Da Hiroshima a Fukushima
Il Primo Ministro dello Stato giapponese ha affermato che la catastrofe terremoto, lo tsunami e la perdita di controllo sui reattori atomici, che piomba sul paese mentre è al fondo di una lunga depressione economica della quale non vede la fine, è la peggiore dalla Seconda Guerra mondiale e dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki.

Stavolta ad irraggiare i giapponesi è il capitale nazionale, però.

* * *

Le placche nelle quali si suddivide la crosta terrestre sono in movimento. Si accumulano così tensioni ai loro contorni, in corrispondenza delle faglie che le dividono, lunghe centinaia di chilometri. Quella energia elastica, quando si arriva alla rottura, si scarica nei terremoti. Per il mutuo sforzo di compressione una zolla è spinta sotto l’altra, con il fenomeno chiamato subduzione: quella che comprende il Giappone sta scivolando sopra alla placca del Pacifico.

L’Arcipelago si colloca sulla cosiddetta “cintura di fuoco”, i circa 40 mila chilometri del periplo di quell’oceano, che comprende molte fosse oceaniche e catene montuose vulcaniche, ed in particolare sul congiungersi di quattro diverse placche. Una zona quindi ad altissimo rischio sismico e di giganteschi tsunami: la maggior parte dei terremoti che avvengono sulla Terra, circa l’80%, si generano in quest’area, ed è risaputo da sempre il pericolo che vi incombe.

Il Giappone nel solo secolo scorso ne ha subiti due di grosse dimensioni: il primo, il 1 settembre 1923, di magnitudo fra 7,9 e l’8,4, colpì la pianura del Kanto, sull’isola maggiore del Honshu, con epicentro sotto la baia di Sagami. La scossa durò fino a 10 minuti e distrusse Tokio, il Porto di Yokohama, le città di Chiba, Kanagawa e Shizuoka e tutta la regione del Kanto. Il bilancio fu di oltre 177.000 morti. Un imponente incendio sviluppatosi dopo la scossa ridusse in cenere intere città. Il secondo, avvenuto la mattina del 17 gennaio 1995, fu a Kobe, della potenza di 6,9 gradi, causò 6.434 morti. La distruzione degli edifici fu immensa, oltre centomila edifici furono rasi al suolo e mezzo milione danneggiati.

Solo negli ultimi due anni si sono registrati nel Paese 5 o 6 terremoti di magnitudo superiore a 6.

Nel 2007 un terremoto già aveva danneggiato la centrale nucleare di Kashiwazaki-Kariwa con un dispersione di nuclei radioattivi dei quali mai si comunicò natura e quantità.

Lo scorso 9 marzo un terremoto di magnitudo 7,3 si era registrato nel nord del paese, con epicentro a 32 chilometri di profondità sotto il fondo del Pacifico e 130 al largo delle coste settentrionali dell’isola di Honshu. La Japan Metereological Agency aveva lanciato l’allarme maremoto, poi rientrato. Due giorni dopo, l’11 marzo, si è avuto uno dei massimi episodi sismici mai registrati, della durata di due minuti. L’ipocentro è stato sotto il fondo del mare, a circa 120 chilometri dalla costa nord-est del Giappone. Il brusco spostamento del fondale ha provocato uno tsunami, una gigantesca ondata alta fino a 15 metri che si è abbattuta sulle coste.

* * *

Nella storia non recente del Giappone il problema di costruire abitazioni adatte a resistere alle sollecitazioni sismiche fu trovato nell’impiego del legno, materiale ad alta resistenza a parità di massa, con ottima risposta elastica e che consente un efficace incastro fra le membrature.

Il capitalismo, distrutta la maggior parte delle foreste del pianeta, è ricorso a materiali meno costosi e che richiedono minore lavorazione e meno qualificata, prevalentemente il calcestruzzo armato, che consente edifici di molti piani, necessari nella società borghese-fondiaria per meglio compensare e ripartire la rendita del suolo, ma che, pesante, peggio risponde alle accelerazioni.

Non che sia tecnicamente impossibile costruire anche in cemento armato, o meglio ancora in acciaio, edifici resistenti al sisma. Lo avrebbe dimostrato, dicevano, il capitalismo proprio in Giappone, il quale, dopo la lezione del 1923, e a differenza che in Europa ed in America, si sarebbe dato a costruire infrastrutture ed abitazioni, perfino grattacieli, dimensionati e conformati per far fronte ai sussulti della terra. Forse questo è stato vero per alcuni decenni, quelli della potente ascesa del giovane capitalismo del Sol levante. Alla data del terremoto del 1995 quel ciclo e quel mito sono ormai chiusi.

* * *

Ma, stavolta, più che dal terremoto, le vittime sono state provocate dallo tsunami: si valuta più di diecimila morti e mezzo milione di senza casa.

Una, fra le innumeri, evidente dimostrazione della incapacità del capitalismo a distribuire razionalmente l’insediamento umano sul pianeta sono i centri abitati sulle coste dell’oceano Pacifico. La indubitata previsione che entro un non lungo numero di anni un potente maremoto si sarebbe abbattuto su quelle spiagge non ha impedito che città come Sendai e molte altre minori venissero a stiparsi proprio negli stretti fondovalle aperti al mare e di poco su questo più alti, che ben si sapeva che entro la successiva generazione sarebbero stati spazzati dall’ondata.

Bastava costruire appena sopra, o più indietro, lasciando in basso e sulla riviera solo le necessarie attrezzature marittime, portuali e di magazzinaggio.

Ma il capitalismo lo impedisce, perché è guidato dal saggio del profitto immediato. Per la legge della selezione naturale, cioè, della natura del capitale, il capitalista che non si conforma alla ricerca del massimo saggio del profitto, qui ed oggi, con qualunque mezzo e con qualunque conseguenza sul futuro o altrove, soccombe.

Costruire sufficientemente distante dalla battigia o pochi metri più in alto avrebbe aumentato i costi, di trasporto delle cose e di trasferimento dei lavoratori. Differenza molto piccola e certo infinitamente minore di lutti e delle sofferenze per il cataclisma e della fatica per tutto ricostruire, ma quello che conta è il qui ed ora ed è quella pur minima differenza di costi che, in particolare nella recessione e declino attuali, determina la sopravvivenza dell’uno e la morte dell’altro capitale. Qui la chiave di tutta l’urbanistica contemporanea, ovvero, della sua assenza.


Non si o no al nucleare, si o no al capitalismo

In merito abbiamo da dire la nostra, sintetizzata in questo titolo.

La produzione di energia tramite la fissione dell’atomo si basa sulla proprietà del nucleo dell’uranio 235 – un isotopo del normale uranio 238 presente in natura, e che ne costituisce lo 0,7% – quando colpito da un neutrone, di spontaneamente dividersi in un atomo di bario 144 ed uno di kripton 89 e di emettere 2 o 3 altri neutroni. In questa reazione c’è una perdita di circa l’un percento della massa, che si trasforma in energia: luce e calore.

Se i nuovi neutroni emessi vanno ad urtare il nucleo di un altro atomo di uranio 235 la reazione si rinnova da sé e non vi è più bisogno di fornire neutroni dall’esterno perché la produzione di energia si mantenga spontaneamente. Per raffrenare o quasi interrompere il processo occorre impedire che i neutroni emessi colpiscano altri atomi, il che si ottiene interponendo fra i blocchi di uranio un materiale che assorbe i neutroni, come per esempio la grafite.

La reazione è la medesima che fu utilizzata per la bomba che il 6 agosto 1945 fu sganciata e fatta esplodere 500 metri sopra Hiroshima. Tre giorni dopo, su Nagasaki se ne sperimentò una che invece utilizzava un’altra reazione nucleare, quella che parte dal plutonio 239. I morti, come sappiamo, furono dell’ordine delle centinaia di migliaia.

Dopo la guerra l’impiego delle reazioni del nucleo per produrre energia elettrica è stato relativamente semplice e i successivi diversi tipi di reattore che si sono venuti a proporre, fino a quelli oggi in progetto, hanno presentato poche significative varianti e migliorie. Il cosiddetto “combustibile”, cioè l’uranio 235, in forma di barre, viene inserito in una caldaia piena d’acqua; la pressione del vapore prodotto muove una turbina, che a sua volta fa girare un alternatore; il vapore, utilizzando l’acqua di un lago o del mare, viene quindi raffreddato per ritrasformarlo allo stato liquido prima di essere reimmesso in caldaia.

Gli inconvenienti nella produzione di energia nucleare sono che la reazione base non si risolve e si ferma solo al bario e al kripton ma continua e produce in cascata molti altri elementi, in proporzioni diverse, alcuni dei quali sono a loro volta radioattivi. Di questi alcuni hanno vita effimera ma altri perdono la loro radioattività in tempi lunghissimi, e non solo alla scala minima del capitalismo ma rispetto alla vita stessa sul nostro pianeta. Di questi, in particolare, sono dannosi per la salute delle specie animali, con meccanismi diversi: lo iodio 131, che dimezza la sua radioattività in 8 giorni, il cesio 137 e lo stronzio 90, che si dimezzano in 30 anni, e il plutonio 239, praticamente inestinguibile.

Una eventuale fessurazione della caldaia o, peggio, il suo lacerarsi a seguito di esplosione, come avvenne a Cernobyl e con incendio della grafite, verrebbe a liberare questi veleni nell’atmosfera, nei fiumi o negli oceani. Un ulteriore riscaldamento provocherebbe la fusione delle barre di uranio e plutonio le quali, penetrata la vasca di contenimento, si disperderebbero nel terreno.

Altra grave incognita è dove imprigionare le “ceneri”, cioè il “combustibile” esaurito, che rimarranno alcune per sempre radioattive e pericolose ai viventi. Il problema è facilitato dalla non grande quantità del materiale da stivare, circa 3 metri cubi annui per ogni reattore, ma, di fatto, ancora nessun paese ha trovato un luogo adatto dove dargli definitiva sistemazione, e ormai da 50 anni i fusti radioattivi aspettano la soluzione in magazzini provvisori.

D’altro lato viene fatto osservare che, rispetto al ricorso ai combustibili fossili, carbone, petrolio e metano, patrimonio di questi due ultimi che in un secolo il capitalismo ha sconsideratamente quasi dilapidato, l’energia nucleare, da una parte utilizza minerali più poveri, presenti in quantità e facilmente estraibili, dall’altra non produce CO2, la cui presenza nell’atmosfera si ritiene che venga a modificare il clima.

È evidente che, per gli enormi interessi che vi incombono, petrolieri, industriali eccetera, dubitiamo che il capitalismo possa riuscire a conoscere la delicata e complessa dinamica del clima, nel quale si sovrappongono fenomeni a ciclo brevissimo ad altri di molto più lunghi respiro, nonché la reale dimensione del suo mutare, ed escludiamo senz’altro che possa volere e potere modificare il suo corso, anche solo per mitigare gli effetti su di esso della sua congenita imprevidenza ed anarchia.

* * *

Queste, in estrema sintesi, le basi tecniche su cui si basa la produzione di energia di origine nucleare e intorno alle quali si svolge un inutile dibattito fra i suoi sostenitori e i suoi avversari. Inutile perché, di fatto, a decidere sarà Sua Maestà il Capitale, in un compromesso fra le varie lobby industriali, in un intreccio di interessi aziendali, geopolitici, strategici, che determinano comportamenti contrastanti, e anche sotto il condizionamento di fattori d’ordine militare. Ma il criterio di scelta che alla fine andrà ad imporsi sarà quello del costo minimo. Questo è il dogma che sovrasta tutti i contendenti, quando gli “ecologisti” per primi si affannano a dimostrare che non è vero che il “nucleare” costa meno.

Esempio: esiste un progetto di reattore, studiato al Cern e che porta il nome del fisico Rubbia, che utilizza il torio al posto dell’uranio e che non presenta il problema dell’autoinnesco, cioè che si spenge solo staccandogli la spina, oltre a produrre residui radioattivi di minore pericolosità. Ha un solo difetto, costa di più, e non ce lo possiamo permettere. Quella del capitale è la società della miseria.

Il merito storico del capitalismo è aver enormemente ridotto il costo dei beni, in termine di ore di lavoro necessarie a produrli. Per scaldar male una stanza d’inverno occorreva raccoglier legna tutto l’anno. Passati oggi due secoli – durante i quali, per ridurre i costi, che a scala aziendale significa aumentare i profitti, il capitalismo ha distrutto tutto quello che poteva distruggere – ormai il capitalismo produce troppo di tutto. Anche di energia.

L’energia è una merce, che ha il suo valore ed il suo mercato. I produttori di energia sono fra loro in concorrenza e fra loro prevale chi vende al minor prezzo. Ogni altra considerazione, in questa società, o è frutto di dabbenaggine o di malafede. Di energia c’è sovrapproduzione: non è che manca l’energia, manca ad un certo prezzo. In realtà in quasi tutti i paesi, e globalmente, la capacità produttiva delle centrali è superiore alla richiesta, quindi, se non per il capitale, il problema non esiste.

Nel comunismo, prima società umana che esce dalla sua preistoria, cessa l’affanno per la riduzione del costo per unità di prodotto, che si inverte nella ricerca della soluzione migliore, nella scelta della quale il fabbisogno di tempo di lavoro sarà uno dei fattori di minore importanza. Ridotte tutte le produzioni inutili e gli sprechi enormi del capitalismo, anche di energia, basterà per il soddisfacimento degli essenziali bisogni umani un tempo di lavoro molto ridotto, già oggi un paio d’ore al giorno, con le restanti energie ed interessi spontaneamente, liberamente e gratuitamente esplicabili, in ogni foggia e modo, appunto alla ricerca collettiva delle soluzioni migliori, in tutti i sensi, per i vivi e i nascituri, e, in generale, per tutte le forme di vita nell’universo mondo.

* * *

Tornando al Giappone, l’incidente occorso ai reattori della centrale di Fukushima è invece una prova del procedere cieco e criminale del capitalismo, anche in una delle sue società più evolute e mature. Anzi, diremmo, le due cose non vanno in senso inverso ma parallelo: più scienza e tecnica moderna, tanto più disprezzo per ogni ben prevedere, ben costruire e ben manutenere. Il fine primo della scienza e della tecnica borghesi è la riduzione dei costi: la tecnica migliore dà il prodotto peggiore.

Gran parte di quello che succede a Fukushima è segreto di Stato, e di classe, e come in una guerra le informazioni sono filtrate. La guerra, all’interno di tutti i paesi, del capitale contro la classe di chi lavora: la dittatura del capitale.

L’essenziale però è ugualmente ben leggibile.

Se c’è un posto al mondo dove non collocare un impianto vulnerabile e critico come una centrale atomica è nelle regioni ad altissima sismicità: in queste ne troviamo oggi 12 in Giappone, 3 a Taiwan, 1 in Cina, 1 in Pakistan, 1 in Iran, 2 in California. In più il Giappone, con 128 milioni di abitanti ed una densità media di 340 per chilometro quadro, è fra i paesi più densamente popolati.

Il capitalismo giapponese è arrivato ad essere in questo interguerra la terza potenza mondiale, superata da poco da quella cinese. Disponendo di fonti interne per produrre solo il 16% dell’energia è divenuto il più grande importatore al mondo di gas naturale liquefatto e di carbone e il terzo di petrolio. Per questo motivo la borghesia giapponese ha cercato con il nucleare di diminuire la sua dipendenza energetica.

Qui gioca la antistorica divisione in nazioni, portato e limite insuperabile del capitalismo, delle quali ognuna, nemica alle altre, deve provvedere a sé. Ma lo iodio immesso da Fukushima nell’oceano non si ferma alla dogana.

Però, costruire non a ridosso delle città, come oggi, comporterebbe lunghe linee di trasmissione dell’energia, che disperdono troppo, dicono. Nel frattempo, liberatici dal calcolo monetario, potrebbe soccorrere il puro idrogeno, l’elemento unitario, prodotto in una grande centrale nel deserto e distribuito poi ovunque occorre.

Non conosciamo le condizioni di manutenzione e di conservazione dell’impianto di Fukushima, costruito nel 1970, ma sappiamo che le stesse autorità del Paese ne avevano da tempo deciso la chiusura. In Giappone nel prossimo decennio 18 reattori, tra cui 5 a Fukushima, arriveranno all’età di quarant’anni, considerato il limite della vita di queste strutture, nonostante ci sia chi li ritiene pericolosi ben da prima. A fronte delle spese per costruire nuovi reattori i governi autorizzano il rischio di allungarne la vita, nonostante le leggi ne prevederebbero la chiusa. Il vantaggio, in Giappone e fuori, è dei produttori di elettricità: c’è tutto l’interesse da parte di chi gestisce questi impianti ad allungarne la durata che, già ammortizzati, portano solo profitti, oltre a rimandare gli enormi costi per il loro smantellamento.

A Fukushima al verificarsi delle scosse le barre di grafite sono scese al loro posto, ma, mancata l’alimentazione elettrica, fatto che doveva certo essere previsto, si sono fermate le pompe che circolano l’acqua, ancora necessarie per disperdere all’esterno il calore della reazione residua. Nemmeno si è avviato l’impianto di emergenza, mosso da un generatore autonomo. Nessun altro apparato di raffreddamento era predisposto. Sarebbe bastato, come installato presso altre centrali, un semplice circuito a termosifone, a funzionamento passivo, utilizzante la stessa energia termica del nucleo; oppure una condotta a gravità che attinga ad un serbatoio in collina. A questo punto i tecnici non hanno potuto far altro che fuggire, ed i due giovanissimi che sono rimasti a cercare di evitare il disastro l’hanno pagato con la vita.

Analoghi problemi al raffreddamento e danni si sono avuti in entrambe le centrali presso Fukushima, distanti 11 chilometri fra loro, e a più d’uno dei loro reattori, il che conferma la non casualità dell’evento.

Per ammissione della stessa società che gestisce l’impianto la situazione è uscita da ogni controllo, come ben dimostra il ricorso a getti d’acqua da lontano e dagli elicotteri per cercare di contenere la fusione delle barre di uranio ed evitare l’esplosione dell’idrogeno con l’ossigeno che si producono dalla dissociazione dell’acqua ad alta temperatura, con conseguente rottura dell’involucro del reattore.

Inoltre nelle piscine di immagazzinamento si trovano le barre esauste, ricche di plutonio, e in uno dei reattori si “bruciava” il cosiddetto Mox, una miscela di uranio naturale e plutonio.

L’acqua di raffreddamento gettata da fuori e quella uscita dal circuito primario, contenente elementi radioattivi, si è raccolta nelle vasche e nelle trincee di sicurezza. Da qui ha trovato una via al mare, vicinissimo.

Ad oggi è stata evacuata tutta la popolazione per un raggio di 20 chilometri, per altri 10 si prescrive di chiudersi in casa e calafatare porte e finestre. Dall’alto, le anime degli antenati hanno girato il vento verso l’oceano, spingendo, non a caso, il carico radioattivo sulla americana portaerei Ronald Regan, che ha presto invertito la rotta.

Oltre questo raggio, a prestar fede alle rassicurazioni ufficiali, l’inquinamento da elementi radioattivi nell’aria non sarebbe grave, dopo i picchi in corrispondenza delle esplosioni intorno ai reattori e dello scarico delle valvole di sovrappressione. Sicuro però che tutto l’impianto e per un raggio notevole diverrà terra proibita, e sicuramente è molto forte l’inquinamento del mare, con conseguenze che oggi nessuno può prevedere sulla vita marina e sulla economia e sulla dieta dei giapponesi e dei popoli del Pacifico occidentale.

* * *

Si capisce, noi non possiamo qui dirimere la questione “nucleare si o nucleare no”, compito che si porrà, forse, già la prossima generazione che, spezzato via questo putrido sistema di produzione, potrà allora decidere se utilizzare centrali nucleari o farne a meno. Oppure decidere di non decidere, spengere, per quanto possibile, le centrali esistenti e, nel dubbio, aspettare di sapere.

Se la preistoria della specie umana inizia con la scoperta del fuoco, che la distingue dagli altri animali, il suo vero ingresso nella storia, e suo pieno dispiegarsi nel comunismo, potrebbe esser segnato dal dominio su una forza diversa e superiore, quella che illumina il Sole e le stelle.

Ma l’utilizzo da parte dell’uomo della fissione, e domani della fusione nucleare, richiede, impone, il comunismo. Solo allora sarà possibile pensare ad un piano unico di rifornimenti, energia compresa, e alla progettazione e conduzione di centrali in modo non colpevolmente insicuro. Possiamo intanto prevedere che per alcuni decenni basterà fermare molte delle centrali esistenti in quanto non avremo bisogno di gran parte delle merci inutili che vengono vomitate oggi dalle industrie e che la razionale distribuzione delle produzioni porterà ad una drastica diminuzione dei trasporti; che la costruzione delle abitazioni sarà fatta in tutta ricchezza e non sotto la sferza del risparmio, con la giusta attenzione alla dispersione di calore. Tutto questo porterà ad una riduzione della richiesta di energia.

Non esiste invece una soluzione per la presente società, stretta tra l’obbligo del profitto e lo svilupparsi delle forze titaniche che ha evocato: sovrappopolazione, sovrabbondanza di merci, degrado forse irrecuperabile dell’ambiente in senso lato, insufficienza delle risorse naturali, presto anche degli alimenti di base (le scorte diminuiscono a vista d’occhio, gli analisti dicono che il prossimo anno di cattivi raccolti determinerà un colossale disastro alimentare).

È utopistico pensare di risolvere la questione nel capitalismo. I movimenti ambientalisti sono ineluttabilmente reazionari in quanto vorrebbero rappezzare questo sistema di produzione, che per sua natura è irriformabile. Solo il proletariato, una volta preso il potere, con metodi rivoluzionari, sarà riformista, nel senso che costruirà una nuova società fatta a misura dell’uomo e della natura. Oggi sia in Giappone, che già piange più di diecimila morti, sia nel mondo le reazioni degli abitanti sono state assai modeste. Perché è a tutti evidente che all’interno del capitalismo, la presente sistemazione è la migliore possibile. Il metodo democratico confermerà sempre il capitalismo e tutti i suoi eccessi.

Noi comunisti attendiamo che la latente forza del proletariato, che si accumula nella frizione fra le geologiche placche sociali, si risveglierà travolgendo con un’onda gigantesca la insipienza e la criminale stupidità della società borghese. È questo lo tsunami che attendiamo!

Partito Comunista Internazionale