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  1. #1
    Conservatorismo e Libertà
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    Predefinito L'ascesa della destra in Europa. Il punto della situazione

    La destra populista in Europa non si ferma più


    Il risultato delle elezioni in Finlandia mette in evidenza, ancora una volta, l’avanzata delle destre populiste in Europa. Partiti simili ai Veri Finlandesi spuntano come funghi nel vecchio continente. La crisi economica e l’esplosione del caso “PIGS” hanno ulteriormente rinforzato queste formazioni i cui rappresentanti dicono ormai chiaramente che l’Unione Europea va smantellata. Ma partiti di questo genere emergono non solo nell’UE, ma pure al di fuori dei confini del Leviatano, come accaduto per esempio in Norvegia e Svizzera. Diamo però uno sguardo più in generale alla situazione di questi movimenti in giro per l’Europa, dentro e fuori l’UE

    AUSTRIA: all’interno del proprio parlamento l’Austria ha ben due formazioni di questo tipo: FPO e BZO. Ambo le formazioni prendono il via da Jorg Haider. La FPO era la formazione originaria del defunto leader, formazione da lui lasciata nel 2005 per formare la BZO. Haider era infatti in contrasto con molti membri della FPO, secondo lui troppo estremisti e fondò la BZO. Alle elezioni del 2008 ambo i partiti ottennero ottimi risultati. La FPO, ora guidata da Heinz Christian Strache otteneva il 17% mentre la BZO di Haider raggiungeva l’11%. Dopo la morte di Haider la BZO s’è avviata verso un precoce decadenza e nei sondaggi oscilla tra il 4 ed il 6%. La FPO invece continua a volare e nelle rilevazioni oscilla tra il 25 ed il 27% contendendo il ruolo di primo partito ai due storici volkspartei austriaci, SPO ed OVP. Dopo l’esperienza del governo Haider-Schussel la destra populista in Austria è stata isolata, ma non è detto che l’isolamento continui ancora a lungo.

    BELGIO: Alle ultime elezioni il Belgio è andato un po’ in controtendenza. Sia nelle Fiandre che in Vallonia le formazioni populiste non hanno brillato. Nelle Fiandre Il Vlaams Belang e la Lista Deddeker sono retrocesse ed hanno ceduto consensi alla Nuova Alleanza Fiamminga di Bart de Woewer. La formazione di De Woewer, pur indipendentista come le altre due, è però europeista e multi-culturalista e, contrariamente a quanto riporta il Corriere, non può essere annoverata tra le formazioni euro-scettiche. In Vallonia il Front National, filiale vallona della formazione dei Le Pen, è imploso. Dalle sue ceneri sta nascendo una nuova formazione vallona di destra, la lista “Wallonie d’Abord” che alle ultime elezioni è arrivata vicina allo sbarramento.

    BULGARIA:L’unione Nazionale di Volen Siderov ha fatto il suo debutto alle elezioni parlamentari del 2005 raccogliendo l’8% dei suffragi. Le elezioni del 2009 hanno fatto aumentare ulteriormente i consensi di questa formazione arrivata ora al 9% su scala nazionale.

    CROAZIA: Il “Partito Croato dei Diritti” è la formazione più a destra del parlamento. Alle elezioni del 2007 ha ottenuto il 3,5% dei voti. I sondaggi sulle prossime elezioni danno il partito intorno al 5% dei voti

    REPUBBLICA CECA: All’interno del panorama boemo la formazione euro-scettica più forte è il Blocco di Jana Bobosikova. Alle ultime elezioni ha mancato di poco la quota di sbarramento, fissata al 5%

    DANIMARCA: Il Folkepartei di Pia Kjaersgaard continua ininterrottamente ad avanzare, elezione dopo elezione. Il partito, venuto alla ribalta in occasione delle controversie sulle vignette danesi ritenute offensive dagli islamici, fa parte della coalizione di governo dal 2001. I suoi voti sono fondamentali per il governo di centro-destra che da ormai 10 anni si regge sull’appoggio esterno di questa formazione. Alle ultime elezioni ha ottenuto il 14% dei voti, affermandosi come il terzo partito della penisola e alle prossime potrebbe aumentare ulteriormente il suo bottino di voti e di seggi.

    FINLANDIA: Della Finlandia abbiam parlato ampiamente negli ultimi giorni. I Veri Finlandesi sono al 19% e probabilmente saranno decisivi per il prossimo esecutivo.

    FRANCIA: Le elezioni presidenziali e parlamentari del 2007 sembravano aver messo la parola “fine” all’epopea del “Front National”. Niente di più errato. Da quando Marine Le Pen ha sostituito il padre alla guida del movimento, la destra francese è ritornata prepotentemente in auge. L’operazione di defascistizzazione di Marine Le Pen sta contribuendo a rendere il partito più presentabile agli occhi dell’opinione pubblica. Nel 2007 il partito ottenne il 10% alle presidenziali ed un misero 4% alle parlamentari. Il prossimo anno però non andrà così, e questo è ormai conclamato. La destra “ufficiale”, volente o nolente, dovrà cominciare a parlare con loro, se vorrà evitare la debacle.

    GERMANIA: Ad oggi in Germania ancora non ci sono fenomeni di questo tipo. Il successo del libro di Sarrazin però ha fatto nascere il dibattito sull’opportunità della nascita di una formazione di questo genere. Qualcuno suggerisce che il tracollo della FDP possa aprire la strada a questo nuovo partito che Der Spiegel chiama “Il partito della Bild”. Un partito che ancora non c’è, guidato da un ipotetico Haider tedesco, che incarni i sentimenti anti-europeisti ed anti-immigrati da tempo latenti in Germania. Sentimenti che spesso vengono incarnati proprio dal più celebre e temuto giornale teutonico. Che l’unica salvezza possibile per la FDP sia quella di seguire le orme dell’ex cugina austriaca FPO?

    GRECIA: Nato da una costola di “Nuova Democrazia”, massimo partito di centro-destra ellenico, il LAOS è avanzato parecchio alle ultime elezioni, raggiungendo quasi il 6% dei suffragi. Il clima attuale potrebbe essere l’ideale per una ulteriore crescita

    ITALIA: Quanto sia giusto includere la Lega in questa fascia di partiti è spesso fonte di dibattito. Diciamo che il Carroccio ha parecchi lati in comune con alcune di queste formazioni e condivide con molte di queste la stessa collocazione al parlamento europeo, vale a dire il gruppo dell’ “Europa per la Libertà e la Democrazia”. Le posizioni critiche sull’immigrazione e scettiche sull’Unione Europea assimilano la Lega a queste formazioni. Differisce da questi movimenti però per il suo ruolo di partito locale.

    LETTONIA: Alleanza Nazionale ha fatto parte del governo lettone fino al 2010. Nonostante l’aumento nei voti, passato dal 7 all’8%, il partito è stato escluso dal governo di centro-destra, di cui aveva fatto parte fino ad allora

    LITUANIA: Ordine e Giustizia è il quarto partito del parlamento lituano. Alle ultime elezioni ha ottenuto il 13% dei voti. A capitanare la formazione il controverso ex premier ed ex presidente Rolandas Paksas.

    LUSSEMBURGO: l’ADR (Alternativa Democratica di Riforma) è parte della vita politica del piccolo granducato da ormai 20 anni. Nonostante un consenso piuttosto stabile tra l’8 ed il 10% finora non è mai riuscito ad entrare al governo del granducato. I democristiani, padroni incontrastati della vita politica del granducato, son sempre riusciti a non aver bisogno della formazione di Robert Mehlen, finora…

    NORVEGIA: Il Partito del Progresso è un elemento stabile della politica norvegese dalla metà degli anni ’70. Il suo consenso è in ascesa continua. Alle ultime elezioni risulta essere il secondo partito norvegese col 23% dei consensi. Finora non ha mai partecipato in maniera diretta al governo del paese, ma si è limitato a dare l’appoggio esterno a governi di centro-destra. I sondaggi attuali danno alla formazione di Siv Jensen un consenso intorno al 25%. Se i sondaggi attuali fossero confermati, il partito avrebbe la prima vera chances di entrare in maniera diretta al governo, dato che sembra poter riuscire a costruire una maggioranza insieme ai conservatori di Erna Solberg, la quale è disponibile a costruire un governo con partecipazione diretta dei progressisti.

    OLANDA: Sembrava che la destra populista in Olanda fosse morta con Pim Fortuyn. Niente di più sbagliato. Morto Fortuyn è spuntato Geert Wilders la cui formazione, il Partito della Libertà (PVV) è divenuta il terzo partito del paese col 15,5% dopo le ultime elezioni ed il suo appoggio è fondamentale per la tenuta del governo di Mark Rutte. Se si tornasse al voto il PVV aumenterebbe ulteriormente sia i consensi che i seggi.

    POLONIA: La formazione dei gemelli Kaczynsky sembra in fase calante. Rimane comunque il secondo partito del paese ed un modello per le formazioni identitarie del continente. Vedremo alle prossime elezioni parlamentari se “Legge e Giustizia” riuscirà ad aumentare, o perlomeno a confermare, il risultato del 2007.

    REGNO UNITO: Il sistema elettorale uninominale a turno unico, ha finora impedito allo UKIP e al BNP di entrare alla Camera dei Comuni. Se passasse il referendum che impone il “sistema australiano” nel Regno Unito però il consenso di queste due formazioni potrebbe aumentare. Il sistema proposto dal referendum non è un proporzionale, che aiuterebbe moltissimo le due formazioni euro-scettiche, ma comunque contribuirebbe a far salire le quotazioni dei due partiti, almeno nel voto di “prima preferenza”.

    ROMANIA: Sembrava, dopo il tracollo alle elezioni legislative del 2008, che Grande Romania fosse destinata a sparire. Il buon risultato delle europee, in cui la formazione nazionalista romena ha ottenuto il 9% dei consensi, ha riportato in alto il partito di Corneliu Tudor. Probabile che il prossimo anno faccia ritorno nel parlamento nazionale.

    SERBIA: In Serbia il nazionalismo non è mai tramontato, anzi, continua a rafforzarsi. Alle ultime presidenziali il leader del Partito Radicale, Tomislav Nikolic, ha sfiorato la vittoria perdendo al ballottaggio contro il moderato Tadic per una manciata di voti (un misero 2,3%). Alle parlamentari successive i radicali hanno confermato il ruolo di secondo partito del paese.

    SLOVACCHIA: Il Partito Nazionale Slovacco di Jan Slota è balzato all’onore delle cronache dopo che il Partito Social-Democratico slovacco decise di includerlo in una coalizione di governo nel 2006. I Social-Democratici slovacchi rischiarano per questo l’espulsione dal PSE. Le elezioni del 2010 hanno sancito la sconfitta sia dei nazionalisti del SNS che dei social-democratici. Entrambe hanno perso voti e seggi e la bizzarra coalizione tra estrema destra e centro-sinistra è stata sostituita da una coalizione conservatrice guidata dalla democristiana Iveta Radicova. Il fatto che l’SNS abbia partecipato ad un esecutivo di centro-sinistra, seppur poi bocciato dagli elettori, è un precedente importante che fa capire come spesso queste formazioni possano essere post-ideologiche

    SLOVENIA: In Slovenia il Partito Nazionale Sloveno è dall’indipendenza un attore stabile del parlamento. L’affermazione del suo leader, Jelincic, alle ultime presidenziali (19%) , non è stata confermata alle legislative dove il partito, pur rimanendo in parlamento, ha ottenuto un risultato al di sotto delle aspettative (5%). Comunque attore ormai consolidato del panorama sloveno.

    SVEZIA: La notizia dell’entrata nel Riksdag dei “Democratici” scosse un po’ tutti lo scorso anno. Una formazione anti-immigrati che s’afferma nell’ex tempio della socialdemocrazia. Una bestemmia per le vestali del politically correct. La formazione di Akesson ha raggiunto il 6% dei voti nel 2010 superando la soglia di sbarramento.In realtà non è la prima volta che accade un fenomeno del genere in quel di Stoccolma, ma ora è comunque il prosieguo di un trend che si sta consolidando in Europa, e in particolar modo nell’Europa settentrionale. Per il momento il governo conservatore non vuole collaborare con Akesson, ma diamo tempo al tempo

    SVIZZERA: Nel 2007 l’UDC-SVP confermava il primato nazionale ottenuto nel 2003. Sembra dai sondaggi che il primato della formazione di Blocher rimarrà intatto nel 2011, nonostante la scissione del “Partito Borghese”. Attualmente l’UDC-SVP, celebre all’estero per la battaglia contro i minareti, detiene 2 seggi nel governo federale, oltre che la maggioranza relativa in parlamento. L’UDC-SVP è alleato della Lega Ticinese, recente vincitrice delle elezioni cantonali in quel di Lugano.

    UNGHERIA: Alle elezioni del 2010 il partito Jobbik è entrato nel parlamento magiaro con un altisonante 17% dei consensi, ed ha ottenuto 47 scranni. Pochi meno del malconcio Partito Socialista magiaro fermo al 19% e a 59 seggi. I conservatori di FIDESZ del premier Viktor Orban per ora governano da soli. Se però alle prossime elezioni i conservatori magiari non avessero più la maggioranza assoluta, a chi potrebbero rivolgersi per un aiuto?

    Questo è il quadro generale dell’ascesa dei populismi di destra in Europa. Pochi paesi sembrano esser rimasti immuni da questa nuova fiammata di nazionalismo. Tra i pochi sembrano esserci: Spagna, Portogallo, Estonia, Islanda e Irlanda. Anche da queste parti però, il sorgere di formazioni di questo genere è tutt’altro che impossibile. Io qui ho fatto il classico “calderone”, nel senso che ho accomunato nello stesso filone formazioni diversissime tra di loro, che hanno qualche punto in comune, ma anche molte divergenze. Diciamo che la divergenza principale sta tra i populismi conservatori dell’Ovest e quelli dell’Est. I populismi conservatori dell’Ovest nascono, prima ancora che dall’ostilità all’UE, dai fenomeni migratori di massa che han colpito l’Europa Occidentale nelle ultime decadi. Fenomeni che han portato situazioni di degrado intollerabili e che hanno innescato guerre tra poveri senza esclusione di colpi a cui i tradizionali movimenti conservatori, liberali e socialisti han risposto con indifferenza e una canea politically correct ormai piuttosto stantia e fastidiosa. Proprio perché i fenomeni migratori han colpito le fasce più deboli della società europee, non è raro vedere questi movimenti svettare in quelli che erano i tradizionali elettori dei partiti di sinistra. A Vienna la FPO alle ultime comunali faceva strage nei quartieri popolari. In Francia ed Italia la Lega ed il Front National hanno sostituito le sinistre come partito di riferimento degli operai. I manovali di Manchester, un tempo laburisti, erano col BNP a gridare “british job for british workers”. In Svezia gli scaricatori di porto han preferito Jimmie Akesson alla social-democratica Mona Sahlin. In Danimarca i disoccupati e i minatori metton la croce sul simbolo del Folkpartei. I populismi dell’Europa Occidentale spesso però evitano simboli troppo “espliciti” che richiamino direttamente al nazionalismo e ai fascismi. Rigettano inoltre l’anti-semitismo e si definiscono filo-israeliani piuttosto che filo-palestinesi. Spesso sono abbastanza scettici nei confronti degli USA, ma non apertamente ostili. In Europa dell’est invece, oltre che dalle storiche tensioni fra le etnie che compongono quella porzione d’Europa, i populismi trovano la loro forza proprio da Bruxelles e dall’Unione Europea. I popoli dell’est difatti vedono in Bruxelles un nuova Mosca e nell’UE una nuova URSS (e non hanno torto NDA). Forse formalmente più democratica dell’URSS, ma in sostanza ugualmente oppressiva, all’est l’UE è estremamente impopolare. Inoltre i populismi dell’Est spesso non si vergognano a riproporre simboli come croci celtiche et similia e, contrariamente a quelli dell’ovest, sono abbastanza esplicitamente anti-semiti ed anti-israeliani e apertamente ostili agli USA. Ritengo che questi movimenti non fermeranno la propria avanzata. Forse avranno qualche battuta d’arresto, ma abbiamo visto che le idee di Haider e Fortuyn sono sopravvissute alle morti dei loro leader e sono ora state ereditate da altri (Strache e Wilders), mentre in Francia il passo indietro di Le Pen senior ha addirittura rilanciato il movimento che si prepara al definitivo sdoganamento. Certo, queste formazioni sono molto legate ai loro leader carismatici, ma il senso di insicurezza provocato dalla globalizzazione selvaggia, dall’immigrazione senza freni e da un’Europa che è solo un dinosauro burocratico, privo di anima e assente nei campi in cui realmente servirebbe come la difesa dei confini (vedi i pasticci sulla Tunisia di questi giorni) sono tutti problemi che rimangono sul tavolo. Possono sparare a Fortuyn, Haider può fare un incidente d’auto, l’aereo di Kaczynsky può cadere dal cielo, ma i problemi che le loro formazioni pongono sul tavolo restano e il primo che arriva a denunciarli ottiene eguale consenso. Gli elettori, delusi da conservatori e progressisti, vedono sempre di più questi movimenti come una sorta di “terza via” alquanto appettibile e continueranno a rivolgersi a queste formazioni fintanto che la politica sarà sempre più sorda alle esigenze di sicurezza, tutela dell’identità e della tradizione e preservazione della sovranità nazionale.

    di Giovanni Rettore

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  2. #2
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    Predefinito Rif: L'ascesa della destra in Europa. Il punto della situazione

    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  3. #3
    AUT CONSILIO AUT ENSE
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    Predefinito Rif: L'ascesa della destra in Europa. Il punto della situazione

    Ottima Analisi, Falco.
    Sembra evidente che quelle formazioni populiste arrivate al governo non sono state in grado di mantenere le promesse e per questo sono state generalmente punite dagli elettori.
    Ma l'onda complessivamente non cala, anzi continua a crescere.
    "Io nacqui a debellar tre mali estremi: / tirannide, sofismi, ipocrisia"


    IL DISPUTATOR CORTESE

    Possono tenersi il loro paradiso.
    Quando morirò, andrò nella Terra di Mezzo.

  4. #4
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    Predefinito Rif: L'ascesa della destra in Europa. Il punto della situazione

    Europa sveglia! Non sono un bluff i voti all'ultradestra


    Il 30 maggio del 2005 con il “no” francese al referendum sulla Costituzione Europea, l’Unione rischiò di morire a causa della paura per “l’idraulico polacco”. Dopo quel fallimento arrivò anche il “no” olandese che costrinse le élite europee a rinunciare all’idea stessa di Costituzione. Ma persino il molto meno ambizioso Trattato di Lisbona, sottoposto al voto popolare in Irlanda nel 2008 fu sonoramente bocciato.

    Sono solo alcuni dei gravi incidenti di percorso che nell’ultimo quinquennio hanno visto la sopravvivenza dell’idea di Europa messa democraticamente in discussione dai suoi stessi cittadini. E ogni volta gli establishment europei e nazionali hanno trovato il modo di nascondere la questione sotto il tappeto, girare le spalle al giudizio degli elettori e rattoppare il tessuto comunitario per tenerlo insieme in un modo o nell’altro. All’epoca del referendum Irlandese il presidente Napolitano arrivò persino a minacciare Dublino di espulsione dall’Europa per il suo voto.

    Così oggi che l’Unione rischia di essere travolta dai manovali magrebini, dai contribuenti greci, dai banchieri irlandesi, dai proprietari immobiliari spagnoli, dai debitori portoghesi, rimane ben poco da rattoppare e l’Europa nel suo complesso appare un’arena dove tutti sono in guerra contro tutti.

    I segnali si sono addensati negli ultimi mesi e parlano da soli. Le divisioni intra-europee sull’intervento in Libia, lo scontro tra i governi italiano e francese sulla gestione degli immigrati nordafricani, il braccio di ferro tra la Germania e la Bce sui bailout dei debiti sovrani di Grecia e Portogallo, la nascita ormai quasi ufficiale di un “club europeo della tripla A” con i sei paesi senza macchie sul debito che si sono riuniti a gennaio a Bruxelles prima dell’incontro dell’Ecofin, la contrapposizione continua tra governi e banche sulla ripartizione delle perdite da titoli tossici, gli stress test e le nazionalizzazioni, le paure est-europee per l’espansionismo russo e le delusioni sud-europee per la mancanza di una politica mediterranea. E’ solo un rapido elenco delle fratture che attraversano la costruzione europea e ne minano la credibilità interna e internazionale.

    Non è strano dunque se i cittadini dei paesi membri trovino nelle elezioni locali e nazionali uno sfogo per la loro disaffezione, una rivincita per l’incapacità di incidere sui meccanismi comunitari e una condanna verso le élite nazionali paralizzate dai veti e dagli obblighi europei. Quello che i giornali del vecchio continente continuano da tempo ad etichettare – non con un certo disprezzo - come il montare delle destre nazionaliste, populiste o xenofobe altro non è che il grido di allarme di cittadini che sentono di aver perso il controllo sulle cose che li riguardano più da vicino.

    Il più recente caso finlandese, con l’incredibile affermazione del partito di Timo Soini, True Finns che nelle elezioni politiche ha quintuplicato i suoi voti arrivando al terzo posto, è la dimostrazione più eloquente di questo disagio. La Finlandia non è un paese tradizionalmente euroscettico, anzi, condividendo la più lunga frontiera con la Russia di ogni altro paese europeo, ha sempre visto l’adesione all’Unione come un fattore chiave della sua sicurezza nazionale. Il rifiuto di partecipare al finanziamento degli 81 miliardi di euro richiesti dal salvataggio del Portogallo è stato però l’elemento simbolico che ha sospinto il True Finn nelle urne. Una protesta duplice: contro l’indisciplina finanziaria dei paesi meridionali ma anche contro la pretesa tedesca di salvare quei paesi a spese di quelli più ricchi e previdenti.

    Il caso finlandese non è certo isolato in Europa. La stessa spinta anti-establishment, sia esso di destra o di sinistra, conservatore o progressista si vede in molti altri paesi europei. In Francia, dove il Fronte Nazionale di Marine Le Pen è data in vantaggio su Nicolas Sarkozy nei sondaggi per le presidenziali del 2012; in Ungheria dove nelle elezioni del 2010 il partito Jobbik ha preso un inatteso 17 per cento e 47 seggi in Parlemento; in Olanda e in Danimarca, Geert Wilders con il suo Freedom Party e Pia Kjærsgaard con il Partito Popolare danese sono entrati nelle compagini di governo a l’Aia e a Copenaghen; in Svezia, tempio della socialdemocrazia, i Democratici di Jimmie Akesson sono entrati in Parlamento con una piattaforma apertamente anti-immigrati. Ma si tratta di un fenomeno che non riguarda soli i paesi ricchi del nord: anche la Lega in Italia condivide caratteristiche comuni a questa tendenza.

    Se il livello di analisi nel dibattito pubblico europeo continuerà a interpretare simili fenomeni come una forma di involuzione populista e tendenzialmente poco democratica, senza coglierne al contrario il tentativo di una riconquista da parte degli elettori di spazi sempre più devoluti alle tecnocrazie sovranazionali di Bruxelles o di Francoforte, la salute complessiva dell’organismo comune europeo non potrà che peggiorare e dell’Unione non resterà che un sussiegoso strascico retorico.

    Europa sveglia! Non sono un bluff i voti all'ultradestra | l'Occidentale

  5. #5
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    Predefinito Rif: L'ascesa della destra in Europa. Il punto della situazione

    Le "nuove destre" in Europa.
    Dove vanno, come cambiano



    Lo scorso 5 febbraio la stazione ferroviaria di Luton è in preda al caos. Circa 3.000 sostenitori della English Defense League (EDL) si sono dati appuntamento nella città del Berdfordshire inglese per una street parade anti-islamica. Si affrontano nelle strade con centinaia di manifestanti delle organizzazioni musulmane e del movimento Unite Against Fascism, antagonisti di sinistra e no-global. Luton, governata dai laburisti e fino al 2005 sede della Vauxall Motors (una controllata di GM), ha una popolazione di 185.000 abitanti, a fronte di una comunità islamica di 27.000 persone. E’ il posto perfetto per far capire agli inglesi che il modello multiculturale è franato, che le enclave musulmane rappresentano un pericolo crescente, perché sottraggono ai nativi lavoro, assistenza sanitaria, welfare. Su questi presupposti la EDL ha costruito la sua fortuna, crescendo in pochi anni da centinaia a migliaia di aderenti.

    Due anni fa, alcuni gruppi islamici avevano contestato una parata militare del Royal Anglian Regiment di ritorno dall’Iraq al grido di “ecco i macellai di Bassora”. E’ stata la molla che ha fatto nascere il gruppo Unites Peoples of Luton, antesignano dell’EDL. Alla manifestazione del 5 in giro circolano molte croci di San Giorgio, si vede gente incappucciata che sventola cartelli dai toni violentemente anti-islamici, belle ragazze bionde e sorridenti, tanti disoccupati, insomma il “popolo” inglese, la working class o ciò che ne resta. Tutta gente convinta di essere stata abbandonata dalla politica, frustrata dai benpensanti della middle class che li considera dei razzisti, impaurita dalla predicazione degli imam che svuota i quartieri bianchi trasformandoli in ghetti separati dal resto della città.

    I militanti dell’EDL non si sentono dei fascisti, come vengono dipinti dalla stampa. Uno dei leader ha partecipato al rogo del ritratto di Hitler, un altro spiega che l’organizzazione è aperta a gay ed ebrei, ai bianchi come agli afro, perché il problema non è la “razza” ma il fatto che la minoranza musulmana in Gran Bretagna si sente e si comporta già da maggioranza. Il nazionalismo dell’EDL ha dunque dei tratti originali che hanno permesso in poco tempo all’organizzazione di conquistarsi un certo consenso nell’opinione pubblica, a differenza dell’estrema destra e dei gruppi neonazisti, da sempre schiacciati ai margini della democrazia britannica.

    Gli “intellettuali” dell’EDL si muovono e comunicano su Internet grazie a Facebook e ai social network, organizzano cortei e manifestazioni nelle principali città inglesi, si affidano ai “soldati” del movimento, gli hooligan, abituati allo scontro, anche quello fisico, con gli avversari e la polizia. L’EDL viene considerato un gruppo di proscrizione del più noto British National Party (BNP), il partito dell’ultradestra di Nick Griffin, che sembrava aver ripreso quota dopo anni di purgatorio politico, conquistando due seggi al parlamento europeo. Ma il BNP è stato velocemente ridimensionato dopo l’exploit alle europee, arretrando ulteriormente anche per colpa dei debiti e dei problemi finanziari. L'EDL invece è in netta crescita. In generale, si può dire che l’estrema destra britannica non ha né i numeri né la forza per rappresentare un'alternativa ai partiti tradizionali, eppure le questioni poste in campo dagli "arrabbiati" hanno smosso le acque e costretto i "grandi" a dare delle risposte.

    Il primo ministro conservatore David Cameron ha posto nuovi vincoli alle politiche migratorie, dicendo chiaramente che il numero degli immigrati nel Regno Unito è diventato “troppo alto” e che i nuovi arrivati molto spesso “portano disagi”. Una retorica utile a sottrarre voti alla destra nazionalista, cercando il consenso delle classi popolari. Gli scontri di Luton sono quindi un campanello d’allarme per la stabilità della democrazia inglese ma non si può dire che in Gran Bretagna ci sia un revival neofascista. Se mai, il successo di gruppi come l’EDL dimostra che l’islamofobia è la vera questione dirimente nel Paese, come ha denunciato la baronessa Warsi, musulmana e ministro senza portafoglio del governo Cameron.

    Nel maggio scorso, il centro islamico di Bury Park Road, la più importante istituzione musulmana di Luton, è stato dato alle fiamme. Nel corso dell’anno sono stati sventati altri piani per colpire le moschee arrestando bombaroli e “lupi solitari” pronti ad agire. Contemporaneamente, sotto la spinta della paura di nuovi attacchi terroristici e dell’estremismo islamico, la società inglese è diventata una delle più “controllate” al mondo, prefigurando scenari orwelliani in cui, in cambio di maggiore sicurezza, le autorità sacrificano il diritto inalienabile alla privacy della cittadinanza. La discussione sul "pericolo musulmano" infiamma gli animi e smuove le coscienze, ma la minaccia alle libertà personali e dell’individuo posta da uno stato spione non suscita lo stesso ardore polemico.

    Dall’altra parte dell’Europa c’è l’Ungheria e qui la musica cambia. Nelle ultime settimane il parlamento, dominato dal partito di maggioranza Fidesz, ha modificato unilateralmente la Costituzione. Se pure indirettamente, si è deciso di vietare l’aborto. I matrimoni gay sono solo fantascienza. In compenso nella nuova carta costituzionale c'è un riferimento diretto alla “Santa Corona d’Ungheria”, il simbolo nazionale dello stato medievale magiaro, usato durante i regimi di Miklos Horthy e Ferenc Szalas alleati della Germania nazista. La carta fa appello al principio di autodeterminazione delle minoranze magiare che vivono nei Paesi confinanti, in Romania, Slovacchia, Croazia, nella Vojvodina serba e in Ucraina. Una forma di revancismo che il primo ministro ungherese, Victor Orban, sa coniugare abilmente con un europeismo spinto, quando accusa Bruxelles di aver rallentato il processo di allargamento della Ue.

    Così, mentre si fa garante per l’ingresso di Romania e Bulgaria nell’area Schengen, Orban elegge il cristianesimo a religione di stato, l’unica, mentre la Ue va nella direzione opposta. Non è detto che in materia religiosa il relativismo di Bruxelles sia la strada giusta da seguire, ma Sarkozy e la Merkel hanno pesantemente criticato la nuova carta ungherese, accusando Orban di voler limitare la libertà di stampa, mentre i giornali conservatori tedeschi definivano il documento “un corpo alieno nella famiglia delle costituzioni europee”. In Ungheria la nostalgia post-imperiale per il vecchio e cattolicissimo impero asburgico si mescola a rigurgiti particolaristici e tensioni ideologiche che sembrano riprodurre pericolosamente i germi del passato nazista.

    A fianco del conservatore Fidesz c’è il terzo partito ungherese, il Jobbik. Bollato come “fascista” dalla stampa occidentale, il Jobbik si difende proclamandosi conservatore, pro-cristiano e difensore dei valori e degli interessi della nazione ungherese. Quando il primo ministro Orban ha proposto un curioso disegno di legge per permettere alle madri di famiglia di votare al posto dei loro figli minorenni, i deputati del Jobbik si sono opposti spiegando che questo avrebbe favorito elettoralmente la minoranza Rom, che ha tassi di procreazione più alti.

    Se la prima generazione di leader politici del Jobbik era fatta di “combattenti per la libertà” come Gergely Pongratz (i Corvin Koz di Pongratz distrussero una dozzina di carri armati sovietici nella rivolta del ’56 ), le nuove leve sembrano più inclini alle sirene dell’antisemitismo. L’avvocatessa Cristina Morvai, che è il sesto politico più popolare in Ungheria e candidata presidente del Jobbik, durante l’operazione “Piombo Fuso” condotta nel 2009 da Israele contro Gaza, ebbe a dire che “Il solo modo per parlare con gente come voi (gli israeliani, ndr) è comportarsi come fa Hamas. Io spero che riceviate ‘i baci’ di Hamas per ognuna delle vittime che avete provocato”. Gabor Vona, il leader trentenne del Jobbik, ha promesso di indossare l’uniforme della "Guardia Magiara", una milizia paramilitare di stampo neofascista creata nel 2007, se fosse stato eletto al parlamento ungherese. Gli è stato impedito e lui l’ha descritto come un atto di disobbedienza civile.

    Le spinte reazionarie della nuova costituzione ungherese, il revancismo e l’idea di una “Grande Ungheria”, la nostalgia asburgica, divengono ancora più preoccupanti se pensiamo che nella vicina Austria i due partiti dell’estrema destra, il Partito della libertà (FPO) e l'Alleanza per il futuro dell’Austria (BZO), assieme, fanno il 30 per cento dell’elettorato. Jorg Haider, il controverso uomo politico morto in un incidente d’auto nel 2008, aveva rapidamente trasformato l'FPO nel secondo partito austriaco, ma poi, preoccupato di dover cedere la leadership al giovane Heinz Christian “HC” Strache, nel 2005 aveva fondato il BZO, dandogli un connotato più “liberale” e meno estremista.

    Strache invece punta sul nazionalismo duro e puro, descrivendo le donne coperte dal velo come “femmine ninja”. Nel frattempo, i gruppetti neonazi dissacrano le tombe nei cimiteri musulmani. A Braunau, città che diede i natali ad Adolf Hitler, di recente è stata scoperta pubblicamente una svastica per festeggiare il compleanno del fuhrer. Strache, che in passato ha frequentato circoli estremisti, ha ricevuto anche la “benedizione” dal grande burattinaio del neonazismo europeo, quell’Herbert Schweiger, già guardia del corpo di Hitler nelle Waffen SS Panzer Division Leibstandarte, che oggi dalla sua casetta inerpicata sulle Alpi annuncia che è arrivato il momento per l’apparizione di un nuovo fuhrer in Europa. “I giudei di Wall Street sono i veri responsabili della crisi economica attuale - spiega - Oggi viviamo una situazione simile a quella del 1929 quando il 90% delle ricchezze era nelle mani degli ebrei. Hitler aveva la soluzione giusta”. Quando Strache ha vinto le elezioni, l’inglese Nick Griffin si è detto “impressionato” dal risultato, “avete mostrato di saper combinare i principi del nazionalismo con un grande successo elettorale”.

    Bisogna dire però che il fascismo non è mai stato un fenomeno univoco ma, come ha scritto Roger Scruton, “un amalgama di concezioni disparate”. Per cui non è corretto affermare che in Europa assistiamo a un rigurgito monolitico dei vecchi totalitarismi. Oltre a dover ripensare parole come “xenofobia” e “razzismo” in uno scenario molto diverso da quello degli anni Trenta - legato alla realtà emersa dopo l’11 Settembre, agli enormi fenomeni di mobilità messi in moto dalla globalizzazione, alla delusione per il processo di integrazione europeo e all’insorgere di sentimenti anti-politici nei popoli del vecchio continente - bisogna ammettere che i moderni partiti populisti, anti-islamici e nazionalisti, non sono uguali fra loro.

    Ciò che abbiamo detto per l'Austria e l'Ungheria non vale per il Freedom Party olandese di Geert Wilders, anti-islamico fino al midollo ma amico dello stato di Israele; il compianto politico conservatore Pym Fortuyn e la scrittrice di origine somala Ayaan Hirsi Ali hanno aspramente criticato l’irredentismo del Vlaams Belang belga; e così via (alle manifestazioni dell'EDL si sventolano le bandiere dello stato ebraico). Ad unire tutte queste forze, se mai, è l’abilità di pescare il consenso delle masse popolari impoverite dalla crisi economica e spaventate dalla immigrazione. Tra questi uomini circola un sentimento anti-egalitario, anti-illuministico, ostile alla democrazia, in cui il culto del leader si mescola all’amore per i simboli patriottici, all’appello verso l'azione ed una vita energica.

    Ma proprio l'eccesso di leaderismo appare come uno degli elementi di maggiore debolezza di queste formazioni. E’ utile chiedersi se lo straordinario risultato elettorale ottenuto di recente dal partito dei “Veri Finnici” in Finlandia, una formazione di estrazione agraria e cristiana passato da 6 a 36 seggi in parlamento, sopravviverà alla verve del suo leader, Timo Soini. Una domanda che potrebbe valere anche per Geert Wilders o per altri leader europei su cui si sono accesi i riflettori e la curiosità di un elettorato stufo di subire ma impaurito dal cambiamento.

    Dal 2008, un po' come negli anni Trenta, l’Europa è stata investita da una profonda crisi economica che stavolta ha finito per mettere in discussione l’esistenza stessa dell’Unione. Come allora, i sistemi democratici occidentali sono attraversati da pulsioni anti-politiche che si rivolgono sia contro l'euro-casta al potere a Bruxelles, sentita (giustamente) come un'entità lontana e opprimente, sia contro i partiti tradizionali delle varie nazioni europee, liberal-conservatori e social-democratici. La sottovalutazione di una serie di temi (percepiti come prioritari dalle classi popolari, dall’immigrazione alla sicurezza) da parte dell’establishment politico, delle elites accademiche, intellettuali e mediatiche, ha favorito l'ascesa di “uomini nuovi” capaci di parlare al popolo nella sua lingua, orientandolo ideologicamente e manovrandolo attraverso una sapiente quanto semplificata retorica.

    Il multiculturalismo è tramontato nell'indifferenza delle classi dirigenti europee, incapaci di riformarlo e di ottenere una vera integrazione tra fedi e culture diverse, un fallimento sancito senza versare una lacrima dal cancelliere tedesco Angela Merkel, dal premier conservatore inglese David Cameron, dal presidente francese Nicolas Sarkozy. La globalizzazione capitalista, con i suoi fenomeni speculativi, di cui a pagare i danni sono sempre stati i più poveri e i non garantiti, non è stata mitigata, favorendo l'avanzata delle "estreme" che oggi si ergono a paladine del vecchio welfare "rubato" ai nativi dagli immigrati. Gli elementi distorsivi del libero mercato che hanno portato al crack del 2008 non sono stati sanati e l’Occidente resta esposto a nuove temibili crisi di rigetto del capitalismo, con la differenza che stavolta potrebbe non esserci la BCE a garantire il salvataggio delle economie in fallimento. La guerriglia scoppiata ad Atene quando Bruxelles ha imposto una cura da cavallo alla Grecia per evitare il default è una conseguenza diretta dei tagli e del rigore che viene richiesto ai popoli europei, mentre a livello centrale si chiudono gli occhi sul problema delle grandi speculazioni finanziare capaci di gettare sul lastrico intere economie.

    L’islamofobia, infine, non stata un’invenzione degli xenofobi ma un problema generato dal rifiuto dei valori occidentali da parte dei nuovi arrivati, che ha impedito l'integrazione e favorito la nascita di enclave separate dal tessuto urbano, come avviene nelle grandi città del Nord Europa. Sarebbe stupido, in nome di un malinteso ideale laico (laicista), prendersela con milioni di persone di fede musulmana che vivono pregano e lavorano in pace, cercando di entrare nel nostro sistema e di accettarne le regole. Ma dopo gli attentati islamisti di Londra e Madrid non tutte le forze politiche, in particolare a sinistra, hanno saputo riconoscere il pericolo, né hanno posto al vertice dell’agenda la questione della sicurezza, intesa come difesa della democrazia liberale dai suoi nemici. Chi l'ha fatto, invece, spesso ha confuso i sintomi con i rimedi, esagerando nei modi e nei toni la risposta, e mettendo a repentaglio la privacy e le libertà individuali in cambio di una pericolosa "società del controllo".

    Come negli anni Trenta, la crisi economica, l'identificazione di una minoranza sociale come unica portatrice di tutti i mali, l'ascesa di leader populisti più amici di se stessi che del proprio popolo, sembra spianare la strada a nuove "dittature democratiche" che sfruttano i meccanismi liberali per imporsi politicamente (elezioni, parlamentarismo, presidenzialismo, eccetera). Una risorgenza su vasta scala del terrorismo islamico in Europa, così come una seconda grave crisi economica, potrebbero generare una escalation di violenza, razzismo e ribellismo sociale in grado di riesumare icone e organizzazioni politiche sconfitte dalla storia ma sempre pronte a tornare sulla scena "in guisa di farsa". Il tracollo dell'Unione europea non farebbe altro che accelerare questo decorso.

    In realtà quelli che stiamo evocando sono scenari verosimili ma eccessivamente pessimistici. Le odierne democrazie europee non sono paragonabili alla Repubblica di Weimar. Il moderno liberalismo, pur con tutte le sue debolezze e contraddizioni, possiede una serie di anticorpi in grado di rigettare vecchi mali cronici della storia del nostro continente. Negli anni Venti l’Europa usciva da un conflitto che aveva fatto dieci milioni di morti. La miseria, il revancismo, la violenza organizzata dalle milizie paramilitari che si fecero sponsor dei nuovi tiranni, rendono la “Guardia Magiara” ungherese di oggi, piuttosto che le “Camicie Verdi” della Lega Nord, dei gruppi tutto sommato folcloristici ed apparentemente innocui. C’è anche un altro fattore che non va sottovalutato. Per decenni l’estrema destra europea ha scontato l’opposizione di un “fronte repubblicano” (composto dai partiti tradizionali, liberali e socialisti) che faceva da argine ogni volta in cui le estreme minacciavano la democrazia attraverso il voto. Paradigmatico il caso francese, quando Chirac fu eletto con una percentuale bulgara per sconfiggere il “Napoleone” del Fronte Nazionale, Jean Marie Le Pen. Così l’estrema destra francese è rimasta per molto tempo relegata nell’angolo dell'agone politico. Aveva i numeri ma non la legittimazione democratica per farsi valere.

    Da quando alla guida partito è arrivata Marine, la figlia del patriarca, anche la "pericolosità" del Fronte si è progressivamente attutita. Nonostante abbia affermato che gli islamici oranti nelle piazze della Repubblica rappresentino una forma di occupazione simile a quella del nazismo, Marine Le Pen è riuscita a imporsi con una strategia più soft, in cui, attorno al core-bussiness del contrasto all'immigrazione, si sviluppano altre battaglie chiave come quella per il welfare ai francesi e un ritorno al protezionismo economico. Se da una parte questa impostazione ha costretto il presidente Sarkozy a rincorrere il Fronte sul tema dell’immigrazione (le recenti polemiche sul Trattato di Schengen con l’Italia), dall’altra ha rimesso in discussione l'utilità del “fronte repubblicano” considerando che, in un contesto in cui le differenze tra l’UMP e il Fronte tendono a scolorire, e nel più completo immobilismo delle sinistre, il “neofascismo” appare come uno spauracchio, un modo per rileggere la storia con gli occhiali di una volta ma senza confrontarsi con il composito mondo delle nuove destre di oggi.

    Un altro caso di scuola, da questo punto di vista, è proprio l’Italia. La Lega Nord delle origini era un movimento percorso da spinte secessioniste e sovversive, capace di raccogliere consenso e personale politico sia dall'estrema destra che dalla sinistra, cioè da tutti i delusi e i convertiti della politica italiana degli anni settanta. Ancora oggi, la Lega conserva alcuni tratti di quell’estremismo politico, ben visibili nella mole di Mario Borghezio, l’europarlamentare inventore dei “Volontari Verdi”. Borghezio, che ha dichiarato di aver militato nel movimento “Giovane Europa” fondato da Jean Thiriart (riconducibile all’ideologia della “terza posizione” e al nazionalismo rivoluzionario degli “strasseriani”), è stato rieletto alle Europee del 2009 con circa 50.000 preferenze. Ma riflettendoci su, questo leghista hard è stato confinato a Bruxelles per una sorta di contrappasso, mentre in Italia la Lega Nord diventava una forza sempre più "responsabile" e "di governo", assumendo anch'essa, come il Fronte Nazionale francese, dei tratti meno esasperati, parole d’ordine e classi dirigenti più presentabili (si pensi a Luca Zaia, l'attuale governatore della Regione Veneto). Di questo processo di sdoganamento della Lega va dato atto al premier Silvio Berlusconi, che ha permesso di seguire un percorso del genere anche alla destra e all'estrema destra italiana (da Fini a Storace), riammesse nel gioco democratico e contente di parteciparvi dopo gli anni bui del dissenso e dell'ostracismo della Prima Repubblica.

    Se il trend dovesse essere quello che abbiamo descritto, se cioè i partiti liberali e conservatori in Europa riuscissero ad assorbire le spinte delle estreme, delle formazioni ultranazionaliste e cristianiste, senza restarne vittima ma anzi sfruttando alcune di queste parole d’ordine in maniera più "morbida" e compatibile con la democrazia, le cose continueranno ad andare come sono sempre andate: una Unione fatta di stati che procedono in ordine sparso ma si compattano davanti all’urto della crisi economica; una generale mancanza di scopi ideali ed un relativismo che impediscono di fare i conti con i valori e le origini della nostra civiltà; l'assimilazione, a metà fra l'impaurito e il coatto, delle comunità immigrate venute a vivere nel vecchio continente. Non è un bel vedere, bisogna ammetterlo.

    Sic stantibus, la distanza e l’indifferenza della gente verso il ceto politico e i partiti tradizionali rimarranno immutate, con l'effetto di spingere il centrodestra a dire qualcosa “più di destra” e il centrosinistra qualcosa “più di sinistra”, un fenomeno di cui possiamo scorgere i segni nell’azione di governo dei più grandi Paesi europei. Le vecchie appartenenze ideologiche non sono andate in soffitta e la storia, a differenza di ciò che si pensava fino a pochi anni fa, non è finita. Certo, la tenuta e lo sviluppo della civiltà democratica e liberale in Occidente continua ad essere a rischio, com'è sempre stato, ma non così tanto da crollare come avvenne nella prima metà del XX secolo.

    Le "nuove destre" in Europa. Dove vanno, come cambiano | l'Occidentale

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    Predefinito Rif: L'ascesa della destra in Europa. Il punto della situazione

    "Difendiamo lo stato sociale e diciamo basta al multiculturalismo"


    Parla il leader dei Democratici Svedesi


    All'interno della nostra inchiesta sulle "nuove destre" in Europa, e sulla scia della Lettura annuale 2011 della fondazione Magna Carta tenuta da Geert Wilders, abbiamo intervistato il giovane leader dei "Democratici Svedesi", Jimmie Åkesson. A capo di un partito in crescita e dalla forte impronta nazionalista (i critici lo bollano come "estrema destra"), Åkesson ci spiega come stanno cambiando le destre nel nordeuropa, puntando essenzialmente su due parole d'ordine: la fine del multiculturalismo e una difesa incondizionata dello stato sociale dalla 'minaccia' degli immigrati.

    Alle elezioni del settembre scorso, i Democratici Svedesi hanno ottenuto 20 seggi in Parlamento. È stato un risultato storico. Il difficile forse comincia adesso. Quali sono i vostri obiettivi a breve termine?

    Sì, in un certo senso è incominciata la parte più difficile e gli ultimi sette mesi potrebbe essere definiti stimolanti ed educativi. Il nostro obiettivo a breve termine in Parlamento è portare avanti il delicato equilibrio tra il cercare di avere la più grande influenza politica possibile e agire in modo responsabile per evitare di mettere in difficoltà il governo di minoranza attualmente in carica.

    Politicamente oggi i Democratici Svedesi rappresentano un’alternativa tra il blocco di sinistra e l’Alleanza per la Svezia. In futuro potreste pensare ad allearvi con le destre o le posizioni divergenti soprattutto in fatto di immigrazione rischiano di impedirvi di trovare un punto d’equilibrio?

    È molto difficile dire qualcosa su quello che accadrà in futuro poiché dipende quasi esclusivamente dagli altri partiti. I Democratici Svedesi sono sempre stati aperti ad alleanze con tutte le altre formazioni, anche se una collaborazione è più probabile con l’Alleanza per la Svezia piuttosto che con i partiti di sinistra, a causa dell’atteggiamento di chiusura che hanno nei nostri confronti.

    La campagna elettorale dei Democratici Svedesi è stata incentrata sulla lotta all’immigrazione e al multiculturalismo. Lei pensa che gli immigrati rappresentino una minaccia per la società svedese? E perché?

    Gli immigrati sono individui e noi non consideriamo gli individui una minaccia. La nostra critica è rivolta al multiculturalismo e alla politica dell’immigrazione di massa che hanno gli altri partiti. Pensiamo che lo stato sociale costruito durante gran parte del secolo scorso è qualcosa di cui essere fieri e su cui si deve puntare anche per il futuro. Noi crediamo che una società di questo tipo, basata su valori comuni e su un sentimento di solidarietà al suo interno, non possa essere creata, né difesa, senza una certa dose di identità collettiva e culturale tra i cittadini.

    Se le cose non cambiano, come crede che sarà la Svezia tra 20 anni?


    Se non fermiamo l’immigrazione di massa, credo che la Svezia sarà ovviamente molto diversa tra 20 anni. Per fare un esempio non credo che saremo in grado di avere una sanità pubblica o scuole dalla qualità accettabile.

    E come vorreste la Svezia tra 20 anni?


    Se dipendesse da noi, la Svezia in 20 anni sarebbe di nuovo una società di cui essere fieri. Una nazione dove nessuno è lasciato indietro e alla quale ognuno è orgoglioso di contribuire. Una società di individui liberi costruita su una solida base di valori occidentali e svedesi.

    Dopo il vostro successo elettorale, molta gente è scesa in piazza per dichiarare che la Svezia non è xenofoba. Cosa risponde a coloro che ritengono il suo un partito xenofobo?

    Quando la gente si trova a corto di argomenti tende a ricorrere agli insulti, purtroppo. Mi dispiace davvero per coloro che non riescono ad accettare che altre persone possano avere diversi punti di vista.

    I democratici svedesi criticano anche la presenza della Svezia nell’Unione europea. Cosa c’è che non va a Bruxelles e che vantaggi avrebbe la Svezia nello sganciarsi dalla comunità?

    Noi crediamo in stati europei liberi e indipendenti, perciò siamo contrari all’aspetto federalista dell’Unione europea che allontana il potere dai cittadini. Vogliamo che la Svezia si ritiri dall’Unione e stringa rapporti bilaterali sul libero mercato e su altri temi all’interno dell’Europa, proprio come fanno oggi Norvegia e Svizzera.

    Democratici svedesi a Stoccolma. Veri Finlandesi a Helsinki. Partito popolare Danese a Copenhagen. Partito del Progresso a Oslo: come interpreta questa crescita dei partiti di destra? Che sta succedendo in Scandinavia e più in generale in Europa?


    Credo che la tendenza politica a cui assistiamo nel Nord Europa sia il naturale sviluppo del grande fallimento del multiculturalismo. Il resto d’Europa ha già sperimentato questo percorso 5, 10 o 15 anni fa. Le nostre prese di posizione contro l’immigrazione di massa e contro il multiculturalismo possono essere ritenute controverse nel Nord Europa, ma sono molto più accettate nell’Europa centrale e meridionale.


    "Difendiamo lo stato sociale e diciamo basta al multiculturalismo" | l'Occidentale

 

 

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