machiavelli: i profeti disarmati possono vincere più di quelli armati, perché Gesù non aveva armi, anzi dalle armi è stato ucciso. Eppure era l’arma dello spirito che contava, e conterà sempre, nonostante tutto».



    O il nulla o il tutto
    È tra i più importanti autori italiani del Novecento. Eppure dimenticata dalla grande critica.
    ELENA BONO ripercorre la sua opera e la sua vita. Vissute di fronte a un aut aut estremo.
    Carlo Dignola
    A 91 anni, Elena Bono è uno dei pochissimi importanti scrittori italiani del Novecento ancora in vita. La sua è una lingua ricca, affascinante, fitta di citazioni storiche, classiche, filosofiche. Per Stas’ Gawronski è la maggiore autrice del Dopoguerra. Il critico Giovanni Casoli l’ha definita «la più grande scrittrice vivente, anche se è stata oscurata dalla situazione attuale della critica». Dimenticata dai giornali e dalle antologie perché molto lontana dal mercato culturale: «È una scrittrice della realtà».
    La sua opera è stata tradotta in inglese, francese, spagnolo, portoghese, arabo, svedese, greco. Nata a Sonnino nel 1921, esordì nel 1948 con la raccolta di poesie I fenicotteri. Il suo primo libro di narrativa, Morte di Adamo, uscì per Garzanti, nel 1956: fu un grande successo, anche a livello internazionale. Nice-Matin la salutò come «una rivelazione della letteratura italiana», il Daily Telegraph parlò di «una qualità numinosa» del testo.
    Il primo romanzo della Bono, Come un fiume come un sogno, è un gioiello nascosto della letteratura italiana recente. Garzanti non si decise mai a pubblicarlo e uscì presso Emme Edizioni solo nel 1985; oggi, insieme a tutte le altre sue opere è disponibile grazie alla piccola casa editrice genovese Le Mani.
    Il secondo romanzo si intitola Una valigia di cuoio nero (1998), ed è la storia di una giovane SS, di nome Tycho. Figlio dell’alta borghesia tedesca, diviene un fervente nazista. Egli in realtà disprezza i seguaci di Hitler, ma è malato, sia pure in modo nobile, dello stesso loro male: il nichilismo. Per questo segue la svastica, una ruota che va contro il cammino del sole, nel senso della morte anziché della vita. E la grande cultura tedesca - quella di Leibniz, Kant, Hegel - si affaccia sull’orlo del baratro. L’ultimo episodio della trilogia, Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio (uscito in due volumi, nel 2002 e 2003) è la storia del figlio di una prostituta che, al termine della vita, da un letto di ospedale racconta di sé.
    Più conosciuta e rappresentata è la sua opera per il teatro: La grande e la piccola morte (Garzanti 1965), dedicata a Giovanna d’Arco, nel 2000 è stata in cartellone per un mese intero a Parigi.
    Elena Bono vive a Chiavari in una casa d’inizio Novecento, ingombra di libri e di memorie. Ormai non vede più e sente molto poco. Attorno al suo letto, però, c’è una gran aria di festa. Un giorno passa a trovarla un prete, un altro i ragazzi delle scuole liguri, che restano colpiti dalla personalità di questa donna dura e cristallina come una pietra restata a concentrare le sue molecole per millenni sotto la terra...
    Negli anni Sessanta Pasolini lesse il suo racconto La testa del Profeta, su Giovanni Battista, e le chiese di poterne trarre un film.
    Mi fece telefonare da un factotum del cinema italiano, un’eminenza grigia, un certo “commendatore”, che si entusiasmò: mi scrisse una lettera meravigliosa, promise mari e monti...

    Lei però rifiutò l’offerta, dichiarando che non le sembrava il caso di celebrare «questo tipo di nozze mistiche».
    A Pasolini non perdonavo che lui, fratello di uno che era stato ucciso, con tutta la Brigata Osoppo, dai comunisti, facesse il comunista.

    Rinunciò.
    Nel suo Vangelo secondo Matteo però ha alluso a quell’idea: mette sullo sfondo la danza di Salomè, e ne fa una ragazzina leggiadra, vestita di bianco, con la corona di rose in testa, un po’ come l’ho descritta io. L’ha presa dal mio libro perché è del tutto diversa dalla solita Salomè sensuale che fa la danza del ventre...

    Lei mette in scena molti personaggi dei Vangeli, di cui è andata ricostruendo con la fantasia la storia. Cosa l’ha spinta a cercare di immedesimarsi in loro?
    I Vangeli stessi.

    Le guardie del Sepolcro, il proprietario del Cenacolo, Cusa, primo ministro di Erode, la figlia di Giairo, la suocera di Pietro... sono spesso figure di secondo piano.
    Questo le rende più interessanti.

    Hanno un’aria credibile.
    Erano personaggi in cerca di autore. Sono venuti a cercarmi loro.

    Anche secondo lei, come per Pirandello, non è l’autore che inventa un personaggio, ma il personaggio che trova un autore per potersi esprimere?
    Un’opera d’arte non è qualcosa che si costruisce a tavolino. Io ho... registrato. La letteratura è sempre stata qualcosa che mi succede.

    In diverse poesie ha cercato di immedesimarsi invece nella Madonna. Una Maria molto giovane.
    «So di una ragazzetta che lavava lavava...». «Ecco già la fanciulla, viso d’oliva, muove che appena è l’alba alla fontana...». La fontana è Dio. Sorgente di Grazia, di vita.

    Lei ha un profondo rispetto, una sorta di venerazione per la lingua.
    Gesù è uno che dice pane al pane e vino al vino: «Dite sì sì, no no», raccomanda.

    Ha cercato di vivere con questa nettezza.
    Sempre. Tutta la mia vita è centrata nel fatto che Gesù stesso s’è voluto chiamare “la Parola”: Verbum. Io, da cattolica, ho sempre avuto un rispetto enorme, un sacro terrore della parola. Per questo, scrivendo, ho sempre rifiutato gli sperimentalismi. Dalla Scapigliatura in poi, invece, è stato un continuo violentarla.

    Ha avversato questa tendenza, l’ha combattuta.
    Sì. E mi è costato.

    Si è creata delle antipatie nel mondo letterario.
    Uhhh... Sa... È logico: chi va per la sua strada non s’imbranca. E trova molti sassi sul suo cammino.

    Si è isolata o l’hanno isolata?
    Un po’ tutte e due le cose.

    Qual è il motivo vero per cui l’hanno dimenticata?
    La gente è debole: va dietro alla moda.

    Ha scritto una poesia in cui compare don Giussani, che chiama «il sorridente Illuminato». Lo ha conosciuto di persona?
    Venne lui al Teatro Cantero di Chiavari. Parlava. Dopo ho scritto questa poesia in base a ciò che lui aveva detto. È un uomo che mi ha subito colpito.

    Cosa, in particolare?
    Quello che ha detto: che bisogna imparare anche a perdonare se stessi. Occorre imparare da Dio la misericordia non solo verso gli altri ma anche verso la nostra povera persona, con tutte le sue molte miserie corporali e spirituali.

    “Misericordia” è stata una parola importante anche per lei?
    Fondamentale. Se diciamo sinceramente «Gesù mio, misericordia!», anche se abbiamo commesso i più atroci peccati, Dio ci perdona.

    Uno degli ultimi testi che ha scritto lo ha dedicato a una celebre convertita, Claudia Koll.
    È venuta qui più di una volta. Non riusciva a trovare dei testi da interpretare e mi ha chiesto se potevo fare qualcosa per lei. In un primo momento le ho detto di no. Poi ho scritto Storia di un padre e di due figli, un testo ispirato alla parabola del figliol prodigo, in cui ho immaginato una figura femminile, Lia, tagliata perché Claudia potesse andare in scena interpretando se stessa. Lei però, in realtà, fa la regia di questo che è diventato un musical, lo porta in giro con i ragazzi della sua accademia.

    I più giovani trovano spesso grande sintonia con la sua opera.
    I classici sono sempre contemporanei di quelli che verranno.

    Lei ha questo stile molto classico, infatti...
    Sa, ho tradotto Sofocle... Il contatto con i grandi scrittori antichi giova.

    C’è qualche autore del Novecento italiano che ha stimato?
    Ungaretti. Piovene. Bassani mi piaceva... Cassola no.

    A più di 90 anni, come descriverebbe questo suo percorso letterario e anche di vita?
    Come un servizio. L’ho sempre considerato un servizio. Mi è costato ma mi ha dato anche grandi gioie, però. Tutte interne. Incomunicabili.

    Neppure nella scrittura è riuscita a dividerle con gli altri?
    Cerco di lasciare una parola di speranza, non di disperazione.

    A cosa serve la letteratura?
    Aiuta a vivere.

    Perché è così importante nell’esperienza umana?
    È importante l’aria? È come mangiare, bere... Se uno non ha l’arte, non è più un uomo.

    A pochi chilometri da qui abita Beppe Grillo: cosa pensa di lui?
    Badate che c’è già stato il movimento Fronte dell’Uomo Qualunque, di Guglielmo Giannini... Non è una novità.

    Si respira un’aria distruttiva, oggi.
    C’è sempre stata, dall’Eden in poi. La disubbidienza. Il serpente disse a Eva: mangia di quell’albero e sarai come Dio.

    Presunzione...
    Superbia. Comincia lì, nella prima pagina della Bibbia.

    Come si combatte?
    Credendo. E devi scegliere: o sei per Dio o sei contro Dio, non c’è una terza soluzione. Il sì e il no, il peccato e la redenzione. C’è in noi questa forza brutale dell’animale della foresta, che nella natura ha imparato anche a difendersi, ma anche ad assalire. La rivoluzione di Cristo ha ribaltato tutti i termini, ha dato il primato alla misericordia e all’innocenza.

    Lei sa mostrare anche i lati negativi dei personaggi positivi.
    E viceversa. La vita umana è luce e ombra. Globuli rossi e globuli bianchi...

    La sua opera è stata una sfida al nichilismo?
    È difficile dirlo. Io non faccio mai dei programmi, non mi sono mai detta: «Devo reagire al nichilismo». Le situazioni sono quelle che sono e l’uomo deve continuamente scegliere. Il dramma è questo: la scelta, costante, che dobbiamo fare tra la luce e le tenebre. O è un sì totale, che bisogna vivere, patire e scontare fino in fondo, oppure si è complici del male nel mondo. E la scelta non finisce mai. In punto di morte si è ancora di fronte all’aut aut estremo, il Nulla oppure il Tutto. E l’uomo in genere non sceglie il Nulla: siamo figli di Dio, dopo tutto.

    Cos’è la morte, signora Bono?
    Il momento in cui conosceremo noi stessi e i grandi misteri della vita umana.

    È sempre stata chiara per lei la sua strada?
    Sì.

    Cos’è stata la Grazia nella sua vita?
    Tutto. Non si può vivere senza la Grazia.


















  2. #72
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Illmitz, un viaggio nella memoria
    di Rino Cammilleri
    Non è facile per uno scrittore come il sottoscritto recensire un romanzo, anche se è opera di una sua cara amica e questa amica è nientemeno che Susanna Tamaro, la scrittrice italiana più famosa nel mondo. Il sottoscritto, infatti, è più a suo agio con la saggistica, di cui è stato produttore prolifico. Le rare volte in cui si è personalmente cimentato col genere «romanzo» ha optato per quello «storico», nel quale la trama fa aggio sull’introspezione psicologica e sullo stile. Il sottoscritto, per giunta, i romanzi-romanzi di solito non li legge nemmeno, neppure quando si tratta di celebrati bestseller o di «casi letterari». Perché? Perché si annoia. E, dopo qualche pagina, si chiede se valga la pena di continuare a perdere tempo, tempo che potrebbe essere più utilmente impiegato per leggere un saggio. Di solito non legge neppure i romanzi storici, perché è difficile che di effettivamente storico abbiano qualcosa: il più delle volte parlano male della Chiesa e rimescolano i triti luoghi comuni settecenteschi su Medioevo, Inquisizione, Crociate e compagnia brutta (sai la fantasia…). Se volete un consiglio, quando vedete titoli che menzionano manoscritti perduti, sacrigraal, confraternite misteriose, ultimi templari o antichissimi segreti che potrebbero riscrivere la storia del cristianesimo, date retta, risparmiatevi i soldi, perché se siete agnostici sarete confermati nella vostra ignoranza, se siete credenti vi verrà un fegato così.
    Epperò, un romanzo della Tamaro il sottoscritto lo legge volentieri. Innanzitutto perché il suo contenuto filosofico non offende la sensibilità di nessuno. Poi, perché quasi sempre è breve. Il sottoscritto, infatti, è un fan della concisione e, nel suo lavoro, tiene sempre presente l’aurea sinteticità del Vangelo. Impiegare cinquecento pagine per dire una, due o tre cose implica un temperamento da chiacchieroni. E i chiacchieroni difficilmente sanno ascoltare. Meno hanno da dire e più lo dicono, rivelando a un osservatore non superficiale la loro essenza di superbia autoreferenziale. Quando uno chiude un libro della Tamaro, invece, rimane colpito dalle tante cose che ha sempre avuto sotto il naso e sulle quali mai ha fissato lo sguardo. Ecco, la Tamaro riesce a far questo, e con poche frasi.
    L’ultimo suo romanzo, Illmitz, in verità è il primo, quello, come si dice, d’esordio, che solo ora viene pubblicato. La trama è presto detta, anche se nei romanzi della Tamaro la trama è come la stecca nell’ombrello: serve a reggere la tela che ripara dalla pioggia, ma è la tela l’importante. Illmitz è una cittadina di confine tra Austria e Ungheria. Qui viveva la famiglia di un giovanotto residente a Roma. Questi decide di visitarla per cercarvi le sue radici e, in qualche modo, ovviare al senso di solitudine e inadeguatezza indefinita che lo pervade. Ci sta pochi giorni, poi se ne va. Tutto qui. Quel che viene narrato, in realtà, è un viaggio nella memoria, nei sogni e pure negli incubi, tra i ricordi delle persone care, quelle vive e quelle morte. E non manca l’amore per la natura, vera passione personale dell’autrice. Il sottoscritto ha sempre invidiato coloro che hanno questa inclinazione, che poi era quella di san Francesco. Chi ama davvero la natura è naturaliter religiosus, perché il Creato parla del Creatore (come ben sapeva il già nominato san Francesco). Certo, anche la natura può diventare un –ismo, generando ecologisti fanatici e animalisti odiatori dell’umanità. Ma se uno sfugge alla trappola del panteismo secolarizzato, la natura lo forma, e lo forma bene, insegnandogli ad amare la vita e, soprattutto, a stupirsene.
    Il sottoscritto è cresciuto in campagna, tra contadini e bestie, e ha constatato che un bambino in campagna non ha alcun bisogno di giocattoli, cosa che parifica il ricco al povero. Poi, però, la città gli ha preso la mano e ormai ne è un topo (pensate che adora i film di fantascienza, in cui la gente vive in ambienti di acciaio e plastica), tant’è che sta a Milano. Ed è in città che la differenza tra ricchi e poveri la vedi, la vivi e la subisci. In modo tanto più lancinante quanto più appartieni alla seconda categoria. Leggendo la Tamaro si percepisce il giusto amore per la natura, e ciò incute al sottoscritto un sottile senso di nostalgia. Certo, i topi di città si trovano in qualche imbarazzo nell’imbattersi in nomi di animali e piante mai sentiti (da loro). Chissà, forse è l’occasione buona per cercarli sul dizionario e «vederli» con l’immaginazione.
    E ricordare quel che scriveva sant’Agostino a proposito della natura: elefanti, cammelli, rinoceronti, aironi ci dicono di guardarli, perché sono belli. Altro richiamo, per converso, a L’esorcista, il film-cult degli anni Settanta. Il giovane prete scettico chiede all’indemoniata: se sei il diavolo, dacci qualche prova dell’esistenza di Dio. E quella risponde: le prove le avete tutte intorno a voi, ed è per questo che siete dannati. Per non farla lunga, anche per i continui (ma mai stancanti o stucchevoli) riferimenti alla natura la letteratura di Susanna Tamaro è, per il sottoscritto, edificante. Sì, il termine è obsoleto e, di questi tempi, forse anche controproducente. Ma non ce n’è un altro. Il resto sarebbe solo critica letteraria (cioè, chiacchiere), e il sottoscritto, come anticipato, non sa farla.
    Illmitz, un viaggio nella memoria



    ll latinista del Vaticano rimpiazzato da due atei
    "Oh miram urbanitatem! Non sono stato neppure avvisato. E pensare che ho girato il mondo intero per far conoscere la lingua della Chiesa"
    Stefano Lorenzetto
    Del nuovo premier che cosa pensa? «Matthaeus Renzi est homo novus. Quare difficillimum est quae velit praevidere. È un uomo nuovo. Per la qual cosa è difficilissimo prevedere che cosa voglia». Ma questo Paese si salverà? «Itali moribundi sunt. Gli italiani sono moribondi. Anzi, corregga. Itali perituri sunt. Meglio». È dura, senza l'ausilio di un traduttore simultaneo, intervistare il professor Victorius Ciarrocchi, all'anagrafe Vittorio, nato 75 anni fa a Pesaro e qui residente, insigne latinista, già docente nei licei classici di Pesaro e Fano e allo scientifico di Senigallia. Per fortuna sopperisce il medesimo Ciarrocchi, che, collaborando da molto tempo al Resto del Carlino, ben conosce l'asinaggine media dei giornalisti.
    Ancora più dura è pretendere che l'insegnante in pensione - due lauree, giurisprudenza e filosofia, e una terza in medicina conseguita per cultura personale - non si esprima ogni due per tre in quella che considera la lingua più viva del pianeta, anche se un po' acciaccata: «Deus latinam linguam custodiat».
    Ciarrocchi figurava con altri 10 capoccioni di varie nazionalità nel Collegium libellis conficiendis (il comitato direttivo) di Latinitas, rivista fondata nel 1953, edita dalla Santa Sede. Con sua grande sorpresa, di recente lo studioso pesarese s'è visto arrivare a casa per posta un numero doppio nel quale era stato depennato non soltanto il suo nome ma anche quello del moderator, il direttore, Cletus Pavanetto, al secolo don Anacleto, sacerdote salesiano, rimosso dall'incarico per far posto al professor Ivano Dionigi, presidente della Pontificia Academia Latinitatis, cui è stata affidata la cura della pubblicazione, nel frattempo trasformata da quadrimestrale in semestrale. «Oh miram urbanitatem! Che educazione! Estromesso a mia insaputa. Nessuno mi ha comunicato nulla».
    Non posso crederci.
    «È così. L'ho scoperto quando il portalettere mi ha recapitato il fascicolo. Eh sì, perché negli ultimi 30 anni ho sempre pagato anche l'abbonamento a Latinitas, sarò poco fesso?».
    Com'è potuto accadere?
    «Vado per intuizione. Il nuovo direttore, che è anche rettore dell'Università di Bologna, mi detesta. Così in Latinitas ha preferito coinvolgere Massimo Cacciari e Luciano Canfora, due atei. Sul sito della Città del Vaticano leggo che la rivista è “redatta completamente in lingua latina”. Peccato che il professor Dionigi abbia esordito con un editoriale lungo 5 pagine scritto in italiano, a parte le prime 14 righe, che erano, bontà sua, in latino. Su 222 pagine, ne ho trovate solo 23 nell'antica lingua. Tutto il resto in italiano e francese, con citazioni persino in olandese. Aspetto impaziente l'inglese».
    Ma perché il nuovo direttore di Latinitas ce l'avrebbe con lei?
    «Ovunque vada nel mondo, non manco mai di ricordare che il 22 luglio 1998, sulle pagine del Resto del Carlino, il professor Dionigi, allora ordinario di letteratura latina, scriveva che “il latino è lingua morta”. E si compiaceva, con Thomas Stearns Eliot, del fatto che fosse “irrimediabilmente e fortunatamente morta”. Parole non ci appulcro, direbbe Dante: abbellirebbero solo lo scempio».
    Andiamo bene.
    «Brava persona, Papa Francesco. Ma basta ascoltare come recita l'Angelus per capire che il latino non lo sa. Il suo predecessore Benedetto XVI sì che lo conosceva bene. Ne ho avuto conferma quando nel 2005 mi ricevette in udienza con il direttore e gli altri curatori di Latinitas».
    La Chiesa non è più l'ultimo baluardo del latino?
    «Il 90 per cento dei preti usciti dai seminari dopo il Concilio l'ha studiato poco e male. Dice Vittorio Messori che Paolo VI pianse firmando la riforma liturgica del 1969 che aboliva il latino. Lacrime giustificate, visti i risultati. L'invocazione “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi” tradotta in “Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo” è una bestemmia linguistica e teologica. Cristo non è venuto a togliere i peccati, ma a perdonarli. Il verbo tollit in quel contesto significa “prende su di sé”».
    Per quanti anni ha lavorato negli istituti superiori?
    «Non molti: 24. Le materie che insegnavo, storia e filosofia, erano il principale bersaglio della contestazione studentesca. Passavo per fascista perché chiedevo la giustificazione agli assenti. Pretendevano che parlassi della guerra nel Vietnam anziché di Napoleone».
    Perché non insegnava latino?
    «Delle tre lauree conseguite, mi mancava quella giusta per farlo. E poi io mi considero solo un latinitatis cultor voluptuarius, un dilettante di lingua latina».
    Com'è nata questa passione?
    «Leggendo sull'Osservatore Romano, nell'ottobre 1965, che la messa sarebbe stata celebrata nelle lingue moderne. Fu una coltellata alla schiena. Il giorno stesso mi rimisi a studiare il latino».
    Perché leggeva L'Osservatore ?
    «Perché Leonid Breznev al Cremlino faceva la stessa cosa. Qui a Pesaro ne arrivavano due copie: quella per la curia e la mia. Purtroppo oggi abbiamo un arcivescovo, Piero Coccia, che non ama il latino. Ha autorizzato la celebrazione della messa tridentina nel santuario della Beata Vergine del Carmine solo l'ultima domenica al mese. Bizzarro, no?».
    Se il latino è tanto importante, perché non s'insegna ai bambini?
    «La domanda le fa onore. Perché è odiato. Domina tuttora la concezione che fu espressa, in un articolo sull'Avanti!, da Pietro Nenni: “Il latino è la lingua dei signori”. Dunque andava abolita».
    Noi giornalisti non potremmo raccontare in latino il mondo d'oggi.
    «Omnia latine dici possunt. Tutto si può dire in latino. Vuole qualche esempio? Computer: ordinatrum o machina ordinatoria o computatrum. Mail: epistula electronica. Internet: Internexus o Internetum. Facebook: Prosopobiblion».
    Un assessore socialista della mia città, volendo zittire un consigliere comunale prolisso, gli fece segno di stringere serrando a intermittenza il pugno: «Per favore, brevi manu».
    «Se è per questo, in televisione m'è capitato di sentire di peggio: sine die pronunciato sain dai, all'inglese».
    Ha anche polemizzato con Corrado Augias scrivendogli in latino.
    «Fatica sprecata. A Repubblica sono irrecuperabili. Eugenio Scalfari nel 2010 scrisse: “Deus dementet qui vult pervere”. Tre vocaboli su cinque sbagliati. Persino un allievo del ginnasio sa che la frase esatta è “quem vult perdere Deus dementat”, Dio fa uscire di senno chi vuole perdere. Che sia il caso del fondatore?».
    Sullo stesso giornale Beniamino Placido sosteneva che in Italia la lingua di Cicerone è un rimorso, nel senso latino del termine: qualcosa che ti rimorde le viscere e, prima o poi, finisce per venir fuori.
    «Non mi parli di Placido. Considerava il latino una lingua morta. E noi, che ci ostiniamo a mantenerla in vita, per lui eravamo gente bisognosa dello psicanalista ».
    Il latino è prolisso, poco adatto a quest'epoca di bit, tag, sms, chat, blog, feed, link, tweet.
    «Invece è molto più sintetico dell'italiano. Prenda la frase “non c'è bisogno di fare prigionieri”. In Tacito diventa “nihil opus captivis”. Tre parole contro sei. Vogliamo stare sull'inglese, che passa per essere la lingua più concisa? “The right man on the right place”, l'uomo giusto al posto giusto, in latino moderno diventa “vir aptus apto loco”. Quattro parole contro sette».
    Io non me lo vedo Andrea Camilleri che si fuma l'ennesimo nicotianum bacillum.
    «Sigaretta si può tradurre anche sigarella o sigarellum oltre che fistula nicotiana. Nel mio libro Varia latinitatis vivae testimonia riporto 600 frasi di latino veramente vivo».
    Come vogliamo salutarci?
    «Cura ut valeas. Stammi bene».
    Una parola, dopo che mi ha descritto come moribondi l'Italia e gli italiani.
    «Cuncta fessa. Tutto è rovinato, tutto è in frantumi. Tacito».
    ll latinista del Vaticano rimpiazzato da due atei - IlGiornale.it

    ACCADE A BOLOGNA
    Antonio Socci
    A volte accadono piccoli fatti che sono come lampi di luce nel buio. E folgorano i cuori immersi nella nebbia e i tempi cupi. E fanno capire e vedere la realtà assai più e meglio di tanti discorsi dei cosiddetti intellettuali o di coloro che dovrebbero illuminare il mondo.
    E’ accaduto a Bologna
    Mercoledì scorso, dopo una lunga malattia, è morto a 59 anni Roberto “Freak” Antoni, storico leader degli Skiantos, un gruppo musicale che viene classificato come “rock demenziale” e che nacque nella turbolenta Bologna del ’77, quella degli “indiani metropolitani” e di un’Italia che poi affogò negli anni di piombo.
    Freak Antoni, un artista divertente e poliedrico, rappresenta il rivolo creativo e surreale di quella stagione che a Bologna mise con le spalle al muro “da sinistra” il monolitico Pci di Zangheri e a Roma la Cgil di Lama. Freak era così ironico, dissacrante, cinico, poetico che non è possibile inquadrarlo negli schemi.
    D’altra parte quella rivolta giovanile dava voce alla delusione delle rivoluzioni mancate, al disgusto per gli apparati e finiva per esprimere sogni e utopie impolitiche, un grido di “felicità subito” che aveva natura inconsapevolmente religiosa.
    Tornò in quei giorni un motto del ’68 francese ricavato dal “Caligola” di Albert Camus. Diceva: “Soyez réalistes, demandez l’impossibile”. Era perfetto anche per la Bologna del ’77. Ma era lo slogan meno politico e più religioso che si potesse coniare. Infatti era stato un grande padre di cuori giovani, don Luigi Giussani a riprendere e valorizzare quelle parole di Camus: “Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga. Il Caligola di Camus – scrisse Giussani – parla di ‘luna’ o ‘felicità’ o ‘immortalità’. L’insaziabile non può che derivare da un inestinguibile. Un Destino di immortalità si segnala nell’umana esperienza di insaziabilità”.
    A Bologna è rimasto qualcosa di quella ventata creativa del ‘77. Io stesso ho letto a volte, qua e là, sui muri, delle scritte che mi ricordavano “Freak Antoni”. Vicino alla chiesa dei Servi – e a Nomisma – campeggiava un versetto biblico: “l’abisso chiama l’abisso”. E più in là, su un muro dell’Università, un memorabile: “Basta fatti, vogliamo parole”. Che – a ben pensarci – è geniale.
    La morte prematura di Freak Antoni naturalmente ha richiamato a Bologna tanti amici e colleghi. Venerdì scorso, quando il Comune ha allestito una camera ardente per rendergli omaggio, nella sala Tassinari, a Palazzo D’Accursio, si sono visti molti personaggi noti dello spettacolo: c’erano Elio e Rocco Tanica delle “Storie Tese”, Luca Carboni, Samuele Bersani, Gaetano Curreri, Andrea Mingardi, Fabio De Luigi, il comico Vito, Milena Gabanelli e poi è arrivato il sindaco Virginio Merola.Il quale ha detto alcune parole di commemorazione, in quell’atmosfera surreale e obiettivamente disperata, tipica di queste “camere ardenti”, tra volti tristi e straniti.
    Subito dopo si è fatta avanti una ragazza, una giovane studentessa di liceo. Era Margherita, la figlia di “Freak”. Con dolcezza e fermezza ha detto alcune cose che hanno fatto sentire a tutti un brivido. Un brivido di verità profonde che tutti conoscono in fondo al cuore, ma che tutti anche hanno rimosso e nascosto. Pure a se stessi.
    La ragazza ha ringraziato i presenti, ha ricordato come suo padre vivesse per quel suo lavoro, per il palco, per i concerti che in tanti giorni di festa lo hanno strappato alla famiglia. Margherita ha confessato di aver sofferto questa sua assenza, ma “adesso forse ho capito. Non so” ha detto guardando quei volti “se vi è mai capitato di sentirvi tristi. Ma tristi tristi, tanto tristi da chiedervi qual è il senso della vita, il perché delle cose. A me a volte capita. A mio padre capitava sempre. Siete tristi perché vi manca qualcosa, non è così? Altrimenti avreste l’animo appagato, soddisfatto. Ma che cosa manca?”.
    La domanda della ragazza per un istante ha fatto sentire tutti come messi a nudo. Poi ha proseguito: “Ognuno cerca di colmare il vuoto che sente. Mio padre lo colmava con la droga, con i concerti, con storie d’amore improponibili. Mio padre era uno triste, un infelice, un irrequieto”.
    Erano parole dette con profonda compassione e pietà. Margherita ha poi raccontato di aver trovato, l’altro giorno, nel portafoglio del padre, un biglietto dove aveva annotato questa frase: “perciò io non terrò la bocca chiusa, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore”. Era una frase della Bibbia, del libro di Giobbe. Chissà quando e come Freak Antoni l’aveva sentita o letta e se l’era annotata, perché di certo la sentiva sua, perché esprimeva il suo dolore, la sua solitudine, le sue domande e il suo grido. Infatti Margherita l’ha commentata così: “mio padre era un grande perché gridava, perché non si accontentava, perché il suo desiderio di felicità era più grande di qualsiasi concerto, droga o storia d’amore”.
    Così, con una grazia che incantava e una pietà commossa, la giovane figlia ha descritto il senso religioso di questo padre artista irrequieto e scapigliato. E ha colto più e meglio di chiunque altro il suo genio. E il suo dolore. Ricordando una delle sue memorabili battute (“Dio ci deve delle spiegazioni”) Margherita ha concluso con la speranza che davvero “lassù gliele dia”.
    Poi, in tutta semplicità, a quella platea improbabile e sbigottita ha detto che voleva dire una preghiera per suo padre. E chi voleva poteva unirsi a lei. Ha recitato con alcuni amici l’Eterno riposo e un’Ave Maria e in quel momento una Misericordia infinita è scesa su tutti, in quella stanza, come un immenso e bellissimo panorama pieno di azzurro. E come sono sembrate goffe e ridicole le chiacchiere di certi intellettuali e di certi notabili dell’industria sui giovani di oggi. Se questo Paese ha una speranza, bisogna riconoscere che questa speranza ha il volto di Margherita e dei ragazzi e delle ragazze come lei. Che ci sono e sono molti più di quanto si immagini. Nei loro volti s’intravede una speranza, una certezza, una pietà che oggi sembrano impossibili. Come quella pace di Margherita davanti al dolore della morte. Talora l’impossibile per grazia accade.










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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Mario Palmaro (1968-2014)
    di Fabrizio Cannone
    Il 9 marzo 2014, dopo una brutta malattia che durava da oltre un anno, ci ha lasciati Mario Palmaro, uno dei migliori bioeticisti italiani e un apologeta cattolico di grande incisività. Difficile ripercorrere rapidamente tutte le tappe di una vita, ottimamente spesa e di grande intensità spirituale, benché di soli 45 anni. Ma una sintesi della stessa ci aiuterà a cogliere meglio il valore di una figura che potrebbe e dovrebbe assurgere a modello per i cattolici del XXI secolo, specie per gli uomini e per i giovani padri di famiglia.
    Palmaro, nato presso Monza, laddove è mancato pochi giorni fa, si era laureato nel 1995 presso l’Università statale di Milano con una tesi sull’aborto procurato, specializzandosi nelle tematiche bioetiche e gius-filosofiche. Il tema dell’aborto, o meglio della lotta per la difesa della vita innocente, diverrà da allora una sua prerogativa, un suo punto d’onore e forse la sua passione principale. E questo anche per un nobile motivo di riconoscenza: la madre di Palmaro infatti preferì correre il rischio di morire piuttosto che abortire il proprio figlio. Così, nell’anno emblematico del 1968, la signora Palmaro morì, e Mario vide la luce. Dopo lunghi anni di militanza nel Movimento per la vita, Palmaro fondò con altri membri storici dell’associazione una nuova realtà, di cui è stato fino all’ultimo presidente nazionale, il Comitato Verità e Vita.
    Ma Mario Palmaro è stato anche un valido docente di filosofia e di bioetica presso l’Università Europea di Roma, ateneo pontificio che ha aperto la prima facoltà di Bioetica al mondo, e da molti anni un attivissimo conferenziere, scrittore e giornalista. Non è semplice stilare una lista di tutti i suoi saggi e dei suoi testi di approfondimento. Tra i testi di tenore scientifico spiccano Aborto e 194. Fenomenologia di una legge ingiusta (Sugarco, 2008) e Eutanasia: diritto o delitto? (Giappichelli, 2012). In quest’ultimo saggio è evidente, specie per chi lo segue da anni, che si tratta del frutto maturo di una raggiunta maturità intellettuale e direi sapienziale.
    Ancora più numerosi sono i suoi libri, spessissimo scritti col suo sodale Alessandro Gnocchi, dedicati a vari temi della cultura, della fede e di attualità (perfino sportiva!), in cui il tono semi-serio e a volte francamente esilarante, nulla toglie alla lucidità dell’analisi e alla loro impareggiabile forza apologetica. Tra di essi, ne citiamo solo alcuni, tanto sono numerosi: Formidabili quei papi: Pio IX e Giovanni XXIII (Ancora, 2000); Catholic Pride (Piemme, 2005); Manuale di sopravvivenza per interisti (Piemme, 2005); Contro il logorio del laicismo moderno (Piemme, 2006); Io speriamo che resto cattolico (Piemme, 2007); La messa non è finita (Fede & Cultura, 2008); Viva il Papa! (Vallecchi, 2010); L’ultima messa di Padre Pio (Piemme, 2010); La Bella Addormentata (Vallecchi, 2011); Ci salveranno le vecchie zie (Fede & Cultura, 2012).
    L’ironia di Palmaro è sottile ma mai irrispettosa, il desiderio di far riflettere sia gli avversari sia i correligionari troppo irretiti dal mondo è palese; altrettanto bello appare il metodo, fatto di citazioni precise, di analisi garbate e signorili (senza scurrilità alcuna), ma con una sapiente miscela che unifica la serietà dottrinale delle battaglie in corso (per la vita, per la famiglia, per la Chiesa) con la dolcezza e l’arguzia tipiche di chi vive in prima persona della vita serena della fede e della grazia.
    Notissimo poi al grande pubblico cattolico Palmaro lo è divenuto grazie alla prolungata collaborazione con Radio Maria, e alla rubrica di bioetica che condusse brillantemente per molti anni. In essa, dopo una breve esposizione del tema scelto, con tatto e pacatezza rispondeva alle domande dei radio-ascoltatori, ne soppesava con intelligenza le argomentazioni e ne confutava, oserei dire gentilmente, gli errori e le aporie. Da non dimenticare neppure la sua collaborazione con varie testate giornalistiche, importanti a vario titolo, che lo hanno visto, specie nell’ultimo lustro, protagonista nel dibattito teologico-politico italiano, con netta preferenza per le tematiche bioetiche e morali. Tra i quotidiani di rilievo il Nostro ha pubblicato diversi pezzi sia con Il Giornale, sia soprattutto su Il Foglio, in cui non raramente ha mostrato le lacune e le contraddizioni della pastorale odierna, giudicata criticamente come troppo mondana, troppo orizzontale e troppo dimentica dei valori e dei principi della Tradizione per ricevere una fondazione sufficientemente solida e ancorata. Molto importanti sono gli articoli di fondo che l’apologeta lombardo ha pubblicato sul Timone e credo che i suoi numerosi amici e discepoli (tra cui noi vogliamo collocarci) dovrebbero impegnarsi per la pubblicazione di un volume che li raccolga tutti. Sarebbe forse il più bell'omaggio ad un raro esempio di apologeta contemporaneo che ha unito al meglio due importanti qualità umane: l’ortodossia e la simpatia.
    Ma il Palmaro è stato anche uno sposo, un marito impegnato in questa altissima vocazione umana, e un padre di 4 figli, premuroso, esigente ed aperto. Per convincersene basterebbe ascoltare le due ampie conferenze (ora in DVD) tenute dallo studioso presso l’associazione Amici del Timone di Staggia Senese oppure leggere con attenzione la descrizione che la giornalista Marianna Rizzini ha fatto di casa Palmaro su Il Foglio del 1° marzo 2014. Avendo avuto la gioia di parlarci un paio di volte, a Roma e a Firenze, posso dire a tutti coloro che lo conoscevano solo attraverso i libri che Mario era anche di persona proprio come appariva sulla carta: schietto, sincero, alla mano e gioviale. Non mi importa se ho dimenticato qualcosa in questa rapida rievocazione, mi basta aver mostrato l’essenziale: anche oggi, nel XXI secolo dell’era cristiana, è possibile essere buoni cristiani e uomini completi. Mario Palmaro ci è riuscito.
    Mario Palmaro (1968-2014) ~ CampariedeMaistre











    Il Papa di Gnocchi e Palmaro: Francesco dove vai?
    Vita e opere di due eretici al contrario
    Come marziani di Cristo atterrati in Brianza. Si trovano, discutono di liturgia, dicono che non c’è più dottrina, solo marketing e comunicazione, poi lanciano l’altolà. Le famiglie, la malattia.
    di Marianna Rizzini
    È come quando davanti al film di fantascienza segui con gli occhi il razzo che parte con il botto – coda di fuoco e frastuono – e poi improvvisamente la capsula buca l’atmosfera, sfreccia nello spazio e in un attimo tutto è silenzio e velluto scuro di un cielo disegnato al computer: l’altra dimensione. E proprio nell’altra dimensione, in una bolla dove i suoni che frastornano sono attutiti per far spazio all’essenziale (le cose della vita: nascita, amore, morte), si sente d’un tratto il cronista ancora affaccendato con tutto il resto (pensieri vari, oggetti, traffico, telefono), mentre procede in macchina con il primo eretico al contrario Alessandro Gnocchi. Si va infatti in Brianza a conoscere Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, coautori con Giuliano Ferrara del libro Questo Papa piace troppo (in uscita per Piemme l’11 marzo, nel primo anniversario di Bergoglio).
    Si va in Brianza a casa di due cattolici tradizionalisti (ma non conformisti) e critici, come dicono loro, di un cattolicesimo “che, per mettersi a inseguire il mondo che scappa”, si fa “liquido”, “empatico” e “pneumatico”, contenitore di battaglie altrui e di una fede “sentimentale”. Ci si chiede chi siano in realtà i due guardati a vista dagli ambienti vaticani, anche un po’ scomunicati (da Radio Maria: rubrica tolta dopo la pubblicazione sul Foglio di pezzi allarmati all’idea di un Papa che non vuole convertire Eugenio Scalfari, conta i follower su Twitter e piace così tanto agli atei).
    Ci si lascia alle spalle Milano per andare prima nella bergamasca, a trovare la famiglia Gnocchi, e poi nel monzese, a trovare il secondo eretico al contrario Mario Palmaro (sempre con famiglia), ma a un certo punto è chiaro che i luoghi attraversati sono soltanto fondali di un viaggio a testa in giù, ché questo è l’effetto che possono fare i due, sulle prime. Fuori dal finestrino sfrecciano paesi e capannoni, cartelloni pubblicitari e gru, molte gru, e qualche ristorante dove fermarsi in pausa pranzo per un buon spezzatino sospeso tra Messico, Ungheria e terre padane, “goulash chili e polenta”, e scorrono le case e i negozi di Sotto il Monte, il paese di Papa Giovanni XXIII che Gnocchi, en passant, mostra allo straniero nella sua evoluzione turistico-pellegrina (spuntano dalle edicole e dalle tabaccherie, lungo la strada provinciale, tutti i gadget del futuro santo – non solo piatti con Papa Giovanni e John Kennedy, l’articolo finora più ambito assieme al telo da spiaggia del Pontefice già beatificato, ma anche bicchieri adatti alla serata con pinte di birra e nuovi stock di cancelleria a tema: penne, matite, calendari, quaderni).
    Come astronauti all’atterraggio sul pianeta delle scimmie, così si vedono loro, Gnocchi e Palmaro, due che pensano insieme e scrivono insieme come Fruttero & Lucentini, ma senza la “e” commerciale e su tutt’altro argomento: molti libri, in passato, su letteratura e religione, Pinocchio e Alessandro Manzoni, Tolkien e Giovannino Guareschi, vecchie zie e tradizione, Sherlock Holmes, fede e deduzione, e anche calcio (l’amata Inter), e poi molte riflessioni e riserve su quelli che, nella chiesa, lasciano che la dottrina possa ritrarsi per far spazio “alla linea”, “come in un partito”, dice Palmaro, “con l’ansia del successo mondano”, dice Gnocchi, e con l’obiettivo di correre “al livello di un mondo di cui ci si è innamorati” senza pensare alle conseguenze (“non potrai mai essere una copia del mondo. Anzi: facendoti brutta copia del mondo perderai sempre più terreno”, dicono i due a Papa Francesco, pensando che “è come quando in Brianza le parrocchie sono diventate succursali dei bar con musica, ma tu parrocchia non sarai mai come il vero bar con musica”, dice Gnocchi, “e allora ciao ciao parrocchia, il ragazzo va direttamente al bar con musica”).
    “Se il Papa scende nell’arena alla lunga il fedele si sente solo e si allontana, e se vuoi attrarre il mondo devi ritrarti, non inseguirlo e renderti simile a lui”, dicono all’unisono Gnocchi e Palmaro, vedendo “la stessa deriva” in altre istituzioni: la scuola dove i genitori “fanno i sindacalisti dei figli”; la famiglia dove molti sembrano non volersi più sobbarcare la fatica di educare (“che non vuol dire sempre assecondare per non avere scocciature, ma anche mettere paletti, scalini, dire dei no, e soprattutto dare l’esempio”). “Buonasera!?, dice buonasera???”, si sono vicendevolmente scritti, increduli, Gnocchi e Palmaro, via sms, la sera dell’elezione del Pontefice, e da lì hanno ricominciato a discutere di liturgia che non c’è più e dottrina che si fa strategia di comunicazione, e hanno deciso di lanciare l’altolà insieme, come fanno da quindici anni, pensando a voce alta, buttando giù da soli (chi un pezzo chi l’altro), rileggendo congiuntamente, riorganizzando e co-firmando.
    I due hanno nove anni di differenza, ma nella creazione saggistica non contano: a volte Palmaro, il quarantenne, risulta “più saggio”, dice Gnocchi. A volte Gnocchi, il cinquantenne, risulta “più istintivo”, dice Palmaro. In ogni caso, qualche anno fa, è stato Palmaro, dice Gnocchi, a presentarsi all’allora direttore del Giornale Maurizio Belpietro con la seguente frase: “Se vuole due reazionari, eccoci qui”. Nessuno dei due pesta i piedi all’altro: i libri comuni vengono divisi in capitoli pari, ognuno scrive i suoi. I pensieri condivisi sono frutto di un confronto telefonico incessante (i due si vedono, ma non così spesso, anche se il loro primo lavoro a quattro mani è nato tra i banchi di una chiesa durante il matrimonio di Palmaro, con Gnocchi testimone ritardatario ma folgorato da un’idea nel bel mezzo della funzione).
    È così dalla metà degli anni Novanta, da quando Palmaro, giovane laureato in Giurisprudenza e specializzato in Bioetica (con una tesi sull’aborto procurato), giornalista saltuario, andò a intervistare Gnocchi, laureato in Lettere, giornalista e già scrittore di saggi su Guareschi, comune amore dei due futuri critici di Papa Francesco. In quell’occasione Gnocchi e Palmaro si scoprirono in sintonia, da tradizionalisti sfegatati e nostalgici del “mondo piccolo” di don Camillo e Peppone e dell’universo “paolotto”, quello dei cattolici di Brianza che nel Dopoguerra sapevano guardare all’ordine “che sta oltre le cose” in quelle terre “bianche come un lenzuolo di bucato”, dove nei paesi “il posto d’onore spettava al parroco, poi venivano il sindaco, il dottore, il farmacista e, se c’era la caserma, il maresciallo dei carabinieri”. Il paolotto è “un cattolico che guarda il mondo in controluce”, hanno scritto i due nel ritratto postumo del loro altro comune amore intellettuale, lo scrittore Eugenio Corti, lo scrittore che aveva “attraversato il secolo ateo armato della sola fede”, l’amico che andavano a trovare spesso nella grande villa ricavata da una vecchia filanda, in uno studio luminoso, al di là di una teoria di porte e finestre, nel salotto dove, attraverso il racconto di Corti, rivivevano le storie della ritirata di Russia e le avventure di quell’incrollabile “anticomunista razionale”.
    Chi sia il paolotto oggi, lo si capisce dall’autodescrizione della vita di Gnocchi e Palmaro, vita in cui si spende molto tempo, la domenica, per cercare la più vicina messa in latino (la famiglia Gnocchi è celeberrima in zona per le traversate – trenta chilometri ad andare e quaranta a tornare per trovare un parroco non sedotto dai tempi). Essere paolotti, dicono poi, significa senz’altro “incontrare tentazioni”, ma anche “sapere che si può resistere”, e significa alzarsi la mattina senza la smania di essere sempre altrove, proiettati verso qualcosa che non si ha: la chiesa non è “il paese dei balocchi”, dicono, il cattolicesimo non deve essere per forza “fede à la carte”, con la fissazione di dire quello che la gente si vuole sentir dire e con una liturgia spogliata di riti e simboli, “tanto ognuno persegue il bene secondo la propria nozione individuale”. La fatica di “portare la croce”, dicono, una qualsiasi croce intesa come fatica e impegno, è merce rara ormai in qualsiasi ambiente, “dal lavoro alle relazioni alla politica”. Ma chi, là fuori, è disposto ad ascoltare due paolotti?, si sono chiesti gli stessi paolotti, rispondendosi che è difficile essere ascoltati in un mondo cattolico dove farsi un’idea non allineata con “la linea” è impresa ardua, oggi (“e poi in media i cattolici non leggono, non vanno in libreria per abitudine e status, come fa un certo borghese di sinistra”, scherza Palmaro, “tendono a leggere il libro che consiglia il parroco”).
    Chi proviene dal mondo là fuori, prima di conoscere Gnocchi e Palmaro, si immaginava due rigorosissimi studiosi di cose religiose e filosofiche, magari rigidi, magari un po’ arcigni. Invece i due sono aperti, tranquilli, cordiali e curiosi come raramente oggi appaiono le persone che si incontrano, e le loro case sono un’isola allegra di quotidianità non nevrotica: bambini, ragazzi, amici, libri scolastici, pranzi (a casa Palmaro nessuno dei quattro figli fa a scuola il tempo pieno, “perché preferiamo mangiare insieme”, dice Annamaria, la signora Palmaro), capricci per lo sciroppo (di uno dei piccoli figli di Palmaro, ma ora non lo fa più), prime serate con gli amici dell’università (con cui, dice uno dei figli di Gnocchi, né lui né suo fratello si sono mai sentiti a disagio o “diversi” per essere cresciuti in una famiglia in cui la tradizione è un valore), videogiochi con il contagocce (per il figlio quasi adolescente di Palmaro), cene apparecchiate in un baleno da fratellini vivaci e burloni con papà. Ci sono battute e normale vita caotica, e souvenir buffi chiusi in una teca ma sollevabili dall’ospite che si chiede che cosa mai possa aver spinto la signora Gnocchi a comprare in viaggio simili oggetti – e la signora Gnocchi dice che si è divertita a indovinare i pensieri di un misterioso artigiano che, in cima a quello strano tabernacolo che campeggia in salotto, ha posto una specie di aquilotto, o forse è un passero troppo cresciuto. Dice che lei a scuola applica la resistenza tradizionalista alla festa di Halloween (“non siamo americani, noi, e quel giorno per me è il giorno dei morti”), e poi ricorda la sua bisnonna, donna di fede e forza istintiva che la sera raccontava ai nipoti favole in dialetto sotto la coperta (“copàrla”, diceva per descrivere qualche personaggio intento a uccidere la strega). Oggi la bisnonna campeggia nella foto in cucina e quasi quasi sorride all’ora del tè con biscotti, quando fuori piove e dentro è come ovunque dopo la scuola – si telefona, si poltrisce, ci si chiude in camera, si sbuffa se il fratello occupa il telefono o il bagno, si fa capolino per sgranocchiare qualcosa.
    Bisnonna Antonia si chiamava come Antonia, la signora Gnocchi, maestra antidarwiniana e originaria tradizionalista della famiglia. Originaria perché Alessandro Gnocchi, dice Gnocchi, da adolescente era meno attirato dalla parrocchia, ché era cresciuto in scuole pubbliche nel bel mezzo degli anni Settanta, aveva scelto una non assidua militanza a destra, ma più che altro ancora faceva di tutto per mettersi nei casini, fino a che lei, Antonia, non l’ha riportato nell’alveo paolotto – i due si sono incontrati quando erano entrambi piccoli, figli di famiglie amiche tra di loro e “fidanzatini” predestinati nelle chiacchiere dei genitori. Una cosa che non funziona, di solito, perché quasi nessuno tollera di sentirsi abbinato nella fantasia a un bambino che il più delle volte è anche antipatico, ma per loro ha funzionato. Ed eccoli, oggi, a inseguire messe in latino persino al mare d’estate, come si andasse a prendere un gelato – “cerchiamo la messa, cerchiamo la messa”, e la cartina stradale diventa mappa del tesoro – ed eccoli con due figli studenti e una figlia liceale che durante le vacanze va in Nigeria come volontaria nel lebbrosario tenuto dalle suore, e lì con loro prega – “le suore si sparano quattro ore filate di preghiera ogni mattina all’alba”, dice la ragazza, come parlando di una cosa normale, e lo è, per lei, una cosa normale, naturale come il respiro, così sembra (come lo è, dice suo padre, essere amica di compagne di scuola che hanno bruciato tutte le tappe ma sono a suo agio a parlare con lei che non ne ha bruciata neanche una). Ed è serena, la figlia di Gnocchi, serena con i momenti di tormento di chi deve decidere che cosa fare da grande, ma sicura della scelta fatta quando da sola ha viaggiato e ha guardato, e ha visto che i bambini a lei affidati, in Nigeria, abituati a essere trattati come grandi da genitori stanchi o malati o occupati a sfamare altri figli e altri parenti, più che distrazioni cercavano soprattutto “l’aspetto per noi scontato della maternità: le coccole, lo stare in braccio”.
    Sua madre Antonia dice che ormai tutto congiura per cancellare il mondo simboleggiato dalla bisnonna, donna che “accettava l’ordine delle cose, e sapeva vedere oltre”, e molto aveva pregato e molto lavorato in filanda (fin da bambina: aveva sette anni e stava in piedi sullo sgabello perché era troppo bassa, ma spesso veniva scaraventata giù dalla “terribile signora col tabarro” perché si distraeva). Pregava, la bisnonna Antonia, con il suo rosario da sgranare a ogni passo, e a suo marito che in punto di morte era sembrato pentito delle sue marachelle e cercava solo lei, aveva detto, usando il “voi”, di non preoccuparsi (“vedrete che le preghiere fatte da vostra moglie vi faranno un gran bene, passato di là”).
    Né bigotti né con i paraocchi: a casa Gnocchi e a casa Palmaro di tutto si parla senza scandalo, senza giri di parole, tra le tavernette (da Gnocchi) e i piani di sopra (da Palmaro), tra compiti da finire e giochi urgentissimi, e aneddoti da tirare fuori senza permesso (“papà, ma come?, non racconti di quella volta in cui ti sei travestito da Zeus?”, dice uno dei figli di Palmaro quando il padre omette qualcosa che non pare adatto all’occasione). Appaiono faticatori autoironici della fede e della dottrina, Gnocchi e Palmaro, di qua e di là dell’Adda, nella loro impresa quotidiana di cattolici non allineati al Papa che piace a tutti, mentre mostrano allo straniero una vita fatta di punti fermi da mantenere in equilibrio, ritrovati ogni giorno a suon di dubbi, e una serenità turbolenta fatta di opinioni nitide, gioia e dolore tenuto a bada con una forza che a volte gioca a nascondino, come dicono Mario e Annamaria Palmaro davanti a tre figli bambini e a uno poco più che bambino. Parlano del futuro immaginato senza Mario, colpito da un male brutto un anno e mezzo fa, e lo fanno con incredibile accettazione, guardando in faccia la realtà, con la razionalità di chi vuole mettere a posto prima quello che poi potrebbe creare problemi. Nessuna reticenza, nessuna commiserazione. Nessun desiderio inespresso individualistico. Questo non è un film, non è il film “La mia vita senza me”, girato da Isabel Coixet dieci anni fa, in cui una giovane donna, dopo una diagnosi durissima, fa tutte le cose che possano completare una vita ai suoi occhi non soddisfacente. Mario Palmaro dice solo “non mi piace l’idea di aver buttato via del tempo in cose inutili” o magari anche in cose utili, dice pensando alle giornate passate a scrivere, “tempo in cui non dài retta a nessuno, in cui tutto il resto viene travolto, in cui tutto ti dà fastidio”, ma poi ci ripensi e sai che “avresti voluto ascoltare di più le persone in carne e ossa”. Il male fa anche arrabbiare, a volte, dice Palmaro, anche se più spesso lo costringe a concentrarsi su tutto quello che di bello hanno le ore normali, quando si scopre che essere quelli di sempre è l’unico modo per non farsi piegare. E allora il male compare nei racconti buffi di famiglia (“tu non sai che papà a Medjugorje è salito su per il pendio con i piedi doloranti per le cure, ma era buio, c’erano le pietre per terra e abbiamo sbagliato strada tremila volte”, dice uno dei figli all’ospite, sorridendo, perché quella è, a tutti gli effetti, l’avventura di un giorno di vacanza pellegrina).
    Annamaria Palmaro, la donna che Mario ha sposato nel 1998 e che, nonostante la laurea in Lettere antiche e una propensione per l’arte, ha deciso di non lavorare e seguire i figli, dice che “le priorità si impongono” e che lei e Mario avevano “affrontato tutti i discorsi importanti sulle scelte fondamentali”, cosa che molte sue amiche purtroppo non hanno potuto fare, ritrovandosi poi “con un uomo che non vuole quello che vogliono loro”. A volte è sopraffatta dai pensieri, Annamaria, ma dice che è solo un attimo. Poi si prosegue come prima, e niente riesce a cancellare la normalità di una cena in cui i ricordi si affastellano fino a portare a galla l’immagine di Mario che da piccolo impara a odiare la vita agreste grazie a suo padre, dirigente d’azienda con il pallino del fine settimana alla John Wayne (in una casa di campagna sotto le colline romagnole). Si ride, anche, quando, per assist della figlia piccola, qualcuno a tavola racconta di quando Mario si presentò al primo appuntamento con Annamaria “vestito così di bianco che pareva un gelataio” o di quando, giovane ricercatore in Bioetica al primo libro, già conosciuto in campo pro life, tenne un convegno a cui Annamaria, studentessa pro life, si presentò tra pochi astanti per chiedere una dedica. Già che c’era, chiese anche “posso darti del tu?”, ma incredibile fu la risposta di Mario: “Dipende”. Seguì amicizia, fidanzamento e rimbrotto paterno (“ai miei tempi, caro Mario, prima si trovava un lavoro, poi ci si fidanzava e sposava”). Mario all’epoca ancora viveva in casa, scriveva per qualche rivista e giornale, ma non bastava per mettere su famiglia. La via d’uscita arrivò sotto forma di lavoro alla Fondazione Emit Feltrinelli (che oggi Palmaro presiede), e furono giorni di intensa osservazione e apprendistato alla vita d’ufficio (lì Palmaro scoprì che anche la macchinetta del caffè, e le chiacchiere attorno alla macchinetta del caffè, possono insegnare qualcosa). I concorsi da ricercatore universitario, e la carriera da filosofo del diritto e bioeticista arrivarono dopo, molto dopo, assieme alle accese discussioni con il Movimento per la vita, di cui Palmaro aveva fatto parte. E si arriva all’oggi: Palmaro, dal comitato “Verità e Vita”, fondato nel 2004, si ritrova a contestare quello che gli pare “annacquamento” (secondo Palmaro il Movimento per la Vita ha scelto “una via troppo soft in tema di legge 194, “per non scontrarsi con la cultura dominante”, e cade in un “clericalismo” che “lo limita”, avendo “molti legami con la Cei”).
    I coniugi Palmaro si sono conosciuti in un giorno di pioggia simile a quello in cui oggi si raccontano, e proprio parlando di iniziative pro life. Per entrambi l’impegno pro life è irrinunciabile, ma per Palmaro forse è inevitabile, dice Palmaro raccontando “un particolare certamente importante: quando sono nato, il 5 giugno del 1968, lo stesso giorno mia madre è morta di parto. Non l’ho mai conosciuta. Le avevano detto che correva qualche rischio, ma lei ha affrontato serenamente la sua quarta gravidanza a 41 anni, partorendo – allora era normale – in casa. Ovviamente questo fatto ha avuto tutta una serie di conseguenze: mio padre si ritrovò in pochi minuti con quattro figli da crescere, per tre anni ha fatto da solo, con una governante, poi si è risposato e io ho avuto una ‘mamma’. Credo che almeno a livello inconscio e spirituale questa esperienza – nascere da una mamma che si sacrifica per te – abbia segnato anche tutta la mia storia pro life”. Gnocchi dice che lui e Palmaro la pensavano allo stesso modo molto prima di conoscersi, e anche in ambito ciclistico (Moser, solo Moser), e che sono arrivati da vie diverse allo stesso punto, cioè a chiedersi dove mai voglia arrivare una chiesa cattolica che procede a grandi passi verso l’implosione (Palmaro dice che “la cosa che lo sconvolge di più”, da cattolico, “è questo progetto implicito, non dichiarato, di costruire una chiesa senza sacerdoti: non è che ci sono pochi preti, tra pochi anni non ci saranno più preti”). Però intanto, prima di arrivare qui, Gnocchi ha attraversato una fase medievalista (avrebbe voluto occuparsi di storia, papi, imperatori e monaci) e una fase di esperto in comunicazione su Tv sorrisi e canzoni (“mi è molto servito”, dice oggi, al pensiero che le tesi di McLuhan possano aiutare la divulgazione dei ragionamenti critici sul papato che corre dietro al mondo). Chi ha dato il via alla mania di Guareschi è stato il padre di Gnocchi, che regalò al figlio pre-adolescente un “Don Camillo” (e fu subito amore); chi ha contribuito alla visione anti “ospedale da campo” del cattolicesimo à la Francesco, e al concetto che l’impegno non può essere eluso in nessun campo, è stato Pinocchio (viva la visione di Carlo Collodi, dicono i due, che hanno scritto, tra i tanti saggi, anche un libro sul burattino, “Ipotesi su Pinocchio”).
    Casa Gnocchi e casa Palmaro sono luoghi reali, ma anche un luogo mentale dove le insegne, le luci, le rotonde, le fabbriche, le gru, le angosce a breve termine, le colline nascoste dal buio invernale (non dalla nebbia, che non c’è più), i ristoranti al neon e le persone della Brianza – topos per i critici di Paolo Virzì – restano fuori dalla porta perché non disturbino la visione di quello che è importante (non c’entra neanche più tanto la religione, a questo punto). In mezzo scorre il fiume, ma di qua e di là dell’Adda, nella bergamasca e a Monza, da Gnocchi e da Palmaro, c’è prima di tutto lo specchio rovesciato del mondo per come lo vediamo di solito. Dicono che le cose sono semplici, e sono quelle della vita, mentre fuori tutto appare complicato (anche ad arte). Dicono che le scelte bisogna farle, e facili non sono mai, mentre fuori tutto sembra permettere di rimandarle. Le cose essenziali si nascondono agli occhi, dicono con la volpe del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry. E si vede che ci credono, perché hanno messo tutto in pratica.
    Ultimi giapponesi, si sentono, Gnocchi e Palmaro, ma anche “sans papiers” della chiesa e “ultimi americani dimenticati dall’elicottero che porta via i fuggitivi da Saigon”, ché, di qua e di là dell’Adda, da mesi, giunge l’eco del “vade retro” pronunciato nei loro confronti, ma senza far troppo rumore, dall’establishment cattolico. Si sentono ai margini del dibattito sulla stampa cattolica (“come se non esistessimo”, dicono sorridendo), e guardano stupefatti ad alcuni editorialisti che prima, pur borbottando sottobanco, scrivevano a favore di Papa Ratzinger e ora, pur borbottando sottobanco, scrivono meraviglie di Papa Bergoglio, “facendone pure l’esegesi” (è cambiata la linea, appunto).
    Appaiono da un lato allibiti, Gnocchi e Palmaro, per l’accoglienza delle loro obiezioni (la pelosità da parte di parroci e conoscenti, che dicono magari “avete scritto cose giuste, ma non bisognava scriverle”; l’approvazione fuori dalla messa da parte di tanti che dicono “grazie di averci dato voce”, ma anche gli attacchi pubblici addirittura contro i parenti – è accaduto a scuola alla figlia di Gnocchi, aggredita verbalmente da un padre di una compagna, per ironia della sorte discendente di Papa Roncalli). E però sembrano anche divertiti, Gnocchi e Palmaro, “per la sopravvalutazione della potenza oggettiva” del loro “orgoglioso lamento cattolico” (un giornalista dello Spiegel un giorno li ha descritti come strani animali allo zoo, temerari che hanno osato criticare il Papa che telefona, si mostra aperto sulla comunione ai divorziati e sull’aereo provoca la “òla” parlando di omosessualità e dicendo “chi sono io per giudicare?”). La cosa comica, dicono, è che c’è sempre qualcuno che si chiede: “Chi ci sarà dietro?”, come se “chissà quale cardinale lefebvriano manovrasse nell’ombra”. Invece ci sono soltanto loro due, e un’opinione difforme.
    Poi a un certo punto il Papa ha telefonato a Mario Palmaro, non per discettare di dottrina con il cattolico tradizionalista controcorrente ma per abbracciare a distanza l’uomo: un professore quarantenne, marito e padre di quattro figli piccoli, colpito da grave malattia. “Pronto, sono Francesco”, ha detto, ma Palmaro l’aveva già riconosciuto, forse dalla voce forse dall’accento, e si è commosso, dice oggi, raccontando però di aver ribadito la sua volontà di non smettere di criticare.
    E oggi Palmaro pensa agli uomini che per lui sono stati un faro, Giovannino Guareschi ed Eugenio Corti, e dice che si sente “un nano sulle spalle di questi due giganti”, perché è nato nell’anno in cui è morto Guareschi e vede il suo male non fermarsi nell’anno in cui è morto Corti (“sarebbe meglio aspettare, certo, ma le date mi piacciono”). Ed è comunque felice di aver parlato con quel Papa che lui e Gnocchi osservano perplessi fin dal primo “buonasera”, subito pervasi dall’urgenza di dirgli “no”, cosa che dal giorno dopo hanno fatto, con gli articoli del Foglio e con il libro con Ferrara che sta per uscire, sperando di preparare la strada a qualche “pazzo o santo” che, dice Gnocchi, “faccia rinsavire il secolo prima che sia tardi”.



    IN RICORDO DI UN VERO “GUARESCHIANO”. E UN AMICO.
    Matteo Carnieletto
    Vidi per la prima volta Mario Palmaro a Monza.
    Era l’8 ottobre di sei anni fa e Mario stava presentando —assieme ad Alessandro Gnocchi— “Giovannino Guareschi. C’era una volta il padre di don Camillo e Peppone”. Mi avvicinai a lui —un po’ intimorito— per presentarmi e per chiedergli una dedica. Mi sorrise e, con la sua bella penna stilografica, scrisse: «A Matteo, un vero “guareschiano”, e un amico». Rimasi commosso per il termine “guareschiano”, ma soprattutto per la parola “amico”. Com’era possibile essere amici dopo cinque minuti?
    Dopo quell’incontro, invitai Mario a presentare il suo libro su Giovannino Guareschi. Era il primo evento che organizzavo in qualità di vice-presidente della biblioteca del mio paese. Fu un successo. Per merito suo, ovviamente. Mentre Mario Palmaro parlava, io guardavo il pubblico, che sembrava stesse giocando con la Pasionaria e con Albertino. Qualcuno stava pure cercando di consolare la povera Margherita Guareschi.
    Palmaro tornò poi in biblioteca a parlare di Fratel Ettore, un campione di carità del XX secolo. Fu un momento divertente, anche perché la presenza di Mario fu una sorpresa. Lo aveva invitato all’ultimo secondo il relatore, Francesco Rocca. Appena Mario arrivò, come sempre, mi sorrise. Quasi fosse scontata la sua presenza, mi disse: «Allora? Cominciamo?».
    Ora che Mario non c’è, mi rimane una citazione di Guareschi a lui cara: «bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri».
    Hai salvato il seme, la fede. A presto, caro amico guareschiano. A presto, Mario.
    In ricordo di un vero ?guareschiano?. E un amico. | Radio Spada




    http://www.riscossacristiana.it/neww...ratitudine.pdf



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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Quale sarà l'evoluzione dei Kindle? Gutenberg...
    Massimiliano Parente
    Se mettessimo su un ring un libro e un ebook, chi vincerebbe? Intendo proprio una prova su strada, come si fa con le auto.
    Sappiate che la risposta non è affatto scontata, anzi. Tuttavia i primi a non mettere in discussione gli ebook sono proprio i grandi editori, i quali dagli ebook verranno stritolati. I primi a fargli le pulci sono invece gli scienziati: i risultati di numerose ricerche pubblicati su Scientific American dimostrano come la lettura su carta presenti moltissimi vantaggi rispetto a quella digitale.
    In sintesi chi legge un libro su carta riesce a ricordarlo meglio, anzi a trasformare il ricordo in «sapere», e questo discorso vale anche su test effettuati su nativi digitali. I bambini sono più capaci di ricordare dettagli di una trama se letta su carta. L'apprendimento su ebook, sottoposto a rigorose sperimentazioni, risulta carente proprio nei circuiti neurali che non vengono attivati rispetto a un libro tradizionale. In generale la lettura digitale non permette un'elevata concentrazione né, cosa importante, una rappresentazione spaziale della lettura nelle tre dimensioni, e perfino nel tempo.
    L'effetto, nel cervello di chi legge un ebook, è quello di una passeggiata su un nastro trasportatore in cui si resti sempre allo stesso posto. A poco servono gli effetti speciali, come la simulazione della pagina girata inventata dalla Apple. «Per fare un'analogia», scrive Jabr su Le scienze, «immaginate cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città o di teletrasportarci in qualsiasi indirizzo, ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere, di una regione o di una nazione».
    È stato dimostrato che la memorizzazione di un testo avviene anche in base alla posizione sulla pagina nelle tre dimensioni di un libro: entrano in campo la psicologia evolutiva, le neuroscienze, e perfino le risonanze magnetiche funzionali. La carta batte l'ebook perfino in velocità quando si tratta di tornare a un brano letto in precedenza.
    Eppure, in fondo, chi scrive per lavoro queste cose le sa da qualche decennio, altrimenti non avremmo avuto in casa le stampanti. A un certo punto, per lavorare bene su un testo lungo, bisogna stamparlo, e risulta difficile immaginare chi si legga la Recherche su un tablet o un e-reader. Alla faccia di Beppe Grillo, che vorrebbe abolire i libri nelle scuole. E quindi, quale sarà l'evoluzione possibile di Kindle? Molto probabilmente Gutenberg.
    Quale sarà l'evoluzione dei Kindle? Gutenberg... - IlGiornale.it

    LETTURE/ Da "Arancia meccanica" al "Seme inquieto", le profezie (azzeccate) di A. Burgess
    Paolo Gulisano
    Si sono appena concluse in Inghilterra le celebrazioni del ventennale della morte di Anthony Burgess, scrittore, critico letterario britannico, esperto conoscitore di musica, uomo di interessi molteplici e sperimentatore di linguaggi, tra gli autori inglesi più prolifici e tradotti del Novecento.
    Per la verità la ricorrenza è stata sottolineata in particolare dalla International Anthony Burgess Foundation, di Manchester, che si è assunta il compito di tenere viva la memoria e l'eredità di questo straordinario scrittore. La cultura dominante invece ha preferito ignorarlo. Il motivo è intuibile, se si vanno a rileggere alcune tra le opere più significative di questo sorprendente autore, a cominciare da quella a cui il nome di Burgess resta maggiormente legato, ovvero il romanzo Arancia meccanica (A Clockwork Orange, scritto nel 1962, letteralmente Un'arancia a orologeria) da cui fu tratto nel 1971 l'omonimo e celeberrimo film di Stanley Kubrick.
    Un film che fece epoca, che fece discutere anche per la rappresentazione cruda della violenza, magari trascurando il fatto che il nucleo centrale del libro di Burgess consiste nel fatto che è impossibile che l'uomo sia buono o virtuoso solo perché lo ordina lo Stato. Il romanzo di Burgess è ambientato in Inghilterra in un futuro prossimo rispetto al 1962 in cui viene scritto, un'epoca di ottimismo, il tempo del grande boom economico, di trasgressione beat ma anche di massicci interventi statali in vari campi della vita britannica.
    Burgess affronta quindi il problema del male, non quello dei grandi sistemi ideologici, dei totalitarismi, dei "mostri" come Hitler o Stalin, ma il male stupido, banale, gratuito, quello perpetrato ad esempio dalle bande di giovani teppisti annoiati. Un tema che fu sempre caro a Burgess, che ne aveva fatto le spese direttamente, quando - durante la guerra - nel 1942, in una Londra squassata dai bombardamenti nazisti, tre soldati americani ubriachi si resero protagonisti di un "crudele e inconsulto atto di violenza" ai danni di sua moglie. Come disse in seguito a proposito del suo libro, "ritrarre la violenza doveva essere un atto catartico e caritatevole insieme". Un perdono difficile, quello da dare a persone che lo avevano ferito negli affetti più cari, ma non impossibile per un uomo di fede come lui. Burgess infatti era cattolico; apparteneva al novero ristretto ma significativo dei fedeli inglesi della Chiesa cattolica, che tanto efficacemente è stato presente nella cultura britannica, da Chesterton e Belloc a Benson, da Tolkien a Graham Green, per non citare che i più rappresentativi.
    Burgess era nato a Manchester in una famiglia già cattolica: non era un convertito, con quell'empito e quell'entusiasmo che spesso hanno i neofiti della fede. Era radicato nella storia tragica della Chiesa in Inghilterra, una storia di persecuzione, di martirio, di catacombe, di sofferenza sotto il peso di uno Stato-Leviatano che perseguì a lungo l'annientamento del cattolicesimo. Così, in Arancia meccanica come in molti altri suoi, il tema centrale è l'uomo minacciato dalla violenza, individuale come collettiva, vittima di condizionamenti ideologici che ne limitano la libertà, oppresso dalla macchina dello Stato. Sul libro che gli diede la fama scrisse: "Se Arancia meccanica, così come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari − o cinematografici − contro l'indifferenza, la sensibilità morbosa e l'eccessiva fiducia nello Stato, allora quest'opera avrà qualche valore".
    Ciò che Burgess definiva, con un certo understatement, "salutare monito letterario", era in realtà parte di una lunga tradizione letteraria britannica, che va da Tommaso Moro a Johnatan Swift fino a Huxley e Orwell: una tradizione di narrativa utopica, ma allo stesso tempo di critica politica, e spesso di interpretazione acuta della realtà, quando non addirittura del futuro. È proprio questo il caso di Burgess, che immagina lo scenario inquietante dove il degrado urbano dilaga, le famiglie si rinchiudono in casa davanti alla televisione, uno Stato di polizia interviene solo attraverso la repressione, la classe politica è corrotta e opportunista. Uno Stato che vuole imporre per legge comportamenti "civili", magari − come nel caso del teppistello Alex, attraverso strumenti di condizionamento, che sessant'anni fa venivano chiamati "lavaggio del cervello", e che oggi si avvalgono di altri mezzi.
    Ma se Arancia meccanica è questo romanzo in cui si esplora la natura del male, ancora più inquietante e oggi di grandissima attualità − è un altro romanzo di anticipazione che Burgess scrisse a breve distanza dal suo capolavoro, sempre nel 1962, Il seme inquieto, pubblicato in Italia dall'editore Fanucci. Se il succo di Clockwork Orange era che l'uomo deve essere libero per scegliere tra il bene e il male, in questa seconda opera Burgess dispiega per intero la sua visione del mondo e della storia, visti secondo una prospettiva teologica.
    La storia umana prevede una sorta di ciclico ripetersi di fasi, riassumibili come agostiniana e pelagiana. La fase agostiniana è pessimista, fortemente consapevole della presenza del male nel mondo, coerentemente al pensiero di Sant'Agostino, e si traduce in termini politici nel conservatorismo. Il pelagianesimo invece era un'eresia prodotta da un monaco britannico (combattuta fortemente dallo stesso Agostino) che sostanzialmente negava il peccato originale e le sue conseguenze, riteneva che non fosse necessaria la Grazia come aiuto divino all'uomo, ma uno sforzo moralistico di miglioramento. Nel pelagianesimo, il ruolo di Gesù è solo quello di presentare un "buon esempio" da seguire. Per Burgess la fase pelagiana va dal socialismo al comunismo, segnati da ottimismo riguardo le sorti umane, che si traduce in progressismo politico, almeno fino a quando non deve fare i conti con la realtà. Allora la maschera ottimista e buonista cade e lascia intravvedere un volto arcigno, spietato, totalitario.
    Nel Seme inquieto Burgess ci presenta una visione del futuro (siamo in pieno XXI secolo) spaventosa. La procreazione naturale è pesantemente scoraggiata, mentre lo Stato − e questa è una trovata interessantissima, vista l'epoca in cui il libro venne scritto − incentiva l'omosessualità vista come radicale soluzione per ridurre le nascite. Lo stile di vita omosessuale viene propagandato nella pubblicità, nei media, e palesemente chi è omosessuale ottiene promozioni e facilitazioni di carriera negli enti pubblici. La famiglia tradizionale è combattuta con tutte le forze a disposizione, fino ad interventi polizieschi repressivi. L'unica visione del mondo ammessa è quella del potere, dove l'individuo deve imparare ad accettare senza discutere, senza neppure esitare, la visione della società e della vita che gli viene imposta. Ma, come scrisse Burgess, "solo i malvagi e gli stupidi possono accordare fedeltà totale a un partito politico".
    Burgess difende in questo romanzo il diritto alla vita, le ragioni della famiglia, ma anche e soprattutto il diritto ad avere, come avevano detto anni prima i distributisti Chesterton e Belloc, una mente libera. Il romanzo ci presenta questa sfida di fronte ai condizionamenti del potere, alle seduzioni del male, alla fragilità umana. In un mondo impregnato di menzogna, scegliere di non adeguarsi può sembrare follia, come il personaggio di un prete cattolico, Ambrose, o come Shonny, che decide di abbandonare la follia urbana e di fare il contadino, anch'egli cattolico e fautore dell'importanza dell'identità in un mondo che presenta come ideale la promiscuità indistinta e indistinguibile.
    Ma, se come dice Burgess, "essere sani di mente è uno svantaggio e un inconveniente se vivi in un mondo di pazzi", l'amore per la verità spinge alcuni a non temere questo svantaggio, a non conformarsi, a non accettare il pensiero unico, il totalitarismo soft o duramente poliziesco. Burgess dunque, come e forse più di altri autori di anticipazione come Orwell o Huxley, è stato un visionario profeta che ha intravisto lucidamente le evoluzioni del pensiero e delle politiche postmoderne, e ci ha messo sapientemente in guardia.
    LETTURE/ Da "Arancia meccanica" al "Seme inquieto", le profezie (azzeccate) di A. Burgess







    Tempi num.16 del 19/04/2007
    Intervista
    Eugenio Corti
    «Andai sul fronte russo per vedere se davvero i comunisti erano più cristiani di noi, come diceva il maritainiano Mounier. Scoprii che il regime comunista aveva fatto cose terrificanti. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto»
    di Persico Roberto
    «Ha fatto proprio bene a pubblicare quel pezzo su Cochin, quel che descrive lo studioso francese è esattamente quel che è successo a me: se uno non fa parte del coro della cultura dominante viene messo al bando». Eugenio Corti, 86 primavere portate benissimo - fino a un paio d'anni fa prendeva l'aereo da solo per andare dai suoi numerosi supporter parigini, ora si aiuta con un bastone per camminare, ma la mente è lucidissima - si è preparato a dovere per ricevere l'inviato di Tempi nell'antica villa di famiglia sui colli della Brianza, un pezzetto di parco da cui lo sguardo spazia dalle prealpi fino laggiù a Milano. L'occasione è la pubblicazione da parte di Ares della ventunesima edizione del suo opus magnum, Il cavallo rosso, un risultato straordinario per un romanzo che non ha mai avuto altro sostegno che quello del proprio valore e del passaparola dei tanti che lo hanno apprezzato. Ma la conversazione spazia, inevitabilmente, su tutta la storia di uno dei grandi testimoni del secolo passato. E comincia dallo stupore del cronista per la quantità di lettere che riceve, per le tante persone che ancora lo cercano, dall'Italia e non solo. «Sì, sono in tanti i giovani che vengono regolarmente a trovarmi, a parlare di tante cose».
    Che cosa trovano dunque in lei?
    Credo che interessi loro sentire un testimone del secolo passato. Uno che dopo avere attraversato tutti gli orrori e le bestialità del secolo non ha perso la fede ma l'ha incrementata.
    Tante persone di fronte agli orrori del Novecento hanno abbandonato Dio, lei no. Come è stato possibile?
    Non è stato un merito, è stato un regalo di Domeneddio. Un regalo di cui però fa parte la solida preparazione cristiana anche culturale che ho ricevuto fin da giovane: sapevo bene che Dio ha detto ben chiaro che i disastri sono le conseguenze che l'umanità si tira addosso quando abbandona la sua strada. Non è Dio che ha abbandonato l'uomo, è l'uomo che ha abbandonato Dio e le conseguenze sono stati gli orrori del secolo passato.
    Orrori che lei ha incontrato consapevolmente dal momento che, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ha chiesto espressamente di essere inviato sul fronte russo. Perché questa scelta?
    Sì, è vero. Io studiavo allora legge all'università Cattolica a Milano. Nella biblioteca dell'università mi imbattei in un fascicolo di Esprit, la rivista diretta da Emmanuel Mounier. Io non lo conoscevo, ma sapevo che era amico e allievo di Jacques Maritain, e Maritain era allora l'"avanguardia" della cultura cattolica mondiale, così volli leggerlo. C'era scritto che non era vero che il comunismo russo era la peste, che a dipingerlo così erano i fascisti e le "demoplutocrazie", ma che i comunisti in realtà erano più cristiani di noi. Se lo dice questo qui che è allievo di Maritain, mi dissi, bisogna andare a vedere. Così allo scoppio della guerra, mentre tutti cercavano di imboscarsi, io chiesi di essere mandato sul fronte russo. Fu l'esperienza definitiva della mia vita.
    Che cosa scoprì?
    Parlai tantissimo con i russi, per quel che permetteva la lingua, e scoprii qualcosa di terrificante: non c'era una famiglia che non avesse almeno un membro ucciso dal regime comunista o deportato in Siberia. Raccolsi i racconti degli anni terribili della carestia in Ucraina e del cannibalismo che ne seguì. Quella vicenda mi fece toccare con mano la verità di quel che aveva scritto sant'Agostino millecinquecento anni prima: o si costruisce la città di Dio, o inevitabilmente si costruisce la città del Principe di questo mondo. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto. Nacquero così i miei primi libri, sostanzialmente autobiografici, I più non ritornano, I soldati del re, e naturalmente Il cavallo rosso.
    Si può dire che la sua vocazione di scrittore nacque allora?
    No. Era nata prima. Era nata sui banchi della prima ginnasio, quando avevo scoperto Omero: "Farò come questo", mi dissi allora. Perché Omero trasforma in bellezza tutto ciò di cui parla. E da allora non ho mai lasciato questa impostazione.
    Poi però non si è più limitato a raccontare la sua esperienza.
    No. Poi ho sempre cercato di approfondire attraverso i miei romanzi le questioni che mi sembravano più urgenti. Studiai a lungo, naturalmente, il comunismo, e da quel lavoro è nato Processo e morte di Stalin, dedicato alla natura criminale di quel sistema. Poi ci sono state la decolonizzazione e la globalizzazione, si è incominciato a vedere gli europei come colpevoli di tutti i mali del mondo; così ho scritto La terra dell'indio, sulla stupefacente avventura dei gesuiti in Paraguay, che con le "reducciones" hanno portato in pochi anni un popolo intero dalla preistoria a una civiltà prospera e raffinata. Poi si è diffuso il mito dei mari del sud, dei paradisi incontaminati, del buon selvaggio che vive felice, libero dalle regole della civiltà occidentale; così ho scritto L'isola del paradiso, la storia vera degli ammutinati del Bounty, un gruppo di uomini che hanno cercato di costruire una civiltà nuova, "naturale", e hanno finito per scannarsi tutti uno a uno. Infine, pensando alla questione delle radici cristiane, dell'impotenza balbuziente dell'Europa a rivivere la sua cultura, ho scritto Catone l'antico, la storia di quest'uomo in cui la fierezza romana si apre all'attesa di una speranza nuova.
    E oggi a cosa sta lavorando?
    Quando ho compiuto 85 anni mi sono detto: "Hai parlato di tutto tranne del periodo storico che ti piace di più, il medioevo", così ho cominciato a scrivere la storia della beata Angiolina, una lontana antenata di mia moglie. Spero che Dio mi dia la forza di finirlo prima di morire.
    Un libro sul medioevo che non sia Il nome della rosa sarebbe un evento nelle nostre scuole.
    Quella è stata un'enorme canagliata. Umberto Eco ha preso in mano un interesse vero e lo ha rovesciato. E pensare che è lo scrittore italiano più venduto nel mondo...
    Non è vero, sa? Lo scrittore italiano più venduto nel mondo è Guareschi.
    Davvero? Sono proprio contento. L'ho conosciuto, Guareschi: naja io, naja lui, credente come può essere un soldato, rustego. Combatteva per il cristianesimo in modo laico, e militaresco.
    Torniamo a Maritain e Mounier. Come li ha guardati dopo l'esperienza russa?
    Li ho combattuti con tutte le mie forze, perché ho capito quale era il loro errore. Maritain in origine era un socialista rivoluzionario ateo; poi Dio gli ha toccato il cuore, ma lui è rimasto accecato dalla errata convinzione che nel bagaglio culturale dei marxisti e dei laicisti - che erano suoi amici - c'erano molte verità cristiane impazzite. Maritain si definì un minatore che cercava valori e virtù cristiani nascosti nel mondo laico, e finì per convincersi che costoro - che lui era ansioso di conquistare alla sua nuova fede - fossero in sostanza già cristiani, e che si potesse costruire una "nuova cristianità" con marxisti e laici.
    E in cosa consiste l'errore?
    Nel fatto che una verità, un valore o una virtù cristiani, messi nel bagaglio degli altri, li rendono ancora più avversi al cristianesimo. Le faccio un esempio, preso dal libro di Rudolf Höss, Comandante ad Auschwitz: non era facile, spiega Höss, mantenere gli altissimi ritmi previsti per lo sterminio degli ebrei; fu possibile farlo solo grazie al grande "spirito di abnegazione" delle SS addette ai crematori, che rinunciarono alle licenze e si sobbarcarono turni pesantissimi. Capisce la follia? Lo spirito di abnegazione è certamente un valore cristiano, ma al servizio di una causa sbagliata la rende solo più micidiale.
    Maritain alla fine si accorse dell'errore.
    Sì, e ne Il contadino della Garonna arrivò a dire che i cristiani erano stati stupidi a credere a quello che lui aveva detto. Intanto però il danno era fatto, aveva gettato il seme della peste del cattocomunismo: di lì sarebbero fioriti i vari Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira.
    Personaggi che lei ha avversato duramente.
    La mia querelle con Lazzati risale al tempo del referendum sul divorzio. Gabrio Lombardi, che era stato capitano durante la guerra, era stato incaricato di dar vita al Comitato per il sì e mi chiese di fare il vice presidente. Io obbedii, lasciando anche la stesura del Cavallo rosso, e mi ritrovai di fatto a fare di tutto. E il mio avversario più accanito divenne proprio Giuseppe Lazzati, che pure era stato mio amico. Ma difendeva una concezione che avrebbe disciolto il cristianesimo, e continuai ad attaccarlo duramente. Non ci siamo più parlati. I suoi discepoli, che alla Cattolica sono ancora forti, specie nella facoltà di Lettere, non me lo hanno mai perdonato. Allora ebbi anche una polemica con Avvenire, che accusai di avere abbandonato la battaglia contro il comunismo, cosa che in quegli anni era davvero accaduta. Così per il mondo cattolico italiano sono rimasto uno "scomunicato".
    Nessuno è profeta in patria.
    Forse è vero. Infatti ho trovato molto più sostegno in Francia. Paradossalmente, proprio a partire dalla mia battaglia contro Maritain: in Francia c'è un gruppo di cattolici, più emarginati dei cattolici italiani dalla vita pubblica, che cercano di mantenersi fedeli alla tradizione, e hanno trovato nei miei scritti un punto di riferimento. Così finché ce l'ho fatta sono andato regolarmente a trovarli.
    E comunque non ha mai rinunciato al suo lavoro di scrittore.
    Io non ho avuto la vocazione alla carità, come mio fratello che è frate in Ciad, o come l'altro che ha fondato un ospedale in Uganda. Però nel Vangelo la verità è fondamentale come la carità. Io ho avuto la vocazione alla verità: posso lavorare per aiutare gli uomini a non staccarsi mai dalla verità. Guardi, me l'ha scritto anche don Giussani quando ho compiuto 80 anni: «Chiedo alla Madonna di conservare la sua vita nella baldanza che la caratterizza, fiero difensore della verità che nella fede ragionevolmente tramandata e da lei personalmente rivissuta e resa attuale trova la sua apologia più affascinante, specialmente in questi tempi drammatici».
    Per questo vado avanti.

    "Il Timone"
    Cause di una rovina
    Falso l' umanesimo che mette i cattolici al servizio del mondo.
    Il rimedio è nella coerenza cristiana.
    di Eugenio Corti
    Tra le principali cause dell'attuale smarrimento di identità della cultura cristiana si deve collocare la comparsa, poco prima della seconda guerra mondiale, di un corpo di idee nuove, promosse dal filosofo cattolico francese Jacques Maritain.
    Costui, convertitosi nel 1905 dall'ateismo rivoluzionario al cattolicesimo, aveva in un primo tempo scritto opere antirivoluzionarie (come Antimoderno e I tre riformatori), e si era in seguito distinto per un efficace ammodernamento del tomismo, per il quale gli siamo debitori ancora oggi. Aveva insomma molto bene meritato nel campo della cultura cattolica, e glien'erano venuti ampi riconoscimenti e una straordinaria autorità. Per farsi un'idea della grande autorità acquisita da Maritain tra le due guerre e nel dopoguerra, si pensi a quella - nello stesso periodo di tempo - di Benedetto Croce nella cultura laica italiana: con la differenza che l'autorità di Maritain non si limitava all'ambito francese, ma si estendeva alla cultura cattolica del mondo intero.
    Prima della guerra, però, Maritain aveva formulato un suo grande progetto di "nuova cristianità", che si staccava non poco dall'insegnamento perenne della Chiesa, e l'aveva diffuso mediante un volume che divenne notissimo; Umanesimo integrale (uscito in Francia nel 1936, tradotto in italiano nel 1946). L'opera si caratterizzava per la ricerca delle verità, delle virtù e dei valori cristiani "impazziti" - cioè delle verità, delle virtù e dei valori cristiani "prigionieri dell'errore" ma pur sempre cristiani - che si troverebbero nel patrimonio culturale di determinati gruppi avversi alla Chiesa, segnatamente dei comunisti e dei laicisti radicali. Di questi gruppi Maritain prospettava l'inclusione nella "nuova cristianità", appunto sulla
    base di tale supposto patrimonio comune.
    Le sue idee vennero severamente confutate dalla rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica" (anno 1956, v. III, pagg. 449463) in un importante articolo del direttore padre A. Messineo, considerato allora portavoce di papa Pio XII: detto articolo si conclude con le parole: "L'"umanesimo integrale" non è l'umanesimo dell'uomo rigenerato dalla Grazia... Nella sua sostanza l'"umanesimo integrale" è un naturalismo integrale".
    Malgrado questo, le idee di Maritain incontrarono sempre maggior credito e adesione tra i cristiani: qui in Italia il successo si fece un po' alla volta addirittura travolgente, favorito anche dagli stessi avversari, i quali, mentre non intendevano certo farsi inquadrare dai cristiani, vedevano però in quel progetto un'occasione che bloccasse l'avanzata allora in atto dei cristiani su piano nazionale.
    Il chiudere troppo a lungo gli occhi sulla realtà delle cose, il fare - anche se in buona fede - spazio all'errore, comporta sbocchi molto gravi. Paradigmatico fu il caso di La Pira che, a quanto sembra, allorchè nel 1956 venne richiesto da Crusciov - col quale aveva notoriamente scambio di corrispondenza - di far conoscere in Occidente il suo famoso "rapporto segreto" al XX Congresso, in cui si denunciava e demoliva lo stalinismo, non ne volle sapere. La Pira cioè non avrebbe accettato di collaborare al ristabilimento di una verità comportante la liberazione dalla schiavitù per centinaia di milioni d'esseri umani; evidentemente perchè, se avesse accettato, avrebbe con ciò stesso implicitamente riconosciuto di avere costruita la propria testimonianza anche su una colossale menzogna. Viene spontaneo chiedersi fino a che punto si debba a questa omissione di La Pira - e ad altre consimili di personaggi "esemplari" come lui, il fatto che tra i cattolici italiani l'enormità negativa dell'esperimento storico comunista venne recepita in modo del tutto inadeguato. Tanto che, al pari degli altri italiani, i cattolici vivono ancora oggi in uno stato di semi menzogna.
    Dice il Vangelo: "riconoscerete i falsi profeti dai loro frutti". Dai
    frutti, cioè dai fatti. Cos'è derivato nei fatti dall'apertura e dal dialogo che tanti cattolici finirono col fare non soltanto al mondo contemporaneo in generale, ma specificamente al comunismo, al laicismo, e ad ogni genere di modernismo?
    Per cominciare, una spaccatura nella cultura cattolica che ha portato alla sua paralisi.
    Poi, limitandoci ai soli accadimenti maggiori, una cessazione, nell'ambito delle società più avanzate, delle conversioni al cattolicesimo, che prima si contavano ogni anno a centinaia di migliaia.
    Inoltre una crescente perdita della nostra identità, con conseguente caduta delle vocazioni religiose: nel giro di appena una decina d'anni i chierici nei seminari si ridussero alla metà, e in qualche diocesi addirittura a un quinto o a un sesto.
    Negli ordini religiosi si ebbero colossali defezioni: tra i gesuiti diecimila padri su trentaseimila abbandonarono lo stato religioso, tra i domenicani (altro ordine culturalmente avanzato) la percentuale delle defezioni fu ancora più elevata (si fa presto a dirlo: ma quando mai nella storia millenaria della Chiesa si era assistito a qualcosa di simile?). In pari tempo, l'Azione Cattolica italiana ha visto il numero dei propri membri precipitare da tre milioni a seicentomila.
    È ben noto il lamento di papa Paolo VI già nel giugno 1972: "Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio... Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una "giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio". E la sua precisazione (18.9.74): "Grande parte di essi mali non assale la Chiesa dal di fuori, ma l'affligge, l'indebolisce, la snerva dal di dentro. Il cuore si riempie di amarezza".
    Contemporaneamente, ha avuto luogo sul piano storico una nuova, tumultuosa avanzata della società secolarizzata, che si è affermata rapidamente nel costume (paganesimo sessuale, droga, scristianizzazione crescente del popolo), nonchè nell'ambito delle leggi (divorzio, aborto ed altre).
    Quanto a Jacques Maritain, va ricordato che più tardi si è spaventato e ricreduto. Nel suo ultimo libro importante infatti, Il contadino della Garonna (1966; traduzione italiana ritardata al 1969), Maritain ha parlato, riprovandolo, di un "neo-modernismo" scatenatosi nella Chiesa, in confronto al quale quello che a principio secolo preoccupava tanto non fu che "un modesto raffreddore da fieno".
    Ma ormai il danno era fatto.
    I seguaci di Maritain non sono più tornati indietro: anzi, dopo che si è arrivati alla spaccatura del partito politico cristiano, essi si sono subordinati agli eredi del comunismo, dandogli modo di prendere la guida del governo.
    Che fare oggi, in tale situazione? Ci richiamiamo a un'altra affermazione di papa Paolo VI: "Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia". Il Papa aggiunge: "Ciò che manca in questo momento al cattolicesimo è la coerenza".
    Ecco: i cattolici che non si sono messi al seguito degli atei devono conservarsi coerenti, e conservare gelosamente la propria identità. Consci di quella promessa che è pegno di vittoria, fatta da Cristo ai suoi: "Io sarò con voi sino alla fine". Dobbiamo anche ricordare quel severo ammonimento del Vangelo: "Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini" (Mt 5,13).




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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Giuseppe Bottai, un politico di grande levatura. Ce ne parla Piero Vassallo
    di Lino Di Stefano
    Non solo politico, ovviamente, ma anche uomo di cultura di notevole prestigio – e non usiamo, di proposito, il termine ‘intellettuale’ sia perché esso è stato sfruttato da certe forze partitiche, sia perché, da tempo, risulta inflazionato e, in quanto tale, da evitare -; ci riferiamo a Giuseppe Bottai (1895-1959) del quale è uscito, cinque anni fa, a cura della Libreria dello Stato (Roma, 2009) una bella antologia dal significativo titolo, ‘La politica delle Arti’ ( Scritti, 1918-1943).
    Antologia ben curata da Alessandro Masi – anche col supporto di significative fotografie – ma distribuita, quasi di nascosto, nelle Biblioteche e nei Centri di cultura, in genere. La qualcosa è molto sintomatica ove si consideri il valore del politico, dello studioso e, non ultimo del Ministro dell’Educazione Nazionale, il quale, osserva, giustamente Vassallo, autore del libro di cui stiamo per occuparci, “introdusse nella scuola l’ora di lavoro manuale, allo scopo di far comprendere agli scolari la difficoltà e la nobiltà della fatica”. Motivi questi ultimi, presenti, tra l’altro, nell’opera postuma di Giovanni Gentile, ‘Genesi e struttura della società’ (1946).
    Ora, Piero Vassallo non ha, certo, bisogno di presentazioni, e bene ha fatto a regalarci, in questi giorni, il breve, quanto acuto, omaggio dedicato al personaggio romano; omaggio – ‘Giuseppe Bottai’(Solfanelli, Chieti, 2014,) – dal titolo semplice, ma efficace perché l’aureo volumetto ripercorre, passo passo, non solo il pensiero, ma anche la travagliata esistenza di uno degli esponenti più importanti del Ventennio fascista.
    Bottai, è stato, infatti, “uno dei tanti volti del fascismo” – come ha confermato la figlia, Maria Grazia, intervistata dallo storico Francesco Perfetti, il 30 aprile 1981 (Il giornale d’Italia) – cioè “un teorico, un idealista, forse un illuso”, il quale, sempre secondo la figlia, non ha potuto realizzare ciò che intendeva attuare per effetto della prevalenza di “interessi speculativi che si sono alleati a quelli politici”. Ma torniamo al saggio di Vassallo intorno all’uomo, al politico, allo studioso e al gerarca fascista, apprezzato sia in Italia che all’estero.
    Il profilo che ne traccia l’Autore è senz’altro veritiero, documentato e appassionato in quanto egli ne analizza anche l’aspetto religioso, dato che – l’espressione è di Bottai, riportata da Vassallo – “la parola del Signore aveva misteriosamente operato in me, proprio negli anni in cui nessuno mi parlava di Lui”.
    Egli ne delinea, pure il versante più squisitamente politico, visti i rilievi ai componenti ai più facinorosi del regime, quali Farinacci e Starace, e addirittura a Mussolini con la sua “capricciosa e geniale instabilità”. Posto, nuovamente, l’accento sull’importanza della riforma scolastica e della consequenziale politica culturale dell’autore di ‘Vent’anni e un giorno’, Piero Vassallo non si lascia sfuggire l’occasione per una puntuale disamina relativa all’azione del gerarca nell’immediato dopoguerra fino alla prematura morte avvenuta a Roma nel 1959. Quest’ultimo fondò e diresse giornali e Riviste – celebre ‘A B C’ – ma ogni tentativo “per la costituzione di una cultura politica capace di armonizzare individualismo e tensione comunitaria” – scrive Vassallo – e qualsiasi prova di riavvicinamento coi post-fascisti fallirono a causa delle remore della classe dirigente di quel periodo, ad iniziare proprio da Almirante e dai suoi amici, tutti presi da nostalgismo in opposizione al realismo di Michelini.
    Messi in evidenza il prestigio e “la stima di cui godeva” Bottai, “negli ambienti cattolici fedeli a Pio XII”, l’Autore ha parole di biasimo e di rimprovero nei riguardi di Giorgio Almirante, il quale, nel 1960, per non spostare il Congresso del partito a Nervi, a due passi da Genova, favorì i noti e gravi incidenti di piazza che determinarono la caduta del governo Tambroni.
    A proposito, infine, della fuga del gerarca nella Legione straniera, Bottai parlò dell’esperienza nella Legione come di un lavacro per gli errori commessi durante la militanza nel regime. Egli fu un grande studioso e suscitatore di cultura di ampie vedute, che si trovò, suo malgrado, come tanti della sua generazione, ad operare in uno dei periodi più difficili della storia d’Italia e, in quanto tali, ardui per tutti. Tutto ciò, ed altro, è presente nel lavoro di Piero Vassallo; libro redatto con la solita chiarezza, col consueto coraggio e con il proverbiale estro ermeneutico: meriti non secondari.
    Giuseppe Bottai, un politico di grande levatura. Ce ne parla Piero Vassallo ? di Lino Di Stefano | Riscossa Cristiana







    “Bella ciao”, di Giampaolo Pansa. Una provocazione alle vestali dell’antifascismo sempre militante
    di Giovanni Lugaresi
    By Riscossa Cristiana
    Che cosa volevano i partigiani che imbracciarono le armi contro fascisti e nazisti? Libertà? Democrazia? Una parte di loro, sicuramente sì, ma un’altra, la più preparata, la più numerosa, la più determinata, no. Voleva altro, e questo altro significava un regime che avrebbe sostituito la dittatura di Mussolini con una dittatura di stampo sovietico
    di Giovanni Lugaresi
    Le note e le parole di “Bella ciao”, canzone cara ai (velleitari) neorivoluzionari del nostro tempo più che ai partigiani veri e propri di quegli anni lontani, non le sentivamo durante le celebrazioni resistenziali degli anni Quaranta e Cinquanta in terra romagnola, rossa, e (naturalmente) antifascista. C’erano altri inni, altre parole, e comunque tante bandiere con la falce e il martello – rare le altre.
    Incominciammo a sentire “Bella ciao” negli anni Sessanta; da allora, ecco questa sorta di refrain, bonne a tout faire o anche a tout dire, espresso dalla sinistra. Motivo con audience televisivo assai elevato quando tale Michele Santoro, presunta vittima di biechi reazionari, la orecchiò sottovoce in uno studio della tv, appunto.
    Ma adesso, che ti ha combinato quel rompiscatole di un Giampaolo Pansa? “Bella ciao – Controstoria della Resistenza” ha titolato il suo nuovo libro (Rizzoli; pagine 430, Euro 19,90), quasi una provocazione alle vestali di turno dell’antifascismo sempre militante, il prosieguo di un lungo viaggio nella guerra civile che insanguinò l’Italia dopo l’8 settembre 1943, e non fino al 25 aprile 1945, bensì pure oltre quella data, perché l’ultimo assassinio compiuto dai rossi (quello del sindacalista cattolico Fanin) data 1949!
    Una provocazione? Ma no. Diciamo invece, sine ira ac studio, una accurata disanima su una certa parte della Resistenza, certo, la più numerosa, preparata e agguerrita, ma anche la più facinorosa, violenta, cinica, barbara.
    Pansa non è (lo sanno tutti, anche quelli che da sinistra lo contestavano e continuano a farlo) un bieco reazionario; fra l’altro, non aveva l’età quando scoppiò la guerra civile: contava dieci anni alla sua fine, ergo… Ergo, è uno studioso serio, onesto, e come persona un galantuomo senza secondi fini.
    Che cosa volevano i resistenti, i partigiani che dopo l’8 settembre 1943 imbracciarono le armi contro fascisti e nazisti? Libertà? Democrazia? Una parte di loro, sicuramente sì, ma un’altra, la più preparata, la più numerosa, la più determinata, no. Voleva altro, e questo altro significava un regime che avrebbe sostituito la dittatura di Mussolini con una dittatura di stampo sovietico. Del resto, a guerra finita, ma non a spiriti rivoluzionari sopiti, non si sentiva dire (le nostre orecchie bambine era bene aperte) che la rivoluzione si sarebbe fatta, che la repubblica borghese avrebbe avuto la gogna e sarebbe stata soppiantata da “Baffone”, che aveva da venì! Era un progetto, un disegno, molto chiaro e palesemente dichiarato. Il progetto, il disegno, veniva del resto da lontano e tutti i comportamenti dei partigiani rossi nella Resistenza erano volti a quel fine. Per cui… ecco le pagine di Pansa.
    Che cosa bisognava fare secondo gli ordini provenienti dall’alto, cioè dal Pci? Inasprire la lotta; colpire il singolo fascista, aggredire e uccidere specialmente esponenti di rilievo della Rsi moderati, in modo da provocare rappresaglie, e una violenza tira l’altra, ecco, e avanti così, per inasprire la lotta, una sorta di passaggio obbligato verso il traguardo finale. In questo contesto, le brigate Garibaldi agli ordini di Longo e Secchia, non si sarebbero limitate a eliminare i nemici della democrazia e della libertà, quali fascisti e nazisti, aggrediti indiscriminatamente. Ma sarebbero andate ben oltre, eliminando chiunque nelle file partigiane non condividesse il progetto, il disegno, e i modi per attuarlo.
    Naturalmente, l’autore cita fatti e misfatti, fa nomi e cognomi, riferimenti a proclami, dichiarazioni, documenti. Stragi di partigiani non comunisti in Liguria, Piemonte e quella degli appartenenti alla Osoppo in Friuli, rappresentano, per fare qualche esempio, casi di determinazione, di spietatezza, in un tempo, in una temperie, in zone d’Italia, dove pietà l’era morta davvero, e non soltanto nei confronti di fascisti e nazisti, appunto, ma di chiunque non condividesse il progetto comunista. Altro che battersi per la democrazie e la libertà! Nelle pagine di Pansa ciò emerge nella crudezza di una realtà incontrovertibile. Mario Toffanin detto Giacca, Francesco Moranino detto Gemisto, Cino Moscatelli, esponenti di spicco della partigianeria comunista sono nomi da far venire i brividi, soltanto a leggerli.
    Altro che unità antifascista! “Nella guerra civile italiana, annota fra l’altro Pansa, i comunisti non intendevano avere concorrenti. Le bande partigiane che non accettavano di mettersi alle dipendenze del Pci venivano considerate gruppi avversari…”.
    L’autore cita anche alcune esperienze di governi provvisori, per così dire, smontando la retorica della “Repubblica di Montefiorino” e rivelando, per quella dell’Ossola, che “fra i suoi avversari non ci furono soltanto i tedeschi e i fascisti, ma anche i comunisti. Erano loro a chiamare ‘governino’ il governo libero insediato a Domodossola. Le altre repubbliche partigiane, a cominciare da quella di Montefiorino, erano nate sotto la stella rossa della Garibaldi. In Val d’Ossola accadde il contrario. E l’avversione del Pci risultò decisiva nello spingere il Cln dell’Alta Italia a guardare con fastidio ciò che avveniva in quell’angolo del Piemonte”.





    Tutto quanto riferito, sottolineato, dallo studioso, ha precise pezze d’appoggio e se taluni episodi erano già noti al grande pubblico, altri lo erano meno, quando non addirittura sconosciuti. Come che sia: una bella rinfrescata di storia patria, questa di Pansa, e tale da farci concludere con una raccomandazione: quella di pensarci due volte, da parte dei giovani (ancorché velleitari) neorivoluzionari prima di intonare “Bella ciao”…
    Da qualche parte, se non andiamo errati, sta scritto: “… ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue”!
    Ecco: meditate, gente, meditate!
    ?Bella ciao?, di Giampaolo Pansa. Una provocazione alle vestali dell?antifascismo sempre militante ? di Giovanni Lugaresi | Riscossa Cristiana




    10 grandi film conservatori dentro
    Una visione del mondo tornata con 300: l’alba di un impero, che però ha una lunga tradizione alle spalle
    Gabriele Niola
    Tornano in sala persiani, ateniesi e spartani, con 300: L’alba di un impero, film tratto da un fumetto che non esiste ancora. Se 300 infatti veniva dall’opera omonima di Frank Miller, questo viene da Xerxes, operona che il grande autore/disegnatore non ha ancora ultimato (ma nondimeno ha aiutato a fare il film in quanto produttore esecutivo). In entrambi i casi siamo di fronte ad una delle manifestazioni più cristalline del cinema conservatore.
    Si intenda bene che questa in sé non è una valutazione di merito ma una denotazione: 300 e il suo sequel che esce in sala è puro conservatorismo messo in pellicola, valori di forza, coraggio, purezza, fratellanza, onore e patriottismo ai massimi livelli.
    Se il primo film era un vero capolavoro visivo, capace di prendere l’arte di Miller e tradurla in cinema con idee così importanti da aver poi contaminato tutto quel che è venuto dopo (l’antica Roma o antica Grecia con parecchia Cg e color correction evidente è diventato un genere da Spartacus a Scontro tra titani e oltre), questo inizia bene, addirittura con un 3d bellissimo, e poi lentamente diventa più canonico, più addomesticato e meno animale.
    Tuttavia non bisognava di certo aspettare Miller, Snyder e ora Murro per vedere il miglior cinema conservatore. Esagerati, grotteschi, troppo propagandistici o sottilmente audaci se non proprio apertamente morali e capaci di un sentimentalismo tutto istintivo i film conservatori tracciano una storia del cinema tutta loro, visti con pregiudizio per l’ideologia se affrontati con sguardo libero possono regalare inaspettate sorprese.
    10. Via col Vento
    Dopo Nascita di una nazione (in cui il Ku Klux Klan salva l’America!)






    è uno dei casi cardinali. Rossella O’Hara è uno dei migliori personaggi mai scritti tra quelli che si pongono agli antipodi del femminismo: una donna forte che non combatte le regole e le divisioni di ruoli, ma lotta per se stessa e rimanere ricca, una sudista, schiavista, attaccata a famiglia e proprietà, alle proprie radici e alla propria terra.





    Senza contare poi la maniera in cui vengono dipinti gli schiavi di colore….





    9. L’ispettore Callaghan
    Sia da attore che poi da regista (ma con meno spudorata propaganda) Eastwood è sempre stato apertamente conservatore, e nella serie dell’ispettore diretta da Don Siegel (quello che in L’invasione degli ultracorpi aveva raccontato la minaccia d’invasione dei comunisti che ci vogliono tutti uguali)



    brutalizza i criminali con livelli di violenza all’epoca inediti. Un uomo solo, più retto della legge stessa, più incrollabile e virile di chiunque, pronto ad andare oltre le regole per imporre un concetto di giustizia superiore al diritto.


  6. #76
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    8. Rambo III
    Il reduce che non viene accettato dal proprio paese, il soldato decorato che ha combattuto per tutto un paese ma che viene accolto a sputi in faccia. Rambo l’ideologia repubblicana ce l’ha scritta nelle caratteristiche fondamentali. Però nel terzo film si travalica qualunque confine, la guerra in Afghanistan, la minaccia rossa, l’America, l’interventismo… Incredibile che negli anni gli si sia rivoltato tutto contro.



    7. Top Gun
    Un classico. Talmente palese da risultare anche inefficace come propaganda. I sovietici con caschi neri che li privano del diritto ad un volto e ad una personalità



    l’America tutto genio e sregolatezza, corpi bellissimi, occhiali da sole, beach volley e bandiere ovunque. La vera autoesaltazione patriottica.



    6. Rocky IV
    Quella volta che nella notte di Natale Rocky Balboa da solo sconfisse tutta l’Unione Sovietica, battendo il loro campione anabolizzato, conquistando lo stesso popolo russo e ponendo fine alla Guerra Fredda….



    5. Alba rossa
    E’ forse John Milius il più grande autore cinematografico conservatore che abbia mai portato in sala dei film. Tutto in lui trasuda un’etica destrorsa, dai lavori più sentimentali come Un mercoledì da leoni a quelli più complessi che altri hanno diretto come Apocalypse Now!, ma è Alba rossa il più esplicito. Una distopia in cui i sovietici di colpo e senza avvertire invadono gli Stati Uniti e un gruppo di ragazzi si attrezza per combattere nella resistenza mollando le loro vite precedenti.



    4. Tutti insieme appassionatamente
    Un film praticamente perfetto, tutto ripiegato su un’idea di famiglia, procreazione, rigida educazione infantile e morale sentimentale attraverso un’istitutrice austriaca!





    3. Il giustiziere della notte
    Un all time favourite del pubblico di Rete 4, la materializzazione di qualsiasi sogno di giustizia, iniziatore di un filone inarrestabile di film in cui ad un uomo viene uccisa la famiglia (o vari membri di essa) e si imbarca in un’impresa di vendetta in proprio, avendo capito che la legge non è abbastanza dura con i criminali per dargli quello che meritano.



    2. Apocalypto
    Ogni film di Mel Gibson potrebbe rientrare nella categoria. Bellissimi e ideologici al massimo (impensabile non commuoversi nel finale di L’uomo senza volto, niente di meno che durante la cerimonia di West Point). Apocalypto ne è forse la dimostrazione più vitale e irripetibile, un film anticommerciale, parlato in lingua Maya, realizzato con i miliardi ottenuti da La passione di Cristo, senza nessuna star e andato malissimo al botteghino. E’ una lunga corsa verso la sopravvivenza di un uomo che non ci sta a diventare schiavo e abbandonare tutto quello con cui è cresciuto e che alla fine da preda diventa cacciatore una volta rientrato nei suoi territori. Pura forza umana messa su pellicola.




    1. Fronte del porto
    Dramma umano straordinario che folgorò un giovane Martin Scorsese (“Era la prima volta che vedevo sullo schermo gente come quella che ogni giorno incontravo nel mio quartiere. Quelle facce, quei cappotti, quel modo di parlare”), rivelò al cinema Marlon Brando e il suo innovativo stile di recitazione e consegnò alla storia Elia Kazan (regista immenso purtroppo noto quasi solo per aver fatto il delatore durante il maccartismo).
    E’ la storia di due fratelli, un pugile e l’altro ingannato e sfruttato che però, istruito da un prete, ha il coraggio di ribellarsi contro i sindacati che dominano con pugno di ferro il porto e schiavizzano i lavoratori. E lo fa facendo il delatore!
    10 grandi film conservatori dentro - Wired










  7. #77
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Elena Bono scrittrice pura
    Ci ha lasciato l’autrice del grande ciclo narrativo “Uomo e Superuomo”. Il ricordo di un estimatore e amico
    di Giovanni Casoli
    È morta a 92 anni la scrittrice Elena Bono, prima confortata da una fama europea, poi dimenticata per molto tempo, infine ritrovata da un piccolo coraggioso editore, Le Mani (Recco).
    Ho contribuito a sottolinearne la grandezza (la considero la migliore scrittrice italiana del secondo Novecento), tanto da risvegliare la sua gratitudine nella reciproca stima.
    La sua poetica, distesa nell’opera in versi quanto in quella in prosa, l’ha definita lei stessa in poche parole: «Chiudere gli occhi e guardare».
    Mi diceva: «Io credo nella Parola» (con la maiuscola). Con questa fede ha scritto versi memorabili e il grande ciclo narrativo Uomo e Superuomo, che un editore “grande”, ma soprattutto vero e serio, potrebbe e dovrebbe oggi riproporre.
    Elena Bono scrittrice pura

    «Il bene è la scelta difficile»
    di Stefania Venturino
    Il 26 febbraio è morta a Chiavari Elena Bono, la più grande scrittrice e poetessa italiana della seconda metà del XX secolo. Emarginata dall'editoria per la sua fede cattolica, era stata intervistata da La Nuova BQ giusto un mese fa. Ora vi proponiamo la testimonianza di chi le è vissuto accanto per molti anni, fino alla morte, prima come semplice amica poi come press agent.
    Ho conosciuto Elena Bono negli anni ’90, quando scrivevo come cronista nella redazione genovese de “Il Giornale” e fui incaricata di intervistarla. Il primo incontro – per la verità per me folgorante - fu solo telefonico, ma ne seguirono molti altri, di persona, e con gli anni il nostro rapporto crebbe e si trasformò via via in un vero e proprio sodalizio umano e professionale.
    Elena Bono, nata a Sonnino nel 1921, ha vissuto a Chiavari fin dalla sua adolescenza, dove il padre, Francesco Bono, illustre grecista e latinista, era preside del Liceo Classico. Fu durante il periodo di sfollamento della famiglia a Bertigaro, nell’entroterra ligure, che Elena incontrò colui che nel 1959 sarebbe diventato suo marito, Gian Maria Mazzini, discendente di Giuseppe Mazzini, morto nel 2009. E fu proprio quel periodo che segnò profondamente la vita e l’intera opera letteraria di Elena Bono, che decise di diventare staffetta partigiana operando nella sesta zona operativa, sotto il comando di Aldo Gastaldi “Bisagno” (Medaglia d’Oro al valor militare).





    Dopo l’8 Settembre ‘43 ella comprese l’importanza e l’urgenza di fare la sua scelta, di assumersi la sua parte di responsabilità nella storia che stava vivendo, scegliendo di lottare per la libertà. “Il problema è quello della scelta. Il bene è la scelta difficile”.
    Impossibilitata a scrivere per i postumi di un ictus e a seguito di una progressiva perdita della vista, per molti anni ancora Elena Bono ha continuato a creare nuove opere, fino a due anni prima di morire, dettando tutto a delle sue collaboratrici. Mai si lamentava della sua malattia, persino dopo che era costretta sempre a letto. “Durante il giorno – diceva – o prego o ripasso” – segno che la sua mente era sempre al lavoro, sempre presente e partecipe delle vicende del tempo, che seguiva attraverso la radio e la televisione, ma soprattutto con l’intelligenza della fede. La incontravo ormai da molti anni ogni settimana e per me era sempre un evento quasi celebrativo, mai scontato o ripetitivo, consapevole come ero di avere avuto il “privilegio”, e la responsabilità, di trovarmi di fronte ad una persona di raro talento letterario e di straordinaria cultura; soprattutto una donna che, fino all’ultimo, ha lottato per testimoniare il valore e la dignità della vita anche nel letto della malattia e della vecchiaia, riattualizzando quotidianamente il suo impegno e la sua ricerca di senso, confrontandosi con Colui che, di questo senso, ne è l’incarnazione assoluta ed eterna: Gesù Cristo e il Suo Vangelo.
    Dall’ascolto della Sacra Scrittura, e dalla frequentazione quotidiana alla Santa Messa, che ha praticato per la gran parte della sua vita (negli anni della malattia riceveva spesso l’Eucaristia a casa), Elena Bono ha imparato ed effettivamente ha conosciuto il valore sacro della Parola, facendo del recupero della sacralità della Parola una missione imprescindibile, come cristiana e come poeta. “Il vostro parlare sia sì sì, no no”: citava spesso questa esortazione di Gesù nel Vangelo. E pur affermando di aver sempre scritto “sotto una strana dettatura”, rispondendo con la poesia alla chiamata di amore di Cristo, la ricerca stilistica e linguistica è sempre stata per la Bono una impresa difficile ed estenuante, nella volontà di dover essere assolutamente fedele all’ispirazione ricevuta, senza nulla aggiungere di suo, per suo compiacimento o vanagloria.
    “Nella poesia è come nella scultura – diceva: non si tratta tanto di aggiungere quanto di togliere parole”. E portava l’esempio del grande e da lei amatissimo Michelangelo, spiegando che come in un blocco di marmo è già presente la forma che lo scultore dovrà saper tirare fuori, così è con le parole: occorre trovare quelle giuste e necessarie, non una di più non una di meno.
    Nonostante la malattia, che ne limitò sempre più pesantemente l’autonomia, Elena Bono è sempre rimasta la coraggiosa ragazza della Resistenza: dopo la morte di tanti suoi compagni di scuola, caduti per la libertà, ha continuato per loro ed in loro memoria a combattere, scrivendo memorabili poesie (è stata definita “poetessa della Resistenza”) e soprattutto la trilogia nota come “Uomo e Superuomo”, che racconta la guerra vista dalla parte dei tedeschi (la complessa stesura narrativa, che ha l’estensione di un gande romanzo classico, è raccontata da Fanuel Nuti, personaggio narratore e traduttore di un diario di un soldato tedesco da lui ritrovato, personaggio quindi che si pone dentro e fuori la lunga storia narrata, che abbraccia un ventennio, dal 1921 al 1940).
    Il grande comandante “Bisagno” (giovane uomo di fede cattolica limpida e decisa, cui venne attribuito il titolo di “primo partigiano d’Italia”), ma anche Giannotto Bado, Cesare Crosa di Vergagni, Gianpaolo Grosso, Cesare Talassano: tutti i loro ritratti, piccoli, incorniciati, appesi nella sua camera da letto, sono sempre stati con lei, più vivi che mai nel suo cuore e resi immortali in tante sue poesie del cosiddetto filone resistenziale, prima fra tutte “Vengono i giorni”. Elena Bono ha scritto in modo particolare pensando ai giovani: li ha sempre amati, e loro l’hanno sempre capito, ricambiandola.
    L’invito e l’esempio che Elena Bono ci lascia è quello di guardarsi dentro per sconfiggere il male che si annida innanzitutto in noi, comprendere quale sia la nostra responsabilità e la nostra parte nella storia, prendersi ognuno sulle spalle il peso che gli tocca e costruire, edificare la propria coscienza e la civiltà del proprio tempo, cercando sempre il Bene e la Verità che soli conducono alla vera libertà. Incurante dell’età e della malattia, Elena ha continuato sempre ad essere una combattente. Con la forza della fede che nasce dalla riconoscenza della scoperta dell’amore di Dio, nel segno della Croce, Elena Bono ha resistito con fierezza, pazienza e spirito di sopportazione rari contro ogni tentazione di nichilismo e di scoraggiamento, per affermare e testimoniare la dignità e il valore dell’esistenza e di ogni persona, senza mai giudicare, ma con gli occhi dell’anima sempre bene aperti: “Tutto era così semplice / chiudere gli occhi e guardare” – dice in uno dei suoi versi più celebrati.
    Non si lamentava mai, o quasi, del proprio stato di salute, attenta come era a verificare in ogni momento quanto la sua vita fosse o meno in sintonia con la Volontà divina, disposta a patire in espiazione dei suoi e degli altrui peccati: “La cosa importante, alla fin fine, è salvarsi l’anima” – ripeteva.
    Fino a non molto tempo fa, quando ancora riusciva a stare seduta in poltrona, riceveva a casa amici, studiosi, studenti, estimatori, giornalisti, artisti interessati a conoscerla perché appassionati della sua opera. E tutti si sono sempre sentiti bene accolti, altrettanto considerati e stimati. Spesso le opere letterarie e artistiche, quanto più sono grandi, tanto più superano in grandezza i loro stessi autori; ma nel caso della Bono non era così e chi la incontrava ne conservava un ricordo tanto indelebile quanto fertile, nella consapevolezza di aver avuto il privilegio di incontrare un testimone vibrante della nostra cultura e storia contemporanee. Ancora di recente le ho rivolto alcune domande riguardo alla sua opera. Ecco cosa mi ha risposto:
    So che è difficile per un autore dire se e quale opera ami di più rispetto alle altre, perché ogni opera d’arte è come un “figlio”. Tuttavia, quali senti più intimamente tua?
    “Morte di Adamo”. Sta per conto suo. Nasce da una visione che ebbi in un momento estremamente drammatico, in cui mi trovavo in pericolo di vita per una appendicite mal operata che era degenerata in peritonite. Riuscivo a nutrirmi solo con un grissino e una tazza di tè al giorno. Una sera vidi un uomo voltato di spalle, insanguinato, dietro ad una grata. Pensai: “Quest’uomo ha molto sofferto”. Si voltò e mi guardò. Lo riconobbi: era Gesù! Il suo sguardo, che mai ho dimenticato, era pieno di amore e di dolore nello stesso tempo. Mi sentii infinitamente amata. Da quella visione nacque tutto: non solo “Morte di Adamo”, ma tutta la mia opera letteraria. Il sogno che la moglie di Pilato, Claudia Serena, racconta ne “La moglie del Procuratore” è il mio sogno. Come diceva qualcuno: “Il vero scrittore è quello di un libro solo”. Io, in tutta la mia opera, ho raccontato la Passione di Cristo che si rinnova nella storia, dei singoli e dei popoli. Lo sguardo di Gesù flagellato, così pieno di amore e di dolore nello stesso tempo, è l’incontro fondamentale che ha dato senso e unità alla mia vita personale e artistica.
    Ricordo che una volta mi hai raccontato che “Morte di Adamo” nacque mentre stavi ascoltando della musica ungherese in camera tua.
    Sì. Andò proprio così. Stavo ascoltando un disco di musica ungherese quando all’improvviso si fece un silenzio tremendo, un silenzio assoluto. Le rivelazioni più importanti avvengono sempre nel silenzio assoluto. E da quel silenzio udii distintamente queste parole: “Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta anni di vita, Adamo ritornò alla terra”. Presi il primo foglio che trovai e scrissi quanto avevo udito. Poi corsi da mio padre e gli dissi:” Papà, guarda cosa mi è successo! Dissi proprio così: guarda cosa mi è successo”. Mio padre lesse e poi disse: “Povera figlia mia!”. Aveva compreso meglio di me in quel momento il dono che avevo ricevuto ma anche il prezzo che avrei dovuto pagare per coltivarlo ed essergli fedele.
    Il tema che forse mi ha più colpita nel racconto breve ma densissimo di Morte di Adamo è forse quello della nostalgia, nostalgia di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio. Tu lo ritieni un tema centrale del racconto?
    Beh, “Morte di Adamo” parla della Creazione, del peccato originale, della morte di Adamo, di Eva, madre di tuti i viventi perduti dopo il peccato, e del ritrovamento, nella profezia della Croce di Gesù, l’Albero della Vita. Quanto alla nostalgia di Dio e dell’uomo, già Seneca, nelle “Lettere a Lucillo” scriveva: “C’è un Dio in noi. Chi sia non lo so, però è in noi”.
    E’ stata quindi la Fede, il tuo essere cristiana, ad averti sempre dato la forza per affrontare e superare tutte le battaglie e le difficoltà che hai incontrato nella tua vita, compresa la tua attuale infermità che ti impedisce di vedere e di scrivere ancora autonomamente?
    La forza per combattere la battaglia della vita l’ho trovata proprio nella Fede. Ho cercato di essere fedele alla mia chiamata di poetessa, di essere una scrittrice fedele alla “Parola” e ai personaggi che mi venivano a trovare. Sapevo che Gesù mi era apparso quella notte e mi aveva guardata facendomi sentire infinitamente amata. E Gli ho risposto con la mia opera di scrittrice.
    L’avvenire sembra davvero particolarmente gravido di incertezze, economiche, sociali, ambientali, valoriali. Che invito ti senti di fare ai giovani?
    A ognuno è stato dato di discernere il bene dal male. Siamo responsabili delle nostre scelte, che sono un dovere. Il problema è quello della necessità della scelta: il bene è la scelta difficile. Come dice Gesù nel Vangelo: chi vuole la salvezza deve entrare per la porta stretta.
    «Il bene è la scelta difficile»

    Elena Bono: la realtà scoperta fino in fondo
    Anna Maria Rode-Francesco Marchitti
    Note da un'incontro straordinario
    Elena Bono ha scritto molto, e molto in profondo. Pur avendo all'attivo una vasta ed articolata produzione letteraria, è assente dai circoli delle grandi case editrici. Alcuni critici più coraggiosi la considerano tuttavia come la più importante scrittrice italiana del secondo dopoguerra. All'indomani della presentazione del suo ultimo lavoro, il primo dei due volumi del romanzo "Fanuel Nuti", ci riceve nella sua elegante casa sul lungomare di Chiavari.
    "Fanuel Nuti" chiude la sua trilogia in prosa "Uomo-Superuomo". Il romanzo presenta una storia locale, ma nello stesso tempo ha temi universali. Nei suoi libri ci sono sempre due livelli, uno letterale e uno universale.
    Certo! Nel microcosmo si rispecchiano le dinamiche del macrocosmo.
    Il tema della trilogia "Uomo-Superuomo" è il dramma dal nulla all'essere. Riferito a ciò, lei ha usato in passato questa espressione: "Così semplice era tutto, chiudere gli occhi e guardare". Cosa vuol dire?
    Questo risponde ad un momento mio nichilista. Io capisco benissimo la tentazione delle filosofie orientali, indiane. Quando avevo 19 anni ne fui tentata. Da una parte sono grata ai lirici orientali, perché mi hanno aiutato a recuperare l'identità della parola con se stessa, perché lo sperimentalismo italiano ed europeo ha polverizzato la parola. La più insidiosa forma è stato l'ermetismo con l'analogismo, perché ha lasciato intatto il guscio. Quindi è un flatus vocis, che per analogia dovrebbe evocare lo stato d'animo del poeta. Questo rovello stanca il lettore perché lo costringe ad immaginare questo rebus. Questa è stata l'operazione più satanica. Davanti al sogno, al nulla e all'illusione è la realtà che si impone, la potenza della realtà.
    Nella trilogia non c'è mai esplicitamente l'esperienza religiosa, eppure la si percepisce tra le righe. Cos'è per lei l'esperienza religiosa?
    Credo che l'esperienza religiosa faccia l'uomo uomo. Senza l'esperienza religiosa l'uomo è una bestia, allora tanto vale non essere mai nati, come dicono tutti i pessimisti. L'esperienza religiosa consiste in questo: prendere atto del Dio Creatore, e del fatto che ci ha creato e che si assomiglia a Dio. Con tutte le nostre miserie siamo fatti ad immagine di Dio. Questo è uno di quei misteri tremendi… Io sono indegnamente terziaria francescana, anche mio padre…. Sono anche molto vicina a santa Caterina; per S. Caterina ho scritto e ho parlato spesso a Genova.







    Come e perchè ho cominciato a essere cristiana
    Elena Bono
    "La mia vita cosciente incomincia a Recanati: avevo forse tre anni. Quando mi portavano a passeggio, volevo entrare in tutte le chiese che incontravo nel nostro cammino, e in chiesa, in braccio a mio padre, Francesco, indicavo le singole stazioni della Via Crucis chiedendone spiegazione. Percorrendo le tappe della Passione di Gesù cominciavo a piangere al racconto di tanto strazio. Piangevo tanto che la mia povera mamma, Giselda Cardosi, preoccupatissima, pregava mio padre di desistere dai racconti, vedendomi soffrire fino al pianto più dirotto.
    Per fortuna mio padre seguitò ad accontentare le mie richieste: “E questa scena?”, “E quest’altra?”. Così ho imparato ad amare Gesù come Colui che ha voluto soffrire tanto per amore nostro, per amor mio.
    A Chiavari, nella Chiesa dei Cappuccini, poco lontano da casa nostra (Corso Montevideo 1), come mio padre e mia madre ho voluto diventare terziaria francescana. Così anche mia sorella, Leonella, più giovane di me di quattro anni.
    Il mio cristianesimo si basa sull’uguaglianza amare=soffrire, così come ha fatto Gesù che con le sue piaghe ha redento il mondo.
    Ricordo con quanta emozione, durante la guerra mondiale, lessi il famoso saggio di Benedetto Croce apparso su “La critica”: “Perché non possiamo non dirci cristiani”, dove il filosofo riconosceva nel cristianesimo non soltanto un fondamento essenziale della civiltà umanistica dell’Europa e del mondo, ma anche il coronamento di tante domande e di tante risposte che i grandi pensatori della civiltà greca e latina si erano dati: per esempio Platone, Seneca, e così via. Platone, addirittura, profetizzò la passione di Cristo nel secondo libro de La Repubblica e Virgilio la sua nascita nella famosa Sicelides Musae (“Sicelides Musae, paulo maiora canamus” ovvero “O Muse siciliane, cantiamo argomenti un po’ più importanti”). E si vedano le famose lettere a Lucillo di Anneo Seneca: io lo consigliavo, questo libro, a tutti i ragazzi che venivano da me per lezioni private e mi chiedevano quali libri leggere la sera prima di andare a dormire. Io indicavo sempre il Vangelo, in lingua greca e latina, e le Lettere a Lucillo di Seneca.
    Oltre che a Benedetto Croce sono grata anche a Boris Pasternak per aver compreso il valore ineliminabile del cristianesimo quando dice: “A chi si chiede se sia possibile superare il cristianesimo, io rispondo: “Puoi scavalcarlo, ma cadresti nel nulla, nella non storia”; in un “prima della storia”, in uno stato primario della civiltà senza possibile sviluppo: l’età dei cacciatori, quando si viveva dei prodotti della caccia senza neppure cuocerli perché si ignorava anche il modo di procurarsi il fuoco. “Crudus” in latino vuol dire “crudo”, ma anche “crudele” (vedi Le Grazie di Ugo Foscolo, Ugo dal “gran cuore”, come lo definiva Emilio Cecchi): “E solo quando apparian le Grazie, i cacciatori e le vergini squallide e i fanciulli l’arco e il terrore deponeano ammirando”. E’ il momento della contemplazione, ossia della nascita della coscienza nell’uomo attraverso la rivelazione del Bello.
    In conclusione, mi è caro ricordare che Benedetto Croce, fatto senatore, iniziò il suo dire con queste parole: “Iniziamo i nostri lavori con il grande inno cristiano: “Veni Creator Spiritus, mentes tuorum visita, imple superna gratia quae tu creasti pectora, ….” “Vieni Santo Spirito, visita le menti dei tuoi, riempi di Grazia celeste quei cuori che tu hai creati…”.
    "Ho almeno due compagni di classe morti per la libertà: Giampaolo Grosso e Cesare Talassano. Gianpaolo fu impiccato con un gancio alla gola il primo venerdì del mese dell’aprile 1945. Lo aspettavano a casa per cena. Abitava a Rapallo ed era il più bel ragazzo della nostra classe.
    Cesare Talassano morì con Cucciolo a Calvari e fu l’ultimo a cadere. Sua madre mi raccontò che un attimo prima di andare davanti al plotone di esecuzione, aveva detto abbracciando Cucciolo: ”Quegli uomini del plotone non sono nostri nemici, ma ci aprono le porte del Paradiso. Coraggio Cucciolo, tra poco andremo in Paradiso: vuoi andare in Paradiso?”. “Sì” – rispose Cucciolo. E subito dopo andarono davanti al plotone di esecuzione, comandato (ironia del nome) dal Comandante Cristiani. Gli spararono così tanti colpi che poi era irriconoscibile. Lo riconobbero dalle pantofole che aveva ai piedi.
    Hemingway diceva che la vita è un continuo dramma tra schiavitù e libertà. La lotta per la libertà riguarda ogni uomo, in ogni epoca, ed è conquista di ogni momento. Tutto sta nella scelta, nella necessità di fare una scelta."
    "Per aver visto una sola volta il volto di Aldo Gastaldi “Bisagno”, tutta la mia vita è stata illuminata, illuminata da quell’attimo in cui lo intravvidi, tale era la luce che da lui promanava. Lui alzò gli occhi e stava sorridendo. Mi sembrò che stesse sorridendo proprio a me, ma questa fu solo una impressione. Profondamente colpita da quell’incontro, pur essendoci molto caldo quel giorno, andai con mia sorella Leonella fino alla Squazza per chiedere conferma a qualche partigiano (trovai “Bill”) se fosse appena passato “Bisagno” e mi dissero di sì.
    In quel momento pensai quello che pensò Goethe quando vide Napoleone: “Ecco l’uomo”. Era passato qualcuno accanto a me che era un vero uomo, così come tutti noi dovremmo essere."










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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia
    Alessandro Gnocchi
    Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo.
    I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque).
    Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». La somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.
    Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia - IlGiornale.it



    Monte Verità senza censure: altro che utopie festivaliere
    Il demone dell’utopia è il tema degli incontri 2014, ispirati all’esperienza mitica del Monte. Un luogo che però fu anche il crogiolo delle peggiori ideologie del ‘900.
    di Claudio Mésoniat
    Quando parliamo di “utopia”, usiamo un termine che decisamente nella cultura europea ha una polisemia da capogiro. Partendo dall’isola “Utopia” di Tommaso Moro per arrivare all’uso del termine popolarmente in voga oggi, più o meno sinonimo di «sogno nobile e virtuoso ma difficile da realizzare». Se vogliamo però far riferimento all’esperienza di Monte Verità, dove si svolge e cui si ispira in qualche modo quest’anno la rassegna “Eventi letterari” collegata al Festival di Locarno, direi che non possiamo rimuovere l’accezione della parola «utopia» storicamente e filosoficamente più grave e imbarazzante: quella che identifica le tragiche ideologie del XX secolo. Ne parliamo con Massimo Introvigne, sociologo e filosofo che conosce bene Monte Verità.
    L’utopia certamente ha molti sensi. Mi viene in mente anche l’operetta di Gilbert e Sullivan, Utopia Limited, dove utopia era un sinonimo di “truffa” sia in senso ideologico, sia in senso economico; ma soprattutto mi vengono in mente i documenti della Chiesa cattolica dove l’utopia è dipinta come la radice di tutti i mali del Novecento e del nostro secolo. Perché l’utopia, perdendo il contatto con la realtà, diventa ideologia, cioè qualcosa che vuole modellare il reale sulla base di premesse astratte; e se gli uomini concreti non collaborano, li discrimina, li perseguita e qualche volta li uccide. Non dobbiamo dimenticare, appunto, che il comunismo e il nazionalsocialismo sono due grandi utopie e che oggi ve ne sono altre, nuove ideologie non meno pericolose: pensiamo a certi eccessi anche grotteschi sui gender. Utopia era una parola nobile nell’Ottocento, ripeto, pensando all’operetta, era una parola ridicola; nel Novecento è diventata una parola terribile, che gronda sangue, fatta di sterminio.
    L’utopia finita nel Gulag e nei Campi di sterminio, dunque. In alcuni suoi interventi lei ha riconosciuto nel Monte Verità una sorta di laboratorio, una incubatrice nella quale le più grandi ideologie del Novecento, ma anche tante altre “utopie”, hanno avuto una comunanza genetica, una sorta di denominatore comune. È davvero possibile rintracciare gli incunaboli delle ideologie novecentesche in quella sorta di calderone che è il Monte Verità?
    Parto da lontano e da vicino. Giovanni Paolo II in un famosissimo suo discorso, nel corso di una sua visita a Torino nel 1980, disse che il laicismo e l’anticristianesimo di tipo relativista-laicista del 19° secolo erano stati la matrice di tutti i lutti, i campi di sterminio del 20° secolo. Monte Verità (che poi è stato molte cose nella sua ultima fase, con Eranos, e una sua dignità culturale che non è la mia scuola di cultura, ma che è rispettabile) è nato in questo ambiente massonico, laicista, fortemente anticattolico, socialista, disposto ad accogliere di tutto, purché fosse contro la Chiesa cattolica, dall’estrema destra all’estrema sinistra: sì, mi ricorda proprio quel calderone descritto da Giovanni Paolo II, che poi ha fatto da incubatore alle perverse ideologie del ‘900. Così, insieme a personaggi che magari erano interessati soltanto all’illuminismo, o ad alcune tendenze artistiche, sono passate dal Monte Verità persone che sono evolute verso il nazismo, altre verso il comunismo, se vogliamo anche gli antesignani della moderna ideologia di genere. Non dobbiamo dimenticare i legami di Elisar von Kupffer con il Monte Verità: si può ancora ammirare il famoso dipinto panoramico che è proprio alle origini di una cultura che vuole imporre un elemento omoerotico anche a chi caso mai non ne volesse sapere.
    Von Kupffer che poi divenne il ritrattista preferito da Hitler...
    Sì, è stato molte cose anche von Kupffer. Naturalmente non possiamo dire che tutti coloro che sono passati da Monte Verità (penso alla danzatrice Isadora Duncan o al pittore Paul Klee) fossero complici delle ideologie del ‘900: era un porto di mare, però all’insegna di un’avversione per tutto quello che era tradizionale, cristiano e cattolico. Questa cultura, che in una parola potremmo chiamare “massonica”, con riferimento almeno alle massonerie dell’Europa del Sud dell’’800, è la cultura che ha fatto da incubatore alle derive ideologiche del ‘900. Cioè, c’è un rapporto di filiazione fra il laicismo aggressivo del’1800 e del primo ’900 e quelle che sono poi le ideologie di morte del ‘900 maturo e anche le ideologie dissolutrici del nichilismo che vediamo all’opera nel nostro XXI secolo.
    Ma qualcuno è riuscito a spiegare cosa cercassero Lenin e Trotsky che, prima della rivoluzione d’ottobre, soggiornarono alla Baronata e salivano al Monte Verità per dei seminari?
    Io credo che loro, in modo lievemente diverso, avessero questa idea: una certa cultura alternativa, che in cuor loro disprezzavano parlando di “utili idioti”, proprio in quanto la vecchia talpa (di cui parlava Marx) scavava, sotto il vecchio ordine europeo, delle gallerie che alla fine avrebbero fatto saltare tutto. Questi intellettuali del Monte Verità potevano essere dei compagni di strada... da liquidare dopo, ma che per un po’ avrebbero potuto essere utili in quanto distruggevano un vecchio ordine europeo. Curiosamente Hitler aveva le stesse idee, cioè considerava questi intellettuali esoterici stile Monte Verità - come scrisse - dei poltroni, ma dei poltroni che potevano essere utili nella fase di distruzione del vecchio ordine e della presa del potere. Poi, una volta afferrato il comando, molti di costoro finirono in prigione perché... non servivano più. Esattamente lo stesso fece Lenin.
    Lei ha anche indicato Monte Verità come la culla del New Age. In questo caso l’utopia era già...nella parola...
    L’utopia è fondamentale per il New Age, infatti: la Nuova Era. Il termine era stato usato dal movimento della massoneria: indica proprio l’idea che «verrà qualcosa di completamente nuovo, tabula rasa del passato, arriverà una grande novità che travolgerà tutto e tutti». Questa è una idea tipica del Monte Verità ma è una idea che può andare in tantissime direzioni. Per questo dobbiamo stare attenti, non possiamo dire che sia una ideologia unica di Monte Verità, se non nella parte distruttiva. Poi questo “nuovo ordine mondiale” può essere quello nazista o quello comunista; o può essere una specie di anarchia; o può essere questa idea del New Age che, quasi automaticamente, ci piova addosso per ragioni magiche e astronomiche un mondo migliore. Questa concezione era molto forte sicuramente a Monte Verità, che ha un suo ruolo nella genesi del New Age, oggi peraltro in crisi perché... tanto nuovo non è più. Sono cinquant’anni che ci dicono che sta per arrivare un mondo migliore dove tutti sono felici e ricchi: poi apriamo la finestra e vediamo che non è questa la direzione in cui ci stiamo muovendo.
    Monte Verità senza censure: altro che utopie festivaliere | Giornale del Popolo





    John Lennon si avvicinò a Gesù negli ultimi anni della sua vita?
    20 giorni prima di essere assassinato John Lennon compose due ultimi brani che dimostrano uno stretto ed evidente rapporto con Dio…
    Molto è stato scritto sulla vena anticlericale o anticristiana del leader dei Beatles, ma la realtà dei fatti è che 20 giorni prima di essere assassinato compose due ultimi brani che dimostrano come John Lennon abbia mostrato uno stretto ed evidente rapporto con Dio.
    Il cantante morì l’8 dicembre e nel brano “Help me to help myself” (Aiutami ad aiutare me stesso) registrato il 10 novembre e in “You saved my soul” (Tu hai salvato la mia anima) datata 14 novembre, non solo chiedeva aiuto “al Signore” ma assicurava che mai si era separato da Lui.
    Inoltre, questi brani ci svelano come il vero Amore lo abbia salvato da due tentativi di suicidio.
    Anni prima, il compositore aveva scritto che non credeva in Gesù e che anzi i Beatles erano più famosi di Lui; poi ritrattò, ma non si sa se lo fece per ragioni commerciali o per vera convinzione.
    Come riportato dal critico musicale Julián Ruiz in un articolo pubblicato sul quotidiano El Mundo e sul sito web Plasticos y Decibelios, la sua compagna nascose per 30 anni queste ultime canzoni perché erano la confessione del fatto che “in quei giorni, Lennon si era avvicinato a Cristo e voleva frequentare la Chiesa”.
    “You saved my soul”, apparentemente una canzone d’amore per Yoko, si rivela in realtà una confessione. Fu il vero Amore infatti a salvare la sua anima e ad evitare che si suicidasse in due occasioni. Il cantante di Liverpool lo ringrazia per questo. La canzone non lascia spazio ad ambiguità o interpretazioni sul momento spirituale che stava attraversando il compositore.
    “Help me to help myself” è una vera e propria preghiera di penitenza, con un misterioso carattere premonitore. Invoca il perdono e chiede al Signore di aiutarlo ad esprimere quanto sia duro continuare a vivere.
    In un altro brano che Yoko non volle pubblicare, Dear John, il fondatore del quartetto di Liverpool dà voce alla consapevolezza di essere ormai al capolinea al livello artistico.
    Tornando ad “Help me to help myself”, Lennon scrive di essere continuamente perseguitato dall’angelo della distruzione, un chiaro riferimento al diavolo.
    La canzone è piena di domande e dialoghi con Dio, al quale si rivolge per chiedere aiuto chiamandolo “Signore”. La sua accettazione del Signore si fa indubbia quando, nel mezzo del luogo desolato in cui dice di trovarsi, Lennon afferma che, nonostante tutto, sa in cuor suo che non si era mai separato da Dio.
    “Well, I tried so hard to stay alive/
    But the angel of destruction keeps on houndin´ me all around/
    But I know in my heart/
    That we never really parted, Oh no”.
    ["Beh, ho provato duramente a restare vivo/
    ma l’angelo della distruzione continua a perseguitarmi ovunque/
    ma so nel mio cuore/
    che non ci siamo mai veramente separati, oh no"]
    Solamente alla fine, circa dieci anni fa, Yoko Ono decise di includere questa canzone nella nuova edizione dell’album. Nella seconda parte della canzone, il famoso leader dei Beatles afferma che, nel profondo del suo cuore, non era mai stato soddisfatto. Quindi chiede aiuto a Dio poiché di Lui si dice che aiuta coloro che vogliono aiutarsi. Lennon affida questa speranzosa richiesta alla bontà di Dio.
    “They say the Lord helps those who helps themselves,/
    So I´m asking this question in the hope that you´ll be kind/
    ´Cause I know deep inside/
    I was never satisfied”.
    [Dicono che il Signore aiuta chi aiuta se stesso/
    così ti faccio questa richiesta nella speranza che tu sia magnanimo/
    perché so nel profondo/
    che non sono mai stato soddisfatto]
    Pochissimi tra coloro che hanno contribuito a costruire l’aura di leggenda che avvolge la vita e la carriera artistica di Lennon hanno fatto riferimento a questo testamento spirituale.
    Testo di “Help me to help myself”
    Well, I tried so hard to stay alive
    But the angel of destruction keeps on houndin´ me all around
    But I know in my heart
    That we never really parted.. Oh no…
    They say the lord helps those who helps themselves,
    So I´m asking this question in the hope that you´ll be kind
    ´Cause I know deep inside
    I was never satisfied, Oh no…
    Lord, help me, Lord
    Lord help now
    Please, help me, Lord,
    Help me to help myself,
    Help me to help myself.
    John Lennon si avvicinò a Gesù negli ultimi anni della sua vita?

    La croce, il Cireneo e Sam Gamgee
    Da Francesco Agnoli
    Abbiamo appena celebrato la Pasqua, la vittoria della vita sulla morte, e i credenti hanno riflettuto, prima, sulla Passione di Cristo. Rivedendo quel capolavoro che è il film Passion, di Mel Gibson, non ho potuto non ammirare alcune scene che interrompono qua e là la lunga e dolorosa salita di Cristo al calvario. Gibson ha voluto mettere in luce, infatti, ad un tempo la crudeltà dei soldati e della folla, pronta a colpire ulteriormente un Cristo già sofferente e piagato, e la misericordia impotente di Giovanni, di Maria, degli amici di Gesù.
    Il regista americano ha anche voluto sottolineare il ruolo così particolare di Simone di Cirene, detto il Cireneo. Di lui il Vangelo di Marco dice poche parole: “Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce”. C’è dunque un tale che passa “per caso”; costui viene caricato di una croce non sua, di un peso che non avrebbe mai creduto di dover portare. Gibson mostra sapientemente la reazione di Simone: fastidio, non solo verso coloro che gli impongono il fardello, ma anche verso colui che, in quel momento, non ha verso di lui alcuna colpa, Cristo stesso.
    Poi, piano piano, quella croce portata di malanimo, cambia il portatore: il suo sguardo non più carico di astio, ma di pena, lascia capire che quel fardello non è più così pesante. Più pesante ancora è vedere un uomo che soffre così, che viene deriso, e sopporta tutto, in quel modo, con quello sguardo. Simone, ormai giunti sul Calvario, viene liberato dai soldati romani, ma quasi non vorrebbe andarsene. Allontanandosi, si volta più volte indietro, ad osservare colui di cui è stato, per poco tempo, compagno di strada. Come Gesù baciava la sua croce, strumento di redenzione dell’umanità, così Simone si è quasi affezionato a quel peso, a quella condivisione. Prima voleva fuggire, ora non vorrebbe quasi andarsene.
    E’ proprio così, per i credenti: Cristo ha voluto salvare il mondo abbracciando il legno della croce; e ci chiede di fare anche noi altrettanto; di aiutarlo un poco, come il Cireneo. Ci chiede di farlo con ogni fratello che soffre, in ogni circostanza in cui vorremmo fuggire, cambiare strada, scappare.
    Ci dice anche che talora quella croce ce la darà, anche se non siamo pronti, anche all’improvviso, per educarci, attraverso di essa, all’amore. Che la croce sia propriamente sua, o altrui, il cristiano è chiamato a sollevarla, a baciarla, a riconoscerla come strumento della salvezza sua e del mondo intero. Giustamente san Paolo nota nella I lettera ai Corinti: “E mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, che è scandalo per i Giudei, e follia per i Greci”. Scandalo e follia: come spiegarlo, alla luce della ragione astratta? Impossibile, credo; siamo di fronte ad uno di quei passaggi in cui il pensiero cede, diciamo così, all’esperienza. Simone capisce solo accompagnando Cristo, piano piano; solo sotto quel peso, educato dalla croce stessa, dal modo con cui essa viene baciata e portata da Cristo.
    Come cristiano non so dire perché, non so spiegare la follia della croce, a parole: eppure, in alcuni momenti, sembra chiaramente di intravedere che quello strumento di pena e di tortura infame, può diventare strumento di redenzione. Sia che poggi sulle nostre spalle, sia che ci si trovi ad accompagnare qualcuno, senza poter fare altro che stargli accanto, e percorrere con lui un po’ di strada.
    L’episodio del Cireneo mi ricorda un momento decisivo de Il Signore degli anelli, romanzo profondamente intriso di senso cristiano e di riferimenti biblici. Frodo, il protagonista, deve portare il suo “fardello”, l’anello da distruggere, sino alla cima del monte Fato. Ma non ce la fa più. Il suo caro amico, Sam si propone di aiutarlo: “Non posso portare io l’Anello, ma posso trasportare voi ed esso insieme”. La scena è simile a quella evangelica, la sola differenza è che Sam, diversamente dal Cireneo, si presta volontariamente, obbediente all’insegnamento di Paolo: «Portate i pesi gli uni degli altrie adempirete così la legge di Cristo» (Gal 6:2). Sam ama tanto il proprio amico, che non ha esitazioni. Caricarselo sulle spalle gli è quasi automatico. Anche lui, dopo il generoso slancio inziale, scopre “con sommo stupore” che il fardello è più leggero di quello che pensava. Dopo un po’ di strada, però, Sam deve fermarsi. Quel fardello non è suo. Nessuno può davvero portare la nostra croce, al posto nostro, se non per un tratto.
    A questo punto Frodo gli chiede: “Quanta strada rimane da fare?”. E Sam risponde: “Non lo so, perché non so dove stiamo andando”. Sam ha portato il fardello, per amore; lo ha portato anche con fede: nella vita non sappiamo quando arriveremo alla cima, né conosciamo, a priori, la strada che vi porta. Amare qualcuno è andare, “ciecamente”, dove va lui. Sostenerlo nel suo viaggio è mettersi accanto a lui, senza neppure chiedergli la strada. Sappiamo, noi, dove andiamo? Quali croci avremo, domani? Quanto durerà la croce che ora pesa addosso a chi ci è caro?
    L’amore e la fede non chiedono spiegazioni immediate. Vivono di una certezza più profonda delle “certezze” umane.
    La croce, il Cireneo e Sam Gamgee | Libertà e Persona




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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Il senso del bello
    Pubblicato da Berlicche
    Quando io e la mia famiglia siamo andati al forte di Bard non ce lo aspettavamo.
    La meta iniziale era il forte stesso: una montagna tramutata in fortezza, una immensa massa di pietre e malta dedicata allo scopo di bloccare la discesa in Italia di eserciti nemici. Il precedente castello, con un pugno di uomini, aveva fermato per due settimane il passaggio ad un’armata napoleonica cento volte più grande. Napoleone si vendicò facendolo demolire. I Savoia lo ricostruirono, molto più possente.
    Da alcuni anni ospita mostre. Quando ho sentito che quella attuale comprendeva i maggiori capolavori di Monserrat, mi sono detto, “vabbé”. Ci saranno artisti minori.
    Ed invece Caravaggio, Monet, Rembrandt…un livello altissimo. Particolarmente nutrita la sezione degli impressionisti e dei moderni – Napoleone, ancora lui, e i regimi anticattolici che si sono susseguiti in Spagna hanno devastato e disperso gran parte di quello che c’era prima.
    Un paio di sale erano dedicate alla pittura contemporanea. Che impressione vedere i Picasso figurativi della fine del’800 trasformarsi nei Picasso cubisti dell’inizio del secolo seguente. E poi tutta una serie di opere dei più conosciuti artisti del periodo. Mirò, Braque, Dalì…
    Ma che differenza.
    I pittori fino ad un certo punto dipingevano quadri che erano simboli e tema: San Girolamo, Annunciazioni, Crocefissioni. Poi era svanito il simbolo ed era rimasto l’uomo, o il paesaggio: panorami, sale da ballo, ragazze tristi dal cui volto traspariva il vuoto. Ed erano ancora quadri belli da vedere, perché rimaneva comunque l’arte: la ricerca del colore, del tratto, della bellezza.
    Da un certo punto in poi anche la bellezza se n’era andata. Rimanevano invocazioni al nulla, monche, colori buttati apparentemente a casaccio, tratti senza armonia, ingarbugliati, brutti. Come ho detto, quelli che passano essere i più famosi artisti del secolo scorso.
    Quadri che dicevano tutto quello che avevano da dire in un’occhiata, o meno. Quadri che non veniva voglia di rivedere da vicino.
    Che se non avessero avuto quel nome sotto, manco alla parete dell’asilo li avrebbero appesi.
    All’uscita mio figlio ha voluto scrivere qualcosa nel quaderno dei visitatori.
    Quando gli ho chiesto cosa, lui ha risposto “Che la mostra era bella, ma alcuni quadri non avevano nessun senso”.
    Ecco, credo che abbia centrato il problema.
    Il senso del bello | Berlicche

    Jean Clair, o perché non ci resta che essere reazionari
    di Luigi Mascheroni
    L’arte contemporanea? Non è più sacra, ma sacrilega.
    E l’estetica della nostra epoca? Imbarbarita.
    Le arti-star? Bravissime, ad applicare le migliori strategie di marketing: creano opere tecnicamente inconsistenti, anche se quotatissime.
    Damien Hirst, Fabre e Cattelan? Sono dei bluff.
    Il circuito delle gallerie, del collezionismo e delle aste? E’ l’industria delle patacche milionarie, un “prodottificio” a ciclo continuo che sforna falsi capolavori secondo i trucchi della peggiore manipolazione finanziaria.
    I musei? Magazzini scintillanti, depositi di civilizzazioni defunte, presi d’assalto da turisti ciabattoni alla ricerca del “pezzo” pop o della mostra evento.
    Sono (alcune) le massime filosofiche e iconoclaste di Jean Clair, storico dell’arte e accademico di Francia, polemista d’assalto, impietoso verso il sistema dell’arte contemporanea e delle attuali politiche culturali, in cui il valore non è dato dall’idea dell’opera, ma dalla propaganda dei mercanti d'arte. È il critico più critico di tutti. E quindi il migliore. È (anche) per questo motivo che il quotidiano Avvenire ha assegnato a Jean Clair il Premio per la critica militante – Giuseppe Bonura, che gli sarà consegnato in occasione dell’imminente Salone del Libro di Torino, settimana prossima, dove Jean Clair sarà uno dei ospiti più “pesanti”, come si dice in gergo.
    Nato a Parigi nel 1940 e Accademico di Francia dal 2008, Jean Clair si è formato alla Sorbona e ad Harvard, negli Stati Uniti. I primi incarichi come conservatore risalgono alla metà degli anni Sessanta (curò la mostra su Marcel Duchamp con cui venne inaugurato nel 1977 il Centre Pompidou). Direttore del Musèe National Picasso dal 1989 al 2005, conservatore generale del Patrimonio e conservatore dei Musei di Francia, sul fronte della saggistica – da Critica della modernità (Allemandi, 1994) allo splendido De immundo (Abscondita, 2005) fino a L’inverno della cultura (Skira, 2011) – ha scritto pagine magnifiche e pamphlet violentissimi contro l’arte contemporanea immonda, contro quest’epoca nella quale mai si è dipinto così male, contro l’arte feticcio e i “mercanti del tempio” che ci rubano il Bello, contro il nuovo dis-gusto e la mercificazione estetica… E tutto per cercare di arginare la deriva che sta trasformando l’arte in spettacolo e i musei in luna park. E per farlo, come ha ammesso lui stesso, «non ci resta che essere reazionari».
    Jean Clair, o perché non ci resta che essere reazionari | L'intraprendente



    Branciaroli: «Il mio primo Pirandello»
    Angela Calvini
    «Enrico IV è come Amleto. Dagli americani è considerato il capolavoro di Pirandello. E siccome non ho mai interpretato l’autore siciliano in vita mia, ho deciso di iniziare da un testo mitico».
    Franco Branciaroli non conosce le mezze misure, non fanno proprio parte del suo temperamento di mattatore. D’altronde il protagonista di Enrico IV è un istrione proprio come lui. «È un ruolo che caratterialmente mi è congeniale, dovrebbe venirmi bene» sorride sornione Branciaroli che si è impegnato come regista e attore in una grande nuova coproduzione fra il Teatro degli Incamminati e il Teatro Stabile di Brescia di cui è direttore artistico. Il debutto di Enrico IV sarà al Teatro Sociale di Brescia il 7 maggio, poi nella prossima stagione in tournée anche al Piccolo Teatro di Milano.
    Branciaroli, lei affronta di petto il Pirandello maggiore. Nessun timore?
    «Enrico IV è una grande opera, più compiuta dei Sei personaggi. Son quei testi che si rivolgevano al pubblico anni 30. Un pubblico teatrale colto che non aveva difficoltà a conoscere la storia a scuola. Oggi ho i miei dubbi che il pubblico colga certi riferimenti, ma non è un problema. Resta centrale il tema caro a Pirandello del rapporto sfuggente tra finzione e realtà che oggi è attualissimo».
    Un ruolo storicamente destinato ai grandi mattatori.
    «Lo so, è una bella sfida perché oggi tutti grazie alle nuove tecnologie oggi possono fare confronti con le edizioni di Valli, Randone, Moissi...».
    In che cosa sarà diverso il suo spettacolo?
    «Io ho cercato di rendere in proscenio tutti gli altri personaggi, che spesso restano scoloriti. In genere ci si concentra solo su Enrico IV, quando esce di scena lui subentra la noia. Invece gli altri sono personaggi importanti che hanno bellissime battute. Ecco, io ho cercato di rendere Pirandello meno noioso».
    Certo che lei osa con una produzione importane, ben 10 attori, in un momento non facile.
    «Il panorama teatrale italiano sta diventando desolante. Ma proprio in questo momento occorre uno sforzo produttivo. È un calcolo se vogliamo anche cinico: se io entro dentro in questa crisi come una bomba, con uno spettacolo ben fatto, vero, con bei costumi e bravi attori magari funziona. Non ultimo, i teatri chiedono sempre i soliti autori che possano attirare le scuole: Goldoni, Pirandello, Shakespeare e Molière. In un colpo solo vorrei soddisfare le scuole, i teatri, il Branciaroli attore e il Branciaroli direttore artistico».
    Branciaroli mattatore in tutti i campi... E, assieme a lei sul palco, nel prossimo spettacolo dell’estate, altri "mostri sacri" come Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Massimo Popolizio.
    «L’ordine della locandina è rigorosamente in ordine anagrafico. Tedeschi 94 anni, Pagliai 76, Branciaroli 66 e Popolizio 53. Dipartita finale è un testo che ho scritto io e che debutterà quest’estate alla Versiliana e al Franco Parenti di Milano, sempre prodotto da Incamminati e Stabile di Brescia. Parla dell’agonia della nostra società, ma anche del nostro teatro. Dopo i nomi che ho citato sopra, ultimi reduci di un teatro grandissimo, io oggi non vedo niente. I protagonisti del lavoro sono dei clochard tra il reale e il metafisico che non riescono a morire. Un richiamo a Beckett ma, a differenza del suo nichilismo, qui c’è un raggio di speranza».
    Qual è il suo ruolo?
    «Io impersonerò la morte, che incontra questi barboni. L’ambientazione è in un futuro in cui l’uomo non muore più, realizzando tutto lo sforzo cui tende la scienza di oggi. Ma siccome la Terra sta per finire, tutti gli abitanti si sono trasferiti in un nuovo Olimpo dove possono fare gli dei. Insoma, è la scienza, la potenza umana che sostituisce Dio. Tutti, tranne questi tre poveracci che restano lì a domandarsi, anche in modo ironico e divertente, il senso della vita».
    Lei che senso dà?
    «Noi siamo incamminati ad andare oltre le leggi della natura, stiamo arrivando alla sovranatura. La scienza adesso non limita nessuna azione: non vi è morale né etica perché non c’è più nessun valore assoluto. L’uomo si sostituisce a Dio, però l’angoscia cresce, la realtà è senza ideale, la natura senza luce».
    Ma una luce lei dice che c’è.
    «Sì, la rappresenta il personaggio di Popolizio, che è immortale, ma resta sulla Terra che sta per distruggersi. Dice che migliaia di anni prima c’è stato un uomo inchiodato che aveva detto che alla fine del mondo sarebbe tornato e ci avrebbe dato l’immortalità, che ci avrebbe fatto conoscere il perché delle cose. "Tra un’immortalità che non conosco e che mi riempie di angoscia, e una immortalità che mi spiega il perché, scelgo questa" dice. E aspetta».
    Lei personalmente aspetta?
    «Certo, ne sono convinto. Ma con lucidità vedo che la cultura di oggi non ammette più l’assoluto, perché il motore della filosofia occidentale è il divenire. Non ci sono più valori non perché siamo cattivi, ma perché i valori in questo contesto sembrano impossibili...».
    Branciaroli: «Il mio primo Pirandello» | Spettacoli | www.avvenire.it



    E il mito si fece carne. L'avventura di Russell Kirk
    di Marco Respinti
    Il logos si è fatto carne, dice il Vangelo secondo san Giovanni. E quindi anche il mito è divenuto un fatto, glossa C.S. Lewis (1898-1963) in un breve, densissimo saggio del 1944, Myth Became Fact, che spiega perfettamente cosa intendesse J.R.R. Tolkien (1892-1973) affermando: «Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. […] L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”» (Sulle fiabe, 1939); cosa intendesse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) ‒ maestro di Lewis e di Tolkien ‒ parlando di “etica del paese delle fate” e addirittura paragonando il Magnificat alla fiaba di Cenerentola (Ortodossia, 1908); e cosa intendessero Chesterton e Lewis con “sacramentalizzazione dell’immaginazione” a proposito di George MacDonald (1824-1905), maestro loro e pure di Tolkien. Ebbene, uno degli ultimi epigoni di questo sposalizio tra filosofia e fantasia celebrato secondo il rito di santa romana Chiesa è il pensatore statunitense Russell Kirk (1918-1994), di cui ricorre il ventennale della scomparsa.
    Kirk è noto soprattutto come “padre” del conservatorismo americano del secondo Novecento, come neo-giusnaturalista cristiano alla scuola di Edmund Burke (1729-1797) e come apologeta antigiacobino della storia istituzionale americana. Ma nulla di tutta la sua riflessione “politica” (30 volumi, centinaia fra saggi e articoli) sarebbe venuto alla luce se egli non avesse sempre coltivato, con timore e tremore, il senso del mistero insito nella realtà umana.
    Kirk è stato infatti anzitutto un cantore dell’irriducibilità dell’esperienza umana alla semplice materia (una delle sue citazioni preferite è di Burke, là dove lo statista anglo-irlandese descriveva così la spaccatura epocale introdotta dalla Rivoluzione Francese: «L’era della cavalleria è finita. Le è succeduta quella dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori, e la gloria d’Europa è estinta per sempre»), e proprio per questo un avversario lucido delle ideologie e delle ideocrazie.
    Per Kirk la stoffa dell’avventura umana è il legame con il trascendente che la definisce e il senso religioso che la costituisce, da cui derivano quel senso del limite e quella vocazione comunitaria che sono le uniche coordinate di una politica a misura di uomo, e possibilmente, direbbe san Giovanni Paolo II (a cui, in punto di morte, è andato l’ultimo pensiero di Kirk), secondo il piano di Dio. Per questo il pensatore americano sospettava di tutte quelle ciclopiche costruzioni umane, fisiche e metafisiche, che altro non sono se non ennesime Babeli; come Chesterton, Kirk aveva imparato dalle metafore delle favole che i giganti vanno abbattuti proprio perché sono giganteschi, monumenti vani alla smisuratezza dell’orgoglio umano.
    La famiglia in cui nacque aveva educato Kirk a una morale rigida e spartana, erede di un retaggio calvinista che strada facendo aveva però perso i tratti della vera spiritualità riducendosi a un codice. Efficace, ma estremamente limitato. Costretto a lungo alla solitudine, Kirk prese allora a confrontarsi con quei campioni dell’umano sentire che prima di lui, e meglio di lui, si erano trovati ad affrontare le stranezze, le difficoltà e le domande dell’esistenza. Maturò dunque dialogando con autori che nessuno leggeva più: Kirk l’ha definita una “conversione intellettuale”, ma è strano perché quell’etichetta lo irritava. Voleva solo dire che nessun fatto eclatante gli stravolse un giorno la vita; ma anche qui, intendiamoci. Le molte narrazioni della sua storia personale (scritte come romanzi non romanzati) mostrano bene come la “normalità” della sua vita sia sempre stata “straordinaria”. Come le vite di tutti. Come in una favola, una fiaba o un mito (direbbe il Tolkien che Kirk molto amava) che per di più hanno il supremo vantaggio di essere accaduti sul serio.
    Kirk ha affrontato de visu il mistero dell’esistenza umana anzitutto come cantore dell’avventura “mitica” dell’uomo di fronte all’Assoluto (componendo così anche storie di paura e thriller metafisici tra i più belli di questo genere letterario) e in questo modo ha imparato l’umile saggezza di farsi seguace di chi, più avanti di lui lungo questo cammino, lo ha saputo trarre per mano dal mito alla storia. Due nomi su tutti, appositamente diversissimi: il “grande” T.S. Eliot (1898-1965) ‒ di cui fu prima discepolo, e poi amico e biografo ‒ e Annette, l’“attivista” cattolica che sposerà nel 1964, “piccola” parrebbe, ma enorme nel portarne a conclusione la conversione, avvenuta in quello stesso 1964 (mezzo secolo fa esatto).
    Due volte, racconta nella sua autobiografia pubblicata postuma nel 1995, The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict, Kirk si è trovato faccia a faccia con il Mistero divenuto fatto e storia, diventato carne e sangue. Davanti alla Sacra Sindone. La prima volta era il 1957. Aveva visitato decine di chiese meravigliose a Roma, centro della Cristianità, ma «la chiesa con il significato più grande per il XXI secolo» capì che «stava molto più lontano, a Nord», il Duomo di Torino dove sono custoditi «i teli con cui fu sepolto Gesù di Nazareth crocefisso». Ne sapeva poco. Non era ancora cattolico. La contemplò. E appuntò: «Vi sono tutte le ragioni per credere che questa reliquia sia autentica […] e che abbia avvolto il corpo di Gesù, e non quello di un altro».
    Una trentina di anni dopo, fu di nuovo davanti al Lino, con la moglie Annette e il loro caro amico italiano Mario Marcolla (1929-2003), discepolo e amico di Augusto del Noce e di padre Cornelio Fabro, l’autodidatta che pionieristicamente ha insegnato a mezza Italia il valore di Augustin Cochin e di Eric Voegelin. Un monaco scalzo, come uscito dal nulla, celebrò Messa “nascostamente” solo per loro tre. Kirk riporta solo due parole, «Risurrezione» e «Redenzione», e poi il brano di Apocalisse 3,3: «Ricordati dunque quanto hai ricevuto e udito; serbalo e ravvediti. Se tu non vegli, io verrò su di te come un ladro, e non saprai a quale ora verrò su di te». Il logos si è fatto carne, il mito è divenuto un fatto, e ha nome Gesù risorto.
    E il mito si fece carne. L'avventura di Russell Kirk


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    TRANSCENDENCE
    di Ilaria Pisa
    Transcendence (2014, regia di Wally Pfister, con Johnny Depp e Rebecca Hall quali interpreti principali) è un film che affronta in maniera coinvolgente e per nulla banale le problematiche legate all'intelligenza artificiale, all'ingegneria biomedica e alla nostra dipendenza tecnologica.
    La vicenda prende spunto da un'affiatata coppia di giovani scienziati, Will ed Evelyn, uniti nella vita e nella ricerca sul cervello umano e su un progetto di creazione di intelligenze artificiali. La loro felicità è bruscamente interrotta da un attentato di cui Will rimane vittima per mano di terroristi "neo-luddisti". Durante la lenta agonia da avvelenamento cui il marito va incontro, la disperazione porta Evelyn a tentare l'impensabile: un upload del cervello di Will all'interno di un potentissimo calcolatore.
    A dispetto dello scetticismo del fraterno amico e collega Max, l'esperimento riesce e sembra che Will sia egregiamente sopravvissuto alla propria morte. Anzi: la nuova dimensione della sua esistenza offre potenzialità che vanno oltre ogni immaginazione e che consentono di operare concretamente per il bene dell'uomo, guarendo le patologie e le disabilità di tanti sfortunati.
    Ma quell'immenso calcolatore racchiude davvero la coscienza di Will? Oppure è un "qualcuno" o un "qualcosa" di molto diverso?
    Proprio quando sembra che i timori e i dubbi inizialmente espressi da Max siano definitivamente fugati, la protagonista scopre - anche a proprie spese - che la nuova dimensione "trascendente" l'umano in cui il marito "vive" comporta un potere su cose e persone molto più grande di quanto potesse immaginare: solo un'impensabile alleanza potrà allora fermarlo, e un supremo sacrificio riscattare Evelyn. E, forse, anche Will.
    Il film, pur essendo abbastanza chiaramente schierato su posizioni antiscientiste, non guarda ai temi affrontati da un unico punto di vista, ma intreccia sapientemente la visione più tormentata e scettica di Max, spaventato fin dal principio dal risultato del progetto di Evelyn, a quella ottimista e "positivista" della coppia, dando voce tanto alla sicumera dello scienziato ateo (Will, nella conferenza pubblica precedente l'attentato) quanto ai pensieri di quella che sembrerebbe la "cattiva" par excellence (la terrorista ed ex ricercatrice Bree).
    Ogni dicotomia, nella pellicola, è ambigua. Davvero chi "fa" il bene è "buono"? Davvero chi opera il male (distrugge, uccide) è "malvagio"? E' più autentico l'amore di Will per Evelyn, che lo spinge a incoraggiare la moglie nel suo ardito progetto, o l'affetto amicale di Max, che cerca - con ogni mezzo - di fermarla?
    Un altro tema è quello del divino. Lo scientismo ateo ha in realtà una folle paura dei limiti umani: della malattia, della morte; cerca in ogni modo di confinarli, di annullarli, se possibile di "trascenderli". Così Will, che vede in Dio una "creazione" umana, realizza con Evelyn una torre di Babele 2.0 che presto esplode in una volontà di dominio e di controllo inaudita. Will non si limita a guarire i malati e gli handicappati, ma "imprime" in essi un "carattere" che li rende a tutti gli effetti esseri ibridi, che possono rispondere completamente alla sua volontà. Will non si limita ad amare la natura, vuole (e può) "diffondersi" in essa, in un panismo che diventa ubiquità, potremmo dire panteismo.
    Ma chi è veramente Will? La sua coscienza, la sua anima e la sua personalità si risolvono nei circuiti cerebrali di cui Evelyn ha effettuato l'upload o li superano? Quella... nuova "creatura" sa amare?
    Nel finale, che ho trovato davvero commovente, la pellicola lascia aperta la redenzione anche per Will: la tanto desiderata unione con la sposa è raggiunta proprio mentre vanno entrambi incontro a quel limite inesorabile, che si erano illusi di poter superare.
    Perché l'unica Trascendenza è Amore.
    [CINESPADA] Transcendence | Radio Spada


    EUGENIO CORTI
    L'infido oggi
    Un'intervista allo scrittore scomparso il 4 febbraio, apparsa su "Tracce" nel maggio 1997. Una rilettura della storia del Novecento, per sorprenderne gli antecedenti culturali nella pretesa moderna di vivere «come se Dio non esistesse»
    di Laura Cioni
    La vecchia casa attorniata da un ampio giardino in fiore, affacciata a tergo su una stretta via di un paese della Brianza, è la casa natale di Eugenio Corti. Lo scrittore mi accoglie con signorile cordialità. Non è la prima volta che ci incontriamo e già abbiamo avuto occasione di conversazioni interessanti, riguardanti il nostro secolo e i suoi tragici avvenimenti. La sua opera più nota, Il cavallo rosso, giunto alla decima edizione in Italia, mirabile affresco della storia d’Italia e d’Europa dal 1940 al 1974, è oggi tradotto in varie lingue. Corti mi mostra i primi volumi della traduzione francese, che gli sono appena giunti, e mi annuncia la prossima edizione negli Stati Uniti.
    Che cosa ha caratterizzato in particolare la storia del Novecento?
    La differenza maggiore tra il Novecento e i secoli che l’hanno preceduto è che in questo secolo le filosofie e le teorie, prima custodite nei libri e negli scaffali delle biblioteche, sono entrate nella vita quotidiana della gente. Le ideologie hanno fatto presa soprattutto in due nazioni per aspetti diversi all’avanguardia della modernità, la Germania e la Russia che, nel tentativo di farle prevalere, hanno trasformato in terreno di lotta il mondo intero. Questo fatto ha coinvolto tutti e ha profondamente segnato la vita di ogni abitante della terra.
    Quali sono i fattori culturali e storici che hanno preceduto questa novità, da lei segnalata, del Novecento?
    Secondo una suddivisione oggi purtroppo accettata in tutto l’Occidente, la storia degli ultimi millecinquecento anni viene distinta in due parti. La prima, dalla fine dell’Impero Romano al Rinascimento, corrisponde ad un unico periodo, chiamato Medioevo, nel quale vengono fatti coesistere i secoli oscuri della prevalenza barbarica e i successivi secoli della Res Publica Christiana e del Sacro Romano Impero, gli unici, questi, in cui il cristianesimo ha permeato in qualche modo la vita della società. Si tratterebbe in sostanza di un unico periodo regressivo per l’umanità. La seconda parte cominicerebbe proprio con il Rinascimento, che rappresenta l’inizio dell’età moderna, o del progresso. In realtà nel Rinascimento ha avuto luogo la rinascita del paganesimo, non più però nella sua versione antica, che dava anche spazio a Dio, o almeno agli dei, tanto che Cicerone poteva scrivere: «Apud nos omnia religione reguntur» (presso di noi tutto si regge sulla religione), e nel quale potevano comparire figure come Virgilio naturaliter christianus. Il nuovo paganesimo rinascimentale, invece, dopo aver conosciuto Cristo, lo respingeva: era dunque contro Cristo e contro Dio. Partendo appunto da lì si è arrivati nel nostro secolo alla proclamata «morte di Dio», che costituisce il nucleo caratterizzante la filosofia laicista contemporanea.
    Quella esclusione di Dio dalla vita concreta della società ha prodotto fin da subito frutti amari: anzitutto, durante lo stesso Rinascimento, ha prodotto un primo piccolo Hitler o Stalin, con il Duca Valentino, che è stato assunto da Machiavelli come il modello della politica nuova e "razionale", quella del fine che giustifica i mezzi. Non a caso ai nostri giorni Gramsci, fornendo il più moderno studio della politica preconizzata dal comunismo, ha dato al Partito Comunista il nome di «Nuovo Principe».
    Più tardi, un secondo frutto tipico dell’esclusione di Dio dalla società degli uomini è stato, durante la Rivoluzione francese, il tremendo massacro vandeano, che ha presentato caratteristiche di genocidio e di menzogna molto simili a quelle comparse poi su scala molto maggiore nel nostro secolo.
    Infine, il frutto maggiore, almeno fino ad oggi, è costituito appunto dalle stragi naziste e comuniste nel nostro secolo, che hanno comportato milioni e milioni di morti. La «morte di Dio», infatti, comporta come stretta conseguenza la nullificazione dell’uomo. Di tutto questo la gente sa ben poco, perché il nostro è il tempo delle mezze verità, cioè in conclusione della menzogna.
    Lei ha citato Gramsci. Quale è stato, a suo giudizio, il contributo di Gramsci all’ascesa della sinistra in Italia?
    Fondamentale. Gramsci, in contrasto con gli indirizzi leninisti, ha trasferito dagli operai agli intellettuali (contando sul senso di frustrazione, così frequente in loro) il compito di effettuare la rivoluzione. Che doveva essere realizzata non più con le armi, ma attraverso il condizionamento dei centri di produzione e di diffusione della cultura e dell’informazione, in pratica attraverso il plagio delle menti. E gli intellettuali lo hanno seguito in stragrande maggioranza. Anche dopo il fallimento dichiarato e conclamato del comunismo in Europa, quegli stessi intellettuali continuano a occupare le posizioni dominanti. Nella quasi totalità essi rifuggono dal comunicare al pubblico la verità intera sui frutti del comunismo, e sui pericoli futuri per l’umanità. Ecco perché viviamo in uno stato di semi-menzogna istituzionalizzata. Sinteticamente si può comunque affermare che l’impostazione gramsciana, adottata a cominciare dagli anni Cinquanta dal Pci e dalle sinistre ad esso collegate, ha costituito il fattore di gran lunga più importante della successiva ascesa della sinistra in Italia e del suo perdurante dominio nel campo della cultura.
    Perché la cultura cattolica non è sembrata in grado di portare un contributo originale nell’opera di ricostruzione dell’Italia dopo la guerra?
    I cristiani in Italia, nella parte centrale del secolo, hanno avuto culturalmente e politicamente il grande merito di impedire l’avvento del comunismo e di trasformare, con la politica economica di De Gasperi e di Einaudi, l’Italia da nazione povera in nazione ricca. Nel campo della cultura cattolica, però, è entrato quasi fin da subito un tarlo corrosivo, rappresentato da coloro che, seguendo l’indirizzo di una certa lettura di Maritain, hanno gradualmente portato a una divisione dei cattolici, sia nel campo propriamente culturale, sia in quello politico, fino a una lenta paralisi. Di conseguenza la cultura cattolica (che io seguito a considerare la cultura dell’avvenire) è diventata minoritaria al punto di non avere quasi più la forza di farsi veramente sentire su piano nazionale, anche se ha espresso con Augusto Del Noce e padre Cornelio Fabro i maggiori filosofi della seconda metà del secolo. Ci sono state - e ci sono ancora - altre grandi voci cattoliche, a cui però il chiasso dei mass-media laicisti impedisce quasi di farsi sentire.
    Nella stagione che ha preceduto la Costituente quale fu il rapporto tra cattolici e comunisti?
    Han dovuto mettersi insieme per forza, dovendo combattere i nazisti, ma sempre con grande diffidenza gli uni verso gli altri. Alla fine della guerra i comunisti intendevano fare la rivoluzione leninista. L’unità tra cattolici e comunisti era funzionale a scacciare un nemico comune, ma non era assolutamente di intesa. A dare inizio all’intesa, da principio con pochissimo seguito, è stato Dossetti. Il suo discorso si fondava sull’idea di origine maritainiana che nel patrimonio dei comunisti e dei laicisti in generale c’erano delle verità, delle virtù, e dei valori cristiani, impazziti, ma pur sempre con qualcosa di cristiano.
    Vede delle analogie tra la situazione culturale sotto il fascismo e la situazione di oggi?
    Io direi che la situazione di oggi è più infida, perché il fascismo non aveva uno strumento straordinario quale è la televisione, anche i giornali erano pochi e quelli che li leggevano una piccola minoranza della popolazione. Quindi, nonostante i fascisti fossero politicamente i padroni incontrastati, la loro presa reale sulla popolazione era molto minore di quella di adesso, che tiene la gente nella menzogna sulla realtà della storia.
    L'infido oggi - EUGENIO CORTI

    Un inedito di Eugenio Corti: la lettera lasciata all’editore da aprire dopo la sua morte
    In memoriam
    «Presenza di Eugenio Corti»
    (C.C.) Il 4 febbraio scorso, Eugenio Corti ha concluso la sua esistenza terrena. Era nato a Besana in Brianza il 21 gennaio 1921. Fino all’ultimo è stato vigile, attivo, pieno di progetti. Le Edizioni Ares, che hanno in catalogo la sua opera omnia, perdono non solo un Autore di immenso prestigio, ma un amico che ha condiviso e talvolta guidato il nostro impegno per una letteratura e una saggistica profondamente cristiana perché profondamente umana. La sua morte ha avuto un’ampia eco sui mass media, anche con punte di rammarico, da parte di alcuni critici, per non averlo valorizzato di più in vita. Ne riferisce Alessandro Rivali nelle pagine successive. Ma Eugenio ha sempre scritto per i posteri e, sempre confortato da un popolo di lettori, ora conosce una vita letteraria nuova, a servizio delle future generazioni impazienti di abbeverarsi alla verità dei suoi libri. Lo ricordiamo con il cuore stretto dalla commozione, vicini all’adorata consorte Vanda (la meravigliosa Alma del Cavallo rosso), ai fratelli e ai nipoti tutti, pubblicando una lettera consegnata in redazione il 19 maggio 1994, con la dicitura: «Da aprirsi dopo la mia morte – grazie».
    Questo il testo della lettera
    «A mia moglie Vanda
    Al mio editore e amico Cesare Cavalleri.
    Nelle edizioni o ristampe del mio libro Gli ultimi soldati del re che eventualmente si faranno dopo la mia morte, prego introdurre questa nota. Come segue: dopo le parole Osservatorio Caterina: le farfalle (che nella prima edizione Ares, 13 maggio 1994, si trovano a p. 204) introdurre un richiamo di nota (*) ; far seguire poi la nota a piè della stessa pagina, o a fine libro».
    Trascrivo il brano a cui Corti si riferisce:
    «Osservatorio Caterina: le farfalle.
    Ne venivano spesso, aleggiando, a posarsi sui bordi di terra smossa della nostra trincea, forse per suggerne l’umidità. Un pomeriggio ne arrivò una particolarmente bella: era nero velluto, striata di fuoco, con macchie bianche. La mia attenzione fu attirata dalla leggiadria di quei colori, i quali – mi resi conto – non erano disposti a caso: anche un grande pittore soltanto in un momento di particolare grazia avrebbe saputo comporli con tanta arte. La considerai attento: quanto a lei, certo, non era così per propria scelta, non sapeva neppure di essere una farfalla, non se ne accorgeva. Nemmeno d’esistere si accorgeva: esisteva e basta, e ferma sul bordo di terra della trincea muoveva ritmica le ali, come uno che respiri nel sonno, inconsciamente lieta del grande miracolo dell’estate di cui faceva parte. Quando però di lì a poco ne comparve un’altra della stessa specie, la farfalla si alzò in volo e prese a volteggiarle intorno, mostrando si sarebbe detto con intenzione all’altra i propri colori, ostentandoli, nascondendoli, ostentandoli di nuovo con somma grazia, come una provetta attrice.Insetto, concretamento di qualcosa che la trascendeva infinitamente, anche lei come noi. Specchio “minimo come il luccichìo d’un granello di sabbia al sole” della gioia e del colore che stanno nella mente di Dio. Una farfalla, mi resi improvvisamente conto, basterebbe da sola a dimostrare l’esistenza di Dio».
    Ed ecco la Nota da aggiungere nelle edizioni future:
    «Nella prima stesura delle presenti memorie (anni 1948-50: poco dopo la guerra) non ho riportato questo episodio; l’ho introdotto soltanto parecchi anni dopo, in occasione del loro rifacimento. Ma a tale distanza di tempo non mi riusciva più di ricordare i colori e i disegni delle due farfalle. Li ho perciò ricavati da un testo di scienze naturali (Alessandro Ghigi, Vita degli animali, ed. Utet 1950, vol. III, pagina 283 nella quale si descrive la Vanessa Atalanta “creatura di velluto nero con fascie di fuoco e macchie bianche... gioiello della natura... quando esse si posano, agitano ritmicamente le ali come un ventaglio mosso con lentezza...”). Nelle settimane seguenti però mi disturbava molto di avere – contro il mio costume – presentato come mia esperienza diretta qualcosa che avevo invece tratto da un libro, e tanto più d’averlo presentato in una pagina in cui si parlava dell’esistenza di Dio.
    Un pomeriggio mentre, appunto in tali pensamenti, passeggiavo nel mio giardino, vidi arrivare una farfalla che scese a posarsi su un basso cespuglio, a forse tre metri da me; qui cominciò a muovere «ritmicamente le ali come un ventaglio»; immobilizzatomi, la fissai attento: mi resi conto che si trattava senza ombra di dubbio della specie descritta dal Ghigi. La farfalla si lasciò osservare bene, poi si alzò in volo, e passatami accanto, si fermò alle mie spalle, a meno di un metro da me, su uno stocco alto quanto il mio viso. Si lasciò osservare ancora, quindi abbandonò lo stocco, venne a posarsi sul colmo della mia testa, e vi rimase alcuni secondi; infine riprese il volo, allontanandosi tra gli alberi. Pur senza dargli soverchia importanza, devo dire che rimasi molto toccato dal piccolo episodio, e ne scrissi subito a mia moglie, in quei giorni al mare, pregandola di conservarte la lettera a nostra futura memoria. Grazie, e un affettuoso saluto. Eugenio Corti - 19/5/1994».
    In queste righe c’è tutto Eugenio Corti, il suo metodo di lavoro. Scriveva sempre e solo di eventi reali, scrupolosamente documentati, trasfigurandoli in realismo letterio. E sempre con la capacità di cogliere la trascendenza nella quotidianità, di leggere nel corteggiamento di due meravigliose farfalle la presenza di Dio, l’amore di Dio.
    Cesare Cavalleri

    Scrivo a voi, Eugenio Corti, ignorato ingiustamente dal gotha della “cultura” italiana
    Lettera ad Eugenio Corti, grandissimo autore della letteratura italiana, purtroppo poco noto da noi (non così all’estero). La sua colpa? Aver intrecciato la fede cattolica – lui, credente – con le trame delle sue storie. Imperdonabile per un mondo, quello della cultura italiana, che di solito vuol sentir parlare di tutto tranne che di prospettiva trascendente. Ad Eugenio Corti, lo scrittore che diceva: «senza fede non si vive», scrive il nostro Alessandro Lastra nella sua rubrica “Illustrissimi”.
    di Alessandro Lastra
    Illustrissimo Dottor Eugenio Corti,
    è con reverenziale soggezione che batto sulla tastiera per rivolgermi a voi. A un certo punto del più celebre dei vostri romanzi, Il cavallo rosso, c’è una digressione di poche pagine che illustra la figura di Togliatti. Il pezzo è introdotto da una sorta di auto-giustificazione artistica: «chi scrive ha la facoltà di trasferirsi all’altezza di chiunque». Faccio mia questa frase e, scusandomi per l’infelice paragone, ardisco nel pormi ad un’altezza che non mi spetta, nella speranza che questa mia non vi risulti inopportuna.
    Gli illustri personaggi della storia cui ho scritto sino ad oggi erano tutti morti da tempo prima che io nascessi e già assurti ad una sorta d’Olimpo, lontani, per certi versi, dalla realtà di oggi. Voi, invece, siete “passato al mondo di là” da pochi mesi e ci sono ancora, su questa terra, tante persone che ancora non hanno ritrovato il sorriso dopo la vostra scomparsa o, comunque, pensano ad essa con dolore. Mi rincresce davvero di scrivervi solo ora, col rimpianto che, in passato, avremmo avuto l’opportunità d’incontrarci. Forte è l’amarezza per non aver cercato l’occasione di vedervi di persona, d’interrogarvi, di ascoltarvi.
    Mi ritrovo così a scrivere la più atipica delle mie epistole. Finora, in questi piccoli esperimenti, ho tentato talora di mettere in luce il prodotto di ciò che i corrispondenti da me scelti avevano seminato in vita. Ho preferito, a questo riguardo, parlare agli scrittori che sono riusciti con la loro arte non solo a darmi un’emozione ma, più che altro, ad aiutarmi a comprendere me stesso. Voi, dottor Corti, ci siete riusciti più di molti altri.
    Grazie a Dio, il seme sparso nei lunghi anni che vi sono stati concessi non è andato perduto. Il dono inestimabile delle vostre storie rimane con noi, mantiene viva la vostra memoria e seguita a parlare alle anime delle persone.
    Custodisco nel cuore la lettura de Il cavallo rosso come un’esperienza preziosa. La vicenda ripercorre la vostra vita, dalla gioventù in Brianza, passando per i disastri della Seconda guerra mondiale sino al boom economico e all’infausto referendum sul divorzio del 1974. Protagonisti sono un gruppo di giovani che affrontano questo grande viaggio, talora insieme e talora separati, tenendo gli occhi alti al faro della fede. In un’intervista, affermaste che questa storia appartiene a tutti gli uomini e che ciascuno, perciò, vi si sente riflesso. È proprio così: tra le parole di questo racconto, tra i suoi fatti – tutti realmente accaduti o quantomeno ispirati alla realtà – ci si muove agilmente e quasi si riesce a impersonare chi si ritrovò a vivere quell’avventura, vivendola a nostra volta, avvertendo su di noi le medesime impressioni.
    Era l’estate passata e mi trovavo in vacanza con degli amici sulla riviera del Conero. Forse sono un tipo strano, ma il mare proprio non mi diverte: mi basta fare un bagno e abituarmi alla brezza che subito mi annoio (dalla vostra biografia, apprendo che la scarsa passione per la villeggiatura al mare è una cosa che abbiamo in comune). Da che ho memoria, per passare il tempo mi siedo sotto l’ombrellone a leggere; in questo modo intere giornate trascorrono meravigliosamente, senza un accenno di monotonia. Sia chiaro, non intendo affatto dire che Il cavallo rosso sia uno dei tanti tascabili da spiaggia di dubbio pregio che vengono pubblicati ogni anno; vorrete perciò scusarmi se tale fu il mio approccio.
    Mi catturava, vi stavo chino per ore ed ore, senza più rendermi conto del resto. Addirittura, leggendo della rovinosa campagna di Russia e della ritirata dal fronte sul fiume Don nel bel mezzo del terribile inverno, pur trovandomi lì, su una spiaggia a trenta gradi all’ombra, ho avvertito un brivido di gelo.
    Raccontate ciò che avete visto, senza inventare nulla. Le brutalità della guerra, riportate con tanta cura, si palesarono davanti ai vostri occhi. Quella di seguire l’esercito in Russia fu per voi una scelta, tanto eravate desideroso di vedere e testimoniare l’esistenza d’una civiltà che si fonda sulla negazione di Dio. Vi ritrovaste sperduto in un deserto di ghiaccio, un luogo in cui nonostante la stessa natura fosse ostile alla vita, gli uomini seguitavano a combattersi con ferocia inaudita. In quell’autentico inferno sulla terra, elevaste una preghiera alla Madonna promettendole che, se mai ne foste uscito vivo, avreste messo all’opera i talenti ricevuti dal Signore per l’affermazione del Suo Regno. A questo fine, in più nobile per un credente, avete consacrato il vostro lavoro di scrittore.
    In molti vi chiesero com’eravate riuscito a conservare la fede dopo una tale esperienza. Candidamente rispondevate: «L’ho fatto perché senza fede non si vive»; l’assistere a quegli eventi orribili accrebbe addirittura in voi l’amore per quel Dio che dà ai suoi figli anche la libertà di fare a meno di lui. Davanti a chi affermava che nel Novecento, di fronte ai terrori prodotti dal comunismo e dal nazismo, s’era avuta la prova che Dio non esiste, voi scrollavate il capo e con pacatezza replicavate che tali bestialità sono proprio ciò a cui l’uomo giunge quando vuole togliere di mezzo Dio. «Quando per me arriverà il momento di passare al mondo di là» dicevate, abbozzando un sorriso, «non potrò presentarmi davanti a San Pietro e dire che, nonostante tutto, non ho perduto la fede. Per me è stato così naturale che quel merito lì non ce l’ho».
    In un altro libro, I più non ritornano, il primo da voi pubblicato, nel 1947, ci si concentra sui ventotto giorni che avete trascorso nella sacca, durante la ritirata. Un racconto di una precisione devastante, in cui è ben espressa la condanna all’ideologia ma non v’è astio alcuno per le persone, i poveracci che si sono ritrovati a servirla. «Occorre parlare della guerra per indurre le persone a detestarla». Pure, dopo essere disceso all’inferno e risalito, la vostra vita di soldato era ancora lungi dal concludersi. Rientrato in patria, dopo l’8 settembre, avete combattuto nelle fila dell’esercito regolare italiano contro i tedeschi. L’esperienza di quei giorni è raccontata nel romanzo Gli ultimi soldati del re, una storia di speranza e volontà di riscatto. «Tra la nostra guerra e quella di molti partigiani c’era una differenza fondamentale», affermaste, «noi combattevamo senza odio. Mentre ci battevamo contro i tedeschi, abbiamo sperato con tutto il cuore di non dover combattere anche contro reparti fascisti, cioè contro altri italiani. I partigiani, invece, a causa del livore che nutrivano verso i fascisti, li mettevano sullo stesso piano dei tedeschi».
    L’aver visto e affrontato di persona il comunismo vi servì da monito per contrastarlo con tutte le forze durante il dopoguerra. Su modello delle antiche tragedie greche, scriveste un’opera teatrale, Processo e morte di Stalin, la cui messa in onda in televisione fu impedita dalla dominante cultura di sinistra. Seppur escluso e sovente anche ignorato dagli ambienti accademici italiani, riscuoteste uno stupefacente successo di pubblico e le vostre opere sono state tradotte in diverse lingue. Sempre avete tirato dritto, senza vittimismo e con profonda umiltà, convinto di percorrere la vostra strada, di combattere la buona battaglia. «Io sono facile a commettere peccati d’orgoglio», ammetteste, «il successo mi avrebbe senza dubbio fatto male».
    Poi gli ultimi anni, il disappunto per il pessimo esito dei referendum su divorzio e aborto, la pubblicazione de Il cavallo rosso nel 1983 e gli altri romanzi scritti con uno stile simile alle sceneggiature cinematografiche, da voi definiti “racconti per immagini”. Incantata dalla verità di queste storie, una folla sterminata di lettori vi ha scritto ed è venuta a trovarvi, per ringraziarvi delle parole che siete riuscito a scolpire nelle loro anime. A molti giovani come me, spesso scoraggiati dalla totale deriva che caratterizza questi nostri anni, voi rispondevate che, nella Storia, il bene e il male sono sempre esistiti insieme e sempre si sono alternati il trono. Nel tempo in cui ci ritroviamo a vivere, io credo che sia importante prendervi ad esempio, impegnare le nostre esistenze e se occorre combattere per l’affermazione del Regno, anche a costo della vita, che infatti non ci appartiene. È per questo che ciascuno di noi ha ricevuto i propri talenti.
    Raramente ho trovato qualcosa che conforti il cuore, appaghi la mente e rafforzi la coscienza come ci sono riuscite le vostre storie. Ahimè, Dottor Corti, anche io mi trovo tra i tanti che hanno la passione – e a volte la tentazione – di scrivere e già alla mia acerba età mi sono reso colpevole di un paio di libri. Pur essendo ovviamente lontano anni luce dal livello da voi raggiunto, continuo a impegnarmi perché riconosco che questa cosa è importante per me e sogno di riuscire, se Dio vorrà, a combinare qualcosa con le mie parole. Ricordo la sensazione che provai, commosso, una volta finito di leggere Il cavallo rosso. Dapprima un profondo senso di solennità, poi quasi la disperazione, come se avessi esaurito tutti i libri del mondo. Mi torna in mente un personaggio del romanzo, ispirato a vostro padre, che legge e rilegge di continuo I promessi sposi perché, egli crede, è un libro che rende inutili tutti gli altri.
    «Quando uno fa lo scrittore», aveste a dire in un’intervista, «intanto dev’essere fedele alle cose in cui crede, perché se mente a se stesso, tanto più finisce per mentire al lettore. Poi se uno ha fede, ha la stessa conoscenza ed esperienza della realtà naturale che hanno gli scrittori senza fede: come essere umano ciascuno ha le stesse possibilità. Ma, avendo fede, ha tutta una parte di realtà che quegli altri non hanno. Si ritrova in un certo senso handicappato perché, di fronte al lettore, il credente si riconosce immediatamente – io poi lo dico subito, fin dalla prima parola – e allora c’è qualcuno che abbandona la lettura del libro. Se però prosegue, si trova davanti tutta l’esposizione di una realtà di cui magari non ha neanche il sospetto. Dopodiché è libero, nessuno lo obbliga ad accettare ciò che si dice, ma ha davanti anche questa realtà. Per me è stato naturale. Senza le possibilità che mi dava la fede non avrei potuto entrare in tante realtà che sono della condizione umana. Di meriti dico di non averne perché francamente non ne ho. Semplicemente, trovandomi in una grande esperienza, non ho voluto mettermi dei paraocchi; quello che ho visto poi l’ho reso e l’ho riferito».
    Più come uomo che come aspirante scrittore, non posso che far tesoro di questi vostri consigli. Mi avete mostrato che, se pure viene osteggiata e sconfitta, la Verità rimane tale e occorre difenderla per far sì che l’avventura umana si concluda bene. Per dirla come l’umile personaggio di Marietta, che appare alla fine, in una veduta del Paradiso: «Non uno di quelli per cui Cristo è morto si perde, se non vuole».
    Illustrissimo dottor Eugenio Corti? | Papalepapale.com


 

 
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