A partire dal film di Walter Veltroni che sta per uscire nelle sale cinematografiche, si parlerà a lungo, nel trentennale della morte, di Enrico Berlinguer e del suo mito. Sarà un gran bene se servirà, come credo, a ricordare a generazioni, che purtroppo non lo sanno, cosa sono stati la Politica e i Partiti con la P maiuscola. È lo stesso obbiettivo che mi sono posto con il libro sulla storia dell’Avanti! Lo si raggiungerà se sarà reso chiaro che Berlinguer fu un grande leader, degno dell’amore dei militanti comunisti e del rispetto degli avversari: un gigante a confronto delle miserie politiche attuali. Ma se sarà reso altrettanto chiaro che il carisma straordinario gli derivava anche, e forse soprattutto, dall’immenso valore morale, culturale, emotivo del Partito con la P – appunto – maiuscola, che gli stava alle spalle e del quale era fedele espressione. Un Partito (ma lo stesso si può dire del Partito socialista e di altri) alla cui autorevolezza avevano concorso il sacrificio, l’intelligenza, la dedizione di generazioni. Anche Berlinguer può servire a ricordare che, senza i partiti, non c’è la politica. La distruzione dei partiti, la ridicolizzazione e addirittura criminalizzazione, sono tra le cause del vuoto politico che, nello sciagurato ventennio seguito al crollo della prima Repubblica, ha risucchiato l’Italia sempre più lontano dalle democrazie europee, verso le sponde del populismo e del leaderismo di stampo sudamericano. Berlinguer è stato innanzitutto un uomo di partito. Mitizzare la sua persona al di là e al di fuori di quello che fu il partito comunista sarebbe ingeneroso verso una storia al tempo stesso collettiva e gloriosa. Sarebbe incompatibile con la mentalità dello stesso Berlinguer. Il leader comunista, nel trentennale, sarà ricordato con l’affetto che merita. Ma approfittare delle emozioni per cancellare la storia o, peggio, per santificarlo demonizzando i suoi avversari leali, a cominciare da Craxi, sarebbe una operazione cinica. Il fondo di Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica è un incipit allarmante. Berlinguer non è come Papa Francesco. Ammesso e non concesso che il Papa voglia rivoluzionare davvero la Chiesa, è certo che Berlinguer non rivoluzionò o capovolse la natura del PCI. Berlinguer compì passi importanti verso la rottura con l’URSS e con la tradizione leninista. Ma non, come sostiene Scalfari, definitivi. Facciamo un flash prima sugli avvenimenti determinanti e poi sulla “ prova del nove” giunta nel 1989: a posteriori. Nell’agosto 1978, Craxi lanciò la svolta culturale del partito socialista contestando frontalmente, per la prima volta, il marxismo leninismo. Poiché allora, nella Politica con la P maiuscola, l’elaborazione culturale veniva prima (in ordine di tempo e di importanza), Berlinguer (e persino una parte del PSI) reagirono furiosamente cogliendo l’importanza decisiva del passaggio. Si gridò al tradimento degli ideali della sinistra. Berlinguer prima contrastò la svolta di Craxi in una famosa intervista a Scalfari, nella quale il direttore di Repubblica gli faceva generosamente da spalla, poi, rafforzato, cercò di chiudere il discorso al festival dell’Unità di Genova, dove ribadì la fedeltà “alla ricca lezione di Marx e di Lenin”, “alla elaborazione e alle innovazioni ideali e politiche di Gramsci e di Togliatti”. Dove respinse le argomentazioni di Craxi con queste parole: “L’attacco di cui siamo bersaglio sta irrobustendo la coscienza di classe e lo spirito internazionalista, anticapitalistico e anti imperialista dei comunisti”. E dove passò all’offensiva reiterando la scomunica della socialdemocrazia, verso la quale, a suo parere, Craxi si avviava rinunciando al meglio della peculiare tradizione socialista italiana. “Deve restare ben ferma – sillabò tra le ovazioni dei militanti – la consapevolezza che storicamente ciò che ha contraddistinto la socialdemocrazia rispetto ai movimenti comunisti e rivoluzionari è che essa persegue non una vera politica trasformatrice e innovatrice, ma una politica riformistica, rivolta ad attenuare le più stridenti ingiustizie e contraddizioni del capitalismo, ma sempre all’interno del sistema capitalistico”. Questo fu lo scontro clamoroso tra Craxi e Berlinguer. Cui seguirono le prove di forza sull’installazione dei missili occidentali (che il PCI cercò di bloccare, aiutando in tal modo la politica di intimidazione militare sovietica verso l’Europa). E quello sulla scala mobile. Non credo che Ugo La Malfa pensasse, come con dubbio gusto racconta Scalfari, che Craxi fosse un “miserabile” nell’incalzare culturalmente e ideologicamente Berlinguer affinché si avviasse lungo la strada della socialdemocrazia. Il segretario repubblicano può averlo detto in un momento di rabbia, ma conosceva benissimo le ragioni dei socialisti. Credo invece, al contrario, che una riflessione sulle proprie colpe storiche debbano farla Scalfari e chi come lui rappresentava, almeno in teoria, valori borghesi e imprenditoriali. Un intellettuale liberale e occidentale avrebbe dovuto appoggiare la battaglia culturale dei socialisti contro l’ideologia marxista leninista, pungolare e stimolare il PCI a cambiare profondamente. Invece, Scalfari fece esattamente il contrario. Appoggiò Berlinguer contro Craxi sin dallo scontro decisivo dell’estate 1978. Insinuò sprezzantemente, allora, che Craxi volesse “tagliare la barba di Lenin” per obbiettivi di potere. La barba di Lenin fu tagliata dalla storia e dal crollo del muro di Berlino. Allora, e solo allora, finiti il comunismo e l’URSS, il PCI compì il passo decisivo, cambiando nome, recidendo definitivamente il legame con la tradizione leninista e il Cremlino. Facile dopo che il Palazzo dell’impero comunista si era svuotato di ogni potere! Facile ma ancora intollerabile per molti militanti. Tant’è che Cossutta e i futuri leader di Rifondazione Comunista lasciarono il partito allora, allora, e non ai tempi di Berlinguer. Tutti applaudirono la scelta di Occhetto nel 1989: Scalfari per primo. Ma se questi passi decisivi li aveva già compiuti Berlinguer tanti anni prima, dove stava la novità? Perché quella del 1989 fu chiamata svolta? Perché mai si doveva applaudire unanimemente come un gesto di coraggio e di rottura ciò che era già stato fatto? Il semplice buon senso e la logica rimettono la storia con i piedi per terra. D’altronde, tanto è stata radicata nell’opinione pubblica italiana la convinzione che i comunisti, compresi quelli guidati da Berlinguer, fossero, con buona pace di Scalfari, improponibili come guida di un Paese occidentale, che persino cambiati il nome e l’ideologia, persino a decenni di distanza, mai nessun leader con un passato di dirigente comunista è riuscito a vincere le elezioni: una maledizione che adesso si pensa di esorcizzare con Renzi, buttando però purtroppo nel contempo alle ortiche, ciò che c’è di alto e nobile nella tradizione del popolo comunista. La riscrittura della storia compiuta da Scalfari è così lontana dalla realtà che la sua contestazione è facile. Più difficile invece è rispondere a questa domanda: perché mai una parte dell’élite liberale, dell’imprenditoria e della borghesia moderna avallarono con tanti anni di anticipo rispetto alla svolta del 1989, già ai tempi di Berlinguer, la tesi che il PCI fosse ormai diventato un moderno partito socialdemocratico europeo? Il processo perenne a Craxi e ai socialisti, dispiace dirlo, qui diventa un processo allo “scalfarismo”. Le possibili risposte sono tante e non necessariamente si escludono l’una con l’altra. C’era forse un “whishfull thinking”: il desiderio cioè di vedere come reali le proprie speranze. C’era l’idea che la forza dell’establishment e la tradizione trasformista italiana, così come assorbirono e utilizzarono il fascismo nell’ambito del vecchio sistema economico di potere, avrebbero assorbito anche il comunismo. Le grandi famiglie imprenditoriali, in fondo, avevano prosperato tra i fascisti e potevano sperare di continuare a prosperare tra i comunisti (comunisti sì, ma pur sempre italiani e addolcibili con il potere). Una intesa con il PCI dava vantaggi pratici, come dimostra la Torino della Fiat e de La Stampa. Il PCI infatti poteva garantire pace sociali e accordi lucrosi con l’URSS, come quello di Togliattigrad, che aprì agli Agnelli la straordinaria opportunità di “motorizzare” l’Europa dell’Est. La Stampa (e anche il Corriere della Sera) potevano ben trattare con i guanti Berlinguer, persino contribuendo con i loro opinionisti, alla costruzione dell’egemonia culturale comunista negli anni ’70. Il PCI aveva la lunga coda di paglia costituita dalla sua storia. Aveva quindi continuo bisogno di una legittimazione democratica che poteva essere data esattamente dagli opinion leader come Scalfari, dagli imprenditori come De Benedetti e dai politici come La Malfa. Ciò conferiva a tutti loro, indipendentemente dalla inesistenza o pochezza del consenso elettorale, un ruolo politico e di guida enorme. Nonostante Scalfari stesso fosse stato eletto consigliere comunale prima e deputato poi nelle liste socialiste a Milano con i voti della corrente autonomista e di Craxi, esisteva tra i due un’incomprensione personale profonda. Ci sarà molto da riflettere su tutto ciò. Purché la riscrittura della storia non cancelli la realtà su cui discutere. Scalfari lo fa sino a rendere un cattivo servizio alla stessa memoria di ciò che fu il PCI. Nel suo articolo, ricorda che la “questione morale “ sollevata da Berlinguer era la denuncia della “occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”. E che Berlinguer sognava partiti i quali non occupassero persino le istituzioni minori: dalle unità sanitarie alla televisione. Giusto. E giustissimo soprattutto alla luce della sensibilità oggi prevalente. Ma diciamo la verità: il PCI era il più “partito” di qualunque altro. La prevalenza del partito sulle Istituzioni, e la loro conseguente occupazione, era nel DNA dei comunisti ed era stata teorizzata con efficacia da Gramsci stesso. Dalle Regioni rosse alla televisione, hanno occupato tutto ciò che hanno potuto, in modo pianificato e scientifico. Tuttavia, dalle Regioni rosse alla televisione, hanno occupato le Istituzioni con un personale politicamente militante sì, ma onesto, efficiente e di altissimo livello professionale. Veltroni stesso lo sa, almeno per quanto riguarda la televisione, e ne va dato merito anche a lui. Infine, il tema decisivo. Che viene stranamente ignorato dal dibattito di questi giorni ed è già implicito nella citazione sopra ricordata del famoso discorso del segretario comunista a Genova. Si impiegano colonne per commentare la conflittualità tra Craxi e Berlinguer. Ci si spinge a spiegazioni tutte personali, psicologiche, sociologiche e persino antropologiche. Ma si dimentica l’essenziale, ovvero la politica o, più semplicemente, il potere. Entrambi volevano in prospettiva una sinistra unita, alternativa alla DC e alle destre, elettoralmente vincente. Ma Craxi la voleva a egemonia socialista e guidata pertanto da lui. Berlinguer, specularmente, la voleva a egemonia comunista e, altrettanto conseguentemente, guidata da lui. La conflittualità tra Craxi e Berlinguer aveva dunque una radice quasi ovvia e ineliminabile. Craxi immaginava lo schema francese di Mitterrand, sognava un’Italia europea e socialdemocratica. Berlinguer mai e poi mai si sarebbe definito socialdemocratico. Era un comunista diverso da quelli dei Paesi dell’Est, sì. Ma, proprio per non cadere nella tradizione socialdemocratica europea, si inventò il cosiddetto “eurocomunismo”: una araba fenice, un ircocervo del quale mai nessun osservatore imparziale ha capito la natura o individuato l’effettiva esistenza. Se su questo, ovvero sull’essenziale, avesse ragione Craxi oppure Berlinguer, lo ha detto la storia.
Ugo Intini
Enrico Berlinguer e le strane amnesie di Scalfari | Avanti