Il costituirsi della personalità umana e dell'Io.
La società "Grande Madre" e i figli senza padre
di Claudio Risé
Desidero ringraziare gli amici del Sindacato delle Famiglie di Pesaro, ringraziare voi amici pesaresi che siete qui a discutere su questo tema, ringraziare molto caldamente il Prof. Cangiotti per questa sua introduzione che è stata veramente la porta a quello che io ho voluto dire con il libro e che cercherò di presentarvi qui questa sera.
Rapidamente, perché, mi piacerebbe molto che utilizzassimo questa serata a fondo e quindi che chi tra voi ha letto il libro potesse intervenire, discuterne, proporre le sue obiezioni, fare le sue richieste, insomma che sia un incontro davvero costruttivo, in cui ci scambiamo qualche cosa.
Racconteremo dopo, come sia accaduto quello che il Prof. Cangiotti ci ha raccontato prima, questo rifiuto di appartenenza bilaterale, perché oltre e più che figli che hanno rifiutato di appartenere a un padre, i padri hanno rifiutato di essere titolari di questa appartenenza, che voleva dire formazione, dono, un' enorme responsabilità, a cui il padre si è gradualmente sottratto.
Prima però volevo riassumervi come io vedo la figura del padre, che nel frattempo è stata, in questo processo di smarrimento, edulcorata e molto svirilizzata. Guardate come si parla del padre oggi sui media: il padre è diventato una figura sentimentale, qualche volta affettiva, spesso economica, ma se ne sono persi i fondamenti costitutivi.
Un fondamento è quello di cui ci ha parlato il Prof. Cangiotti poco fa ed è la figura del creatore. Il padre è il creatore, è colui che consente l'inizio della vita. Il padre è alla nostra origine e come tale è anche colui che ci consente di guardare verso il nostro destino. Perché se noi non abbiamo un origine, non sappiamo da dove veniamo, se abbiamo trasformato il padre da figura di creatore ad una figura di supporto sentimentale o di funzionario sociale, che deve adempire in qualche modo a questa funzione all’interno della famiglia e della società, se non sappiamo che noi veniamo da quello lì, non sapremo neanche identificare il nostro obiettivo, il nostro percorso, il nostro futuro. Se non siamo collegati con le radici, non possiamo nemmeno gettare i nostri rami nel cielo, le due cose sono strettamente legate e, quindi, questa edulcorazione della figura paterna si è tradotta in un taglio della storia dell’uomo dal lato dell’origine e, necessariamente, dal lato dello sviluppo.
L’altro aspetto che mi sta a cuore è che il padre svolge attivamente (e qui rientriamo nel tema “Il costituirsi della personalità umana e dell’io”) un ruolo centrale, un ruolo scomodo ed assolutamente impopolare): il padre è colui che porta nel figlio l’esperienza della ferita, l’esperienza della perdita. Lo scenario che esprime compiutamente per ogni tempo e per ogni individuo questa vicenda è l’esperienza che si produce sul Golgota: il Figlio che viene colpito nel nome del Padre.
In questa vicenda fondatrice della nostra civiltà, e della nostra storia personale e collettiva, vediamo con precisione il significato della figura del padre: il padre è colui che ti conduce alla ferita, che ti inizia al senso del dolore. Che ti fa morire perché tu possa risorgere, trasformarti. Come dice don Giussani: "se la vita non è resurrezione, è uno scivolare triste verso la morte". O, come scrive Cordes: “Nell’azione salvifica di Gesù diventa visibile lo stesso Padre che ha tanto amato il mondo da dargli il proprio figlio per la nostra salvezza”. Il padre insegna e testimonia una conferma, una rassicurazione, ma anche una perdita, una mancanza, una fatica. Le esperienze più profonde, a cominciare da quella dell’amore, prendono origine e forma proprio in quella della perdita.
Della ferita fa anche parte una esperienza costitutiva essenziale della vita umana, e di nuovo della nostra civiltà e cultura cristiana, ed è l’esperienza del male, altrimenti inesplicabile e psicologicamente sterile. In uno scritto molto profondo nato da un dialogo con don Luigi Giussani, “Il senso della nascita”, Giovanni Testori ricorda che l’uomo deve riconoscere il dolore del proprio male come dignità e spiega come questo riconoscimento sia legato alla relazione col padre. Se manca la relazione con il padre tutta l’esperienza della ferita (che è quella che poi Freud chiamava laicamente, ed anche un po’ ossessivamente, l’esperienza della “castrazione”), e, più in generale, l’esperienza del male, diventa inesplicabile.
Il padre è colui che passa al figlio il sapere di trasformare la ferita e la perdita, da esperienza distruttiva, in un passaggio indispensabile alla costruzione della personalità. E' nel dolore, nella difficoltà, nello smarrimento, che la personalità si fortifica, e trova i suoi percorsi di crescita. A trasmettere questo sapere è il padre. Ma perché il padre testimonia della ferita, della perdita? Com’è che avviene fenomenologicamente, nella storia dell’individuo, questa vicenda? Avviene perché il padre infligge, o dovrebbe infliggere, la prima ferita affettiva e psicologica nella vita dell’individuo, indispensabile perché l’io venga a formarsi: quella di rompere la simbiosi con la madre, in cui l’individuo, se tutto va bene, si trova dal momento in cui viene concepito, ad alcuni anni dopo la nascita, diciamo tre, meglio se cinque, e anche oltre. E se non interviene un padre (che in tutti i popoli tradizionali interveniva di solito verso gli otto anni) a prendere questo figlio e a toglierlo dalla simbiosi con la madre (che è una vicenda psicologica, ma anche una vicenda psico-organica: i due corpi erano fusi da molto tempo e la simbiosi continua a presentare degli elementi fusionali sui sottili confini tra psiche e corpo), se il padre non viene a prenderlo, il figlio rimane nella simbiosi. Abbiamo allora la formazione, che è nostra esperienza quotidiana oggi, di personalità pseudo - adulte, che in realtà adulte non sono perché non sono mai state separate dalla madre.
Questo non vuol dire che rimangano necessariamente legate in modo fusionale alla madre naturale. Spesso accade anche questo, ma più spesso, nel tentativo di continuare a ricostituire dei legami di dipendenza di cui l'individuo non sa fare a meno, la persona rimane dipendente dagli amici, dalla società, dal sistema dei consumi, cui l’individuo non riesce a sottrarsi, e nei confronti dei quali l’individuo non riesce a porsi come soggetto. La relazione coniugale poi, se si riesce ad arrivarci, tenderà a riproporre, e per entrambi i generi, le stesse caratteristiche di fusionalità e di dipendenza, le stesse fantasie di possesso (di cui parla molto bene Giussani nel suo Il miracolo dell'ospitalità), che caratterizzano il rapporto madre-bambino. Quindi l’Io non si è formato, perché non c’è mai stato un Io che abbia potuto rivolgersi al mondo riconoscendolo come un “Tu”; l’io è sempre rimasto immerso in questa simbiosi, perché nessun padre l'ha mai interrotta in un rito che risponda alle stesse finalità dei "riti di iniziazione" praticati dai popoli tradizionali.
Simbolicamente (e quindi psicologicamente) sono molto interessanti questi riti di iniziazione. Uno dei più classici e dei più famosi, raccontato dallo storico delle religioni Mircea Eliade, è quello del gruppo degli uomini che raggiunge il gruppo delle donne, che a loro volta stringono a sé i bambini, naturalmente ritualmente, perché sanno bene cosa sta per accadere; gli uomini strappano alle madri i bambini e li alzano offrendoli a Dio. Questo è uno dei riti che esemplifica bene cosa fa il padre: prende il figlio alla madre e lo offre a Dio, lo sposta dalla dimensione orizzontale ( ritorniamo qui all' immagine della croce), cioè parallela alla terra, al mondo delle necessità e dei bisogni materiali, e lo mette nella dimensione verticale, della comunicazione col divino e col Padre Celeste.
Cosa succede quando questa esperienza del padre, come testimone della ferita, non avviene? In termini di costituzione dell’Io, esso non può definirsi nella sua interezza, ed autonomia da un altro soggetto affettivo (la madre) che rimane dominante nella sua natura di fornitore di appagamenti. Questo io dipendente, che caratterizza il figlio/a senza padre, non potrà poi reggere alcuna ferita. Per esso, ogni perdita non è più introduzione a una nuova condizione esistenziale adulta, che lo mette in grado di interloquire, di scambiare con il mondo, e con Dio, ma solo un' insopportabile, ingiusta, violenza. Non c’è infatti stata l'esperienza fondatrice del padre, che, ribadendo la sua responsabilità di creatore e il suo legame di appartenenza e di originarietà nei confronti del figlio, trasmette il sapere, e la pratica della ferita e della perdita come processo costitutivo della personalità.
Ed ora qualche parola sul perché il mio libro si intitoli “Il Padre: l’assente inaccettabile”. La nostra società occidentale, come voi sapete forse, è chiamata ormai convenzionalmente dalla sociologia, psicologia e antropologia, società senza padre, perché è la prima società nella storia del mondo che ha provato a rompere i due aspetti del rapporto figlio-padre, quello di co/creazione, e quello di testimonianza della perdita come esperienza fondativa. Qualche parola su come si è svolto questo processo, unico nella storia del mondo, poi vedremo le conseguenze e le cifre.
La prima tappa è costituita dal "processo di secolarizzazione", cioè il tentativo che si sviluppa da un certo punto in poi, più marcatamente dall’Illuminismo: nella nostra società si prova (fatto unico all’interno di qualsiasi altra società) a separare la vita dell’uomo dall’esperienza del sacro . Da un certo punto in poi si dice che l’universo dell’uomo, della vita umana, può tranquillamente concentrarsi sulle cose, sulle acquisizioni, sogli oggetti, sulla vita sentimentale, e che l’universo del sacro è un' altra cosa, con cui l’uomo può o meno avere relazione, é un optional. Questo processo di secolarizzazione interrompe il rapporto dell’ uomo in Occidente con il Padre divino. Il Padre è qualcuno con cui noi possiamo interloquire oppure no, di cui possiamo ricordarci oppure no, non è più presente in ogni momento nella vita umana e non è più il riferimento del mondo simbolico da cui derivano, in Occidente, le identità e le appartenenze. E’ qualcuno a cui possiamo o no rivolgere i nostri pensieri, che possiamo o no coinvolgere nella nostra vita.
All’interno di questo processo, ed in particolare sulla questione del padre, gioca un ruolo fondamentale la riforma protestante, e la figura di Lutero. Egli rompe l’unità dell’esperienza umana tra regno di Dio e regno del mondo, e sposta in questo secondo ambito, cioè nel regno del mondo, l’esperienza dei figli e del matrimonio, istituto che Lutero ritiene che appartenga esclusivamente all’ordine terreno. E' Lutero che secolarizza, come riconosce l'antropologia religiosa, il matrimonio e la famiglia. Il processo di secolarizzazione era già in atto, ma il realizzatore della secolarizzazione nel campo della famiglia è Lutero, con la riforma protestante; è lui che statalizza in qualche modo la paternità, cioè comincia a fare del padre quel provvisorio, avventizio, funzionario statale che, perdendo sempre più rilievo, continua ad essere fino ai nostri giorni. Ciò toglie al padre ogni aspetto di riflesso del Padre Divino, che conferiva al padre enormi responsabilità, naturalmente, ma da cui derivava il suo specifico significato all’interno dell’ordine simbolico di una società non secolarizzata. Lutero sostiene che il divorzio non riguarda la Chiesa, ma lo stato. E’ ancora Lutero che chiama sua moglie, in famiglia, "Dottor Kate", trasferendole una parte molto rilevante dei ruoli educativi che fino ad allora erano stati svolti dal padre. Come osserva l’antropologo Dieter Lenzen poche generazioni dopo di lui, nessuno sapeva più, quanto meno nella tradizione protestante, cosa avesse significato paternità prima. Questo è un punto di svolta decisivo all’interno di questa vicenda.
La progressiva perdita di significato del padre continua con la rivoluzione industriale, successiva all’illuminismo e alle rivoluzioni borghesi, in cui il padre all’interno della famiglia, diventa un amministratore, e sempre di più rinuncia alla sua caratteristica di creatore, e di iniziatore ed educatore.
Il passaggio del padre da formatore della personalità a contributore e rifornitore di alimenti avviene all’interno del processo di industrializzazione, durante il quale, non dimentichiamoci, vengano ribadite alcune posizioni fondamentali del processo di secolarizzazione, cioè che le sterline sono più importanti dei riti religiosi, e che la cosa più sacra cui bisognava stare bene attenti era lo sfruttamento del denaro (B. Franklin). Quindi un processo, quello della rivoluzione industriale in cui i valori economici prendono il sopravvento, insieme con una visione complessivamente materialista, sulle domande e anche sulle risposte di tipo più spirituale.
All’interno di questo processo succedono alcune cose abbastanza importanti che ricorderò per immagini.
Una scena autobiografica raccontata da David Herbert Lawrence, che vive nel momento del compimento della società industriale, descrive il padre che ritorna a casa la sera dopo il lavoro nelle miniere, sporco, per il quale è pronta una tinozza nella cucina perché possa lavarsi. Il padre si spoglia, il figlio guarda questo uomo vigoroso che ha lavorato tutto il giorno, pieno di carbone; lo guarda ammirato e pieno di amore, e la madre, che è maestra, lo prende da parte e gli dice: “Vedi quell’uomo sporco, tu non dovrai mai essere come lui, tu dovrai diventare un intellettuale, un signore”.
In questa posizione, che non è solo della madre di Lawrence, ma è la posizione di buona parte della società protestante, che è la punta di diamante della società della industrializzazione occidentale, la separazione dal padre assume dei dati culturali e quasi razziali: il padre diventa il rappresentante del lavoro manuale, del lavoro fisico, maschile, diventa una figura forte solo fisicamente, ma debole dal punto di vista culturale, valoriale, delle "buone maniere", svalutata, nei confronti della quale il giovane viene sollecitato a separarsi.
Questo, come vediamo in tutta la produzione letteraria di Lawrence, che da questo punto di vista è molto chiara, crea una scissione fortissima nell’essere umano occidentale in generale, tra il mondo dell’istinto, ed il mondo della cultura industriale, che diventa poi quella del consumo. Ma l’istinto è anche il mondo della relazione con la natura, e quindi il mondo dove si trova Dio. Ricordiamo i molti passi in cui Giussani riferisce della scoperta di Dio attraverso l’incontro con la natura, cioè di qualcos’altro che ti interpella sulla questione della creazione e del tuo destino come creatura. Se tu togli tutto questo, e gli sostituisci quello che i tedeschi hanno chiamato “processo di civilizzazione” che ruota attorno a comportamenti di buone maniere, a modi di comportarsi, non c’è più né la forza della natura e del corpo, né la forza e la luce di Dio, che quella natura e quel corpo hanno creato.
L’individuo diventa così prigioniero di un mondo fabbricato, fatto di modelli di comportamento in cui non ci sono più né appartenenze, né interlocuzioni personali profonde sui destini personali. Ci sono solo modelli prefabbricati di comportamento, che sono poi dei modelli di consumo. E qui siamo già a quella che nei miei libri io chiamo società “grande madre”, la società dei consumi.
Un passaggio rilevante che vorrei ricordare è quello delle due guerre mondiali del secolo scorso durante le quali gli uomini stanno lontani da casa per molti anni, spesso muoiono, e quindi non tornano mai a casa; in quegli anni sono le donne che si devono occupare dei figli. Gli uomini che tornano dopo la seconda guerra mondiale trovano poi un mondo sostanzialmente cambiato, appunto la società “grande madre”, in cui ai vecchi modelli produttivi, modellati sull'unità produttiva familiare, strutturati su una trasmissione di sapere padre-figlio, si è completamente sostituita la corporation, una unità produttiva impersonale in cui non c’è nessuna trasmissione di sapere, anzi i saperi vengono continuamente modificati, per cui ogni detentore di sapere, compreso il padre, è una figura provvisoria, qualcuno che per breve tempo dispone di un sapere utile che poi sarà destinato ad essere rapidamente sostituito.
Come funziona questa società grande madre, che si esprime attraverso la figura della grande corporation? Funziona come nei miti della grande madre, aumentando il suo potere attraverso la soddisfazione dei bisogni. E’ una società estremamente attenta a soddisfare bisogni, anche a suscitarne di nuovi e soddisfarli attraverso prodotti di consumo, e attraverso questo aumentare il proprio potere, ridurre i cittadini a quei servi di cui il Prof. Cangiotti parlava prima.
Questa questione del soddisfacimento del bisogno ha un grande rilievo, sia dal punto di vista della costituzione dell’Io, sia quindi dal punto di vista della formazione spirituale. Cosa succede infatti nel mondo dove tutto è consumo, e dove il funzionamento dell’individuo viene deformato a richiesta di bisogni perché vengano soddisfatti? Succede una cosa decisiva sia dal punto di vista psichico, sia dal punto di vista spirituale, sia dal punto di vista della libertà. Accade cioè che in quel mondo non ci sono più desideri, perché il mondo materno, primario, della soddisfazione del bisogno, è antagonistico al mondo della produzione del desiderio, che è il mondo in cui l’individuo viene introdotto dalla iniziazione paterna. Perché un desiderio si produca occorre che l’individuo sia libero dal bisogno, altrimenti non può investire sul desiderio, se è ancora preso dal soddisfacimento del bisogno. Il desiderio è il risultato della libertà: appunto per questo il risultato del rapporto con il padre, dice Giussani, è la libertà. La libertà viene dalla relazione con un padre che te la insegna, magari contrapponendoti un modello che tu non hai e costringendoti a misurarti con questo modello; è lì che formi la tua libertà. Ma se questo non avviene e tu sei preso dentro un circuito dove c’è solo la soddisfazione del bisogno, alla libertà di desiderare non arrivi mai, perché sei coatto ad appagarti, a soddisfarti. Non reggi la distanza dall'appagamento in cui si forma il desiderio. E qui vi posso dare la mia testimonianza: la maggiore patologia di oggi non è quella di avere dei desideri sbagliati, ma è quella di non avere affatto desideri, è quella di non sapere qual’è il tuo desiderio, è quella dello spegnimento di qualsiasi desiderio all’interno di un universo che si chiude nella soddisfazione del bisogno, nella continua recezione di bisogni da soddisfare.
Ma questi, come sappiamo, sono infiniti, e infinite sono quindi le ferite da reggere dal mancato appagamento di quei bisogni. Il testimone della ferita però, il padre, non c'è più, o se c'è non fa più il suo mestiere. E' così che il mancato appagamento del bisogno diventa tragedia. Su questo c’è purtroppo una grandinata di dati e di statistiche agghiaccianti: se il padre è colui che testimonia della ferita, la società senza padri è quindi una aggregazione di persone incapaci di reggere le ferite della vita e dall’altra parte incapace di desiderare di formulare dei progetti. Allora, per esempio, secondo statistiche americane, che sono le più precise, il 90% di tutte le persone senza dimora e dei figli fuggiti da casa non avevano un padre in famiglia, il 70% dei giovani delinquenti ospitati in istituzioni statali venivano da famiglie dove non c’era il padre, l’85% dei giovani che si trovano in carcere sono cresciuti senza padre, il 63% dei giovani che si tolgono la vita hanno dei padri assenti. E potrei continuare sulle tossicomanie, ecc. In qualche modo questa ferita di non avere colui che ti insegna la ferita e ti consente di reggere la ferita, in una società che moltiplica i bisogni, ed anche la difficoltà di soddisfarli tutti, ti porta in una condizione di progressiva e devastante emarginazione. Naturalmente questi dati non vanno letti in termini causali, secondo una rigida connessione causa effetti. L'individuo senza padre rimane libero di costruire il proprio destino. Ma il rischio che non lo faccia è molto elevato.
Questa è una situazione estrema che non ci può né lasciare indifferenti né consentirci di guardarla come se fosse una questione psicologica, una questione di genere, una questione che possiamo catalogare e mettere in un cassetto di una qualche categoria conoscitiva, per poi sbarazzarcene subito dopo. Questo lo dico anche come cristiano: la questione del padre è una questione centrale in un mondo che vive una situazione estrema, una situazione che lo mette di fronte alla sua capacità di lasciare che la vita umana continui e si sviluppi, oppure si autoliquidi, all’interno di un processo perverso che trasforma tutto in consumo, compresa la generazione. Che, come voi sapete, può oggi essere realizzata via internet, cliccando sul sito “man not included” (uomo non previsto) dove qualsiasi donna può chiedere il seme in virtù delle qualifiche e delle caratteristiche che desidera, colore degli occhi, particolarità fisiche, comprese quelle richieste dalle due signore lesbiche inglesi che l’anno scorso, essendo loro non udenti, hanno chiesto un figlio che non avesse l’udito e l’hanno regolarmente avuto.
Siamo qui alla soglia tra vita umana e liquidazione della vita umana, siamo alla soglia tra senso e non senso, tra corpo creato e corpo fabbricato, tra individui liberi capaci di provare desideri, e schiavi che possono soltanto assolvere degli stimoli al soddisfacimento di bisogni attraverso una rete di soddisfacimenti di consumo. Io credo che questa situazione ci interpelli in modo definitivo, non accantonabile perché da essa dipende la continuazione di una vita autenticamente umana, che sappia trovare il proprio senso e che sappia parlare con Dio.
(1. continua)
IL COSTITUIRSI DELLA PERSONALITA