Nella Lega del Gran Capo ritornano le sette correnti - Europa
Nella Lega del Gran Capo ritornano le sette correnti
Nel Carroccio guai ad accennare a un dopo-Bossi. Ma la dialettica c’è
L’intervista di Roberto Maroni al Sole 24 Ore in cui il ministro leghista invita a seguire il “modello Viminale” bipartisan (sull’agenzia nazionale per i beni sequestrati alla mafia) per avviare in parlamento una stagione di riforme condivise è un segnale. Plasticamente rafforzato dall’emblematica quinta pagina del giornale della Confindustria: mezza dedicata Maroni, mezza a Calderoli. Amicinemici, fratelli-coltelli da sempre. Il varesino della sinistra populista e il bergamasco conservatore. Un po’ come se una pagina dedicata alla strategia del Pdl fosse divisa tra Fini e Tremonti.
Lega non significa solo un sistema costruito attorno a una sorta di Hamas padana, Lega non è solo l’ultimo partito italiano a struttura leninista con capillare presenza sul territorio, selezione darwiniana dei militanti e cursus honorum dei quadri con tre anni di gavetta obbligatoria e divieto d’ogni incarico o candidatura allo scopo di tener lontani dal Carroccio poltronisti e lavativi.
La Lega è – o meglio sta tornando ad essere – anche articolazione interna, non solo lungo le antiche linee di confine e rivalità tra autonomismi regionali («nazionali», vuol che si dica il Senatùr), come tra veneti e lombardi: ma anche in nome di diverse ispirazioni politico-ideologico-culturali. La Lega del Grande Capo, del druido Umberto Bossi, è anche la Lega delle correnti che riaffiorano. Incredibile? No, per nulla.
Se col passare degli anni e la progressiva spelacchiatura della testa del carismatico Berlusconi, il Pdl cerca di prepararsi al “dopo” anche strutturandosi in correnti (Generazione Italia di Fini altro non è che la base di una mozione congressuale che punta al 40 per cento almeno nel partito), nella Lega l’incanutirsi di Bossi non intacca l’obbligo del signorsì al Senatùr né il suo potere assoluto ma, nella fase che si apre, spinge a una ripresa della dialettica interna.
Sottotraccia, naturalmente: cioè senza violare la legge suprema del culto del Capo.
Del resto al dopo Bossi i leghisti furono già costretti a pensare in quei drammatici venti mesi fino al ritorno del Senatùr a Roma, seguiti all’ictus del 2004. Berlusconi li mise sotto assedio: lanciò «un’Opa sulla Lega», denunciò Maroni. Si ballava, nella Lega. L’ascendente delfino Giorgetti fu accusato di riportare troppo spesso a via Bellerio i desiderata del Cavaliere. Furono mesi terribili, ma la Lega tenne botta: grazie al “patto Molotov-Ribbentrop”, si ironizzò, cioè grazie all’intesa anti-annessionista Maroni-Calderoli. Altri tempi. E adesso? Oltre all’amor di partito e di Bossi, per esempio, cos’hanno in comune il lombardo Roberto Castelli, il piemontese Roberto Cota e il veneto Luca Zaia? Appartengono alla stessa area della Lega: quella liberale (inizialmente anche libertaria). Una delle sette posizioni interne, per appartenenza o formazione precedente, del gruppo dirigente leghista. Lo schema centro (Bossi), sinistra (Maroni) e destra (Calderoli) è in realtà, secondo i politologi e gli studiosi del leghismo, assai più articolato. Del cosiddetto centrosinistra populista molto forte in Lombardia, la cui anima fu proprio l’ex Pci Bossi, resta vessillifero Roberto Maroni (ex-Dp), con Rosi Mauro (ex sindacalista Uilm), Galli, Gobbo, Speroni, Salvini e Bruno Ravera. Tra i Liberal-centristi, non distanti dalla “sinistra” si contano Giancarlo Giorgetti, Manuela Dal Lago (ex- Liberale), Gianpaolo Dozzo, Luciano Dussin, Sergio Divina, Angelo Alessandri e Gianluca Pini. Tra i Liberali spiccano, oltre Cota, Castelli e Zaia, Marco Reguzzoni, Daniele Molgora (ex-Liberale), Fiorello Provera, Rossana Boldi e Mario Pittoni. Appartengono all’area dei Cristiano-democratici, ponte tra l’area più a sinistra e l’area liberale, Giuseppe Leoni (leader dei Cattolici Padani), Andrea Gibelli, Carolina Lussana, Massimo Polledri, Rodeghiero e Francesca Martini (entrambi vicini a Maroni).
Leader dei Conservatori è Calderoli: con lui Matteo Bragantini, Federico Bricolo e Flavio Tosi.
Il gruppo è più forte in Veneto e Piemonte che in Lombardia: è filo-americano.
I Nazionalisti padani sono la destra estrema della Lega: ne fanno parte Mario Borghezio, Piergiorgio Stiffoni, Erminio Boso. Gli Indipendentisti, teorici dello sganciamento secessionista della Padania, sono un’area trasversale rispetto alle altre correnti: qui rispuntano i nomi di Speroni, Borghezio e Boso.
Bossi, che riuscì all’inizio degli anni ’80 a riunificare i litigiosi autonomismi del nord, garantisce la sintesi e l’indistinguibilità di questo complesso magma. Ma in fondo è proprio lui che, ogni tanto, lancia l’amo della successione che fa riemergere le varie anime: nel 2007 disse a chiare lettere di vedere «dopo di me Roberto Maroni » e nel luglio 2008 ribadì il concetto.
Nulla di strano perciò se, nel triennio che si squaderna per un centrodestra in ristrutturazione se non in mutazione, si riapra la competizione mai sopita tra Maroni e Calderoli: per chi riuscirà a tessere meglio, anche giocando di sponda col Pd, l’ambiziosa tela della riforma federalista.
Francesco Lo Sardo