Comunista franchista e ateo santo, il reale surrealismo di Buñuel
Rivoluzionario ma timoroso di ogni rivolta, considerava il Caudillo "un tipo stupendo". Negatore di Dio, credeva nei miracoli
Gabriele Morelli
È talmente noto l'ateismo professato da Luis Buñuel che potremmo ricorrere a una greguería (una specie di capriola verbale) di Ramon Gómez de la Serna per dire che il grande cineasta spagnolo «non ha neppure l'osso sacro».
Del resto è conosciuta la sua furia iconoclasta contro ogni dogma morale e religioso, in particolare quello cattolico. Ebbene, nel massiccio libro di Max Aub appena uscito in Spagna, Luis Buñuel, novela (Editorial Cuadernos del Vigía, pagg. 604 con accluso dvd, euro 40), che raccoglie interviste e riflessioni critiche sull'opera dell'autore e il movimento d'avanguardia, il motivo è in parte superato o è visto in modo diverso.
Buñuel è un ateo convinto? Lo sembra, risponde l'amico scrittore, «ma il suo tema è la religione». Aub crede che il problema maggiore di Luis sia quello della fede, «la fede intesa secondo la religione cattolica, apostolica e romana». Il maestro surrealista non cessa di essere un ateo, però a poco a poco «diventa un eretico». Infatti occorre ricordare la sua intensa educazione religiosa, risultato del cattolicesimo intransigente di sua madre che lo adorò e non mancò di fornirgli generosi aiuti economici; ed ancora la sua formazione borghese, la sua concezione reazionaria della famiglia dove la donna, nel suo caso la moglie Jeanne, mai partecipa alle riunioni in casa con gli amici. Le sue affermazioni possono sembrare elusive poiché sovente rispondono ai quesiti, come dire, in modo buñuelesco. Ad esempio quando, interrogato sulla presenza dell'elemento religioso nella sua opera, replica: «Sai che non ho per Gesù Cristo nessuna simpatia, nutro invece un grande rispetto per la Madonna». Conclude Aub: «Buñuel è anticlericale, ma non anticattolico».
Sulla guerra civile spagnola - alla quale non partecipa ma auspica l'avverarsi di atroci nefandezze («incendi di conventi, guerra, assassini») - Luis dichiara: «Al solo pensiero del conflitto, morivo di paura, ed inoltre ero contrario». Sull'appello alla partecipazione armata, dice: «Sono un rivoluzionario, ma la rivoluzione mi spaventa. Sono un anarchico, ma totalmente contrario agli anarchici».
Esistono anche dubbi sulla sua adesione al comunismo, che egli comunica ad André Breton nella lettera del 6 maggio 1932. In età avanzata, sull'argomento afferma in modo categorico: «Non sono mai stato comunista. Né del partito francese né di quello spagnolo, la politica non mi interessa». Aub fornisce la seguente spiegazione: Luis aderisce al comunismo per lealtà con i compagni surrealisti per i quali l'impegno marxista era un imperativo; ciò però non spiega il loro entusiasmo verso il maestro spagnolo che, sebbene circondato da marxisti e simpatizzanti, propone un'opera che ignora completamente l'ideologia comunista. Sempre il nostro scrittore valenziano osserva: «Nessun film di Buñuel è stato proiettato nei Paesi socialisti, dai quali non ha mai ricevuto un riconoscimento».
Il produttore francese Serge Silverman, che ha collaborato a lungo con il grande regista, è ancor più radicale: «Buñuel non è mai stato anarchico né comunista ma, nel suo fondo, è un vecchio liberale ottocentesco». Del resto Luis, come lui stesso riconosce, più che leggere i libri canonici dell'ideologia marxista si interessa alla vita dei santi, ed è uno dei pochi a credere ciecamente nel miracolo di Calanda, suo paese natale dove, raccontano le cronache, la sera del 29 marzo 1640 il giovane Miguel Juan Pellicer, devoto della Vergine del Pilar, si addormentò con una gamba sola e al mattino si svegliò con tutte e due. Buñuel rivela che suo padre fece costruire un carro con la statua di Miguel, portata in processione ogni 29 marzo dai suoi braccianti. E in uno slancio di campanilismo proclama: «Al confronto di Calanda, Lourdes è un luogo mediocre».
L'atteggiamento anticonformista di Buñuel, ribelle a ogni convenzione estetica e morale, comprende anche una visita a Francisco Franco. «È un tipo stupendo. - dichiara a Max - Con una visione fenomenal. Molto simpatico. Abbiamo parlato per mezz'ora. Quello che più mi è piaciuto è stato il momento del nostro congedo: si avvicinò alla porta e gridò: “Carmencita (la moglie di Franco, ndr), prepara un tortilla con chorizo per Buñuel che va via!”».
Data la brusca sincerità dell'uomo, è difficile considerare queste confessioni delle mere boutades, come quando dice che non ama il cinema e che va a vederlo solo in occasione del film di un amico. Di certo l'amicizia, insieme al senso di mistero che Buñuel esplora quale evento religioso, è il sentimento che meglio caratterizza la personalità del grande cineasta. Anche di fronte alla burrascosa relazione vissuta con Dalí, che lo denuncia come comunista alle autorità degli Stati Uniti dove egli sta lavorando, confessa: «Sì, un giorno chiamai Dalí a New York per rompergli il muso, ma alla fine abbiamo finito per bere insieme champagne».
Con García Lorca, per nulla considerato un grande poeta ma solo un uomo straordinario, il rapporto fu ugualmente difficile, soprattutto dopo l'uscita del film Un cane andaluso, nel cui titolo Federico vide una chiara allusione alla sua persona. Jean, il figlio di Buñuel, in un incontro personale ha raccontato che il padre, mentre girava a Toledo le scene di Viridiana, gli chiese di accompagnarlo in macchina a Granada e da lì fino ai dirupi di Víznar, dove Lorca fu assassinato. «Percorremmo il tragitto lentamente e in silenzio - disse -, alla fine papà, con voce roca, sospirò: “Conoscendo la sua paura della morte, non riesco ad immaginare quanto deve aver sofferto Federico in quei momenti”». Un atto che nobilita il rude Buñuel, fustigatore di ogni teologia, ma assiduo frequentatore fino all'ultimo di frati e prelati che lo amano e lo stimano. Non a caso Max Aub, mentre prepara questa biografia, dichiara di non aver trovato nessun religioso che parli male di lui. Insomma una specie di annunciata redenzione e beatificazione dell'eretico Buñuel.
Comunista franchista e ateo santo, il reale surrealismo di Buñuel - IlGiornale.it
"Era un anticlericale, un rojo", ricorda un vecchio del villaggio, "ma alla Virgen era devoto, e ancor più al Gran Milagro. Ogni anno tornava qui per la Settimana Santa, ovunque si trovasse". Già, perché nella settimana santa Calanda si trasforma: la gente scende in piazza e, per due giorni e due notti, picchia ininterrottamente sui tamburi per ritmare il terremoto che secondo i vangeli avrebbe accompagnato la morte di Gesù.
In un'intervista Bunuel -figlio di un ricco notabile calandino- rivela che un suo avo acquistò le stampelle di Juan Pellicer e ne ricavò delle bacchette per i tamburi. Era davvero ossessionato, da quella gamba, Bunuel. Nel film "Tristana" del 1970 racconta la storia di una donna zoppa, della sua gamba amputata e della protesi ortopedica che l'ha rimpiazzata. E Catherine Deneuve, la protagonista, passa e ripassa davanti a un inesistente negozio di Toledo che vende gadget mariani del Pilar. In un'altra Intervista, il regista rivela che suo padre aveva fatto costruire un carro con la statua di Miguel, portata in processione ogni 29 marzo dai suoi braccianti. Esalta addirittura la "saldezza granitica" del miracolo e, In un empito di campanilismo, aggiunge: "Al confronto di Calanda. Lourdes é un luogo mediocre''.
LA SERA DEL 26 FEBBRAIO 2014 E’ MANCATA LA POETESSA ELENA BONO
Ieri sera alle 20.20 è mancata la poetessa Elena Bono, terziaria francescana.
Residente a Chiavari, è deceduta nell’Ospedale di Lavagna.
Le sue condizioni di salute sono state discrete fino a un mese fa. Poi, lunedì 24 Febbraio è stato necessario il ricovero nell’ospedale di Lavagna e dopo soli due giorni è passata alla vita eterna.
E’ stata lucida fino a ieri, riconoscendo le nipoti Maria Alberta e Francesca e i pochissimi amici intimi che l’hanno potuta salutare.
Ha ricevuto tutti i conforti materiali, morali e spirituali fino alla fine, ricevendo ogni mattina la S. Comunione da Padre Pierluigi Canobbio, assistita anche dalla sua badante Stefania, che l’ha accudita per diversi anni con tanta premura e professionalità.
“Si è preparata a lasciare questo mondo da vera cristiana – scrive Padre Conobbio in una nota – dando un esempio ed una testimonianza di fede autentica e di cristiana sopportazione dell’infermità che l’affliggeva da anni”.
LA SERA DEL 26 FEBBRAIO 2014 E' MANCATA LA POETESSA ELENA BONO - Liguria Notizie
Addio a Elena Bono
Debora Badinelli
Chiavari - Lutto nel mondo della cultura. Ieri sera all’ospedale di Lavagna è morta la poetessa Elena Bono. Aveva 92 anni.
Poetessa, scrittrice, autrice di opere teatrali e di critiche d’arte, era nata a Sonnino il 29 ottobre 1921. Figlia di un noto studioso di letteratura classica, Francesco Bono, e di Giselda Cardosi, ha respirato poesia fin dall’infanzia, trascorsa a Recanati dove ha instaurato uno speciale legame con l’animo poetico di Leopardi, che lei chiamava confidenzialmente “Giacomino”.
Sorretta da una fede profonda (era terziaria francescana) ha chiesto di essere sepolta con lo scapolare francescano nonché con l’inseparabile rosario. «Lucida fino a martedì, ha ricevuto tutti i conforti materiali e spirituali fino alla fine – spiega Stefania Venturino, amica e press agent di Elena Bono. Si è preparata a lasciare questo mondo da vera cristiana, dando un esempio e una testimonianza di fede autentica».
Un ricordo affettuoso arriva anche dall’assessore alla Cultura di Chiavari, Maria Stella Mignone. «Sono sempre stata vicina a Elena Bono e al marito – dice - Il mio sogno è far entrare le opere della poetessa nelle antologie scolastiche. Per la prossima estate avevo già concordato una serie di letture di Elena Bono. Purtroppo saranno postume».
Lavagna - Addio a Elena Bono, poetessa leopardiana | Liguria | cultura | Il Secolo XIX
Addio a Elena Bono, scrittrice di un suo «Quinto Evangelio»
Massimiliano Castellani
Una preghiera, prima dell’addio dolceamaro: chi non l’ha mai conosciuta, né sentita nomina*re prima, da oggi provi a cerca*re, ma soprattutto a leggere, i libri di E*lena Bono. A 93 anni (era nata a Sonni*no nel 1921) all’ospedale di La*vagna nella serata di mercoledì è volata via la voce femminile (segue di poco l’ad*dio a Eugenio Corti) più originale e an*che la più “dimenticata” della letteratu*ra di matrice cattolica.
«Una notte che ero molto malata, im*provvisamente, aprii gli occhi e vidi di spalle una figura umana. Pensai sgo*menta: hanno fatto del male a que*st’Uomo... Lo riconobbi: era Gesù fla*gellato. Il suo volto raccoglieva tutto il dolore del mondo. Da quello sguardo è scaturito Morte di Adamo». Così, poco tempo fa Elena Bono spiegò ad “Avvenire” la gestazione di quel libro epocale, edito da Gar*zanti nel 1956 e poi fini*to ingiustamente nel di*menticatoio. Una perla d’autentica narrativa a sfondo religioso (come tutti gli otto racconti bi*blico- evangelici che lo compongono) che Emi*lio Cecchi salutò come un capolavoro: «Vent’anni in anticipo – scrisse il critico – sul Quinto Evangelio di Mario Pomilio (pubbli*cato nel 1975) e su tutto il filone da esso discen*dente delle riscritture della Buona Novella».
Una poetica in odore di misticismo quella della Bono, convinta dal profondo del suo buon cuore di non aver mai scritto un solo rigo, del*la vasta e ancora ignota bibliografia, se non sot*to dettatura della “Vo*ce”. «È quella “Voce” che mi presenta i personag*gi dei miei libri e io ho solo il compito di deci*frare i loro pensieri, le diverse lingue in cui si esprimono per poi tra*scriverle», raccontava dal suo piccolo regno di ricordi santi e civili: la palazzina liberty affacciata sul mare di Chiavari, dove oggi - alle 15.30 - nella cattedrale di Nostra Signora Dell’Orto si celebreranno i funerali.
Con estrema lucidità, seduta alla pol*trona del suo salotto letterario (l’unico salotto che ha frequentato) amava in*contrare le persone desiderose di con*frontarsi con la «Storia» che l’aveva vista impegnata in prima linea come “poe*tessa della Resistenza”. Memorie parti*giane che racconta nel Fanuel Nuti che non si può non far leggere nelle scuole. «Con la mia trilogia Uomo e superuomo (conclusa dal tomo del Fanuel Nuti) ho voluto raccontare anche la guerra vista dalla parte tedesca».
Luchino Visconti guardò con vivo interesse al testo del ro*manzo Una valigia di cuoio nero, al pun*to da volerne fare un film. «Poi non se ne fece nulla, ma una sera, a casa di Emilio Cecchi, Visconti disse che il mio Ippoli*to (testo teatrale edito da Garzanti nel 1954) gli aveva ispirato il personaggio di Rocco per Rocco e i suoi fratelli», rac*contava orgogliosa la Bono che amava il cinema, così come ha sempre avuto una spiccata simpatia per i giovani ve*nendone ricambiata. Lo dimostrano le tesi di laurea, che in questi anni comin*ciano a a proliferare. Merito anche del*le faticose ristampe dei suoi libri, a ope*ra della piccola e generosa casa editrice di Francangelo Scapolla, Le Mani di Rec*co, che dagli anni ’80 ha pubblicato l’o*pera omnia di colei che non amava sen*tirsi chiamare “autrice”.
Eppure proprio ora che ci lascia si se*gnalano in aumento le voci critiche che la considerano tale: «Autrice con la “A” maiuscola», dice la ricercatrice Stefania Segatori, che con Giuseppe Langella, do*cente all’Università Cattolica di Milano, da tre anni sta curando una biografia monumentale sulla figura e le opere del*la Bono. Oggi, assieme ai suoi pochi ma resistenti lettori, la piangono le tradut*trici Isabel Quigley (in*glese), Georges Piroué (francese), Marta Ber*telli (francese), Febo Delfi (greco), Nanny Nilsson (svedese), Jaime Berenguer Amenos (spagnolo), Jorge de Se*na (portoghese), Issa Naouri (arabo).
«Loro testimoniano quanto Elena sia forse stata più apprezzata al*l’estero che non in Ita*lia», spiega Stefania Ven*turino, amica e sodale della Bono, con cui col*labora fin dal 1990 per la riscoperta e la valo*rizzazione della sua o*pera letteraria. Un vuoto da colmare crea*to dalla critica irregi*mentata che nella Bono, come ha sottolineato il critico Giovanni Casoli, ha visto u*na «ex lege, fuori dal*l’industria culturale».
La Garzanti all’epoca, nonostante le buone re*censioni di Morte d’A*damo preferì puntare tutto su Pier Paolo Pa*solini, il quale quando lesse il testo teatrale La testa del Profeta (pub*blicato nel 1965): anche lui, come Visconti, vole*va portarlo sul grande schermo. Ma la Bono, fiera, sia pur con rispetto, rispose negativamente: «Ognuno vada per la sua strada...».
Era ferma e coeren*te con le sue idee, sorretta fino all’ulti*mo soffio di vita da una fede profonda. Una spiritualità vissuta a pieno da ter*ziaria francescana che gli faceva dire: «Senza l’esperienza religiosa, l’uomo è u*na bestia, allora tanto vale non essere mai nati». Era nata per incantare e par*lare con gli angeli, e invece gli è toccato un destino dolceamaro come questo ri*cordo, di donna che ha dovuto combat*tere tra pene e oblio per non diventare un’ombra agli occhi della pubblica ot*tusità.
Per il suo contributo letterario e per a*ver combattuto contro tutte le banalità del male del secolo scorso, anche per il vescovo di Reggio Emilia Massimo Ca*misasca merita il giusto, anche se tardi*vo, riconoscimento: «Sappiamo che su*bito, la sua morte ci invita a riprendere in mano le sue pagine, dove non ci so*no parole di troppo e dove è raccolto tut*to il viaggio esaltante dell’uomo e il suo dialogo drammatico con il Mistero».
Addio a Elena Bono, scrittrice di un suo «Quinto Evangelio» | Cultura | www.avvenire.it
24 luglio 2009
La Bono contro Machiavelli
Stefania Venturino
Da oggi a mercoledì la Festa del Teatro di San Miniato proporrà in anteprima mondiale un dramma di Elena Bono: “La testa del profeta” per la regia di Carmelo Rifici. Si tratta della terza opera teatrale della scrittrice presentata dall’Istituto del Dramma Popolare, il più antico d’Italia, FONDAZIONE ISTITUTO DRAMMA POPOLARE SAN MINIATO, dopo la messa in scena di “Le spade e le ferite” nel 2000 per la regia di Ugo Gregoretti e di “I Templari” nel 2002 per quella di Pino Manzari.
Nonostante la Bono resti poco conosciuta al grande pubblico, è considerata “la scrittrice più importante della seconda metà del XX secolo”, secondo Giovanni Casoli in “Novecento letterario italiano ed europeo” (Città Nuova, 2005) e il suo “Morte di Adamo”, tradotto in molte lingue, è considerato anche all’estero un capolavoro.
Sulla rivista La civiltà cattolica del 20 giugno, Ferdinando Castelli così scrive: “Quando ci si immerge nella lettura delle opere di Elena Bono si avverte l’atmosfera della grande letteratura, cioè dello scontro tra il bene e il male, la vita e la morte, la libertà e la responsabilità, Dio e il nulla. L’uomo si scontra con le domande radicali sulle quali si gioca il suo destino. E alcuni nomi rimbalzano subito alla mente: Euripide, Sofocle, Dostoevskij, Gertrud von Le Fort. Sulla scia di questi classici, la Bono accosta i suoi personaggi con singolare introspezione psicologica e pietà cristiana, li ascolta, li scruta, li insegue nelle tortuosità della loro anima e delle loro scelte. Ne viene fuori una galleria di gente dall’anima ferita, che urla il suo dolore, sgomenta del suo destino, sollecitata dal richiamo del nulla e della speranza.”
“La testa del profeta” racconta il dramma della decapitazione di Giovanni il Battista, che non compare mai sulla scena e che pure fa sentire tutta la sua presenza e importanza morale proprio attraverso i dialoghi fra coloro che, tutti insieme, anche se a vario titolo e con scopi diversi, concorrono a decretarne la morte. I personaggi, anche se mossi dalle più diverse passioni, agiscono sempre lucidamente, sul filo di una dialettica serrata che invita il lettore a un ascolto profondo e responsabile, che interpella la coscienza. «È una partita a scacchi giocata con freddezza da tutte le dramatis personae» dice l’autrice «e la posta in gioco è proprio la testa di Giovanni. Come provocazione al mio estro stanno le parole famose di Machiavelli: “Tutti i profeti armati vinsero e i disarmati ruinarono”. Profeta armato per Machiavelli è Mosè, profeta disarmato è espressamente, per Machiavelli, Gerolamo Savonarola, che egli vide sul rogo con raccapriccio e riprovazione di uomo politico. E a questo punto mi sono fatta una domanda: e Gesù Cristo? Vincitore o vinto? E cosa dire degli stessi personaggi del dramma? È un vincitore Erode? E il sacerdote Anna? E Salomè? La piccola volpe emergente su tutto questo convegno di volpi senza pietà e senza pentimento possibile. Ma tutto» avverte la scrittrice «viene trasceso da quel senso di agonia spirituale condensato nella figura di Daniele, in cui si esprime il senso stesso della vita cristiana, così come espresse Pascal: il cristiano è colui che veglia nell’orto degli ulivi fino alla fine del mondo. Di fronte a questa grandezza sublime a cosa si riduce la furbizia del mondo? Tutte le sue trame, e lo scopo finalmente conseguito di far cadere la testa di Giovanni, a una misera partita di ragazzi cattivi e stolti, marchiati per sempre dal sangue dell’innocente sacrificato. Machiavelli o Pascal? Il lettore e lo spettatore devono prendere a loro volta una posizione».
«Scrivendo questo dramma» conclude la Bono «ho voluto rispondere cristianamente a Machiavelli: i profeti disarmati possono vincere più di quelli armati, perché Gesù non aveva armi, anzi dalle armi è stato ucciso. Eppure era l’arma dello spirito che contava, e conterà sempre, nonostante tutto».
O il nulla o il tutto
È tra i più importanti autori italiani del Novecento. Eppure dimenticata dalla grande critica.
ELENA BONO ripercorre la sua opera e la sua vita. Vissute di fronte a un aut aut estremo.
Carlo Dignola
A 91 anni, Elena Bono è uno dei pochissimi importanti scrittori italiani del Novecento ancora in vita. La sua è una lingua ricca, affascinante, fitta di citazioni storiche, classiche, filosofiche. Per Stas’ Gawronski è la maggiore autrice del Dopoguerra. Il critico Giovanni Casoli l’ha definita «la più grande scrittrice vivente, anche se è stata oscurata dalla situazione attuale della critica». Dimenticata dai giornali e dalle antologie perché molto lontana dal mercato culturale: «È una scrittrice della realtà».
La sua opera è stata tradotta in inglese, francese, spagnolo, portoghese, arabo, svedese, greco. Nata a Sonnino nel 1921, esordì nel 1948 con la raccolta di poesie I fenicotteri. Il suo primo libro di narrativa, Morte di Adamo, uscì per Garzanti, nel 1956: fu un grande successo, anche a livello internazionale. Nice-Matin la salutò come «una rivelazione della letteratura italiana», il Daily Telegraph parlò di «una qualità numinosa» del testo.
Il primo romanzo della Bono, Come un fiume come un sogno, è un gioiello nascosto della letteratura italiana recente. Garzanti non si decise mai a pubblicarlo e uscì presso Emme Edizioni solo nel 1985; oggi, insieme a tutte le altre sue opere è disponibile grazie alla piccola casa editrice genovese Le Mani.
Il secondo romanzo si intitola Una valigia di cuoio nero (1998), ed è la storia di una giovane SS, di nome Tycho. Figlio dell’alta borghesia tedesca, diviene un fervente nazista. Egli in realtà disprezza i seguaci di Hitler, ma è malato, sia pure in modo nobile, dello stesso loro male: il nichilismo. Per questo segue la svastica, una ruota che va contro il cammino del sole, nel senso della morte anziché della vita. E la grande cultura tedesca - quella di Leibniz, Kant, Hegel - si affaccia sull’orlo del baratro. L’ultimo episodio della trilogia, Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio (uscito in due volumi, nel 2002 e 2003) è la storia del figlio di una prostituta che, al termine della vita, da un letto di ospedale racconta di sé.
Più conosciuta e rappresentata è la sua opera per il teatro: La grande e la piccola morte (Garzanti 1965), dedicata a Giovanna d’Arco, nel 2000 è stata in cartellone per un mese intero a Parigi.
Elena Bono vive a Chiavari in una casa d’inizio Novecento, ingombra di libri e di memorie. Ormai non vede più e sente molto poco. Attorno al suo letto, però, c’è una gran aria di festa. Un giorno passa a trovarla un prete, un altro i ragazzi delle scuole liguri, che restano colpiti dalla personalità di questa donna dura e cristallina come una pietra restata a concentrare le sue molecole per millenni sotto la terra...
Negli anni Sessanta Pasolini lesse il suo racconto La testa del Profeta, su Giovanni Battista, e le chiese di poterne trarre un film.
Mi fece telefonare da un factotum del cinema italiano, un’eminenza grigia, un certo “commendatore”, che si entusiasmò: mi scrisse una lettera meravigliosa, promise mari e monti...
Lei però rifiutò l’offerta, dichiarando che non le sembrava il caso di celebrare «questo tipo di nozze mistiche».
A Pasolini non perdonavo che lui, fratello di uno che era stato ucciso, con tutta la Brigata Osoppo, dai comunisti, facesse il comunista.
Rinunciò.
Nel suo Vangelo secondo Matteo però ha alluso a quell’idea: mette sullo sfondo la danza di Salomè, e ne fa una ragazzina leggiadra, vestita di bianco, con la corona di rose in testa, un po’ come l’ho descritta io. L’ha presa dal mio libro perché è del tutto diversa dalla solita Salomè sensuale che fa la danza del ventre...
Lei mette in scena molti personaggi dei Vangeli, di cui è andata ricostruendo con la fantasia la storia. Cosa l’ha spinta a cercare di immedesimarsi in loro?
I Vangeli stessi.
Le guardie del Sepolcro, il proprietario del Cenacolo, Cusa, primo ministro di Erode, la figlia di Giairo, la suocera di Pietro... sono spesso figure di secondo piano.
Questo le rende più interessanti.
Hanno un’aria credibile.
Erano personaggi in cerca di autore. Sono venuti a cercarmi loro.
Anche secondo lei, come per Pirandello, non è l’autore che inventa un personaggio, ma il personaggio che trova un autore per potersi esprimere?
Un’opera d’arte non è qualcosa che si costruisce a tavolino. Io ho... registrato. La letteratura è sempre stata qualcosa che mi succede.
In diverse poesie ha cercato di immedesimarsi invece nella Madonna. Una Maria molto giovane.
«So di una ragazzetta che lavava lavava...». «Ecco già la fanciulla, viso d’oliva, muove che appena è l’alba alla fontana...». La fontana è Dio. Sorgente di Grazia, di vita.
Lei ha un profondo rispetto, una sorta di venerazione per la lingua.
Gesù è uno che dice pane al pane e vino al vino: «Dite sì sì, no no», raccomanda.
Ha cercato di vivere con questa nettezza.
Sempre. Tutta la mia vita è centrata nel fatto che Gesù stesso s’è voluto chiamare “la Parola”: Verbum. Io, da cattolica, ho sempre avuto un rispetto enorme, un sacro terrore della parola. Per questo, scrivendo, ho sempre rifiutato gli sperimentalismi. Dalla Scapigliatura in poi, invece, è stato un continuo violentarla.
Ha avversato questa tendenza, l’ha combattuta.
Sì. E mi è costato.
Si è creata delle antipatie nel mondo letterario.
Uhhh... Sa... È logico: chi va per la sua strada non s’imbranca. E trova molti sassi sul suo cammino.
Si è isolata o l’hanno isolata?
Un po’ tutte e due le cose.
Qual è il motivo vero per cui l’hanno dimenticata?
La gente è debole: va dietro alla moda.
Ha scritto una poesia in cui compare don Giussani, che chiama «il sorridente Illuminato». Lo ha conosciuto di persona?
Venne lui al Teatro Cantero di Chiavari. Parlava. Dopo ho scritto questa poesia in base a ciò che lui aveva detto. È un uomo che mi ha subito colpito.
Cosa, in particolare?
Quello che ha detto: che bisogna imparare anche a perdonare se stessi. Occorre imparare da Dio la misericordia non solo verso gli altri ma anche verso la nostra povera persona, con tutte le sue molte miserie corporali e spirituali.
“Misericordia” è stata una parola importante anche per lei?
Fondamentale. Se diciamo sinceramente «Gesù mio, misericordia!», anche se abbiamo commesso i più atroci peccati, Dio ci perdona.
Uno degli ultimi testi che ha scritto lo ha dedicato a una celebre convertita, Claudia Koll.
È venuta qui più di una volta. Non riusciva a trovare dei testi da interpretare e mi ha chiesto se potevo fare qualcosa per lei. In un primo momento le ho detto di no. Poi ho scritto Storia di un padre e di due figli, un testo ispirato alla parabola del figliol prodigo, in cui ho immaginato una figura femminile, Lia, tagliata perché Claudia potesse andare in scena interpretando se stessa. Lei però, in realtà, fa la regia di questo che è diventato un musical, lo porta in giro con i ragazzi della sua accademia.
I più giovani trovano spesso grande sintonia con la sua opera.
I classici sono sempre contemporanei di quelli che verranno.
Lei ha questo stile molto classico, infatti...
Sa, ho tradotto Sofocle... Il contatto con i grandi scrittori antichi giova.
C’è qualche autore del Novecento italiano che ha stimato?
Ungaretti. Piovene. Bassani mi piaceva... Cassola no.
A più di 90 anni, come descriverebbe questo suo percorso letterario e anche di vita?
Come un servizio. L’ho sempre considerato un servizio. Mi è costato ma mi ha dato anche grandi gioie, però. Tutte interne. Incomunicabili.
Neppure nella scrittura è riuscita a dividerle con gli altri?
Cerco di lasciare una parola di speranza, non di disperazione.
A cosa serve la letteratura?
Aiuta a vivere.
Perché è così importante nell’esperienza umana?
È importante l’aria? È come mangiare, bere... Se uno non ha l’arte, non è più un uomo.
A pochi chilometri da qui abita Beppe Grillo: cosa pensa di lui?
Badate che c’è già stato il movimento Fronte dell’Uomo Qualunque, di Guglielmo Giannini... Non è una novità.
Si respira un’aria distruttiva, oggi.
C’è sempre stata, dall’Eden in poi. La disubbidienza. Il serpente disse a Eva: mangia di quell’albero e sarai come Dio.
Presunzione...
Superbia. Comincia lì, nella prima pagina della Bibbia.
Come si combatte?
Credendo. E devi scegliere: o sei per Dio o sei contro Dio, non c’è una terza soluzione. Il sì e il no, il peccato e la redenzione. C’è in noi questa forza brutale dell’animale della foresta, che nella natura ha imparato anche a difendersi, ma anche ad assalire. La rivoluzione di Cristo ha ribaltato tutti i termini, ha dato il primato alla misericordia e all’innocenza.
Lei sa mostrare anche i lati negativi dei personaggi positivi.
E viceversa. La vita umana è luce e ombra. Globuli rossi e globuli bianchi...
La sua opera è stata una sfida al nichilismo?
È difficile dirlo. Io non faccio mai dei programmi, non mi sono mai detta: «Devo reagire al nichilismo». Le situazioni sono quelle che sono e l’uomo deve continuamente scegliere. Il dramma è questo: la scelta, costante, che dobbiamo fare tra la luce e le tenebre. O è un sì totale, che bisogna vivere, patire e scontare fino in fondo, oppure si è complici del male nel mondo. E la scelta non finisce mai. In punto di morte si è ancora di fronte all’aut aut estremo, il Nulla oppure il Tutto. E l’uomo in genere non sceglie il Nulla: siamo figli di Dio, dopo tutto.
Cos’è la morte, signora Bono?
Il momento in cui conosceremo noi stessi e i grandi misteri della vita umana.
È sempre stata chiara per lei la sua strada?
Sì.
Cos’è stata la Grazia nella sua vita?
Tutto. Non si può vivere senza la Grazia.