I Musulmani Meo e il “Pandun Ka Kara” (il Mahabharata Islamico)
“Appartengo allo stesso Mewat che il Mahatma Gandhi aveva elogiato nel 1933, dicendo: ‘Posso far conquistare all'India la sua libertà in 24 ore se l'intero paese riuscisse ad emulare la comunità Meo del Mewat nel suo valore, coraggio e fervore patriottico.’ Ho trascorso i miei anni d'oro tra i Meo. Sono seguaci dell'Islam, ma nelle occasioni sociali inscenano e recitano con fervore l'opera poetica del "Pandun Ka Kara", che si basa sul testo Indù classico del Mahabharata” (Bhagwan Dass Morwal, scrittore indiano)
I Meo abitano nel Mewat, un’area compresa tra gli importanti centri urbani di Delhi, Agra e Jaipur. In quest’area, adiacente agli stati di Haryana, Rajasthan e Uttar Pradesh, la comunità Meo che vive da un millennio ha allacciato delle strette relazioni con le altre caste contadine-pastorali come i Jat, gli Ahir e i Gujar. Nell’Haryana, il Mewat cade nei distretti di Gurgaon e Faridabad.
Gli uomini Meo sono alti e scuri, hanno dei turbanti ponderosi arrotolati attorno alle loro teste e vestono con abiti lunghi. I Meo sono una comunità di un milione e trecentomila anime. La comunità Musulmana Rajput che vive nel sud dell’Haryana e nel nord-est del Rajasthan, si contraddistingue per aver amalgamato costumi, usanze e credenze, Indù e Islamiche. I Meo hanno una doppia identità di cui vanno fieri. Da un lato, sono orgogliosi della loro Islamicità che risalirebbe ai vari santi Sufi che s’insediarono in questi territori dall'undicesimo secolo, da un altro lato, si considerano Rajput e discendenti diretti di Krishna e Rama. A queste divinità Indù, i Meo si rivolgono rispettosamente col titolo di “dada” o “nonno”.
Pressoché ogni villaggio Meo ha una moschea, ma in molti luoghi i Meo visitano anche i templi Indù. I nomi di molti Meo del Rajasthan sono ancora Indù-Musulmani. Nomi misti come Ram Khan o Shankar Khan non sono insoliti nell’area Meo d’Alwar. La comunità Musulmana Meo è altamente Induizzata. Celebrano sia il Diwali e l’Holi Indù, sia gli ‘Aid Musulmani.
Il Diwali simboleggia la vittoria del bene sul male ed è chiamata la festa delle luci.
Fonte web: http://it.wikipedia.org/wiki/Diwali (in italiano)
L’Holi, chiamato anche Holaka o Phagwa, è un festival annuale celebrato il giorno successivo alla luna piena nel mese Indù di Phalguna (20 Febbraio - 21 Marzo). L’Holi cade il 15 di Phalguna. Questa festa primaverile celebra vari eventi della mitologia Indù, è il trionfo dell'India gioiosa e dell’amore. È il festival dei colori che abbandona l’inverno per la stagione dei fiori.
L’Aid al-Fitr o la festa di rottura del digiuno, si celebra alla fine di Ramadan. Dura tre giorni e comprende anche ‘Aid-al-Saghir, la piccola festa.
L’Aid al Adha o Bakr-Id, è la festa del sacrificio che segna la fine dell’Hajj (il pellegrinaggio). E’ la solennità massima dell’Islam. È celebrata nel decimo giorno del mese di Dhu-l-Hajj.
I Meo non si sposano all’interno di nessun “Gotra” come gli Indù del Nord, sebbene l’Islam permetta il matrimonio tra cugini. La legge Indù permette le nozze tra cugini con cognome diverso dal proprio.
Il Gotra è il lignaggio assegnato alla nascita di un Indù. Nella maggior parte dei casi, il sistema è patrilineare.
Fonte web: http://en.wikipedia.org/wiki/Gotra
Le celebrazioni nuziali dei Meo comprendono sia il Nikah (letteralmente coito) Islamico, sia la circumambulazione Indù del sacro fuoco per sette volte, che riproduce probabilmente la rotazione attorno al “tempio Solare della Ka’abah.”
Fonte web: IL SURYA NAMASKAR DELL'ISLAM (tempio Solare della Ka’abah)
I Meo credono di essere diretti discendenti di Krishna e Rama che sono tra i Profeti di Dio non citati nel Santo Corano.
La versione Meo del Mahabharata chiamata “Pandun Ka Kara” è suonata dai Mirasi o dagli Jogi per un pubblico Musulmano. Gli autori, gli esecutori e l’uditorio sono tutti Musulmani. I Meo ammirano il Mahabharata allo stesso modo dei loro antenati. Dato che le narrazioni leggendarie di carattere epico sono più comprensibili del semplice “mito”, esse sono divenute centrali nell’identità culturale dei Musulmani Meo. È importante capire ciò che la grand’epopea Indiana significhi per loro, come si richiamino ad essa, la adattino, la suscitino, la redigano, la varino, ed il modo in cui esaminino la cosiddetta “gran tradizione” Vedica e Puranica dell’Induismo.
I musicisti Musulmani, detti Mirasi, si vestono con ampi Kurta (camicie) bianchi. Indossano anche il dhoti (un pezzo di stoffa legato attorno alla vita che arriva sino alle caviglie come una gonna) e dei turbanti dal colore cremisi vivace. Suonano il “Pandun Ka Kara”, la versione Islamica del gran poema epico della mitologia Indù, il Mahabharata, dopo una breve ode in encomio al Profeta Muhammad (ص) e al santo Sufi Khwaja Moinuddin Chishti d’Ajmer. L’intero poema epico è nella forma Meo, in altre parole in lingua Mewati. È composto di 800 versi o “doha” che sono recitati per oltre tre ore. Narra la storia dei cinque fratelli Pandava che sono ritenuti gli antenati dei Meo.
Lo spettacolo inizia con la comparsa di Gorakhnath in compagnia di un suo discepolo, lo Yogi Aughar Nath. Gorakhnath appare nelle sembianze di un Fachiro. Questa figura molto potente dell’India medievale dell'undicesimo secolo è stimata uno straordinario Avadhut (rinunciante o liberato), un Siddha, il più grande Guru Nath ed il fondatore della setta dei “Gorakh Panth (la via di Gorakh).” Il ritratto della sua persona nel poema epico Mewati indica una doppia personalità: sia quella dello Jogi e del Fachiro, sia quella del rinunciante Indù e dell’asceta Musulmano. Il calore del suo fuoco (tapas) gli consegna i poteri magici e straordinari connessi alla fertilità. I grani d’orzo che offre alle due regine sterili, Kunti e Gandhari, le rendono fertili. Fu in questo modo che divennero le progenitrici dei Pandava (patronimico usato per indicare i virtuosi figli di Pandu) e dei Kaurava (discendenti di Kuru).
Yogi Aughar Nath si riferisce ad un iniziato della tradizione Nath Sampradaya, il lignaggio senza tempo dei Maestri Spirituali, che abbandonò la sua abitazione senza aver subito l'iniziazione rituale del Kanphata Yogi, cioè la foratura a fuoco del lobo. Questo stesso Aughar è considerato l’istruttore degli jogi Aghori che si cospargono il corpo con la cenere dei defunti e venerano i morti nei luoghi di cremazione, siti che essi considerano ideali per la pratica ascetica.
In un frammento del testo Mewati c’è un colloquio singolare tra Gorakhnath e l’adepto Aughar riguardante l’accettazione della carità. La risposta di Gorakhnath rivela una consapevolezza impressionante del corpo femminile difficilmente apprezzabile nei termini rinunciatari dei Sadhu. Tale replica rivela un culto nascosto che coinvolge il coito nella ricostruzione dell’unione divina tra Shiva e Shakti. L’elemosina, afferma Gorakhnath, dovrebbe essere raccolta sola da una donna con un corpo ben fatto, formoso e dai polpacci proporzionati; invece, le donne sterili e le prostitute gracili, infidi e sciocche dovrebbero astenervisi. Dato che queste ultime non hanno figli, sono in compenso sicure di sé stesse ed accendono il fuoco (eccitano) coi loro corpi. Possono essere anche identificate da come sculettano. La replica che Aughar fa a Gorakhnath è veramente drastica. Egli afferma che Dio, il Guru e tutti gli uomini sono nati da prostitute:
“Da una prostituta Har è nato, da una puttana tutti nasceranno.
Da una prostituta tu sei venuto, Oh mio Guru, da una puttana io sono nato.”
Har (proviene da Hari-Vishnu), certamente, si riferisce sia a Shiva (Hara) sia a Dio. Le prostitute sono considerate alla pari degli altri rinuncianti, ed entrambi sono ai margini dell’ordine sociale castale e della famiglia. Un impressionante livellamento avviene qui. Gli Jogi che di solito sono degli asceti mendicanti, rivelano i segreti delle pratiche sessuali Shivaite. Il Nathismo del testo suggerisce il modo in cui l’ascetismo rinunciatario e l’erotismo si combinano nella sessualità Tantrica.
I Nath Yogi sono “gli Shiva e gli Shakta bhakta”. Nel “Pandun ka kara”, Krishna non è centrale come nel Bhagavat. Le divinità Vediche e Vaishnava come Indra, Surya e i nove avatar di Vishnu sono citati, ma il poema epico è chiaramente impostato sulle tradizioni Shivaite. La tendenza in atto nel testo è molto diversa dal Ramcharitmanas del poeta Tulsi Das, in cui Shiva adora Rama, o dal Mahabharata classico in sanscrito.
Infine, termina con dei versi in lode al suo compositore, un Musulmano Meo del primo ottocento di nome Sadullah Khan. Il “Pandun Ka Kara”, è l’unico genere Islamico di Mahabharata esistente. Sadullah Khan è considerato dai Meo il loro “poeta nazionale” (“qaumi shair”). Oggi, eccetto alcuni Mirasi, nessuno può recitare a memoria il “Pandun Ka Kara.”
Ultimamente, è stata completata una traduzione del “Pandun Ka Kara” in Rajasthani orientale. Da essa emergono affascinanti nozioni di sapere Nath, la spossessione dei Pandava, e nel repertorio di un Meo la corrispondenza con “un raro poema narrativo denominato Hasan Husain”, estratto da una tradizione Sciita. Al pari degli altri tradizionali Mahabharata regionali Indù, che non sono in lingua sanscrita, il “Pandun Ka Kara” consacra una particolare attenzione al culto della dea Draupadi, che è la figlia del re Drupada, nonché la moglie dei cinque fratelli Pandava.
Per comprendere il culto della dea Draupadi nel Mahabharata o nel “Pandun Ka Kara”, è necessario esplorare la cultura Rajput e Rajput-Musulmana, in cui i Nizari e i Satpanth Ismaili (detti anche Khoja) ripianificarono il ruolo della dea. La “nuova Grande Tradizione Rajput” del sedicesimo secolo si avvalse di una sinergia particolare: il Sufismo operò da copertura durante i regimi Sunniti, mentre i missionari erano generalmente degli Sciiti.
Breve descrizione del culto della dea Draupadi nel “Pandun Ka Kara”
La dea Draupadi
L’opera spiega chiaramente la relazione tra i Nath ed il culto della dea. Gli artisti Musulmani iniziano rendendo omaggio all’Ustad (Guru) e a Dio, che è puro e luminoso. Poi, ognuno di loro onora devotamente Bhawani, la dea madre proferendo: “Con lei seduta all’interno del mio cuore, apro il forziere della conoscenza.” La divinità ha l’aspetto maschile e femminile. I Mirasi (musicisti) adorano la loro Santa protettrice, la dea Bhawani, una manifestazione di Kali e moglie di Shiva, presso il suo sacrario a Dhaulagarh presso Lachmangarh, nel distretto d’Alwar, a metà strada tra Jaipur e Aligarh, nel Rajasthan, alla quale offrono il “sacro cibo.” Guru Gorakhnath racconta al suo seguace che dopo aver dormito per dodici anni è pronto ad andare nella terra della Devi, presso la Grande Dea, la Risplendente, il principio femminile, la Shakti o l’energia immanente.
LA SHAKTI DELL'ISLAM
Il ripetuto utilizzo del termine Devi al posto di Daropada (Draupadi) nel poema epico Mewati, deriva presumibilmente dalla tradizione posteriore dei Purana minori (Upa Purana), in cui è detto che “Devi Daropada è la nostra morte.” Per Arjuna, Daropada è la regina o malika, la personificazione della morte che provocherà il decesso dei suoi cinque mariti. Il termine malika proviene dall’arabo “Malaka” che significa regnare, essere Re. Draupadi ha il potere di creare e distruggere, è descritta come il “grande utero della terra” che diviene fertile dopo la semina divina, seme al quale la Madre dà potenza. Ecco perché può distruggere i Pandava, ma può anche salvarli. I cinquantasei Re e principesse riuniti con i travestiti Pandava nel svayamvara (torneo), le sessantaquattro Yogini, gli asceti, le sati e le trecentotrenta milioni di divinità ricorrono nel “Pandun ka kara”. Si ritiene che le Yogini o il potere femminile della dea seguano Gorakhnath. Esse sono gli spiriti (buoni e cattivi) e le creature feroci che si raggruppano attorno ai campi di battaglia, esse risiedono presso i terreni adibiti a cremazione, strillano, si lacerano la carne, e bevono il sangue dentro i teschi. Le Yogini sono molto influenti nel Tantrismo, le sono dedicate numerosi templi. Esse furono molto attive in epoca medievale in India.
L'Arya-Samaj, in sanscrito “la Società Ariana”, un movimento riformatore Induista nato a Bombay nel XIX secolo, considera il "Pandun ka kara", un Mahabharata a tutti gli effetti.
Il Mewat, la patria dei Meo
Alla pari della maggior parte dei Musulmani Indiani, i Meo erano in origine degli Indù. Le motivazioni della loro conversione all’Islam non sono chiare. Iniziarono a convertirsi nell’undicesimo secolo per opera di Sultan Saiyyed Salar Masud Ghazi. Nel tredicesimo secolo conobbero la dawa di Ghiyas ud-Din Balban, un sultano mamelucco che ha regnato su Delhi dal 1266 al 1287. Durante la dinastia Tughlak nel 14mo secolo d.C avvennero nuove adesioni all’Islam, ma i Meo mantennero sempre il loro antico retaggio culturale e spirituale. Poi, nel diciassettesimo secolo, durante il governo d’Aurangzeb, abbracciarono in massa l’Islam. Attualmente, l’intero Mewat è cosparso di dargah e mazar (sacrari e mausolei). La comunità Meo si ritiene discendente dei Rajput. Per anni i Meo hanno integrato tradizioni culturali Indù e Musulmane. Per esempio, ai nomi maschili e femminili che erano in origine Indù fu aggiunto il titolo Islamico di Khan. I Meo osservano la circoncisione e la sepoltura del morto secondo il rito Islamico, ma osservano anche le feste e le cerimonie Indù. Celebrano i due ‘Aid, l’Asciurà nel mese di Muharram e lo Shab-e-barat. In India, lo Shab-e-barat è la notte del destino. In persiano, “Shab” significa notte e “Barat” notte di commissione o d’assegnazione. I Musulmani sciiti associano allo Shab-e-barat anche la nascita dell’ultimo Imam. Leggono il Corano alla pari delle opere epiche del Ramayana e del Mahabharata. I Meo eseguono la Salat (preghiera Islamica) ed invocano Allah con i nomi delle divinità Indù. È detto nelle sacre Scritture:
“Invocate Allah o invocate il Compassionevole, qualunque sia il nome con il quale Lo invochiate, Egli possiede i nomi più belli.” (Corano, 17: 110)
“I Saggi (i dotti Sacerdoti) invocano l’Unico Dio con molti nomi.” (Rigveda, Libro 1, Inno 164, verso 46)
La spartizione tra India e Pakistan del 1947 ha spinto molti Meo ad una maggiore Islamizzazione, mentre altri hanno preferito emigrare in Pakistan. In Pakistan abitano nelle province del Punjab e del Sindh e sono trecentomila. In India risiedono negli stati di Haryana, Punjab, Rajasthan e Delhi superando un milione d’individui.
I Meo oggi seguono molte norme Musulmane, ma i riti nuziali e i modelli parentali s’incentrano sulla tradizione Indù. Il matrimonio tra cugini è un tabù per i Musulmani Meo: quest’interdizione li ha opposti ultimamente ai matrimoni misti proposti dai capi Indù dei Mina, coi quali condivisero gli stessi Gotra (nomi del clan) prima della loro adesione all’Islam. I Meo non segregano le loro donne. La società Meo è divisa in almeno 800 clan esogamici.
Alcune tribù sono organizzate come i Rajput, mentre altre somigliano alle caste Indù dei Brahmani, dei Mina, dei Jat e dei Bhatiara. A quanto pare, i Meo discendono da molte caste Indù, non solo dai Rajput.
I Meo, le cui radici risalgono ai primi Ariani dell’India Settentrionale, appartengono alla casta dei Kshatriya come la maggior parte dei Rajput e ne conservano tutte le peculiarità, diversamente dalle altre tribù vicine.
I Musulmani Meo sono fieri della loro cultura Rajasthana e di essere dei coraggiosi combattenti. Hasan Khan Meo e Deo Khan Meo sono i loro signori della guerra e gli eroi di molte battaglie.
La religione che è nell’anima della cultura Indiana non è necessariamente fonte di divisione. I miti del Ramayana e del Mahabharata forniscono un comune idioma, una condivisa matrice spirituale. Non tutti gli Indiani furono sorpresi quando l’emittente televisiva Doordarshan trasmise un serial del Mahabharata in 52 puntate, preparato da un Musulmano, il Dott. Rahi Masum Raza. L’Induismo e l’Islam sono vincolati in India perché hanno condiviso la stessa storia nel medesimo spazio. La coabitazione è una necessità di fatto.
Bibliografia
Kinship and Rituals Among the Meo of Northern India: Locating Sibling Relationship/Raymond Jamous. Translated from the French by Nora Scott. New Delhi, Oxford University Press, 2003, xiv, 200 p., ills., tables, $31. ISBN 019566459-0.
www.tradizionesacra.it/i_musulmani_meo_e_il_p...