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    Predefinito Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi

    Francesco Crispi in ?Enciclopedia Italiana? ? Treccani

    CRISPI, Francesco


    Enciclopedia Italiana (1931)


    di Giuseppe Paladino
    CRISPI, Francesco. - Uomo di stato, nato a Ribera (Girgenti) il 4 ottobre 1818 da Tommaso e da Giuseppina Genova, morto a Napoli l'11 agosto 1901. Compiuti i primi studî nel seminario greco-albanese di Palermo, si laureò in giurisprudenza (1837). L'anno dopo sposò Rosa D'Angelo che morì nel 1840. Intanto, sin dal 1839 il C. aveva cominciato la sua carriera giornalistica, fondando e dirigendo il giornale L'Oreteo, che visse tre anni. Nel 1844 il C. si presentò al concorso per la magistratura, riuscendo primo. Ma l'ufficio e la carriera di magistrato richiedevano l'osservanza di una disciplina, a cui non si sentiva di sottostare, sicché ben presto, essendo venuto fuori un decreto ministeriale, col quale gli "alunni di giurisprudenza" erano ammessi, senz'altro esame, ad esercitare la professione di avvocato presso la Gran corte civile di Napoli, chiese ed ottenne l'iscrizione nell'albo relativo. Trasferitosi così nella capitale del regno, il C. esercitò l'avvocatura con successo. Intanto egli si occupava attivamente di Politica. Per il tramite di Giovanni Raffaele, entrò a far parte del Comitato che si adoperava a strappare al Borbone una costituzione, e anzi rappresentò in esso l'anello di congiunzione tra Napoletani e Siciliani e più volte si recò nell'isola per stringere accordi e preparare la rivoluzione.
    Quando Palermo insorse (12 gennaio 1848), entrò nel governo provvisorio, occupandosi dell'organizzazione delle forze armate. Poco dopo (27 gennaio), fondò il giornale L'Apostolato. Eletto deputato alla Camera dei comuni per il collegio di Ribera, votò per la decadenza del Borbone e poi per l'elezione del duca di Genova a re di Sicilia. Sostenne inoltre che si convocasse una Costituente italiana, in cui fosse rappresentata l'isola natia. Questa avrebbe dovuto, a parer suo, conservare l'autonomia in una salda unione federale della patria intera. Si oppose risolutamente al ritorno del Borbone, e lo dimostrò animando il popolo di Palermo alla resistenza contro le truppe del Filangieri, e allontanandosi dalla patria appena vide che ogni sforzo per conservare la libertà era inutile.
    Trascorse i primi quattro anni d'esilio nel Piemonte. Buona parte della sua attività fu spesa in ricerche storiche: all'Archivio del Cattaneo diede un prezioso materiale documentario intorno ai moti siciliani del 1848; per il Pantheon dei martiri della libertà italiana scrisse la biografia di Francesco Paolo Di Blasi; si accinse a curare la ristampa della Storia del diritto pubblico di Rosario Gregorio e raccolse dati per arricchirla, ma non portò a compimento il lavoro, allo stesso modo di altri studî, che intendeva fare sul dispotismo italiano dal 1847 in poi e sull'industria, il commercio e la navigazione in Italia dai tempi più antichi al 1852, dei quali si conservano quasi unicamente i titoli, e soltanto un frammento, se si deve considerare come una parte di una delle monografie ricordate lo scritto sull'Ordinamemo politico delle Due Sicilie, che consegnò all'Annuario del Maestri nel 1853. Riguardano diverso argomento che non la storia due saggi, che appartengono anche a questo periodo, sulle Istituzioni comunali, che il C. voleva consolidate, e sul Comune in Piemonte, a cui intendeva si restituisse l'autonomia. Ma il governo piemontese seguiva ben altre direttive in materia d'amministrazione locale, e negò all'esule la carica di segretario comunale a Verolengo, per la quale aveva fatto domanda, come già gli aveva rifiutato una cattedra nelle università. Durante il tempo in cui fu a Torino, il C. fu anche giornalista; partecipò alla redazione della Concordia del Valerio e del Progresso del Correnti.
    In mezzo alle sofferenze dell'esilio seguiva con vigile attenzione le vicende siciliane, e sebbene non traesse conforto a sperare grandi cose dal "deplorabile stato in cui è la patria nostra", tuttavia, d'accordo con altri emigrati, si studiava di preparare gli animi per il giorno "in cui l'Europa entrerà in una nuova crisi e nuovi mezzi ci si offriranno per cogliere il nemico" (Crispi, Lettere dall'esilio, Roma 1918, pp. 3-4). Dopo il moto del 6 febbraio 1853 a Milano, il governo del Piemonte espulse gli esuli italiani di tendenze repubblicane e fra gli altri il C. (7 marzo 1853), che protestò pubblicamente contro il provvedimento. Si recò allora a Malta, dove continuò a scrivere per i giornali e a compiere lavori letterarî e ricerche storiche. Da queste derivò lo scritto Dei diritti della corona d'Inghilterra sulla Chiesa di Malta. Frattanto si teneva in corrispondenza con Rosalino Pilo e col Mazzini e cospirava d'accordo coi Comitati dell'emigrazione sicula, dei quali non divideva però la fiducia nei tentativi che frequentemente si organizzavano per fare insorgere la Sicilia. Anche a Malta fondò un giornale, La Staffetta. A un tratto gli giunse il secondo ordine d'espulsione. Nei quindici giorni di tempo concessigli per partire sposò, non regolarmente, la savoiarda Rosalia Montmasson, che l'aveva seguito a Malta, e che gli fu compagna fedele per lunghi anni.
    Il 13 gennaio 1855 il C. era a Londra. Colà conobbe il Mazzini di persona. Esistevano sempre in fondo allo spirito del C. le vecchie tendenze autonomistiche di rivoluzionario siciliano, ma ormai era disposto a sacrificarle all'unità.
    Senza occupazione fissa il C. fu per breve tempo all'Office franco-italien del Carini (1856). Nel 1857, mentre era a Parigi, gli morì il padre, che di tanto in tanto lo sovveniva con qualche aiuto pecuniario. Nella capitale della Francia trovò modo di trascorrere i suoi giorni con una certa tranquillità, fino a quando la reazione, succeduta all'attentato Orsini, lo costrinse di nuovo ad andare ramingo per l'Europa (1858). Tornò allora a Londra, indi nel Portogallo, infine di nuovo a Londra. Era il gennaio 1859; si approssimava la crisi.
    Sin dal 1852, scrivendo al Carini, il C. si era dimostrato poco fiducioso in una guerra tra la Francia napoleonica e le altre dinastie europee: essa potrà giovare - diceva - a qualche stato della penisola, non alla restaurazione della grande patria italiana (Lettere, pp. 37-38). Pertanto nel '59 non accolse con molto favore l'intervento di Napoleone III e firmò col Mazzini la dichiarazione di astensione dalla guerra regia. Sennonché ben presto, facendo prevalere sulle ideologie teoriche le sue tendenze realistiche, pensava di partire per la Sicilia e di organizzarvi un movimento nazionale, capace d'imporsi al momento decisivo "quando re e imperatore si appaghino di un assetto territoriale, che non ci accordi l'unità" (ivi, p. 127). Vi andò nel luglio e dal 26 di quel mese al 30 agosto peregrinò per l'isola travestito, col nome di Manuel Pareda, negoziante, promettendo aiuti, qualora il moto scoppiasse. Si stabilì che Palermo sarebbe insorta il 4 ottobre. Tornato a Londra e avendo saputo che l'inizio del movimento era stato differito al 12 ottobre, ripartì con nome e connotati diversi (Tobia Glivaie). L'11 era a Messina pronto al cimento, ma, consigliato di non fermarsi perché la polizia sospettava un moto nell'isola che d'altra parte si era dovuto rinviare a un momento più propizio, proseguì per la Grecia. Da Atene, ripreso il suo vero nome, tentò di scendere a Malta, ma, respinto, attraverso la Spagna tornò in Italia, e da Genova si diresse a Modena.
    Ivi il 9 dicembre 1859 propose al Farini di condurre in Sicilia i volontarî, che Garibaldi aveva ai suoi ordini. Avuta risposta che bisognava interpellare prima il governo di Torino, il C. corse colà per parlare col Rattazzi, il quale non osò dare il consenso alla spedizione e neppure l'osò il Cavour, che nel frattempo era succeduto al Rattazzi. Allora il C., insieme con Rosalino Pilo, iniziò i preparativi della spedizione in Sicilia.
    Il Pilo salpò per primo. Il C., dopo avere inviato sua moglie in Sicilia, perché avvertisse gli amici dei pericoli che minacciavano il precursore, rimase ad allestire il grosso della spedizione. Scoppiato il moto della Gancia, s'adoperò energicamente per vincere le esitazioni di Garibaldi e indurlo a partire. Con fede indomita, superando le difficoltà che si opponevano da ogni parte dal governo come dal condottiero designato, e giungendo a tenere celate le notizie poco confortanti che pervenivano dalla Sicilia, il C. riuscì a far salpare i Mille da Quarto. Nell'organizzazione del corpo di spedizione fu nominato sottocapo di Stato maggiore, ma presto si dimise dal grado e, pur intervenendo, per la conoscenza che aveva dei luoghi dell'azione, nelle deliberazioni che Garibaldi prendeva volta per volta circa l'itinerario della spedizione, assunse la veste di "uffiziale alla immediazione" del condottiero, uffiziale - s'intende - per gli affari civili, e poi si chiamò segretario di stato della Dittatura (17 maggio 1860). In realta fu l'organizzatore dei paesi liberati. A tutto pensò: ad amministrare il nuovo stato, a mantenere l'ordine, a procurare danaro e quant'altro occorreva alla spedizione, e particolarmente a mettere in efficienza le forze locali, una squadra delle quali capitanò all'assalto di Palermo. Pur avendo accettato con lealtà la bandiera monarchica sotto la quale la spedizione era stata organizzata, il C. si oppose però all'annessione immediata e incondizionata al Piemonte: voleva che l'annessione fosse subordinata alla completa unificazione della penisola. Il Precursore, giornale da lui fondato ai primi di luglio, rispecchia le idee del C. contro gli autonomisti siciliani e i moderati piemontesi.
    Il modo come si effettuarono i plebisciti e le annessioni lasciò uno strascico di risentimenti e di odî, che il 1° gennaio 1861 si conchiusero a Palermo in un episodio clamoroso nel tentato arresto del C., ordinato dal La Farina. Essendosi presentati i carabinieri al domicilio dell'ex-ministro di Garibaldi, questo si rifiutò di aprire la porta e dalla finestra chiamò in sua difesa la Guardia Nazionale. Poté così porsi in salvo, mentre il La Farina si dimetteva da consigliere della Luogotenenza.
    Nelle elezioni di quello stesso anno, il C. ebbe il mandato dagli elettori di Castelvetrano; i Siciliani gli dovettero però dare i mezzi per poter risiedere in Torino e adempiere ai suoi doveri di deputato. Alla Camera sedette a sinistra e fu oppositore del Cavour e poi del Ricasoli, ma non volle mai aderire a manifestazioni che potessero danneggiare il consolidamento delle libertà conquistate, sicché nelle lettere dirette agli amici in quel periodo fu spesso obbligato a giustificare il suo atteggiamento, che appariva non consentaneo ad un uomo appartenente alla sinistra. Verso il Rattazzi si tenne in benevola attesa. I tentativi del partito d'azione nel 1862 non lo trovarono consenziente. E quando dolorosamente si giunse alla guerra civile, egli, che non vi aveva partecipato (non andò in Sicilia, sebbene fosse insistentemente invitato), si adoperò a temperarne le tristi conseguenze. In tutto ciò è già racchiuso in germe il distacco definitivo dal Mazzini, proclamato dal C. il 18 marzo 1865. Dopo che fu apertamente passato alla monarchia, il Ricasoli e il Rattazzi gli offrirono un portafoglio nei rispettivi gabinetti, ma egli non volle romperla completamente con la sinistra, e rifiutò. Anzi, quando Garibaldi ritentò la marcia su Roma, il C. si adoperò a creare un'agitazione per spingere il governo ad intervenire nello stato pontificio e aiutarvi l'insurrezione, già iniziata.
    Contro il Menabrea il C. fu all'opposizione e condusse furenti campagne nel Parlamento e nella Riforma, che fu il suo quinto giornale. Criticò la legge delle guarentigie, e si oppose al Minghetti quando, infierendo il brigantaggio, propose leggi eccezionali per la Sicilia. Caduta la destra assunse la presidenza della Camera. Nel 1877 intraprese un viaggio all'estero, il vero scopo del quale era di gettare le basi di un'alleanza con la Germania. Fu a Parigi, a Gastein, ove s'incontrò col Bismarck, e a Berlino; ottenne di stipulare un accordo soltanto contro la Francia. Fu anche a Londra e a Vienna, dove la sua idea di ottenere compensi al confine orientale italiano qualora l'Austria uscisse ingrandita dalla guerra russo-turca, ebbe tiepida accoglienza. Tornato in Italia, dichiarò che occorreva armarsi per essere rispettati.
    Il 29 dicembre 1877 fu nominato ministro dell'Interno e fece subito la sua prova nel conclave che seguì alla morte di Pio IX. Avendo allora appreso che i cardinali pensavano di riunirsi fuori di Roma per l'elezione del nuovo pontefice, fece sapere ai membri più avveduti del Sacro Collegio, che, se il capo della Cristianità fosse stato eletto fuori, non sarebbe entrato nella città. Sennonché il 7 marzo 1878, in seguito alle accuse di bigamia rivoltegli, ispiratore il Nicotera, per il matrimonio celebrato il 27 gennaio di quell'anno con la Barbagallo (vivente ancora la Montmasson), dovette dimettersi. Le sue dimissioni provocarono quelle dell'intero gabinetto. L'Italia si trovò mal rappresentata nel congresso di Berlino. Gli accordi col Bismarck non ebbero l'effetto che avrebbero potuto avere, se il personaggio, che primo li aveva negoziati, si fosse trovato al posto di comando. Occorse più tardi piegarsi al volere di Vienna per concludere la Triplice.
    Contro il Cairoli il C. fu all'opposizione in vista degl'interessi italiani. Ma, poiché il suo atteggiamento fu interpretato come ostacolo alla regolare azione governativa e fonte di discordia, si dimise da deputato (14 giugno 1880). La Camera non accettò le dimissioni. Ritiratosi il Cairoli dopo l'accomodamento di Tunisi (14 maggio 1881), il C. fu designato a succedergli, ma i capi della sinistra, gelosi e timorosi di lui, lo tennero lontano dal potere. Nel luglio 1882 tornò a Berlino senza missione ufficiale, ma con la raccomandazione, datagli dal Mancini, di raccogliere notizie e impressioni utili al paese. Andò pure a Londra.
    Durante il gabinetto Depretis fu all'opposizione, e vi durò fino a quando accettò di entrarvi come ministro dell'Interno (4 aprile 1887). Poco dopo, essendo morto il presidente del Consiglio (29 luglio), gli successe nell'alta carica, e, conservando il portafoglio dell'interno assunse altresì la direzione della politica estera. Durante il suo primo ministero (1887-91), l'Italia ottenne una più stretta amicizia con la Germania, il protettorato sul sultanato di Obbia (8 febbraio 1889), il trattato di Uccialli (2 maggio 1889) e la conseguente formazione della Colonia Eritrea (1° gennaio 1890), il riordinamento della giustizia amministrativa (31 marzo 1889), la legge sulle opere pie (1890). Si ebbe invece un peggioramento di rapporti con la Francia, di cui furono conseguenze la rottura delle trattative commerciali e le fortificazioni di Biserta.
    Il 31 gennaio 1891 il C., in seguito al voto contrario della Camera, sí ritirò dal governo. Lo riassunse il 15 dicembre 1893, e quella volta tenne solo, oltre la presidenza, il portafoglio dell'interno. Rivolse allora la maggior parte della sua attività a combattere il movimento anarchico, che minacciava di travolgere tutto nel caos. Ristabilito l'ordine, risollevato il morale del paese e restaurata la finanza (non senza pericolo della vita, perché l'anarchico Paolo Lega, recatosi da Lugo a Roma, gli tirò un colpo di rivoltella il 16 giugno 1894), avrebbe potuto specialmente rivolgere le sue cure alla situazione internazionale, che naturalmente aveva risentito delle condizioni interne dell'Italia, quando venne la "questione morale".
    Che il C. con qualche suo atto poco controllato offrisse il fianco ai nemici, che lo attaccavano nella condotta privata, è da ammettere; ma non v'è dubbio che le accuse furono esagerate da chi aveva interesse di liberarsi di lui e di sottrarre il governo alle sue mani energiche. Il tentativo fu sventato con lo scioglimento della Camera (15 dicembre 1894), che fu riconvocata cinque mesi dopo. Alla riapertura del Parlamento, il C. si presentò con una trionfale rielezione in sette collegi; e la "questione morale" fu messa da parie.
    Anche in quest'ultimo periodo il C. non trascurò di occuparsi direttamente della politica estera, campo da lui sempre prediletto per la sua attività. Trattative furono iniziate per sistemare i rapporti con la Francia riguardo a Tunisi e per rivedere a nostro favore il trattato della Triplice; ma purtroppo furono interrotte dalla caduta del ministero.
    Un'altra parte notevole della sua attenzione rivolse il C. alla Colonia Eritrea. Egli non approvò in principio l'impresa di Massaua: gli pareva che per essa l'Italia distraesse la propria attenzione dal Mediterraneo. Ma una volta compiuta la conquista, affermò che si doveva trarne partito e invertire a vantaggio del paese ciò che malamente era stato fatto. Salito al potere dopo Dogali, sebbene avesse il carico degli affari interni, volse l'attenzione alle questioni di politica estera, il che gli fu dato di fare anche a causa della malattia, che assalì il presidente del Consiglio del tempo (1887). Quando poi prese il posto del Depretis, essendo fallito il tentativo di mediazione inglese presso il Negus, mandò in Africa la spedizione San Marzano. Ristabilita la situazione e intavolate trattative con Menelik, re dello Scioa, furono ampliati i territorî occupati dall'Italia e si venne alla firma del trattato di Uccialli e della convenzione addizionale stabilita a Napoli il 1° ottobre con ras Maconnen, e poi alla istituzione della Colonia Eritrea, che comprendeva già Asmara.
    Quando il C. tornò al potere nel 1893, trovò la situazione aggravata per le sopravvenute diffidenze di Menelik: diede quindi ordine al governatore Baratieri di tenersi sulla difensiva. Invece, il generale procedette innanzi. Vennero la presa di Cassala (17 luglio 1894), le vittorie di Coatit e di Senafè (gennaio 1895). Il governo ne fu lieto e offrì rinforzi, che furono inviati nella misura richiesta. Quando poi il Baratieri occupò Adua, il C., preoccupandosi delle spese alle quali si sarebbe andati incontro, gli ordinò di arrestarsi e richiamò gli ultimi battaglioni. Avendo però il generale insistito nelle sue richieste, anche queste furono soddisfatte (luglio 1895). Sennonché lo sviluppo delle operazioni e la minaccia incombente da parte di Menelik, richiesero l'ausilio di nuove forze. Si fa colpa al Baratieri di non averle domandate a tempo e nella misura necessaria. Il governo decise di spedirle dopo il fatto di Amba Alagi (7 dicembre 1895), nei limiti delle esigenze della semplice difensiva. Seguirono Adua e la caduta del ministero C. (marzo 1896).
    Ritiratosi dal potere, visse in una posizione economica che rasentava la miseria, e in condizioni di salute non buone per una grave malattia d'occhi. Ma sia pure vedendosi fatto segno all'ira dei suoi avversarî, non disperò delle sorti della patria, e, scrivendo al re Umberto il 28 dicembre 1899, così si esprimeva: "Il secolo che si spegne diede alla vostra dinastia il Regno d'Italia: quello che comincia darà potenza e grandezza" (Carteggi politici, p. 542). E a Vittorio Emanuele III, il 21 dicembre 1900, pochi mesi dopo che era salito al trono: "L'unità della patria nostra, conquistata dalla dinastia di Savoia e dal popolo italiano, sarà completata nel secolo nuovo col benessere e con la grandezza, cui la Nazione ha il diritto di aspirare. Sarà gloria del regno di V. M. il raggiungere la meta da tutta Italia desiderata" (ivi, p. 456).
    Opere: Scritti e discorsi politici (1849-90), Torino I890; Il Mille, 2ª ed., Milano 1927; Politica estera, Milano 1912; Questioni imernazionali, Milano 1913; La prima guerra d'Africa, Milano 1914; Politica interna, Milano 1924; Carteggi politici inediti (1860-1900), Roma 1912; Lettere dall'esili0 (1860-1860), Roma 1918; Ultimi scritti e discorsi extraparlamentori (1891-1901), Roma 1913; Pensieri e profezie, Roma 1920; Discorsi elettorali, Roma 1887; Discorsi parlamentari, voll. 3, Roma 1915.
    Bibl.: G. Castellini, Crispi, 2ª ed., Firenze 1924; A. C. Jemolo, Crispi, Firenze 1922; G. Salvemini, La politica estera di F. C., Roma 1919 (ostile al C.); G. Pipitone-Federico, L'anima di F. C. Carteggio intimo sulla politica del Risorgimento italiano, Palermo 1910; A. Billot, La France et l'Italie. Histoire des années troubles: 1881-1899, Parigi 1905, voll. 2; T. Palamenghi-Crispi, L'Italia coloniale e F. C., Milano 1928; B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928; G. Volpe, L'Italia in cammino, Milano 1928; id., Crispi, Venezia 1928; F. Ercole, F. C., in Politica, 1930. Per l'anno di nascita, che generalmente si crede sia il 1819, Panormus, marzo-aprile 1920.

  2. #2
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    Predefinito Re: Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi

    l'italia sognata da crispi - la Repubblica.itL'Italia sognata da Crispi

    La vita di Francesco Crispi è, senza dubbio, una delle più avventurose e interessanti della storia politica italiana nel primo cinquantennio liberale dopo l' unità nazionale. Nato nel 1818 in provincia di Palermo da una famiglia di proprietari agricoli di origine albanese divenne avvocato e si dedicò ai progetti rivoluzionari. Nel 1860 ebbe un ruolo importante nella conquista della Sicilia da parte dei Mille di Garibaldi e per molti anni fu uno degli esponenti di punta della sinistra in Parlamento. Abbandonata la sinistra, fu due volte presidente del Consiglio alla fine degli anni Ottanta e il suo governo cadde per la rovinosa sconfitta di Adua nel 1896. Il giudizio su di lui e sulla sua opera di governo è stato, nel nostro secolo, assai controverso. Invocato da Mussolini e dai fascisti come un precursore del regime per il suo nazionalismo e per la guerra che più volte sognò per il primato dell' Italia e che alla fine scatenò per costruire un impero coloniale è in realtà personaggio complesso e non facilmente riducibile all' etichetta di precursore della «rivoluzione fascista». Ora uno studioso inglese, Christopher Duggan, già noto in Italia per alcuni studi sulla mafia durante il fascismo e sulla storia della Sicilia, pubblica presso Laterza un' ampia biografia dell' uomo politico siciliano con il titolo Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi (pagg. 995, lire 80.000) che si presta a una rinnovata discussione sulla sua figura. Ne ha colto subito l' occasione Paolo Mieli che sulla Stampa ha cercato, con molta disinvoltura, di piegarne il senso a una sorta di rivalutazione complessiva del suo operato. Peccato che Duggan, come Mieli, non conoscano gli studi che da un trentennio gli storici italiani stanno dedicando all' uomo politico siciliano. Basta scorrere la nota bibliografica e le note della biografia per rendersi conto che, per incominciare, mancano all' appello il saggio che Raffaele Romanelli scrisse nel 1971 sui Quaderni storici per sottolineare l' importanza delle riforme istituzionali di Crispi e gli studi fondamentali di Umberto Levra nel 1992 in Fare gli italiani e di Daniela Adorni nel 1999 con il volume dedicato a Francesco Crispi. Un progetto di governo pubblicato dall' editore Olschki. Alla luce di questi studi la figura di Crispi che Duggan presenta a tutto tondo come l' uomo politico più importante che l' Italia ebbe tra Cavour e Mussolini acquista una fisionomia più precisa e ne sono messe in luce le numerose contraddizioni. La biografia di Duggan, ha l' innegabile pregio di rievocare le vicende dell' uomo politico con grande abbondanza di particolari sia per quanto riguarda la vita pubblica che quella privata (secondo la tradizione della storiografia inglese) ma tende a semplificare alcuni dei problemi che ancora circondano quella personalità. Era già noto, ad esempio, che durante la sua giovinezza Crispi avesse avuto verso la monarchia borbonica speranze e debolezze legate alla sua forte ambizione politica e che tra il 1848 e il 1860 avesse avuto in più occasioni incertezze sul percorso da seguire, ma la biografia dello storico inglese non fornisce una spiegazione esauriente sulle ragioni che lo condussero ad abbracciare il progetto mazziniano e garibaldino che avrebbe condotto all' accordo con Cavour e alla spedizione dei Mille. Anche tutta la vita parlamentare del siciliano fino alla conquista della presidenza del Consiglio è analizzata nella biografia di Duggan in termini più psicologici che politici. Migliori, a mio avviso, sono le pagine che l' autore dedica agli anni di governo e al progetto di governo perseguito tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei successivi anni Novanta. Al centro del pensiero e dell' azione di Crispi c' è, senza dubbio alcuno, l' educazione nazionale degli italiani e la volontà di creare all' interno dello Stato nazionale una forte mobilitazione popolare, sia pure dall' alto, in grado di condurre gli italiani verso la creazione di una grande potenza europea. Duggan illustra le ragioni del modello «Germania» adottato da Crispi per la costruzione dello Stato ma ignora, per fare un altro esempio, una ricerca importante come il libro di Fausto Fonzi su Crispi e lo stato di Milano che consente di capire i motivi della diffidenza e dell' opposizione dei moderati lombardi nei suoi confronti. E questo gli impedisce di comprendere appieno perché la caduta di Crispi, all' indomani di Adua, fu così repentina e rovinosa. Molti altri aspetti si potrebbero chiarire se lo spazio ce lo consentisse. Resta, insomma, la sensazione di un' occasione almeno in parte mancata da parte dello studioso che ha ritenuto di poter fare a meno di tutto il lavoro compiuto negli ultimi decenni per mettere in luce, insieme alla grandezza, le contraddizioni che caratterizzarono l' opera di Crispi e che gli impedirono di raggiungere gli obiettivi politici che egli si prefisse durante la sua vita. Si può essere d' accordo con Duggan sull' importanza del ruolo che Crispi ebbe nell' Italia liberale ma si tratta di una verità monca e incompleta se non si fa luce nello stesso tempo sui suoi errori e sulla incapacità di convincere gli italiani a seguire la strada che egli indicava.

    Nicola Tranfaglia

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    Predefinito Re: Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi

    http://www.isspe.it/rassegna-sicilia...ingrassia.html

    CRISPI E MUSSOLINI CONVERGENZE E CONSEGUENZE di Michelangelo Ingrassia


    In una celebre biografia del ventennio dedicata al capo del fascismo è raccontato un episodio della giovinezza del futuro Duce la cui trama, mitica e profetica al tempo stesso, suscita non poca curiosità. La scena si svolge nella piazza di Predappio e vede coinvolti un giovanissimo Benito e il padre, Alessandro Mussolini. Al figlio deluso per avere invano bussato per un impiego al Comune di Predappio, il padre si rivolge esclamandogli: "non ti avvilire, tu sarai il Crispi di domani!".(1) Da quel momento, e da quella piazza, iniziano il proprio cammino il viandante e la sua ombra: Benito Mussolini e Francesco Crispi.

    Questo piccolo fatto, apparentemente senza importanza, non va considerato come un equivoco culturale; non va classificato tra quegli avvenimenti minori catalogabili come semplici risvolti della storia. L’intreccio delle vite di Crispi e Mussolini rappresenta invece una traccia decisiva per comprendere la parabola storica di Benito Mussolini e del fascismo. È interessante, dunque, verificare se il parallelismo tra Crispi e Mussolini, evocato dall’immaginario collettivo e dalla cultura del Regime come mito, sia effettivamente approdato nella realtà della politica e quali conseguenze vadano eventualmente tratte, oggi, sul piano della storiografia, a proposito del fascismo.

    È noto che lo stesso Mussolini contribuì volenterosamente ad organizzare e valorizzare questa immagine simbolica delle affinità elettive tra il vecchio statista siciliano ed il giovane capo della Marcia su Roma. Nel 1924, infatti, inaugurando a Palazzo Chigi una lapide a ricordo della Presidenza di Francesco Crispi, dirà: "Non solo prendo in consegna questa lapide nella quale stanno incise parole solenni, ma oserei dire che prendo in consegna lo spirito di Francesco Crispi, una delle figure dominanti e centrali del Risorgimento italiano".(2)

    Commentando le parole del Duce, lo storico Giuseppe Tricoli osserverà che "quando Mussolini, divenuto capo del governo, "prende in consegna lo spirito di Crispi", suggella con un atto solenne l’aspettazione di antiche e nuove generazioni italiane di uno Stato nazionale che rappresenti eticamente gli ideali del Risorgimento".(3) Ecco dunque che il mito diventa realtà. Ed ecco la necessità di comprendere storicamente questo passaggio delicato che ha lasciato un’impronta nel fascismo e sul quale hanno pesato, nel tempo, polemiche e pregiudizi che ne hanno annebbiato l’importanza.



    Esperienze parallele

    Crispi è stato accusato o celebrato come precursore del fascismo; Mussolini è stato osannato o denigrato come l’imitatore di Crispi. E non c’è da stupirsi dal momento che le loro vite sembrano fatte apposta per essere confrontate e sintonizzate. Ambedue hanno alle spalle un passato di formazione tutt’altro che liberale e moderata ed anzi decisamente di sinistra e rivoluzionaria: Crispi è l’eretico del mazzinianesimo, Mussolini del marxismo; dotati di senso pratico, hanno sempre agito con la fredda determinazione del politico; giunti al potere hanno proceduto alla modernizzazione del paese con metodo autoritario più o meno accentuato. Crispi è l’uomo della riforma delle amministrazioni comunali, è l’uomo del riordinamento bancario e finanziario, è sensibile alla propaganda, cura l’informazione giornalistica; insomma tutti aspetti che ritroviamo, dal riformismo autoritario alla organizzazione del consenso, più o meno aggiornati nella vicenda di Mussolini. Ci si rende conto di come non sia stato difficile accostare Crispi a Mussolini additandoli o esaltandoli, durante e dopo il ventennio. L’affilata penna di Piero Gobetti, per esempio, definì Mussolini un "garibaldino in ritardo come Crispi, ma forse meno cocciuto di lui e per il suo convinto arrivismo più duttile";(4) un giudizio decisamente polemico (e politico).

    Più sereno (e più storico), invece, il giudizio di Antonio Gramsci per il quale Crispi aveva creato "le prime cellule di un socialismo nazionale che doveva svilupparsi più tardi impetuosamente".(5)

    Da destra Susmel ha osservato che Crispi "fu un esempio per Mussolini: un esempio da imitare";(6) da sinistra, invece, Vittorio Emiliani ha ricordato che Mussolini "verrà accusato agli inizi del fascismo da alcuni suoi avversari politici, per esempio dal sindacalista anarchico (e romagnolo) Armando Borghi" di essere il nuovo Crispi;(7) un’accusa che gli pioverà addosso anche da alcuni suoi ex compagni socialisti quando il futuro Duce verrà espulso dal Psi.(8)

    A queste assonanze psicologiche corrispondono interessanti affinità politiche. Crispi e Mussolini, per esempio, seguirono in politica estera una linea mediterranea tendente a spostare il centro di gravitazione dell’Italia nel Mediterraneo; in politica interna condivisero il sogno di creare la Nazione portando a termine il Risorgimento. In questo senso Marcello Veneziani innesta l’azione di Crispi e di Mussolini nel solco della rivoluzione conservatrice italiana.(9) Del resto la storiografia più recente è generalmente concorde nell’accusare o nel constatare che "per alcuni aspetti la figura di Crispi anticipa quella di Mussolini".(10) È stato notato che Crispi "associò al trasformismo l’energia, o meglio l’attivismo nel dirigere il governo e l’esecuzione di alcune importanti riforme"(11) come fa il Mussolini trasformista del 1922-25; è stato sottolineato "l’autoritarismo nei confronti dell’opposizione parlamentare e l’ambizione di fortificare la solidarietà nazionale con una politica estera molto attiva";(12) è stato ricordato "l’attivismo e l’amore infelice per la politica estera, che provocò la sua rovina politica e poi quella di Mussolini".(13)

    Infine, Crispi e Mussolini condivisero la passione per la Germania. L’Italia di Crispi coltivò l’amicizia per la Germania di Bismarck così come quella di Mussolini fece con la Germania di Hitler. Però, "se di Mussolini può dirsi che continua Crispi - osserva Valentini - in nessun modo potrebbe dirsi che Hitler continua Bismarck".(14) E naturalmente l’osservazione del politologo calabrese nasconde delle implicazioni ideologiche capaci di proiettare luce nuova nella comprensione del fascismo. Si tratta adesso di abbandonare la quotidianità della storia per immergersi nelle profondità del pensiero politico.



    Dal mito storico alla realtà politica

    Già negli anni del Regime vi era stato il tentativo culturale "di saldare Crispi con l’Italia fascista e di assolverlo del suo illuminismo e giacobinismo"(15), un tentativo, peraltro, perfettamente riuscito a livello popolare, come documenta Biondi raccontando di un Mussolini salutato dalla folla come un nuovo Crispi(16). Sono elementi che confermano la continuità tra il progetto di governo mussoliniano e quello crispino. Ora, questa continuità tra l’itinerario crispino e quello mussoliniano interferisce nel dispiegarsi del fascismo; affida il fascismo a prospettive diverse da quelle che esso si era attribuito. Prendendo in consegna lo spirito di Crispi, e traducendo il mito crispino in realtà politica, Mussolini si allontana dallo spirito originario ed originale del fascismo. Ne consegue la vocazione autoritaria di derivazione crispina del regime. Ma questa vocazione autoritaria di segno crispino non ha nulla a che vedere con la vocazione rivoluzionaria del fascismo pensato dal Mussolini nel 1919. Mussolini, infatti, proprio come Crispi, conquistato il governo sostanzialmente non rompe quel meccanismo che muove, collegati tra loro, il potere economico, quello militare e quello istituzionale. Con alcune modifiche fortemente autoritarie egli semplicemente insinua, tra gli altri, il proprio potere illudendosi di poter comprimere gli altri ma restandone alla fine schiacciato proprio come il Crispi, le cui ragioni vere della caduta vengono non a caso rintracciate da Tricoli "nella sedizione dello "Stato di Milano", nell’atteggiamento di quel "blocco urbano" industriale-agrario [...] che esprimerà quel quadro organico, politicamente rappresentato dal Giolitti, dell’egemonia settentrionale, da cui sortiranno la permanente disomogeneità dell’economia italiana ed il cosiddetto sviluppo dualistico";(17) invece Mussolini è vittima di quella che Tranfaglia ha definito la commedia degli inganni, recitata nel fatidico 25 luglio dalla monarchia e dalle forze armate, compresa l’arma dei Carabinieri, mentre "le altre istituzioni fondamentali della società italiana - dal Vaticano alla Confindustria - non stanno a guardare. Sono schierate con la dinastia nella valutazione negativa della situazione militare e della permanenza di Mussolini al potere"(18)

    Questa continuità tra Crispi e Mussolini irrompe nella classica distinzione defeliciana tra Regime e Movimento sconvolgendone la terminologia storica e politica. Se Mussolini prende in consegna lo spirito di Crispi, allora ne consegue che il Regime non può definirsi autenticamente fascista ma mussolinista. A questo punto la distinzione non è più tra Regime e Movimento, bensì tra fascismo e mussolinismo; ed il Regime diventa un termine mediano tra questi due fenomeni della storia e della politica che sono il fascismo ed il mussolinismo. Alla luce di questa nuova distinzione, il fascismo si presenta come fenomeno ideologico radicalmente rivoluzionario laddove il mussolinismo è fenomeno politico autoritario. Nel fascismo aleggia lo spirito del Mussolini rivoluzionario del 1914-19 laddove nel mussolinismo aleggia lo spirito di Crispi. Il fascismo è una teoria culturale e politica originaria e nuova, italiana e potenzialmente europea laddove il mussolinismo è perfettamente inserito in quel circuito storico-politico la cui tappa iniziale è nell’Italia post-unitaria. Il fascismo vuole completare il Risorgimento fondando una Italia nuova laddove il mussolinismo aspira a concludere il processo risorgimentale restituendo energia e vitalismo all’Italia da esso nata attraverso uno Stato forte. Il fascismo pretende di creare gli italiani di Mussolini laddove il mussolinismo si limita a realizzare l’antico sogno del D’Azeglio. Il fascismo, infine, sogna una rottura rivoluzionaria con le strutture del passato laddove il mussolinismo opera una continuità nella modernizzazione mantenendo le tradizionali strutture che gli preesistevano. Se ne deduce che il Regime ebbe sì la maschera fascista ma il suo vero volto fu mussolinista.

    Ma se il Regime fu mussolinista e non fascista, allora le colpe ed i meriti del ventennio vanno attribuiti al mussolinismo e non al fascimo che non ebbe la possibilità di realizzarsi compiutamente come autentica rivoluzione sociale, politica e culturale. Lo spirito di Crispi, insomma, esiliò dalla storia lo spirito del fascismo diciannovista: un fascismo non razzista, partecipazionista, comunitario, rivoluzionario in quanto intendeva nazionalistizzare il popolo e socializzare la Nazione liberandoli dall’assedio del collettivismo ed estirpando la malapianta liberale dell’individualismo e dell’utilitarismo.

    A questo punto è possibile affermare che quel forte Stato nazionale vagheggiato da Crispi e realizzato da Mussolini, non c’entra nulla con le aspirazioni del fascismo rivoluzionario del 1919.

    In questo scenario, condivisibile è la tesi di Giano Accame il quale afferma che il fascimo ebbe "una propria autonomia concettuale, la quale va al di là della stessa personalità di Mussolini e di quel tanto di trasformismo che gli può essere rimproverato. Nessun dogma [...] oggi può stabilire, insomma, che Mussolini abbia sempre perfettamente capito ed interpretato il fascismo"(19).

    Mussolini, insomma, esaurì tutte le potenzialità del fascismo il quale, invece, avrebbe potuto inverarsi in forme diverse da quelle assunte dal Regime.

    È da queste potenzialità rimaste inespresse che è possibile oggi trarre dal fascismo, ormai consegnato alla storia, quelle intuizioni ancora valide ed attuali che lo spirito di Crispi, assunto da Mussolini, lasciò in ombra.

    Michelangelo Ingrassia
    Ultima modifica di Bisentium; 13-04-14 alle 18:47

  4. #4
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    Predefinito Re: Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi


    Palermo, monumento a Francesco Crispi


    Agrigento, monumento a Francesco Crispi


    Casa Natale di Francesco Crispi a Ribera (AG)


    Crispi in Sicilia (1860)


    Crispi con l'alleato Bismarck (1887)


    Crispi e suoi ministri al Quirinale (1888)


    Crispi nei suoi ultimi anni

  5. #5
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    Predefinito Re: Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi

    Era profondamente laico e anticlericale. Peccato la sconfitta nelle guerra in Etiopia gli abbia chiuso in maniera indecorosa la carriera.
    Ultima modifica di ConteMax; 18-04-14 alle 02:48

  6. #6
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    Predefinito Re: Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi

    E' uno dei miei idoli politici.

  7. #7
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    Predefinito Re: Un grande statista dell'Italia unita: Francesco Crispi

    Un suo discendente fu dirigente del MSI, credo nella linea di sinistra, e scrisse con Almirante la prima storia del partito.
    Tradizione e Azione

 

 

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