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    Predefinito Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    La Destra in cammino
    Saremo noi il "partito della Nazione"


    Intervista a Domenico Fisichella

    di Maurizio Amoroso

    Il Tempo - Giovedì 26 gennaio 1995


    Di domande, in una settimana, gliene hanno fatte centinaia. Gli hanno chiesto di fascismo, di democrazia, di scissioni, di libertà, di riforme istituzionali. E lui, il senatore Domenico Fisichella, 59 anni, per otto mesi ministro dei Beni culturali e per trent'anni politologo tra i più acuti e attenti, ha chiarito dubbi, ha precisato posizioni e ha seminato speranza. Mentre qui a Fiuggi il Msi scompare, abbiamo chiesto al senatore Fisichella, padre di Alleanza nazionale, di tracciare una sorta di carta d'identità della nuova Destra.

    D. - Senatore, vogliamo provare a dire, in quattro parole-chiave, cos'è Alleanza nazionale?

    R. - Nella tradizione anglosassone c'è una espressione: country party, cioè partito della Nazione. Io credo che Alleanza nazionale debba qualificarsi innanzitutto così, come il partito della Nazione. Non perché abbia un'aspirazione egemonica e totalizzante. Ma, al contrario, perché deve porsi al servizio degli interessi generali. Anche perché uno degli elementi che hanno concorso potentemente a delegittimare la Prima Repubblica è stato il fatto che i vecchi partiti, anziché essere mezzi per il perseguimento di fini generali, sono diventati essi stessi la finalità primaria dell'azione politica. E poi il rischio grande del quadro italiano è quello di una dispersione particolaristica, che percorre la storia della penisola. Ecco perché oggi ogni vera formazione che voglia prefiggersi il servizio del Paese deve assumere in qualche modo il carattere di country party.

    D. - Partito della Nazione. E poi?

    R. - Il nostro è un partito nel quale, proprio in virtù della storia del Paese, il ruolo della spiritualità religiosa è un fatto importante.

    D. - Insomma un partito di cattolici...

    R. - Poiché la religione del nostro Paese è cattolica ed è strettamente intrecciata con le vicende nazionali, è evidente il ruolo cruciale che il cattolicesimo riveste. Senza nulla togliere al rispetto per le altre confessioni, che è ineludibile per le caratteristiche di libertà di una democrazia moderna.

    D. - Va bene. Andiamo avanti.

    R. - Alleanza nazionale si pone anche come partito delle distinzioni.

    D. - E che vuol dire?

    R. - Talvolta si dice: la sinistra è per l'uguaglianza, la destra è per la disuguaglianza. Non è così.

    D. - Perché?

    R. - Anche noi riconosciamo che ci sono delle uguaglianze, per esempio quella di fronte alla legge. O l'uguaglianza delle pari opportunità, che devono essere assicurate a tutti i cittadini.

    D. - Che vuol dire, allora, partito delle distinzioni?

    R. - Che sappiamo che la vita è assai più ricca di quanto non possa immaginare un'ottica strettamente livellatrice. Noi, insomma, cerchiamo di valorizzare quella varietà di esperienze - intellettuali, professionali, civili, scientifiche e produttive - che costituiscono il patrimonio di una società complessa, cioè di una società antica. Una società, cioè, che deriva da una molteplicità di esperienze trascorse. E che ha in sé una grande copiosità di apporti, di contributi, che ne fanno per un verso una esperienza pluralizzata, e per un altro verso una esperienza ricca di distinzioni. Che noi non vogliamo mortificare, ma anzi riunire in un grande concerto, teso a realizzare le più grandi opportunità per il più grande numero. In questo senso ci distinguiamo da altri che non sanno vedere la società se non attraverso un principio di livellamento, che mortifica i migliori e mortifica i più deboli.

    D. - Lei non ha ancora mai citato la parola "moderati".

    R. - E' vero. Perché si presta ad alcuni equivoci.

    D. - Per esempio?

    R. - Lungo il corso della storia ha significato tante cose.

    D. - Non mi dica che rifiuta di sentirsi un moderato...

    R. - Certamente siamo moderati in quanto le caratteristiche delle regole del gioco sono quelle di una competizione pacifica. E questo esige una misura di temperanza - ed è la parola che preferirei usare - che è assolutamente indispensabile per una serena convivenza civile.

    D. - Cosa non le va, allora, della "moderazione"?

    R. - Esiste in taluni momenti la necessità di prendere posizione, anche severa, soprattutto su alcune questioni di principio. Voglio dire che, se moderatismo significa compromesso, allora non è certo coerente con la nostra impostazione.

    D. - Cos'è? Una polemica con la vecchia Dc?

    R. - No, non è una questione congiunturale. La mia è una valutazione generale. Dico solo che, al moderatismo, preferisco la nozione di temperanza, che è più antica. Platone, ad esempio, deplora l'eccesso contrapponendogli proprio la temperanza. Io vorrei rifarmi a questa impostazione classica. Il moderatismo, che ha in sé elementi di pregio, potrebbe rischiare di essere confuso con prospettive centriste le quali, pur avendo avuto un ruolo nella recente storia italiana, tuttavia sono oggi superate da una impostazione bipolare che esige che ci sia una temperanza generale, senza che per questo debba esserci necessariamente un moderatismo centrista.

    D. - In che cosa Alleanza nazionale si distingue da Forza Italia?

    R. - In Forza Italia, almeno sinora, viene privilegiato l'elemento economico. Noi abbiamo invece una visione più composita. Il benessere sociale è un fine dell'azione collettiva, ma non è l'unico. Ci sono altri valori che devono essere perseguiti. A mio avviso la visione di Alleanza nazionale è più corposa. Ciò non significa che in Forza Italia non possa esserci una evoluzione.

    D. - Cioè?

    R. - Forza Italia è un movimento ancora nascente. In quanto tale può riempire di contenuti ulteriori il proprio bagaglio programmatico e ideale.

    D. - Come padre di Alleanza nazionale, cosa vorrebbe che facesse "da grande"?

    R. - Vorrei che governasse il Paese, secondo quelle linee di equilibrio che sono tipiche di tutte quelle forze che hanno una reale vocazione di servizio per la Nazione.

    D. - E naturalmente a Palazzo Chigi ci vede Fini...

    R. - Fini è un uomo giovane e riflessivo. Da tempo ha avviato e sviluppato una rivisitazione di tanti passaggi della storia del movimento del quale ha fatto parte.

    D. - L'uomo giusto, insomma.

    R. - Sì. Io però mi pongo il problema se siano maturi i tempi per l'acquisizione della suprema responsabilità di governo da parte di un esponente di An. In quella logica di temperanza che ci caratterizza, dico che bisogna avere pazienza, saper attendere qualche tempo. E' giusto che un approdo di questo genere sia valutato dall'opinione pubblica come un fatto fisiologico. Non dobbiamo fare forzature. Certamente non ha intenzione di farle Fini. E poi queste cose dipendono certo dall'impegno dei singoli, ma anche dall'intreccio delle circostanze.

    D. - E cosa vorrebbe che Alleanza nazionale non facesse "da grande"? Non c'è ad esempio il pericolo del "carrierismo"?

    R. - L'ambizione, la voglia di primeggiare, sono elementi di cui l'uomo di Destra riconosce la presenza. Ma il problema è un altro. E' mettere a punto un quadro istituzionale che trovi forme di filtraggio tali da mantenere entro limiti tollerabili quelle che sono le spinte negative delle passioni umane.

    D. - Cioè?

    R. - Noi dobbiamo mettere in opera meccanismi di selezione della classe dirigente che consentano di non massimizzare i costi delle passioni negative degli uomini. E' una impresa difficile, ma non impossibile.

    Domenico Fisichella
    Ultima modifica di Florian; 24-02-11 alle 15:35

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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Citazione Originariamente Scritto da Florian Visualizza Messaggio
    R. - Nella tradizione anglosassone c'è una espressione: country party, cioè partito della Nazione. Io credo che Alleanza nazionale debba qualificarsi innanzitutto così, come il partito della Nazione. Non perché abbia un'aspirazione egemonica e totalizzante. Ma, al contrario, perché deve porsi al servizio degli interessi generali. Anche perché uno degli elementi che hanno concorso potentemente a delegittimare la Prima Repubblica è stato il fatto che i vecchi partiti, anziché essere mezzi per il perseguimento di fini generali, sono diventati essi stessi la finalità primaria dell'azione politica. E poi il rischio grande del quadro italiano è quello di una dispersione particolaristica, che percorre la storia della penisola. Ecco perché oggi ogni vera formazione che voglia prefiggersi il servizio del Paese deve assumere in qualche modo il carattere di country party.
    E allora chi ha tradito chi?

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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Fisichella condanna An e Fini
    "Hanno abdicato, non darò tregua"


    A cura di Barbara Jerkov

    Intervista per "La Repubblica"
    Data: sabato 27 marzo 2004 ore 00:00


    Roma - Con il voto di venerdì, An «ha abdicato ai valori della destra stessa». È il severo giudizio di Domenico Fisichella, vicepresidente del Senato, uno dei padri fondatori di An.

    Lei non era d'accordo e l'ha detto.

    «Bisognava assumersi, in una circostanza di questa gravità, le proprie responsabilità».

    E lei se le è assunte.

    «Come del resto avevo fatto quando il centrosinistra votò la sua riforma del Titolo V della Costituzione. In quell'occasione avvertii pure che si apriva per quella strada una ferita pericolosa che altri avrebbero potuto approfondire».

    È stato buon profeta, giusto?

    «Sentivo di avere un dovere che risponde alla storia nazionale. Nel mio intervento, l'altro giorno, ho parlato in una logica che era coerente con la storia culturale di una destra che si qualifica destra nazionale».

    Ha accusato la riforma di «virulenza eversiva».

    «Perché la parte destruens è più incisiva della parte construens. Sotto questo profilo c'è una importante componente eversiva, dettata da una visione vendicativa nei confronti della storia unitaria».

    E quando dai banchi della Lega le hanno gridato "Forza compagno Fisichella"?

    «Sono stato anticomunista quando aveva un senso esserlo, mi chiedo dove fossero allora tanti che oggi militano in alcuni partiti del centrodestra. E comunque chi mi ha dato del comunista non conosce le ragioni storiche e culturali della mia impostazione».

    I suoi colleghi di An hanno taciuto. Amareggiato?

    «Il silenzio di larga parte della destra, non di tutta per la verità, è il risultato del fatto che questa destra ha abdicato ai valori fondanti della destra stessa. Ricordo che quando ci fu l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario la destra tutta fu contraria, dai liberali al Msi fino ai monarchici. Tutta. La tradizione della destra italiana è sempre stata contraria perfino al regionalismo. Vedere adesso quei pezzi di carta sventolati dagli ex missini in aula mi ha fatto veramente un'impressione penosa».

    Fini le risponderebbe che sono i sacrifici che impone stare in una coalizione.

    «Lo capisco, però allora un sacrificio va vissuto come tale, non come un successo. Si subisce un sacrificio? Non si fa una festa. Questo oltre ad apparirmi di pessimo gusto mi sembra soprattutto lontanissimo da qualunque punto di riferimento della destra italiana».

    Cosa resta allora di destra in An?

    «Rimane una base che crede ancora in certi valori, ma sempre più distaccata dalla classe dirigente. Se dovessi dire che oggi An si distingue molto da Forza Italia o dalla stessa Lega avrei qualche difficoltà a individuare i caratteri di questa distinzione».

    Non si rischia che lo stesso dubbio se lo pongano anche gli elettori?

    «Credo che se lo stiano già ponendo, ma penso che Fini ne sia del tutto consapevole. Gioca il tutto per tutto».

    Tiene bassa l'identità di An per prendere più voti?

    «No, per tenere in piedi la coalizione, perché fuori da questa coalizione Fini ritiene di non avere uno spazio politico. Non tiene conto del fatto che una An priva di identità potrebbe pure contribuire in maniera determinante all'insuccesso della stessa Cdl».

    An è nata per incarnare la destra moderna italiana. Se non è più di destra, che fine fa?

    «Mi è difficile rispondere. Non vedo una prospettiva strategica. Le riforme costituzionali sarebbero state il terreno primario per dimostrare che esiste una destra nazionale. Invece vedo solo una tattica del giorno per giorno. Cosa vuole, stiamo ancora aspettando l'esito della verifica...».

    Professore, a questo punto chiederglielo è inevitabile: che ci fa lei ancora in questa An?

    «Potrei dirle, peccando d'orgoglio, che An sono più io di molti altri. Preferisco risponderle che il voto di venerdì in Senato è stato solo il primo di quattro passaggi».

    Cioè An potrebbe ancora rialzare la testa?

    «Io certamente farò la mia parte. E alla fine, stia certa, trarrò le conseguenze».



    Domenico Fisichella

  4. #4
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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    RIPARTIRE DALLA NAZIONE, SE NE SIAMO CAPACI

    di Domenico Fisichella

    "Charta Minuta", n. 70, 2005



    La cortesia di Charta Minuta mi sollecita a "produrre" dieci idee per il prossimo decennio di Alleanza Nazionale. La richiesta mi pone di fronte a una brusca presa d'atto insieme anagrafica ed esistenziale: tra dieci anni, se sarò ancora vivo, sfiorerò gli ottant'anni, essendo nato nel settembre 1935. Troppi, almeno nella mia percezione odierna, per occuparmi ancora di cose politiche. In pari tempo, anche dieci idee mi sembrano troppe. Se sono serie, ne bastano tre o quattro. Se sono poco serie o congiunturali, le lascio volentieri agli altri. La parsimonia è preziosa quando il tempo a disposizione si riduce. Tuttavia, poiché so distinguere tra dimensione autobiografica e dimensione storico-politica, proverò a richiamare – connettendo passato, presente e futuro – alcuni elementi che mi paiono indispensabili per delineare una linea politica di destra.

    In primo luogo, debbo insistere (continuare ad insistere) sull'unità istituzionale e culturale della Nazione. È un bene tanto più prezioso quanto più gli scenari della vita pubblica diventano ampi, sul terreno dell'Europa così come sul terreno della globalizzazione. Un'Italia disarticolata e rissosa sotto il profilo delle strutture costituzionali e istituzionali, un'Italia in regressione di identità civile, è un'Italia condannata a ridiventare espressione geografica, per l'incapacità di "fare sistema", di essere in prima fila tra i Paesi europei, di difendere il proprio autonomo sviluppo economico e scientifico, di competere a parità di condizioni con le nazioni avanzate e con le nazioni emergenti.

    In secondo luogo, debbo registrare che la democrazia mediatica si sta rivelando uno dei principali fattori di dissoluzione della coscienza individuale e collettiva del nostro Paese (e non soltanto di esso, del resto). Volgarità, abbrutimento estetico, menzogna sistematica, distorsione della realtà, rimestio compiaciuto tra gli aspetti meno nobili e più grossolani della natura umana, melassa apparentemente umanitaria e sostanzialmente istigatrice di odio e disprezzo e irrisione e dissacrazione di ogni valore, sono i messaggi costantemente diffusi dalla democrazia mediatica, che rende individui e gruppi sempre più incapaci di ogni sana reazione, alimentando una visione degradata della vita dei singoli e della comunità.

    Come terzo aspetto, richiamo il riferimento alle regole, una concezione della legalità non solo meramente formale ma anche densa di spirito civico, un sentimento etico dello Stato (che è cosa diversa dallo Stato etico), una disciplina al dovere capace di rendere socialmente e moralmente feconda la rivendicazione dei diritti, che altrimenti rischia la caduta in una sorta di giuridicismo egoistico, garantista a senso unico.

    Infine, l'Europa. Se qualcosa ho compreso della storia della Destra italiana, è che l'Europa è stata sempre al centro della sua attenzione culturale e politica, e non da oggi o da ieri. Certo, pensando alla Comunità e poi all'Unione Europea, il riferimento della Destra è andato costantemente all'Europa politica e non a quella tecnocratica e burocratica. Dunque, quando ci sono state, le polemiche hanno riguardato quest'ultima versione, mai però l'abdicazione alla prospettiva continentale e il privilegiamento di linee internazionali alternative, capaci tra l'altro di alimentare sia tensioni nel Vecchio Continente sia velleità di protagonismi prive di corrispettivi reali anche in ragione della fragilità militare ed economica del nostro Paese. L'indispensabile amicizia e collaborazione con gli Stati Uniti, saggia costante della nostra politica estera, è tanto più fruttuosa quanto più si iscrive in un quadro coerente e costruttivo di politica europea della nostra nazione.

    Se dicessi che in questi anni, e soprattutto nella presente legislatura, vi è stata corrispondenza ampia e ricorrente tra i quattro presupposti ora richiamati (affermazione e difesa dell'unità istituzionale e culturale della nazione, lotta contro la democrazia mediatica, vigile riferimento alle regole, centralità dell'Europa) e l'azione politica di Alleanza Nazionale, mentirei a me stesso. Certo, non ignoro le difficoltà che vengono dal fare parte di una coalizione, con l'esigenza di ricorrere a forme di mediazione, e non ignoro che la tenuta della coalizione ha un suo intrinseco valore che merita di essere salvaguardato. Ma con riferimento a tutti gli aspetti prima richiamati Alleanza Nazionale avrebbe dovuto dispiegare la sua autonoma vocazione alla tutela e salvaguardia del suo contributo originale entro la cosiddetta Casa delle Libertà, in funzione del conseguimento e mantenimento di un equilibrio (poiché questo soltanto era realistico chiedere, e questo era doveroso pretendere e ottenere) tra istanze e interessi e impostazioni altrui da una parte, ispirazione e sentimenti e prospettive della Destra dall'altra. Ciò si è verificato, almeno in qualità e quantità tali da consentire una riconoscibilità complessiva e sistemica dell'apporto della Destra ai comportamenti e all'impegno programmatico e governativo della Casa delle Libertà? A me non pare. Molto, troppo è stato sacrificato alle esigenze del mero potere, talvolta per di più non privo di qualche profilo prevaricatorio. È possibile cambiare, è possibile migliorare? Occorre vedere, al di là degli auspici e della retorica di prammatica, se ci sono ancora le condizioni per farlo, se il deperimento dell'autonomia politica, intellettuale e civile del partito ha raggiunto la soglia bassa oltre la quale scatta il meccanismo della impossibilità. L'onere della prova è a carico della classe dirigente di Alleanza Nazionale.



    Domenico Fisichella

  5. #5
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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Unità della nazione
    Critica della democrazia mediatica
    Riferimento alle regole e allo spirito civico
    Europa politica e non burocratica


    La destra delineata dal prof. Fisichella nel 2005 assomiglia straordinariamente a Fli.

  6. #6
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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Le ragioni di una scelta

    di Domenico Fisichella

    Il Riformista, 3 marzo 2006


    Perché, dopo aver contribuito alla nascita di Alleanza Nazionale e della Casa delle Libertà nei primi anni Novanta del secolo scorso, ho ritenuto di lasciare lo schieramento di centro-destra?

    La risposta rinvia essenzialmente ai cinque anni della legislatura che si sta concludendo, alle scelte compiute dalla coalizione guidata da Silvio Berlusconi, agli esiti che ne sono derivati. Molti aspetti problematici si potrebbero richiamare, dalle difficoltà crescenti della Difesa alla mortificazione dei Beni Culturali, dall’Università che non ha tregua alla improvvida delega sull’Ordinamento giudiziario. Adesso, però, vorrei soffermarmi su cinque aspetti che giudico di particolare gravità dal punto di vista del funzionamento complessivo del sistema politico e del sistema sociale.

    Il primo riguarda la riforma costituzionale, per la quale fortunatamente sarà cruciale il prossimo appuntamento referendario. Fermi restando i gravi errori di metodo e di merito compiuti dal centro-sinistra nella precedente legislatura, e sui quali occorrerà ritornare, sta poi di fatto che la riforma imposta dalla Lega non soltanto si pone in rotta di collisione con la storia nazionale ma, se confermata, renderebbe l’avvenire del Paese assai più difficile di quanto già oggi non sia. Essa, infatti, introduce e alimenta un principio di continua conflittualità tra i diversi livelli istituzionali in cui si articola la vita della Repubblica. In tal modo, essa indebolisce drasticamente la capacità dell’Italia sia di competere sia di realizzare sinergie nei mercati economici e nelle arene politiche dell’Europa e del globo. Un’Italia in stato di costante rissa interna è una realtà debole, marginale, tendenzialmente inetta. Né vale l’argomento che la riforma voluta dalla Lega reintroduce il concetto di interesse nazionale colpevolmente cancellato dal centro-sinistra. È sufficiente considerare l’articolo della Costituzione in cui tale concetto è stato ora inserito, nonché le modalità previste ai fini della sua applicazione, per avere chiaro che di fatto tale presunto recupero si riduce a una finzione giuridica.

    Il secondo aspetto riguarda la nuova legge elettorale. Pur con tutti i limiti ad essa imputabili, la precedente normativa per tre quarti maggioritaria aveva assolto alle sue funzioni fondamentali: dotare la coalizione vincente di maggioranze numeriche adeguate, incoraggiare l’alternanza al Governo tra le coalizioni in concorrenza, consentire la scelta popolare sia dei partiti in competizione sia (nei collegi uninominali) dei candidati delle coalizioni contrapposte. La legge proporzionale ora vigente, viceversa, incrementa la conflittualità interna alle coalizioni, ostacola gravemente la governabilità, sottrae al cittadino elettore qualunque possibilità di scelta dei candidati, incentiva la radicalizzazione delle ali estreme dell’intero schieramento politico. Essa, in definitiva, nuoce gravemente alla stabilità del sistema politico e aumenta fortemente il rischio che si riapra quella faticosa transizione politico-istituzionale che appariva in via di superamento.

    Il terzo aspetto riguarda la politica estera. L’Italia è e deve rimanere una leale alleata degli Stati Uniti. Ciò premesso, è peraltro evidente che, a dispetto di tutte le difficoltà dell’Unione Europea, la vocazione italiana non può che essere vocazione europea. Non esiste nessuna condizione seria e realistica - né di tipo culturale, né di forza economica, né di capacità militare - per una politica alternativa a tale vocazione. Viceversa, le scelte compiute in vari campi dalla coalizione di governo - dalle ricorrenti polemiche sull’euro alla guerra in Iraq - hanno a più riprese assunto un carattere velleitario, contribuendo potentemente a indebolire sulla scena europea e internazionale l’immagine dell’Italia e la sua attitudine a perseguire con concrete possibilità di successo i suoi interessi nazionali e insieme gli equilibri continentali.

    Il quarto aspetto riguarda la politica economica e sociale. Praticamente tutti gli indicatori evidenziano una caduta della capacità competitiva dell’Italia e una inefficacia degli interventi di politica economica posti in essere dalla maggioranza di governo. Bilancia dei pagamenti, debito pubblico, turismo, produttività, carenze della pubblica amministrazione, ritardi nel comparto infrastrutturale, sono altrettanti momenti di un percorso che non può essere giudicato positivamente. E anche il vantato incremento dei posti di lavoro in realtà somma tutti quei rapporti di precariato che tanto contribuiscono all’incertezza specie delle giovani generazioni, così come vi contribuisce la crescita ormai vistosa delle disuguaglianze socio-economiche.

    Il quinto aspetto riguarda la normativa di impronta particolaristica e ad personam che per tanto tempo, e su iniziativa della maggioranza, ha impegnato il calendario parlamentare. Se si aggiungono la questione non risolta del conflitto di interessi e un quadro del sistema mediatico assai preoccupante anche in punto di pluralismo delle opinioni, si avverte il senso di una società civile e politica che si allontana dalla cultura delle regole e dell’interesse generale.

    Ho sollecitato per anni l’attenzione specie di Alleanza Nazionale su tutto ciò, anche attraverso esplicite espressioni di dissenso parlamentare. Oggi ritengo doveroso continuare nel mio impegno pubblico su una diversa frontiera. Penso di conoscere abbastanza bene, in ragione di mezzo secolo di lavoro come studioso di scienza politica e di un trentennio come editorialista politico, contraddizioni, antinomie, limiti dello schieramento di centro-sinistra nel nostro Paese. E quindi ci sarà molto da lavorare, per affermare un tracciato politico e governativo. Ma intanto le elezioni hanno un compito primario. Giudicare ciò che in cinque anni di governo si è fatto, i risultati ottenuti. Sul terreno delle promesse tutti sanno essere disinvolti, e la serietà delle promesse è in genere inversamente proporzionale alla loro disinvoltura. In altri termini, le cose fatte, da fare e non fatte, ben fatte, mal fatte, possono essere valutate con maggiore cognizione di causa rispetto alle ipotesi su un futuro che non c’è ancora. E il giudizio sul quinquennio passato ha un suo fondamento empirico che l’elettorato responsabile non può sottovalutare.

    I problemi di una società variano nel tempo, e ciò pone un’esigenza di selezione, che di volta in volta individui, in una sorta di graduatoria per qualità, quantità, intensità, estensione, profondità, il problema principale da affrontare e di cui farsi carico. Agli inizi degli anni Novanta, il problema principale per l’Italia era impedire che la coalizione politica incentrata sulla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, allora del tutto impropria alla direzione del Paese, conquistasse il governo nazionale.
    Oggi molte cose sono cambiate. Il problema principale è rappresentato dai costi troppo elevati imposti all’Italia dal governo del cosiddetto centro-destra. Di qui il senso della mia odierna scelta politica. Il segno della sua coerenza sta nel costante riferimento all’interesse della nazione.




    Domenico Fisichella

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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Fisichella " Da conservatore sto con l'Unione per evitare una deriva avventurista"

    Intervista di Fabio Martini a Domenico Fisichella

    La Stampa, 6 febbraio 2006

    Nella sua casa ai Parioli, il quartiere bene di Roma, il professor Domenico Fisichella si accosta alla sua ordinatissima libreria, sfila un fascicolo e legge: «Eccolo qui, l’editoriale del “Tempo” a mia firma di sabato 19 settembre 1992: “Tutti quelli che ne hanno abbastanza delle gioie del progressismo, debbono cominciare a lavorare per un’Alleanza nazionale - o come si voglia chiamarla, a me piace così - che metta nel conto fusioni, revisioni culturali, disarticolazioni”». Un sospiro e il professore riprende: «Allora non ero in contatto con Fini che mi cercò alcuni mesi più tardi. Passo dopo passo, dall’Msi passammo ad An. Una bella stagione di speranza, il partito aveva una potenzialità del 20%, ma avrebbe richiesto respiro strategico, intraprendenza politica, apertura a personalità nuove ed eminenti. An invece si è atrofizzata e oggi il Paese non sta bene».

    Per Domenico Fisichella quella stagione è finita e il suo imminente passaggio alla Margherita di Francesco Rutelli rappresenta un evento: tra le tante trasmigrazioni degli ultimi 10 anni, nessuna è paragonabile a quella di uno dei co-fondatori della destra democratica in Italia, un intellettuale atipico che non intende travestirsi: «Io sono e resto un conservatore liberale. E, come tutti i veri conservatori, non sono immobilista, guardo all’avvenire, ma penso di doverlo costruire su basi solide». Settanta anni, vincitore alcuni decenni orsono del primo concorso a cattedra in Italia di Scienza della politica («La commissione era presieduta da Norberto Bobbio, ne faceva parte Giovanni Sartori»), già ministro per i Beni culturali, da 10 anni vicepresidente del Senato, l’aulico Fisichella parla come le bozze già corrette di un libro, ha le virgole in testa e la frase è costruita prima di essere pronunciata.

    Ricorda il preciso momento nel quale ha pensato: io non posso più stare da questa parte?

    «Non è stato un momento, ma un lungo, travagliato processo. Conosco difficoltà e obblighi quando si fa parte di una coalizione, ma ho sempre sostenuto che An dovesse avere un ruolo e una sua specificità, oltreché fungere da fattore di equilibrio».

    Lei trova che Fini e An si siano «spalmati» su Berlusconi?

    «Un partito di destra che privilegia il motivo dell’interesse generale non può piegarsi all’approvazione di tante leggi di tipo particolaristico. E quanto alla riforma costituzionale, An avrebbe potuto frenarla, persino bloccarla, pur senza far precipitare la crisi nella coalizione. Un solo dato. Alle Politiche, An aveva ottenuto il 12,5%, la Lega il 3,9%. Ma nel processo che ha portato al mio distacco hanno inciso altri due fattori: l’approvazione di una legge elettorale che mette a repentaglio la governabilità e la politica europea della Casa delle libertà. Si è inseguita l’illusione di fare dell’Italia il partner privilegiato degli Stati Uniti, con l’effetto di allontanarci dai grandi partner continentali europei e di provocare un indebolimento complessivo del Paese».

    Dica la verità: è andato lei da Rutelli, o viceversa?

    «Dopo le mie dimissioni da An, Rutelli mi ha invitato a valutare l’opportunità di continuare il mio impegno politico nella forma più libera sulla base di una mia candidatura nella Margherita. In chiave di diritto di tribuna o come indipendente. Quella riflessione è alla fase conclusiva».

    Il suo passaggio di «fronte» ha incoraggiato le dietrologie: cosa le hanno promesso Rutelli e Prodi?

    «Le mie dimissioni da An - nella quale sarei stato sicuramente ricandidato - sono state il risultato di una riflessione personale e non annunciata a nessuno, salvo a mia moglie. Non avevo predisposto una qualsivoglia alternativa che potesse lontanamente somigliare ad una esigenza di “carriera”».

    Mettiamola così: le piacerebbe fare più il ministro o il presidente del Senato?

    «Non ho bisogno della politica per aggiungere qualcosa alla mia storia, se non quello che il mondo antico considerava come il traguardo di coloro che avevano svolto un ruolo dignitoso nella vita civile: il servizio alle istituzioni».

    Lei ogni tanto diceva a Fini, «Gianfranco devi studiare di più». E Rutelli? Le pare preparato, pronto?

    «È molto maturato. Oltre ad avere una maggiore consapevolezza del peso della cultura religiosa nella vita di un popolo, interpreta la gradualità come spirito della riforma, sa essere riferimento per taluni punti fermi sul piano valoriale, sociale ed economico».

    Professore, ma dall’Udc non l’hanno cercata?

    «Un esponente di quel partito mi ha riferito una frase di Casini: “Cosa fa Fisichella?”. Niente di più».

    Conosce Prodi? Se vince, non rischia di durare poco?

    «Con lui ho avuto qualche tempo fa un lungo colloquio su questioni meramente programmatiche. La sua formazione e la sua esperienza politica sono preziose, perché il dilettantismo a lungo non tiene i sacchi in piedi, se i sacchi sono vuoti».

    Se l’Unione vince, quale missione l’attende?

    «Il recupero del primato delle regole. In questi anni, in alcuni passaggi, abbiamo oscillato tra avventurismo e dilettantismo ed è invece compito delle classi dirigenti offrire un esempio di distinzione tra pubblico e privato: il senso dello Stato come paradigma di comportamento individuale e collettivo».

    Lei quale valore aggiunto pensa di poter dare ad una coalizione nella quale Ds, Rifondazione, Pdci e Verdi rappresentano quasi il 70% della compagnia?

    «In Italia non c’è oggi una sfida comunista e quando c’era, io ero anticomunista. Una personalità come la mia, preoccupata dagli eccessi di diseguaglianza e al tempo stesso guardinga verso fughe in avanti sul terreno delle intemperanze fiscali, penso possa costituire un elemento di moderazione e realismo».

    Bertinotti le fa paura?

    «In questa fase più recente mi pare che abbia compiuto revisioni significative di alcuni presupposti ideologici».

    Professore, si ritroverà ad essere compagno di strada di personaggi per lei inconcepibili come Luxuria o il no-global Caruso: imbarazzato?

    «Personaggi molto originali. Ma ho la presunzione di credere che non saranno costitutivi delle linee politiche della coalizione».

    E con Fini, come è finita?

    «Fini? L’ho sempre considerato se non come un figlio, come un fratello minore. Veniva qui in casa mia, ai miei nipoti faceva vedere le sue foto da sub. Con lui nulla di personale, solo un dissenso politico. A 70 anni nutrire risentimenti sarebbe la cosa più stupida del mondo».


    Domenico Fisichella

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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Intervento del Sen. Prof. Domenico Fisichella
    all’Assemblea Nazionale dell’Unione di Centro


    3 aprile 2009


    Ho accolto con piacere l’invito del Presidente Casini a dire alcune brevi parole in questa vostra assemblea perché ciò mi consente di esprimere il vivo apprezzamento per la posizione assunta dall’Unione di Centro nei confronti del federalismo. Il vostro voto contrario è un importante investimento politico, per due ragioni fondamentali. Io non sono affatto uno statalista e non ho nulla contro le autonomie locali. Di più. Auspico per l’Europa forme di aggregazione di impianto federale tra i Paesi del Vecchio Continente. Ma in Italia il federalismo è un’altra cosa. E’ in rotta di collisione con la storia nazionale, e ne abbiamo colto gli innumerevoli segnali in tutti questi anni. Inoltre, è un ostacolo profondo di fronte all’avvenire del Paese. Sia per competere nell’arena internazionale e globale, sia per collaborare con gli altri grandi Paesi, l’Italia ha infatti necessità assoluta di fare sistema, di sviluppare sinergie interne: il federalismo, al contrario, divide, e dividendo indebolisce. In sintesi. Nell’arena europea, esso è fattore di coesione. Nell’arena italiana, esso è fattore di disgregazione. Federare vuol dire unire, non separare.

    Ciò premesso, vengo a talune sintetiche considerazioni sul sistema politico nazionale. Nell’arco di un anno e mezzo sono scomparse due forze partitiche importanti: la Margherita e Alleanza Nazionale, entrambe soppresse deliberatamente dai loro propri dirigenti. Questo duplice suicidio ha avuto una premessa comune e può avere una conseguenza comune.
    La premessa è chiara: realizzare una tappa fondamentale sul percorso del bipartitismo. Il bipartitismo, tuttavia, è una forzatura per l’Italia e non ha praticamente riscontri nel contesto europeo. Salvo il Regno Unito, il cui bipartitismo peraltro è tale ormai essenzialmente al livello parlamentare ma assai meno al livello elettorale, non abbiamo in Europa altri sistemi bipartitici. E l’Italia non è affatto pronta per un impianto bipartitico del suo sistema politico. Ciò per quanto riguarda la premessa.

    Circa la conseguenza, osservo che la soppressione di due partiti come la Margherita e Alleanza Nazionale ha lasciato e ancor più è destinata a lasciare, dopo la disfatta del Partito Democratico e dopo l’incorporazione sostanziale di Alleanza Nazionale nelle maglie di Forza Italia, un’ampia, duplice fascia di elettorato orfano dei propri referenti partitici, e che perciò è tentato di rifugiarsi nell’apatia e nell’astensione dal voto, con tutti i rischi di delegittimazione della res publica che ne derivano. Questo spazio di elettorato ha bisogno dunque di essere rimotivato alla politica, e qui sta un’opportunità di prim’ordine per l’Unione di Centro.

    Intendiamoci. L’impresa politica del vostro partito è difficile. I termini e i caratteri di tale difficoltà sono evidenti, e del resto non ho il tempo di richiamarli. Tuttavia, ritengo che le condizioni per agire con prospettiva di successo esistano, e le richiamerò rapidamente, in forma puramente assiomatica, scusandomi di ciò.

    In primo luogo, occorre evitare i tatticismi. I cittadini devono cogliere nell’azione dell’Unione di Centro una linea strategica, non avere perciò il sospetto che il partito si muova essenzialmente in una logica di potere immediato, che necessariamente lo collocherebbe in una posizione di potenziale sudditanza oggi verso questo domani verso quello.

    In secondo luogo, occorre sottolineare che l’Italia in concreto non ha una vera opposizione e non ha un vero governo. L’assenza di una grande opposizione emerge dalla condizione del Partito Democratico. L’assenza di un governo, della sua collegialità, delle sue decisioni assunte nel corso di deliberazioni autonomamente discusse, emerge chiaramente dalla posizione egemone del leader della maggioranza, e dalla crescente personalizzazione del suo potere, che sta destrutturando il profilo istituzionale del nostro sistema politico. Ne viene che il compito dell’Unione di Centro è quello di una opposizione seria, istituzionalmente incardinata, dunque credibile sia in una prospettiva di governo, pur se forse non a breve termine, sia in chiave di orientamento per le altre opposizioni, dal Partito Democratico all’Italia dei Valori, che oscillano tra tentazioni di accomodamenti inclini alla resa e tentazioni di radicalismi demagogici.

    In terzo luogo, un accenno al rapporto con il mondo cattolico. E’ evidente che un partito come l’Unione di Centro trae dall’ispirazione cristiana linfa e orientamento sia spirituale sia storico. Se però aspira a diventare partito della Nazione, formula questa che mi è cara perché da una vita la propongo e mi batto in tal senso, allora l’Unione di Centro deve essere accorta nel non farsi identificare come una sorta di braccio secolare delle aspirazioni d’Oltre Tevere: del resto l’Oltre Tevere, che sa vedere dove sta la forza reale del potere, sa anche scegliere in conseguenza gli interlocutori potenti ai quali rivolgersi e ai quali riservare i propri favori principali, come si è visto anche nelle elezioni dell’anno scorso e poi in questi giorni. Sia chiaro. Colgo tutta la delicatezza del tema che sto sfiorando, e non voglio essere frainteso. Del resto, il mondo cattolico ha già avuto più di un segnale di come le sue disponibilità sono state ricambiate, e altri segnali verranno. Dico solo che per un partito della Nazione l’autonomia dello Stato è un bene da salvaguardare nei confronti delle incursioni e delle pressioni da qualunque parte provengano.

    In quarto luogo, il problema delle riforme istituzionali. Ho già detto del federalismo, e dei danni che esso comporta. Sono stato un sostenitore delle riforme istituzionali, soprattutto elettorali, con una preferenza netta per il doppio turno, e ho lavorato anche per talune riforme costituzionali. Ma praticamente tutto fin qui è stato fatto nella direzione sbagliata. La cautela e la prudenza sono perciò un dovere civico. Il Presidente del Consiglio vuole rafforzare i suoi poteri. Evidentemente non gli basta un partito al quaranta per cento dei consensi, un sistema elettorale che gli garantisce una obbediente maggioranza assoluta in parlamento, un sistema radiotelevisivo, privato e pubblico, controllato dal punto di vista proprietario o dal punto di vista funzionale, un padronato che ha bisogno dei quattrini pubblici e che perciò mette i propri giornali, praticamente quasi tutti, a disposizione del governo dal quale si attende aiuti e sovvenzioni. Ci vuole anche la riforma costituzionale per rafforzare le prerogative del Primo Ministro?

    Ho scritto altrove che in teoria si potrebbe pensare a una riforma di rafforzamento del governo se preventivamente si realizzasse una seria regolamentazione del conflitto di interessi e del sistema mediatico e comunicativo in generale. Oggi le circostanze non consentono né la prima né la seconda regolamentazione. Ciò significa che non è ragionevole incamminarsi sulla via di un rafforzamento delle potestà del Presidente del Consiglio. Troppo alti sarebbero i rischi per gli equilibri di libertà del sistema politico. La democrazia è una forma di governo che ha senza dubbio una sua plasticità, ma non si può continuamente tirare l’elastico immaginando che l’elastico non si spezzi mai. E se c’è un momento nel quale le riforme costituzionali comportano pericoli seri, questo è il momento in cui una qualche grave crisi di altra natura affligge e tormenta la Nazione. E’ la situazione odierna.

    Una gravissima crisi economica e finanziaria colpisce il pianeta e quindi anche l’Italia, paese fragile per molti aspetti, e specie su tale terreno. Non possiamo sommare, non possiamo aggiungere a queste tensioni le tensioni derivanti dalla posa in opera di una riforma costituzionale. E non è vero che il governo è immobilizzato dal quadro istituzionale e sociale. Il governo può moltissimo. I padroni gli stanno chini con il cappello in mano per ottenere oboli. Il sindacato è diviso e debole. Il parlamento è prono. Il sistema mediatico è disponibile quanto mai. Quel poco di equilibrio istituzionale che rimane è sottoposto a pressione costante. Insomma, se il governo non riesce a fare non è certo perché gli altri frappongono ostacoli.

    La crisi economica e finanziaria è il vero, prioritario, essenziale problema del Paese. Non può essere un alibi per sollecitare rafforzamenti potestativi del governo, e per mascherare le sue incapacità di affrontarla adeguatamente. L’Unione di Centro insista sul tema della crisi economica e finanziaria, insista nel richiamare i problemi reali e nell’individuare le soluzioni possibili, non si faccia irretire da falsi percorsi che distraggono dalle questioni concrete. Senza illusioni, poiché l’Italia è ormai un Paese intellettualmente e moralmente vulnerato, io penso, io spero che i cittadini capiranno, e nonostante tutto apprezzeranno. La Nazione ha bisogno di classi dirigenti consapevoli e capaci di farsi intendere. Siamo qui per capire se questo partito sarà all’altezza della situazione.


    Domenico Fisichella
    Ultima modifica di Florian; 24-02-11 alle 15:31

  9. #9
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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    Fisichella: "L'Italia è ormai un Paese intellettualmente e moralmente vulnerato..."


    Parole che dicono tutto.

  10. #10
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    Predefinito Rif: Fisichella 1995, "Saremo noi il partito della Nazione"

    dopo aver fondato il partito si è buttato a sinistra solo per protesta contro il federalismo, lasciando sconcertatoi i monarchici e chi a destra credeva in lui.
    Poi intendiamoci ognuno si ha i suoi idoli
    Per me l'unica risposta possibile è : vai in pensione per carità di patria
    Ultima modifica di FrancoAntonio; 24-02-11 alle 15:52

 

 
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