Petraeus alla CIA è l’uomo giusto al posto giusto


È un lavoro sporco, ma qualcuno deve farlo. Di solito ci pensa la CIA, Central Intelligence Agency, la “stanza dei bottoni” del potere nascosto statunitense, o tale nell’immaginario comune sin troppo debitore dei “miti” di Hollywood. Per certo, comunque, la CIA non è esattamente il beniamino dei conservatori americani, anche se da alcune operazioni culturali di punta del conservatorismo dei decenni passati la CIA non è stata, menomale, del tutto estranea.

Del resto, nella Destra americana non è gettonatissimo nemmeno l’FBI. In entrambi i casi, infatti, il conservatore medio guarda con almeno un po’ di sospetto a queste superagenzie governative, potenti, costosissime (per le tasche dei contribuenti), dalla giurisdizione facile a diventare illimitata e impenetrabili. Il conservatore medio teme sempre lo Stato attivista e le sue ramificazioni intraprendenti. Ama molto poco quel che non vede e non tocca con mano. Detesta obbedire a livelli di potere troppo distanti dal proprio orticello. Trema ogniqualvolta sopra il suo collo si mette ad alitare una iperstruttura che possa anche solo in teoria mettere in discussione i suoi sacrosanti e inviolabili diritti costituzionali, le libertà per cui hanno combattuto “i padri” sin all’origine della nazione stessa. E così storce il naso appena vede in giro qualcosa che sa di “federale”, ovvero, nel contesto statunitense, di “centrale”, talvolta persino di “centralistico”.

Epperò occorre farci la tara. Strutture come CIA ed FBI non saranno dei campioni di simpatia, ma ciò non significa che siano allora quei mostri senza volto che la letteratura complottista ama descrivere.

Ora, che adesso al vertice dell’intelligence statunitense sieda il generale a quattro stelle David Howell Petraeus è un buona, anzi ottima notizia. Da spiegare, a partire dall’avvicendamento con il suo predecessore, Leon Edward Panetta, che in contemporanea è andato a sostituire Robert Michael Gates al ministero della Difesa.

Panetta è un Democratico di nomina obamiana che alla CIA non ha certo fatto male, soprattutto perché non si è allontanato troppo dal sentiero della “Dottrina Bush jr.”. Al Pentagono sostituisce il Repubblicano di nomina bushana Gates che Barack Hussein Obama non ha rimosso insediandosi alla Casa Bianca, e quindi va a rafforzare una continuità che era già corposa con il suo predecessore. In questo modo il vertice della CIA si apre a Petraeus, il generale delle guerre di George W. Bush jr. – che non sono quelle di Obama e nemmeno quelle del vecchio Bill Clinton ‒, il quale a sua volta lascia spazio sui teatri della guerra militare contro il terrorismo internazionale a un suo delfino ‒ cioè a un altro protagonista delle guerre di Bush, che son sempre diverse da quelle di Obama, ma che evidentemente sui fronti seri non sono andate fuori moda nemmeno oggi ‒, ovvero il generale dei marine in Iraq John Allen. Alla fin della fiera, su questi piani, l’“antico regime” bushano resta tutto sommato in sella. Obama non saprebbe come fare senza.

Qua sopra ho appena scritto «guerra militare al terrorismo internazionale» e l’ho fatto consapevolmente: di guerra al terrorismo, infatti, ve n’è pure un’altra, non militare ‒ o forse oggi si direbbe “diversamente militare” ‒, ed è la guerra delle spie. Certo, la sua guerra nascosta e caldamente fredda (visto che non esclude mai né per principio né per pratica le armi e i contingenti militari, benché li includa in modo differente dalla guerra nel senso classico e canonico) non è una novità, ma oggi questo aspetto è innegabilmente più a tema e a regime che mai. È qui, dunque, che il valore dell’arrivo di Petraeus alla CIA si fa inestimabile.

Il generale neonominato a capo della sicurezza nazionale e delle barbe finte vanta un curriculum vitae lungo e ricco così, nonché esperienza da vendere. Da questo punto di vista, nessuno gli bagna il naso. Partito dalla Bosnia, è arrivato in Afghanistan passando da Haiti, Kuwait e ovviamente Iraq. Ha comandato tutto e tutti. In Iraq è stato il protagonista del famoso e fortunato surge del 2007 che, portando a un rinnovato massiccio dispiegamento dei servicemen in campo, ha conseguito successi militari netti. In Afghanistan pure, e Obama lo ha voluto giocoforza lì proprio per via di quei precedenti virtuosi.

Alla CIA, Petraeus, questo Petraeus, è insomma l’uomo giusto al posto giusto. Come, si dirà, un militare in un posto così? Assolutamente sì. Vediamo perché.

Il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti oggi, dopo la “Guerra fredda”, è il terrorismo internazionale. Nello scenario successivo alla “Guerra fredda” il terrorismo internazionale si presenta però articolato in due macro-opzioni. C’è «un vecchio terrorismo che mescolava islam, anticolonialismo e marxismo» e c’è «il nuovo terrorismo il cui tipo è al-Qa'ida, la cui logica obbedisce a un progetto preciso che fa riferimento esclusivamente all'ultrafondamentalismo islamico e al sogno di un nuovo califfato».

Il primo è quello convissuto con la “Guerra fredda”, e magari da essa strumentalizzato; il secondo quello emergente dopo la “Guerra fredda”. Per il primo, il riferimento all’islam è più teorico che pratico, più culturale che religioso, più propagandistico che sostanziale; del secondo, l’islam, politicizzato, è la matrice.

Del primo «è stato il punto di riferimento» un Muhammar Gheddafi in Libia fino all’Undici Settembre ed esempi lampanti, pur se diversi, sia il mondo ruotante attorno a Yasser Arafat (1929-2004), all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e alla galassia dell’ “irredentismo” palestinese, sia la Siria della “dinastia” degli el-Asad. Del secondo è punta di diamante reale e simbolica la strategia qaidista «che alla fine aspira a rovesciare i regimi» mediorientali e nordafricani «considerati non abbastanza islamici e di oggettivo ostacolo al califfato».

Il primo sta scolorando perché storicamente sconfitto nella sua pretesa “laica”, il secondo cresce.

Il primo pesca nella medesima mentalità che ha generato i regimi dispotici del Medioriente e del Nordafrica che del nazionalismo, del panarabismo e del socialismo (o nazionalsocialismo) arabo hanno fatto una bandiera, pur nelle forti differenze, e viene ora travolto dalla caduta in disgrazia delle prospettive di quegli stessi regimi con cui ovviamente non coincide ma con cui certamente convive (il coinvolgimento attivo e convinto nel “vecchio terrorismo” dei regimi arabi più rispettabili delle organizzazioni terroristiche seppur non democratici resta infatti ancora tutto da sviscerare per bene). Il secondo a quel mondo ha dichiarato una “guerra civile” senza quartiere che costituisce la strategia numero uno della prospettiva qaidista e di cui l’inimicizia all’Occidente è di fatto, per quanto grave e sanguinosa, un prodotto secondario.

Quindi, se il grande nemico degli USA dopo la “Guerra fredda” è il terrorismo internazionale, lo è nella versione nuova, della vecchia restando certamente attivi elementi e cellule però inesorabilmente avviato sul viale del tramonto.

La sconfitta storica della prospettiva araba “laica”, ha infatti acceso le polveri del fanatismo religioso islamico il quale sul piano della strategia militare presenta oggi due facce ben simboleggiate da un Hamas e, ancora una volta, dall’immancabile al-Qa’ida: infatti, «non esiste un fronte unito» del nuovo terrorismo ‒ che pur appunto si differenzia dal vecchio e anzi lo contrasta in una ulteriore, ennesima “guerra civile” ‒ «dove Hamas e al-Qa’ida “sono tutti la stessa cosa”. Non è così, e la distinzione ‒ che non manca di ricordare quella all’interno del comunismo fra il “comunismo in un solo Paese” di Iosif Stalin (1878-1953) e la rivoluzione permanente e globale di Lev Trotsky (1879-1940) ‒ è fra jihad locale e jihad globale».

Questo ci riporta quindi finalmente a Petraeus. Perché se il terrorismo internazionale vincente e quindi pericoloso nel dopo “Guerra fredda” è quello del modello al-Qa’ida, è il nodo al-Qa’ida il problema cogente da affrontare accuratamente. Bella scoperta, si dirà. Mica tanto: perché questo martellante nodo al-Qa’ida rimanda più alla questione intelligence che alla questione militare in senso stretto, cosa che non sempre appare evidente nelle rappresentazioni divulgative.

Quella che un giorno sarà al-Qa’ida, infatti, nasce nel milieu creato dai servizi segreti pakistani durante la guerra di liberazione antisovietica combattuta dai mujaheddin in afghanistan. Non accadde affatto che, come troppi insulsamente ancora ripetono, gli USA armarono stupidamente la mano che poi si è ritorta contro di loro, finanziando bovinamente la guerra anticomunista. Fu invece che il Pakistan ‒ la sua regia politica e i suoi strumenti di spionaggio, l’Inter-Services Intelligence ‒ operò per anni sapientemente onde dividere la resistenza afghana, finanziarne con i dollari americani una parte ai danni di un’altra, mettere in cattiva luce e fuori gioco una componente esaltando strategicamente l’altra.

Fu a quel tempo che i servizi segreti pakistani (non gli USA) crearono i futuri talebani, comprensivi di un mullah Omar. Furono loro a screditare e a combattere le organizzazioni di mujaheddin non islamiste. Fu il Pakistan a creare le strutture iniziali di al-Qa’ida, accogliendo di buon grado la “legione straniera” dei militanti sauditi che Riad, temendone la facinorosità, non amava ospitare sul propri territorio pur non disprezzandone affatto (anzi applicandola in prima persona seppur con altri mezzi) la prospettiva ultrafondamentalista.

Insomma, al-Qa’ida non sarebbe mai esistita senza l’alacre operazione d’intelligence del Pakistan, che all’organizzazione di bin Laden regalò una patria in Afghnaistan dopo averla strappata militarmente metro dopo metro a ben altri mujaheddin, pure ma diversamente islamici.

Con un formula forse un poco riduttiva ma per certo non falsa, si potrebbe dire che il terrorismo jihadista internazionale è un figlio legittimo degli 007 con più che la sola licenza di uccidere d’Islamabad, senza che questo turbi il fatto che forse, soprattutto all’inizio, il Pakistan sia stato più un fautore dello jihad locale contro l’odiato nemico indiano che un paladino del califfato mondiale.

Via trame e intelligence, lo stesso Pakistan che ha creato talebani e jihadismo qaidista è stato il cuore di un traffico internazionale di armi che ha alimentato le mille guerriglie islamiste del mondo e che si è sviluppato attraverso alleati “insospettabili” d’area (basi logistiche in Paesi più rispettabili delle bande terroristiche) e pure in Occidente. È il pase della bomba atomica islamica, il primo e l’unico (?), i cui segreti ha però sparso ovunque, dall’Iran sciita (attraverso cui si mette mando pure sulla Siria dei despoti ipersciiti alauiti e da lì all’Hamas sunnita e all’Ezbollah libanese) alla Libia di ieri (finché Gheddafi ha scelto la “pensione” dal terrorismo vecchio stile), e nella direzione opposta verso la laica, laicissima, comunista come pochi Corea del Nord.

Sì, il mondo di oggi ha un problema Pakistan, origine e principio di molti mali del mondo attraverso la sua perversa e raffinatissima strategia segreta d’infiltrazione, reclutamento, disseminazione, intelligence. Petraeus è l’uomo che al mondo ne è più cosciente, avendolo visto, sentito, toccato con mano e combattuto direttamente nella sua versione militare in Iraq e in Afghanistan. Un militare così che sa bene che il problema vero è a monte della sola questione militare è cioè più unico che raro: perché Petraeus conosce bene i suoi polli, e quindi sa anche come spennarli. Nominandolo alla CIA, Obama ne ha fatta una giusta, giustissima. Come si scrive nei ringraziamenti all’inizio dei libri, da qui in poi le responsabilità di ogni eventuale errore adesso è tutta di Petraeus. Il pregresso, però, è innegabile.



Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk


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