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Discussione: DOSSIER Leo Longanesi

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    Predefinito DOSSIER Leo Longanesi

    Sono un carciofino sott’odio





    Leopoldo (Leo) Longanesi nasce a Bagnacavallo nel 1905 ed esprime ben presto il proprio enorme talento in apparente disordine e in più direzioni.

    Nemico di ogni ideologia, all’età di 22 anni fonda L’Italiano, «il più bel foglio della rivoluzione fascista», su cui scrive: «Non siamo né artisti, né critici, né letterati: noi abbiamo solo dei rancori, delle antipatie, delle convinzioni, degli umori e cerchiamo di esprimerli come meglio ci è concesso», e già nel terzo numero lancia lo slogan più fortunato del fascismo: «Mussolini ha sempre ragione», destinato ad esser ripetuto e ampliato nel Vademecum del perfetto fascista, il suo libro più raro, scritto a ventun anni. Tra le pagine della rivista, che ospita scritti di Ungaretti, Rosai, Carrà, Bartoli e Agnoletti, oltre alla letteratura e alla politica, trova ampio spazio l’arte: in un numero speciale dedicato interamente al cinema è sottolineata la necessità per i registi italiani di scendere in strada, portare la macchina da presa nei cortili, nelle vie, nelle caserme, nelle stazioni; si annuncia la poetica neorealista del secondo dopoguerra. Per le edizioni de L’Italiano Longanesi pubblica vari testi tra cui La ruota del tempo di Bacchelli (1928), Il perdigiorno di Montano (1928) e Il sole a picco di Cardarelli (1929).

    Conservatore, anticipatore e rivoluzionario, nel 1936 fonda Omnibus, il primo esempio di rotocalco italiano con cui codifica un modulo fino allora sconosciuto in Italia e imitato da tutti: l’uso della fotografia. Sul settimanale, modello di giornalismo d’avanguardia, appaiono le firme di Mario Missiroli, Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio, Alberto Moravia, Giovanni Drogo (Dino Buzzati), Mario Soldati, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Enrico Emanuelli, Curzio Malaparte, Eugenio Montale, Vitaliano Brancati, Elio Vittorini, Riccardo Bacchelli, Alberto Savinio e Indro Montanelli.
    Omnibus diviene talmente irriverente nei confronti del regime da essere da questo soppresso nel 1939.

    Nel 1946 Longanesi crea l’omonima casa editrice utilizzando come logo l’emblema di due spade incrociate, in omaggio alla moglie Maria, figlia del pittore Armando Spadini. Le copertine dei libri sono illustrate da suoi disegni. E lui stesso inventa e disegna dei volantini (i “santini”), che pone all’interno dei volumi per anticipare con un’illustrazione e qualche nota il prossimo libro in uscita.

    Varie le pubblicazioni, tra cui: Il cielo è rosso di Giuseppe Berto (1947); Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947); Una donna al giorno e Mani in alto! di Figallo-Damigella (pseudonimo di Giovanni Comisso), sequestrato per oltraggio al pudore (1949); Fuga in Italia e A cena col commendatore di Mario Soldati. E soprattutto le sue opere: Parliamo dell’elefante (1947); In piedi e seduti (1948); Una vita. Romanzo (1950); Il destino ha cambiato cavallo (1951); Un morto fra noi (1952); Ci salveranno le vecchie zie (1953); a cui si aggiungono le pubblicazioni postume come Me ne vado (ottantun incisioni in legno) (1958) e L’italiano in guerra 1915-1918 (1965) e quelle pubblicate da altre case editrici: Il mondo cambia. Storia di cinquant’anni (Rizzoli, 1949); La sua signora. Taccuino (Rizzoli, 1958); I borghesi stanchi (Rusconi, 1973).

    La sua ultima avventura è Il Borghese, un settimanale soprattutto letterario per gli autori che vi collaborano: Prezzolini, Savinio, Flaiano, Brin, Parise, Montanelli. Tuttavia il taglio della rivista è anche politico, per la sua verve carica di sarcasmo e tagliente cinismo, e pieno dello spirito dissacratore longanesiano. Le vicende italiane sono viste con occhio irriducibilmente conservatore e con la vocazione di chi si schiera controcorrente. Gli aforismi di Longanesi, le battute, i disegni e specialmente le fotografie inserite nella rivista sono soprattutto contro la borghesia al caviale: « ... populista che scimmiotta gli operai».

    Sin dal primo numero del Borghese nel 1949, fino al 1957, anno della sua scomparsa, Leo Longanesi in ogni fascicolo del settimanale mostra tutta la sua intransigenza artigiana. L’impostazione stessa della rivista, i titoli delle rubriche e degli articoli, le illustrazioni e poi le fotografie, le copertine e persino la pubblicità sono quasi sempre opera sua. Il suo genio si esprime anche in campo pubblicitario: lavora per marchi come Supercortemaggiore, Olivetti, Pirelli, Piaggio, Cirio («Come natura crea, Cirio raccoglie»), Cynar («Contro il logorio della vita moderna»). Anche la campagna pubblicitaria della Vespa è realizzata da lui.

    Nel dopoguerra, in un periodo in cui gran parte degli intellettuali italiani cambia tessera di partito, Longanesi, irriducibile “bastian contrario”, agita la bandiera dell’anti-antifascismo per colpire con il suo geniale senso critico la casta degli intellettuali: «Cercava la rivoluzione e trovò l’agiatezza »; la classe politica: «Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano queste idee»; e la società italiana preda del boom economico: «Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica».

    La sua rabbia e il suo livore celano la consapevolezza di vivere appieno le proprie contraddizioni per cercare una libertà di giudizio senza corruttele e menzogne, e rivelano l’urgenza di un impegno immune da volgarità. Protetto dai propri paradossi, Longanesi insegue l’impossibile obiettivo di educare gli italiani usando le armi della satira e della caricatura, con uno stile tra sogno e realtà vicino ai grandi maestri come Daumier, Grosz, Forain e Grandville.

    Il 16 Maggio 1957 scrive sul suo taccuino: «È un peccato vivere, quando tanti elogi funebri ci attendono». Il 27 Settembre di quell’anno muore al suo tavolo di lavoro.

    http://www.riaprireilfuoco.org/Bianc...onganesi_5.pdf

  2. #2
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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi

    LEO LONGANESI
    I BORGHESI IN GELATINA



    Essi sono sempre in ritardo di un anno, di una annata, di una idea. (Rivarol)


    Tutti lo sanno, ormai, che il conte di Cavour, sul letto di morte, esclamava: « ... Abbiamo fatto abbastanza, noialtri: abbiamo fatto l’Italia, sì, l’Italia: “e la cosa va” ... ».

    «La cosa va»: in quelle tre parole, a pensarci su, a ripetersele col tono di voce di chi sta per rendere l’anima a Dio, c’è un ottimismo contenuto che non persuade, che resta lì, a mezz’aria, a dirci che il povero conte di fiducia non ne aveva troppa nelle nostre capacità di tener in piedi l’Italia.

    Sì: «la cosa va». È sempre andata dalla morte del conte; la cosa “va” ancora... Ma è una “cosa” misteriosa, una misteriosa cosa “che va”, e non se ne sa il perché.

    Tutto quel che a noi sembra falso e provvisorio, tutto quel gran correre avanti e indietro senza precisi scopi, tutto il disordine e l’arruffiio, tutto il fare e il disfare, tutte le affannose e inutili e ridicole e patetiche contraddizioni che accadono in Italia, forse ci sono indispensabili; forse noi non riusciamo a scoprire il segreto senso che promuove e alimenta la vita italiana. Ma è pur vero che a guardarsi attorno c’è da chiedersi: «Come mai funziona la luce elettrica? Come mai qualcuno ancora si preoccupa di accenderla? E perché mai lo spazzino raccoglie le foglie secche nei viali? E perché la maestra non insegna agli alunni di uccidere i compagni? E perché l’operaio non fa la rivoluzione? E perché ancora c’è chi dice: “Prego, signore”?».

    La risposta a tutto ciò è ancora quella di Cavour: «la cosa va». E “va” perché è sempre “andata”; perché una cosa che seguita ad andare avanti per quasi un secolo ha una forza di durata ancora lunga e occorre una forza altrettanto solida per arrestarla.

    Ora, all’ingrosso, si può dire che la forza organizzata che ha fatto le ossa al paese e l’ha tenuto in piedi con dignità fino a ieri è stata la borghesia italiana; una classe dai confini imprecisi, da cui uscirono grossi fusti come Giovanni Giolitti, anime vaghe come Gabriele D’Annunzio e solide menti come Pacinotti, senza ricordare quell’esercito di uomini mediocri, ma di ossa dure, come l’ammiraglio Riboty. (1)

    Ma della borghesia italiana di ieri restano soltanto le cassette di ghisa rossa per imbucare le lettere, altrettanto solide, cordiali, decorose; restano i vecchi marchi di fabbrica, gli alti abeti piantati dai nonni nei giardini delle ville, resta la bottiglia del Fernet, resta la rete ferroviaria, ma l’animo di quei borghesi è rimasto attaccato al loro gilè bianco, non vive più sotto i pullovers degli eredi. I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi non chiedono di rimanere borghesi, non vogliono più esserlo, non vogliono più sembrarlo; vogliono diventare qualcosa di diverso, qualcosa d’altro.

    Essi ripudiano la loro storia: la storia pesa loro, li annoia, li copre di polvere. La storia attira l’agente delle tasse; la storia impone dei doveri; la storia chiede anche di morire. E al borghese d’oggi, la sola cosa che gli sta a cuore è di vivere, di vivere coi quattrini, anche a costo di perderli a poco a poco, ma lentamente, dolcemente.

    ***

    È ricco, ma è debole questo nuovo borghese, perché «intimamente ed eternamente incapace di ricchezza»; potente, trema per un dazio, sussulta per una circolare, palpita per un articolo di giornale.

    Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso, un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: è una differenza di zeri, fra gente che vale zero. Non esiste più un bello per i ricchi e un bello per i meno ricchi; l’ideale di bellezza del grosso borghese non differisce da quello del droghiere suo; l’uno e l’altro sfogliano lo stesso giornale illustrato, le abitudini loro sono identiche, e identiche sono le loro opinioni politiche. Ostili alla monarchia, dopo averle chiesto decorazioni e titoli, ora, in mancanza di una regina, ripiegano su Wanda Osiris. Ieri collezionisti di quadri di Bazzaro e di Nomellini, oggi acquistano Picasso; proprietari di ville e di giardini, abitano negli attici dei grattacieli per «ridurre la servitù»; cavalieri di Malta avvolti nei mantelli crociati, portano gli slips; liberisti, invocano l’Iri.

    Senza fiducia in sé stessi, si affidano a fatti esterni per procedere: se il proletariato attende la spinta della storia, il grosso borghese attende quella dello stato; se al primo occorre una gerarchia politica che sostituisca la classe dirigente, il secondo ha bisogno di tecnici e di prestiti; l’uno e l’altro preferiscono al capitale privato gli enti governativi, più vaghi e sciuponi; entrambi tendono a liberarsi del peso di ogni responsabilità per riversarlo, il primo sulla burocrazia politica, il secondo sulla burocrazia statale.

    Rileggete quello che Ruskin, il buon Ruskin, quasi cento anni fa, scriveva sui doveri dei ricchi: «E come il capitano del bastimento è obbligato a essere l’ultimo uomo che lascerà la nave in caso di naufragio e a dividere la sua ultima crosta coi marinai, così, il fabbricante, in qualsiasi crisi o calamità commerciale, deve accettare le sofferenze insieme ai suoi uomini e anche prendere su di sé
    più di ciò che permette ai suoi uomini di soffrire; come un padre sacrificherebbe sé stesso per il figlio in caso di naufragio, di carestia o di battaglia».

    Certo, oggi, a rileggere Ruskin vien da sorridere, eppure, dopo quasi cent’anni, la morale è ancora quella, non è invecchiata, e nessuna rivoluzione economica, nessun mutamento sociale la muta. Quando udite la nostra classe dirigente levare lamenti contro la concorrenza straniera, quando vi ripetono fino alla noia che il nostro paese non ha materie prime, quando vi spiegano che i nostri costi di produzione sono troppo alti e che la nostra bilancia commerciale soffre di squilibri troppo frequenti, e vedete versar lacrime su questa nostra disgraziata condizione, cercate di uscire dal vicolo dei luoghi comuni: l’economia non è una scienza esatta; la finanza, l’industria, il commercio non ubbidiscono alle vecchie verità matematiche; la matematica è una, ma di mille specie, come l’arte; non prestate ascolto alle verità che sembrano vere, che sono soltanto il risultato di premesse false, soltanto modi di dire: anche la scienza muta, perché la scienza, come l’economia, è frutto della fantasia: e la ricchezza è soltanto frutto di fantasia e di ordine, due qualità che sembrano contraddirsi, ma che si compendiano.

    Ora la nostra classe dirigente manca di fantasia e vive nel disordine: disordine tecnico, disordine politico. Le crisi, qui, sopraggiungono inattese come tempeste a cui nessuno aveva mai pensato; e nessuno si chiede mai se davvero si potevano evitare seguendo metodi diversi. La facilità con cui si
    fondano vaste imprese è pari alla incapacità di sorreggerle nei momenti di crisi. E il rimedio a cui si
    ricorre per arginare i disastri non varia mai: è allo stato che si ricorre in nome di una solidarietà umana fino allora trascurata. Il pane degli operai garantisce il finanziamento di ogni pessima industria. La tecnica che vale, la fantasia che vale, la capacità che vale è una sola: quella di ingrossare l’impresa, d’allargare la fabbrica, di ingigantire l’azienda il più possibile. Perché lo stato teme la fame, quando la fame è improvvisa, quando la fame esce dalle fabbriche, quando la fame è organizzata. La fame individuale, la fame privata, la fame stabile, la fame che vive di fame apolitica non lo disturba: resta fame inerte, passa nel pittoresco, nel colore locale.

    Lo stato non ha occhi, non ha orecchi per il cittadino, per l’italiano: lo stato lo affida a cattive scuole, a cattivi militari, a cattivi funzionari, a cattivi dirigenti, poi lo abbandona ai grossi borghesi.

    E il povero italiano si dibatte e tira avanti, stretto fra due grossi elefanti: deve spingere, consumare e ubbidire.

    Deve leggere giornali che non dicono mai la verità, perché non esiste la verità: esistono soltanto due punti di vista: quello dei grossi borghesi e quello dei grossi proletari. Egli non ha modelli a cui ispirarsi, perché esistono soltanto i vizi di quei due grossi elefanti: il borghese e il proletario. Egli non ha, in casi estremi, via di scelta: o coi grossi borghesi o coi grossi proletari.


    Leo Longanesi



    (1) Riboty Augusto. Senatore. Ammiraglio (1817-1883).
    Nato a Pugel-Teniers, presso Nizza, iniziò la sua carriera nella marina sarda. Intrepido comandante del Re di Portogallo a Lissa, fu primo tra coloro che, nella giornata infausta, salvarono l’onore delle armi italiane, riportandone, più prezioso della medaglia d’oro al valore, l’aperto riconoscimento del vincitore Tegethoff. Ministro della marina, il R., pur essendo personalmente niente più che un buon manovriero sottovela, presentì le grandi trasformazioni tecniche imminenti, e avviò la costruzione delle grosse corazzate tipo Lepanto; fu lui che designò al sovrano, come successore, il Saint Bon. Uomo di altissimo senso del dovere, non esitò, da ministro, a troncare la sua carriera, ponendosi da sé a riposo, per poter togliere dal comando altri sei ufficiali superiori scadenti, più anziani di lui, senza che questi potessero accusarlo di prepararsi l’avanzamento. (Il Borghese: Dizionario degli italiani illustri e meschini.)

    http://www.riaprireilfuoco.org/Bianc...onganesi_5.pdf
    Ultima modifica di Florian; 07-05-11 alle 17:16

  3. #3
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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi

    LEO LONGANESI
    I PICCOLI BORGHESI



    A un dotto svedese che, a metà del settecento, visitando Napoli, interrogava circa le qualità del suo popolo, un napoletano rispose che questo era come la vipera, di cui la testa, cioè l’aristocrazia, era velenosa, la coda, cioè la plebe, non valeva niente, e il corpo o la parte di mezzo, il medio ceto, era tanto buono che serviva per la cura delle malattie. (Benedetto Croce)



    Risentiti contro il grosso capitale e contro il proletariato, i piccoli borghesi si ostinano a credersi i custodi di quell’ordine che, bene o male, regge ancora il paese. Se una lettera gettata in una cassetta postale arriva a domicilio; se possiamo farci risuolare le scarpe senza scrivere domande su carta bollata e senza attendere il nostro turno dietro una lunga fila di cittadini; se possiamo stampare un libro e sperare che qualcuno lo comperi; se è possibile amministrare un’azienda senza sperpero e se i nostri figli ancora non bucano col temperino i divani ferroviari, è merito del ceto medio, di quella piccola borghesia che sembra rimasta fuori del tempo, fedele a un risparmio che non serve più. Ma se il libretto in banca, ormai, ha perduto il valore economico di una volta, tuttavia conserva un valore morale: resta il principio, resta la fedeltà a un costume a cui non si rinuncia, ed è questa la grande forza del ceto medio. Esso crede nelle proprie virtù; non sogna altro paradiso che quello che crea da sé; non ha fiducia in altra classe che nella propria. Tutto quello che vive al di fuori del suo ristretto cerchio, è caduco, passeggero, provvisorio: il piccolo borghese non crede nemmeno più nella ricchezza o nell’agio: esso crede soltanto nel proprio ordine, oltre il quale non scorge che rovina.

    Povero, tenace, risentito, continua a tener fede alla sua bandiera rappezzata.

    Il desiderio di vedere i figli laureati, di dar loro «in mano una laurea», un diploma, il tanto deriso «pezzo di carta», caro a tutti i piccolo-borghesi, è il segno che ancora essi credono nella solidità del mondo borghese, nello stato. E nelle povere e orgogliose pretese con cui essi educano quei figli, nel modo con cui cercano di nascondere la miseria, c’è, insieme al disprezzo della volgarità proletaria, anche un segreto sottinteso di vincere i grossi papaveri, i ricchi, i padroni.

    Tutto, in Italia, procede nel peggiore dei modi, a giudizio del piccolo borghese, ma egli crede di potervi porre rimedio; è certo di riuscirvi spendendo di meno, lavorando di più e meglio. Le riforme le compirà lui, di persona, a sue spese, con la sua fatica. Egli crede in sé, crede in ciò che ha appreso a scuola; egli disprezza ricconi e straccioni, lavori vili e “carrozzoni”; ha un concetto ancora nobile del lavoro e del denaro; conserva il disprezzo cristiano del lusso e dell’usura; ha coscienza dei suoi limiti e rispetto delle miserie umane. La storia non è trascorsa invano: qualcosa hanno lasciato in lui le rivoluzioni e le guerre, le idee e i miti. La sua cultura è generica, ma egli vi crede: Garibaldi, Mazzini, Giolitti, la patria, l’umanità: tutti questi echi risuonano al suo orecchio e alimentano il suo ideale. E possedere un ideale è la sua vera ricchezza, il suo vanto, il suo segno di distinzione.

    E questo ideale, il piccolo borghese lo porta in testa come un cappello nuovo, come un cappello festivo che gli conferisce autorità. E l’autorità è il suo grande spleen; egli si sente autorevole e ama l’autorità, perché l’autorità, ai suoi occhi, è qualcosa di metafisico, un concetto, un’astrazione che nasce dal bene e dal giusto, e che nessuna forza, né la ricchezza né la massa, corrompe: è un reame a cui egli appartiene, di cui si sente soldato: un reame mentale, popolato di civici ardori e di risentimenti. E questa autorità egli la rispetta, perché essa rispecchia il più alto grado ideale a cui tende la sua piccola autorità individuale.

    Quando egli dice: «la mia signora», intende dire qualcosa di più di «mia moglie», perché dire moglie a lui non basta; gli sembra di non uscire dal recinto zoologico della plebe; vuole conferire autorità alla moglie, a sé. Egli crede nei simboli, e «la mia signora» è un simbolo che viene di lontano: i poeti borghesi del trecento dicevano «madonna »; e lui sta attaccato alla storia, alla sua storia, alla letteratura della «gente mezzana», a Franco Sacchetti.

    Il tempo cammina, la carta geografica muta, le città cambiano aspetto, i ceti proletari, più arroganti di ieri, sembrano dominare la vita di ogni giorno; molte illusioni e molte condizioni economiche tramontano, ma il piccolo borghese, pur incalzato dalla miseria, non ha mutato di molto. E possiamo ancora rintracciare i suoi pregi nella borghesia di cui parla Balzac: «Era quella borghesia che veste i suoi figlioli da lancieri o da guardie nazionali, che va, la domenica, in una casa di campagna di sua proprietà, che cerca in ogni modo di avere un fare distinto, e che sogna di onori municipali; quella borghesia gelosa di tutto e nondimeno buona, servizievole, devota, sensibile, pietosa, che sottoscrive per i figli del generale Foy, per i greci, le cui piraterie le sono ignote, che è vittima delle proprie virtù, e derisa per i suoi difetti da una società che val meno di lei, poiché essa ha cuore precisamente perché ignora la convenienza; quella virtuosa borghesia che educa fanciulle candide, assuefatte al lavoro, piene di qualità che poi vengono diminuite dal contatto delle classi superiori ... ».

    Ora sono mutati gli abiti e nelle case è entrata la radio, ma la piccola borghesia non è ancora corrotta e si tiene salda ai propri miti.

    Tutti abbiamo almeno una zia che non va al cinematografo e che conosce dieci modi di cucinare il lesso rimasto a colazione; una zia che, passata fra due guerre, conserva intatta la sua fede nella avarizia; la quale avarizia, ormai, è soltanto un segno di decoro, un atto di fede, un principio morale, una norma pedagogica. Essa sa che i santi in cui ancora crede non fanno più miracoli; tuttavia non ha fiducia nei nuovi. Sospettosa, essa osserva la prosperità dei borghesi con occhio diffidente, in attesa del peggio. E il peggio verrà, è alle porte, è questione di tempo: i vecchi santi torneranno a far miracoli.

    Erano, sono e ancora saranno, queste nostre zie, fusti di quercia, dalle radici ben solide, ben piantate, ben radicate nelle vecchie case: case di città o case di paese, ma vere case, sepolte in strade strette, senz’alberi, senza panorama, strade di finestre, strade pettegole, strade faziose, in cui la luce scende a picco; strade senza “parcheggio”, le strade della vecchia anima italiana, dove abbiamo imparato quel po’ che sappiamo, le strade che il piccone progressista degli speculatori borghesi squarcia, le ultime fortezze del decoro nazionale.

    Erano, sono e ancora saranno, queste nostre zie, le custodi dell’ordine classico, nutrito da un’ironia un po’ laica, che non tollera il patetico cristiano e il patetico socialista, di un ordine classico, sorretto dalla scarsa fiducia nel progresso e nella bontà degli uomini e che non invita a colazione Rousseau.

    Erano, sono e saranno ancora, queste nostre zie, tutte maestre, o tutte col diploma magistrale, decise insegnanti della derisa morale piccolo-borghese: tutte fedeli gendarmi dello stato a cui affidavano e affidano la difesa dei libretti di risparmio.

    Non erano, non sono, non saranno i Cadorna, i Badoglio, i Marras i capi dell’esercito italiano; sono le zie, sono le maestre che formano le fanterie e le artiglierie, che insegnano a non fuggire, a morire. Non erano, non sono, non saranno i Giolitti, i Mussolini, i De Gasperi a tener saldo lo stato: sono le zie, sono le maestre: esse solo insegnarono, insegnano e insegneranno a non rubare, a non “fregare”, a far pulito. E se il comunismo ha o avrà dei capi decenti, dei Togliatti o dei Terracini, anch’essi sono o saranno cresciuti all’ombra delle zie, e le tradiranno col nodo alla gola.

    Le vecchie zie annusano l’aria e si rendono conto, esse sole, che qualcosa di grave sta accadendo sotto i loro occhi, qualcosa che riguarda noi uomini di mezza età, noi che non ci accorgiamo di nulla, perché leggiamo soltanto i giornali; e i giornali, da cinquant’anni, in Italia, recano soltanto quelle verità a pagamento che sono gli annunci funebri. Il resto lo ignoriamo, il resto ci annoia. Solo il presente, solo la cronaca che muore ogni sera, come la gloria di Coppi, ci seduce. E il solo annuncio funebre che non appare mai sui giornali, fra due linee nere, la sola notizia seria, grave, severa è che la morale è morta e che viviamo senza accorgerci della sua assenza.
    Tutto procede nel modo più tranquillo e la tranquillità è il massimo scopo di ognuno, e ognuno è ben lieto di essere servo, pur di rimanere tranquillo: la morale non interessa più, la morale è un lusso; le idee, i miti, la fede che animano la morale non interessano più; sono vizi di un tempo meno felice, vizi che occorre perdere. Ora c’è una nuova tecnica della felicità; c’è un nuovo modo di vivere: ripudiare quel che non lascia tranquilli; ora c’è un meccanismo della felicità che ripudia ogni morale; c’è una pratica, una povera filosofia della pratica che distrugge ogni passione, ogni sentimento, ogni mito. Ed è il meccanismo del benessere, il frutto del socialismo e del capitalismo associati, demagogia del braccio e dei quattrini. Tutto quel che si fa oggi ha uno scopo breve, una mira corta; “tutto per bocca”, materia vile di transito.

    Che fare?

    Sapranno le vecchie zie salvarci dall’invasione cosacca? Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica. Risentiti contro il grosso capitale e contro il proletariato, i piccoli borghesi si ostinano a credersi i custodi di quell’ordine che, bene o male, regge ancora il paese. Il tempo cammina, la carta geografica muta, le città cambiano aspetto, i ceti proletari, più arroganti di ieri, sembrano dominare la vita di ogni giorno; molte illusioni e molte condizioni economiche tramontano, ma il piccolo borghese, pur incalzato dalla miseria, non ha mutato di molto.


    Leo Longanesi



    http://www.riaprireilfuoco.org/Bianc...onganesi_6.pdf
    Ultima modifica di Florian; 07-05-11 alle 17:17

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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi

    Leo Longanesi. Un aforisma vi seppellirà

    di Massimiliano Mingoia





    "Lei è democratico?" / "Lo ero" / "Lo sarà ancora? / "Spero di no" / "Perché?"/ Perché dovrebbe tornare il fascismo; soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia".
    Leo Longanesi (Parliamo dell'elefante)


    "Democratico sì, ma dopo di lei". "La repubblica è fatta, bisogna compatirla". "Creda a me: non creda a nulla". "Mussolini ha sempre ragione". Tagliente, sarcastico, a volte "reazionario", mai banale. Leo Longanesi, il "carciofino sott'odio" (la definizione è sua) del giornalismo italiano, era così. Prendere o lasciare. Giornalista di genio, editore d'assalto, scopritore di talenti, virtuoso dell'aforisma. "Longanesi - ha sottolineato Marcello Veneziani, riprendendo un pensiero di Nietzsche - riusciva con un aforisma a dire quello che altri non riescono a spiegare in un libro". Fascista ma frondista, conservatore nell'Italia antifascista, pensatore "contro", sempre e comunque. Capire Longanesi vuol dire comprendere le sue (feconde) contraddizioni. Ha cercato di farlo Raffaele Liucci con il suo saggio, edito da Marsilio, "L'Italia borghese di Longanesi" (euro 18). E, lo diciamo subito, ci è riuscito. Tanti gli aspetti del pensiero e dell'opera longanesiana approfonditi nel libro di Liucci. In particolare la battaglia giornalistica condotta da Longanesi con "il Borghese" dal 1950 al 1957. Una testata controcorrente in un'Italia che si stava votando alla "religione" dell'antifascismo. E che "guardava a sinistra", per riprendere un'affermazione di Alcide De Gasperi. Beh, in quell'Italia Longanesi ebbe il coraggio di essere fieramente "di destra" e di definirsi "anti-antifascista".

    Ma com'era la destra di Longanesi? I suoi caratteri principali furono delineati dallo scrittore romagnolo nel suo libro "Il destino à cambiato cavallo", del 1951. Cavalli di battaglia che si ritrovano anche nel "Borghese" longanesiano: inflessibile anticomunismo, decisa avversione alla retorica dell'antifascismo, critica da destra alla democrazia dei partiti, denuncia del declino dello stato repubblicano, tentativo di formare uno schieramento di destra alternativo alla Democrazia cristiana. Ce n'è abbastanza per entrare nel mirino di tutta l'Italia della Resistenza. La destra di Longanesi era una "destra psicologica", che egli contrapponeva alla "destra economica": "La destra psicologica è un atteggiamento ideale, un modo di interpretare i fatti storici, di restare fedele a un preciso sentimento nazionale: è un atto di fede. La destra economica, al contrario, non ha idee: essa difende soltanto certe condizioni sociali o, per meglio dire, capitali e privilegi precisi; essa sta su posizioni conservatrici che hanno sì una logica, ma che non sono legate a nessuna tradizione politica". Il brano risale a un numero del "Borghese" del 1955. Ma delinea una contrapposizione assai utile anche ai giorni nostri. Sì, perché l'uomo di destra, il "vero conservatore" per dirla alla Prezzolini, è il difensore di un pensiero politico, non di interessi di bottega. È bene ribadirlo, visto che il martellamento della propaganda prima comunista, ora post-comunista, ha insinuato un pregiudizio anti-conservatore basato sulla teoria della lotta di classe. La destra psicologica longanesiana è fortemente critica nei confronti della democrazia di massa. Una critica da destra, a favore della libertà degli individui e contro i dispotismi delle maggioranze. "La democrazia delle classi aristocratiche e colte, che si chiama liberalismo, è gradevole - spiega Longanesi -; ma quella popolare è intollerabile. Una fila di carrozze è elegante: una fila di Vespe disturba". Ricorre qui il sentimento per il bel tempo passato, che ricorre spesso nell'autore di "Parliamo dell'elefante". Longanesi si sentì storicamente e culturalmete più legato all'Ottocento che al suo secolo, il Novecento. L'amore per il secolo "decimonano" (come venne scritto, ironizzando sull'altezza, anzi sulla bassezza, del Leo nazionale) non lo abbandonò mai. E costituì la forza, ma anche il limite del suo pensiero politico. Nel tempo delle masse, Longanesi parteggiava per le élite del merito. Sentimento in parte impolitico, ma legato alla convinzione che "lasciare libertà alle masse significa perdere la libertà. Sembra un paradosso, e non lo è".

    L'anticonformismo è la croce e la delizia di Longanesi. Nel 1939, durante il fascismo, il suo modo disincantato di fare giornalismo gli procurò la chiusura di "Omnibus", il primo rotocalco italiano, da lui fondato due anni prima e che ebbe un gradissimo successo. Nell'Italia antifascista, il suo spirito refrattario ai dogmi democristian-comunisti lo costrinse all'angolo. Ma forse era proprio questo che cercava: la battaglia solo contro tutti. Anche se, nell'avventura del "Borghese" fu affiancato da collaboratori del calibro di Prezzolini, Ansaldo, Montanelli. Una battaglia giornalistica e intellettuale, quella longanesiana, che rifiutò sempre la demonizzazione acritica dell'esperienza fascista. Un revisionismo ante litteram, sentimentale prima ancora che storiografico. E non privo di contraddizioni. Fu il leader socialista Pietro Nenni a sottolinearle, commentando il libro "In piedi e seduti": "È un libro amaro, scettico, nichilista. Una stroncatura degli italiani. Vi si sente una segreta nostalgia di Mussolini e nel contempo l'odio per il fascismo. Tutto e tutti sono messi alla berlina". Sono più le luci o le ombre nel percorso cultural-politico di Longanesi? Un merito sicuramente l'ebbe, come sottolinea Liucci in riferimento al "Borghese": il giornale da lui diretto, infatti, "si pose esplicitamente e pubblicamente il problema del rapporto tra una destra culturale e una destra politica non antisistema, che operasse nell'arena parlamentare". Una riflessione seria. Per vederne gli esiti politici si è dovuto però aspettare fino agli anni Novanta, con la nascita del Polo delle libertà. Ma chissà se l'identità dell'attuale destra italiana sarebbe piaciuta al liberal-conservatore Longanesi. E chissà cosa avrebbe detto, il "carciofino sott'odio", della sinistra post-comunista, no global e girotondina. Azzardiamo la risposta, riprendendo un altro dei suoi celebri aforismi: "La destra? Ma se non c'è nemmeno la sinistra in Italia! (…) Qui non c'è nulla: né destra, né sinistra. Qui si vive alla giornata, fra l'acqua santa e l'acqua minerale".

    Massimiliano Mingoia

    Il Carroccio di Legnano e Barbarossa - by Antonio Vinci
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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi




    Raffaele Liucci
    L' Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni '50
    Marsilio, 2002


    Leo Longanesi nell'ultima fase della sua vita, trascorsa a Milano, dove diede vita anche all'omonima casa editrice, fondò e diresse "Il Borghese". Durante la sua direzione la rivista mirò a dare visibile rappresentanza alla borghesia italiana che inclinava a destra e nutriva ostilità verso ogni pensiero progressista. Questo libro partendo dall'analisi della posizione tenuta dal "Borghese" nei confronti dei diversi aspetti politici, sociali e culturali dell'Italia degli anni Cinquanta, affronta anche problemi di ordine generale quali l'influenza di Longanesi sul giornalismo e la cultura italiana, la questione della destra culturale nell'Italia repubblicana, la trasformazione della società alla vigilia del "miracolo economico".


    La recensione de L'Indice

    Nel primo fascicolo del "Borghese", apparso nel marzo 1950, l'obiettivo della nuova pubblicazione (un quindicinale destinato a divenire settimanale dall'aprile del 1954) veniva indicato nei seguenti termini: "elevare il tono della piccola e media borghesia italiana, e darle una coscienza della propria funzione storica". Politicamente, il tentativo era già stato operato dal fascismo nei trent'anni precedenti e si era risolto in un disastro. Perché dunque ritentare? E poteva riuscire un giornalista talentuoso e anarcoide laddove un altro giornalista, politicamente ben più abile, aveva invece fallito?

    In realtà, proprio il fallimento del fascismo ha rappresentato la premessa per l'operazione politico-editoriale tentata da Longanesi nel secondo dopoguerra. Si trattava, ancora una volta, di dare voce politica, spessore intellettuale, corpo sociale, e appunto "funzione storica", alla borghesia italiana, che si era riconosciuta nel fascismo ricavandone, a conti fatti, solo la propria rovina, ma che tuttavia anche dopo la sconfitta della guerra continuava a rappresentare, a giudizio di Longanesi, l'asse morale e sociale della nazione. Naturalmente, un simile tentativo andava fatto, dopo il diluvio retorico e il trionfalismo mussoliniani, adottando il tono dimesso, scettico, rassegnato e dolente, un po' scanzonato e cinico, richiesto dal nuovo contesto storico, segnato dall'avvento della democrazia e dalla delegittimazione di tutto ciò che - uomini o idee - potesse ricordare troppo da vicino il trascorso e defunto regime.

    Nel suo bel libro, Liucci spiega che sarebbe sbagliato leggere l'avventura longanesiana unicamente attraverso il filtro della politica e dell'ideologia, trascurandone il valore più propriamente giornalistico-letterario. "Il Borghese" fu, per molti versi, un ricettacolo di umori antipolitici e di qualunquismi, nonché l'approdo intellettuale di un gruppo di giornalisti e scrittori capace di acute analisi sul costume nazionale, ma che in nessuna circostanza dimostrerà una grande sagacia politica. Ciò non toglie che quello perseguito da Longanesi (sia attraverso la rivista sia con la casa editrice che portava il suo nome) possa anche essere letto come un vero e proprio disegno storico-politico, ambizioso e coraggioso, finalizzato nelle sue intenzioni verso due obiettivi principali: da un lato, cicatrizzare le ferite prodotte nel tessuto nazionale dalla guerra civile e salvare così la continuità storica della nazione italiana (il che significava, tra le altre cose, vedere nel fascismo un momento della storia d'Italia, non da giustificare, ma da accettare); dall'altro, come accennato, offrire una nuova legittimità storico-culturale a quel vasto ceto borghese che l'aveva persa schierandosi con il fascismo, ma che rappresentava pur sempre, a suo giudizio, il principale fattore di continuità della storia italiana dall'Unità in avanti.

    Come emerge dal documentatissimo volume di Liucci, "Il Borghese" ha rappresentato l'organo intorno al quale si sono raccolti, non casualmente, spezzoni assai rappresentativi della generazione che aveva maturato la propria formazione ideale nei ranghi politici e culturali del fascismo, seppure con posizioni che spesso erano state di fronda e di dissidenza, e che era giunta al disincanto nei confronti del regime dall'interno di quest'ultimo, senza dunque mai abbracciare la scelta dell'antifascismo militante. Longanesi e gli altri giornalisti e opinionisti che ruotavano intorno a lui, a partire da Indro Montanelli, che dalla ricerca risalta come l'ideologo vero e proprio del gruppo, in effetti non furono mai, come talvolta li si è valutati, degli apologeti tardivi o peggio dei "nostalgici" del defunto regime mussoliniano. Furono tuttavia, questo sì, degli "sconfitti" e dei "perdenti", faticosamente alla ricerca di uno spazio di manovra nella nuova democrazia repubblicana, il cui clima politico-culturale era sin troppo dominato, a loro giudizio, dal conformismo e da una massiccia dose di spirito trasformistico, da un eccesso di retorica democratica, da un sostanziale oblio nei confronti del recente passato, esibito, in alcuni casi, persino con un misto di leggerezza intellettuale e di irresponsabilità politica.

    Longanesi e i suoi collaboratori cercarono dunque di rappresentare quegli italiani (all'epoca peraltro la maggioranza) che oggi si tende a definire, con una certa asprezza polemica, anti-antifascisti, ma che più propriamente possono essere considerati come coloro che, pur senza nutrire più alcuna illusione riguardo la loro precedente adesione al fascismo, erano al tempo stesso consapevoli che quest'ultima s'era avuta e anzi era stata, per alcuni anni, massiccia e sincera, a tal punto che non poteva essere sufficiente un tratto di penna per rimuovere dalla coscienza politica di un intero paese vent'anni di storia. Se è vero, come Liucci sottolinea, che dagli uomini del primo "Borghese" è sovente venuta una lettura del fascismo strapaesana e riduttiva, sentimentalmente patriottica, incentrata sul costume più che sull'ideologia, quindi accomodante e accondiscendente, è pur vero che essi a più riprese, magari in forme ellittiche e non sempre culturalmente coerenti, si posero il problema di come l'esperienza del fascismo andasse non già rimossa alla stregua di una parentesi o, peggio, ridotta a un episodio meramente criminale, bensì metabolizzata e posta in relativa continuità con il complesso della vicenda storica nazionale.

    Ai loro occhi, come accennato, il problema riguardava in particolare quel ceto sociale borghese - piccolo e medio - che del fascismo era stato la principale base di sostegno (in termini non tanto ideologici, ma piuttosto culturali e antropologici) e che rischiava ora, nella nuova Italia, di vedersi forse politicamente rappresentato e socialmente garantito dalle nuove formazioni partitiche sorte all'indomani della fine del conflitto, in particolare dalla Democrazia cristiana, ma anche spiritualmente e culturalmente annullato sul piano dei valori e dello stile di condotta a esso peculiari. Ciò spiega la loro ricerca, per dirla con termini oggi correnti, di una sorta di destra postfascista, diversa sia dall'irriducibile e impolitico spirito di revanche tipico del neo-fascismo missino sia dall'anticomunismo, di matrice essenzialmente clericale, del partito cattolico democristiano. Il borghese cui Longanesi volle dare voce, quando non era un semplice espediente retorico-letterario, vale a dire il simbolo di un mondo tramontato e forse mai del tutto esistito, era più concretamente l'esemplificazione di quegli italiani che, pur apprezzando il ritorno delle libertà che il fascismo aveva conculcato, non riuscivano a sintonizzarsi sino in fondo con i riti di una democrazia che in certi suoi eccessi conformistici ricordava troppo da vicino, secondo Longanesi, il passato regime. Italiani che, nelle sue intenzioni, meritavano comunque una nuova occasione, non tanto per se stessi, quanto per i valori, le idealità, lo stile di vita, i modelli culturali e antropologici, i trascorsi storici, che, inconsapevolmente e spesso non proprio degnamente, essi incarnavano e rappresentavano.

    Quanto si avvicinò all'obiettivo il disegno longanesiano di fare della borghesia italiana un soggetto politicamente attivo e responsabile, di dare cioè nuovamente corpo a quella "Italia sommersa" che, nel corso della sua storia, a politici e politologi ha spesso riservato sorprese (non tutte piacevoli)? Nelle pagine finali del libro, Liucci discute, con sobria intelligenza, il ruolo svolto, nell'Italia del dopoguerra, da questa strana destra (riconosciutasi, dopo la precoce morte di Longanesi, in Montanelli), sostenendo che, per quanto intellettualmente vivace e sovente originale, essa non ha tuttavia influito più di tanto sugli equilibri politici reali, finendo così per giocare un ruolo subalterno e di supporto tattico nei confronti del gigante democristiano.

    Alla luce di questa considerazione viene naturale chiedersi se è cambiato qualcosa dopo che in anni recenti la destra politica, per la prima volta nella sua storia, ha assunto un ruolo dominante sulla scena politica nazionale. Quegli uomini hanno forse ottenuto una vittoria postuma? In realtà, dello spirito di uomini come Longanesi (ma lo stesso può dirsi di Montanelli) c'è ben poca traccia nella destra odierna. Del longanesismo è rimasto, nei suoi dichiarati imitatori e ammiratori dell'ultima stagione, la ricerca della battuta a effetto, il gusto del calambour, la grafomania, lo spirito goliardico spacciato per trasgressione, ma è andato del tutto perduto l'essenziale: il gusto per le cose belle, il senso di continuità della storia nazionale, l'irriverenza (anche se talora velata da un certo spirito di adattamento) nei confronti del potere e dei suoi simboli, lo spirito libertario e anarchicheggiante, l'insofferenza per il trombonismo ministeriale, la passione per la disputa intellettuale d'alto profilo, la capacità di cogliere e interpretare (magari per criticarli nel profondo) i fenomeni sociali e i mutamenti del costume collettivo, l'indipendenza di giudizio, la capacità inventiva.

    Ma, come spiega Liucci a un certo punto, il rapporto tra cultura (di destra, in questo caso) e politica non merita di essere inteso secondo corrispondenze meccaniche e soltanto formali: il fatto che le idee e lo spirito di Longanesi non abitino le stanze della Casa delle libertà non significa che essi siano necessariamente deperiti o finiti per sempre in cantina. Se quella degli uomini del "Borghese" è stata davvero, come scrive l'autore, una "destra sommersa", perché escludere che essa possa, prima o poi, emergere e fruttificare là dove meno te lo aspetteresti?

    http://www.ibs.it/code/9788831780612...longanesi.html
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    Quelle vecchie zie di Leo Longanesi

    di Edmondo Berselli

    la Repubblica, 17/09/2005





    La borghesia su cui esercitava il suo accanimento Leo Longanesi, nell'anno di grazia 1953, non esiste più da un pezzo.

    Quindi quel titolo famoso sulle zie che ci avrebbero salvato è in realtà un reperto di archeologia sociale, che a distanza di mezzo secolo si legge con la vacua curiosità che si può nutrire per le vecchie e buone cose di pessimo gusto, con quel senso di malinconia con cui si frugano i cassetti della nonna.

    Il catalogo borghese di Longanesi è ovviamente implacabile, dalle «cassette di ghisa rossa per imbucare le lettere» alla «bottiglia del Fernet». Ma già allora, dopo la caduta del fascismo e dopo lo scontro d'epoca del 18 aprile 1948, la scena storico-sociale era cambiata, e il fondatore di Omnibus lo vedeva. I borghesi stanno abdicando. «Ostili alla monarchia, ora, in mancanza di una regina, ripiegano su Wanda Osiris». Perdono di vista i loro dogmi: «Liberisti, invocano l'Iri». Agli inizi di quegli anni Cinquanta «esistono soltanto due punti di vista: quello dei grossi borghesi e quello dei grossi proletari».

    È un mondo che scompare, quello della piccola borghesia, «che aveva palpitato sugli amori fogazzariani» e credeva che «i piaceri dei sensi occorresse velarli nella garza crepuscolare della lirica fine secolo».

    E naturalmente Longanesi sa che quel mondo ordinato e filisteo è in via di smantellamento, in seguito alla «stupida lezione del socialismo». Tuttavia il rimedio al collasso della borghesia è tipico non tanto di un conservatore quanto di un reazionario: le zie che ci salveranno sono «le custodi dell'ordine classico», «tutte maestre, o tutte col diploma magistrale». Tutto questo sullo sfondo di un sentimento antimoderno, «in attesa del peggio», perché «il peggio verrà, è alle porte».

    Ci salveranno le vecchie zie? , di Leo Longanesi - La recensione di la Repubblica - ilmiolibro.it
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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi

    L’eredità di Longanesi «cattivo maestro»





    Esiste un libro perduto di Indro Montanelli, che forse non sarà mai più ripubblicato, perché offuscherebbe quell’aura di politicamente corretto che si è voluta appiccicare sul grande giornalista, fino a farne l’icona di una sinistra che appare disperatamente in cerca di nuovi miti. Stiamo parlando delle Lettere a Leo Longanesi e ad altri nemici, edite nel 1955, che si aprivano con uno straordinario pezzo, dove Montanelli rievocava la sua gioventù fascista, intransigente e generosa, in tutto tradita dalla degenerazione del regime. Anche se non tutte le corrispondenze erano indirizzate a Longanesi, il loro insieme costituiva un dialogo ininterrotto con quella figura geniale di grande organizzatore culturale, che fu appunto il direttore del Borghese degli anni Cinquanta, e che ora ci viene ricordata nel saggio di Andrea Ungari: Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dal fascismo alla Repubblica (Le Lettere, 2007, pagg. 111, euro 12,50).

    Lo studio di Ungari non parla, se non di sfuggita, del propagandista fascista, inventore dello slogan famoso («Mussolini ha sempre ragione»), ma parte dalla lunga notte del ’43, dallo squagliamento italiano dell’8 settembre, dall’evasione da Roma, ridivenuta capitale dell’Asse, verso Napoli, narrata da Mario Soldati in Fuga in Italia (Sellerio, 2004, pagg. 130, euro 9) e da Longanesi, appunto, in Parliamo dell’elefante (Rizzoli, 2005, pagg. 193, euro 13). Due racconti che finiscono per rassomigliarsi fino all’identità assoluta, quando descrivono la catastrofe materiale e morale di una nazione. Diversissime, invece, saranno le testimonianze dei due intellettuali, una volta giunti nella città partenopea. Per Soldati, l’approdo napoletano equivaleva alla riconquista della libertà. Per Longanesi, la metropoli vesuviana altro non era che deposito di materiali e bordello per truppe. Una capitale del vizio e della degradazione, popolata da sciuscià, prostitute, piccoli e grandi profittatori, ma anche da un nuovo animale politico: l’antifascista per professione. Non i rari oppositori degli anni del consenso a Mussolini, ma la folla dei fuoriusciti rientrati in patria, assieme alle salmerie degli Alleati: «pettegoli e piccoli borghesi, benché ostentino un linguaggio rivoluzionario», per i quali il defunto regime fu «non avversario politico ma nemico personale, che li privò di potere, cariche, privilegi».
    Era un ritratto all’acido prussico che non risparmiava nessuno. Né Omodeo e i suoi accoliti: «anonimi professori, vestiti di scuro, simili a venditori ambulanti di penne stilografiche». Né Sforza e il suo funambolismo politico. Né Croce e la sua corte, di cui il filosofo era, allo stesso tempo, pontefice massimo e grande inquisitore.

    Tra livore e rancore, nasceva così l’«anti-antifascismo» di Longanesi, molto simile a quello del «Fronte dell’Uomo Qualunque» di Giannini e dei reduci di Salò. A proposito di questa tendenza, Ungari elogia «il valore di un pensiero conservatore distante dal progressismo d’accatto del secondo dopoguerra». Una constatazione, sicuramente condivisibile, ma che non evidenzia le ombre dell’eredità di Longanesi, la quale avrebbe, a lungo, immobilizzato l’opinione pubblica moderata nella sterile recriminazione contro il nuovo e nella nostalgia dei buoni, antichi, valori perduti, impedendo alla nostra borghesia di comprendere che nessuna tradizione poteva sopravvivere senza modernizzazione. E, in questo almeno, Longanesi fu forse «cattivo maestro», soprattutto nei confronti della parte politica che intendeva rappresentare.

    http://www.ilgiornale.it/cultura/ler...e=0-comments=1
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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi

    LONGANESI, Leopoldo (Leo)
    Dizionario Biografico degli Italiani


    di A. Cimmino


    LONGANESI, Leopoldo (Leo). - Nacque a Bagnacavallo, in Romagna, il 30 ag. 1905 (ma fu iscritto all'anagrafe il 3 settembre), figlio unico di Paolo e di Angela Marangoni.

    Il padre, di una famiglia di agiati proprietari terrieri, dirigeva a Lugo una piccola industria di munizioni (la Fabbrica Pietro Randi); la madre - personalità dominante che lo stesso L. descrive diffidente, scettica, attenta a conservare il suo grado sociale - era figlia di Leopoldo, anarco-socialista romagnolo, amico di Andrea Costa, e aveva uno zio, Rinaldo, che era stato garibaldino. Il L. fu sempre molto legato alla famiglia, con cui visse fino a età matura; e in particolare le figure del nonno e dello zio materni ebbero un ruolo nel progressivo concretarsi di quella rivisitazione mitica della borghesia ottocentesca che condusse per tutta la vita.

    Nel 1911, proprio per permettere al L. di frequentare buone scuole e un ambiente più vario, la famiglia, compresi i nonni materni, si trasferì a Bologna. Dopo le elementari e le medie, il L. fu iscritto al ginnasio-liceo Galvani, dove ebbe come insegnante B. Giuliano che ne apprezzò la vivacità intellettuale: scolaro svogliato e poco diligente, il L. si andava dimostrando, però, assai precoce, particolarmente versato nel disegno, di brillante intelligenza, caustico e aggressivo.

    Le sue letture furono asistematiche, perfettamente aderenti al suo tempo, e tuttavia indicative. Amava l'avventura e l'evasione, piuttosto che la meditazione e l'approfondimento, e quindi E. Salgari, L. Zuccoli, prediletto da sua madre, e R. Kipling; poi G. Sorel, F. Nietzsche, ma anche il M. Barrès che insegnava il culto della tradizione della terra natale e degli antenati, A.P. Čechov; ebbe particolarmente cari l'umorismo grottesco e surreale di N.V. Gogol´ e soprattutto quello lucido, impietoso e crudele di J. Renard.

    La madre teneva a Bologna un salotto frequentato da esponenti dell'intellettualità cittadina e lo faceva viaggiare: l'estate a Forte dei Marmi, San Remo, Montecatini, ma anche all'estero, Vienna soprattutto. Il L., quindi, fin da ragazzo poté frequentare una società varia e articolata che ne apprezzava lo spirito e si divertiva alle sue uscite da enfant terrible. Come scrisse egli stesso più tardi, nel 1920 "per tante piccole ragioni sentimentali" divenne fascista ("appena infiliamo i calzoni lunghi corriamo a iscriverci al fascio", L. Longanesi, In piedi e seduti, p. 44); se, nell'ambito del fascismo cittadino, suo primo mentore fu A. Bonaccorsi, suo referente nei rapporti con il partito sarebbe stato L. Arpinati.

    Benché giovanissimo, prese a frequentare sia i caffè letterari, il San Pietro in particolare, sia il giro dei nottambuli e del demi-monde cittadino, e fu presto considerato una sorta di mascotte dagli intellettuali più conosciuti: B. Cicognani, G. Della Volpe, G. Del Vecchio, e soprattutto G. Morandi, che lo prese a benvolere e lo presentò più tardi a G. Raimondi e a V. Cardarelli. Il L., sempre pieno di idee per cui si infervorava e che discuteva animatamente, non ebbe tuttavia mai propensione alla speculazione teorica né una vocazione propriamente politica; portato al sarcasmo e alla critica obiettiva, moralistica, da esercitarsi sugli eventi concreti e sugli aspetti ridicoli e assurdi di singoli eventi e persone, aveva una solida tempra di organizzatore e in lui le mille idee, cui sempre arrivò per intuizione più che per cultura o ragionamento, assumevano immediatamente carattere di progetto concreto (un disegno, un articolo, l'ipotesi di un nuovo giornale), sfogo naturale di un'ambizione consapevolmente e precocemente protesa a occupare un proprio spazio nella società culturale e politica.

    Nel novembre 1920 uscì il primo e unico numero di un giornaletto da lui fondato, Il Marchese, di cui non rimane traccia; dal marzo al maggio 1921 apparvero tre numeri del mensile satirico È permesso? Zibaldone dei giovani, tipico prodotto goliardico con vaghe suggestioni fasciste e futuriste.

    Già più "longanesiano" Il Toro - diretto insieme con C. Testa e N. Fiorentini, il n. 1 è del 1° marzo 1923 -, per l'eleganza grafica (vi compaiono i piccoli disegni del L. in apertura e chiusura degli articoli, qui di chiara ispirazione futurista), la sentenziosità aforistica ("Cercare il vero in arte è come cercare i fatti in filosofia") ma, soprattutto, notevole come atto di nascita e prima espressione della costante nostalgia del L. per un mondo e un tempo "altro", di valori consolidati e semplice eleganza, senza "volgarità e villani rifatti", definito a ragione da Cecchi "un punto di riferimento, una mira ipotetica", per sua intima essenza irraggiungibile (E. Cecchi, Un coraggio indomito, in L. L.… 1905-1957, p. 378), fondamento del suo particolare conservatorismo presente e futuro.

    All'epoca il L. aveva già iniziato la collaborazione, soprattutto grafica, a Cronache d'attualità, di Roma, diretto da A.G. Bragaglia (cominciò con sei disegni per l'articolo di S.A. Luciani, Verità e poesia, nel n. 1-6 del 1922), che proseguì, dall'aprile dell'anno successivo, sul supplemento satirico delle Cronache, l'Index rerum virorumque prohibitorum o Breviario romano; e il L. negli anni a venire si sarebbe senz'altro ricordato degli irriverenti e provocatori spiriti futuristi che ancora si agitavano a Roma.

    Intanto, nel febbraio 1924, proprio con la malleveria di Bragaglia, si offrì come collaboratore ad A. Soffici, che sarebbe divenuto uno dei suoi numi tutelari, anche se sul momento non se ne fece nulla. Nella primavera-estate di quell'anno soggiornò per due mesi a Roma, dove, sempre attraverso Bragaglia, frequentò la Grotta degli Avignonesi ed entrò nella celebre terza saletta del caffè Aragno, rinnovandovi la conoscenza con Cardarelli, prendendo contatto con l'élite dell'ambiente culturale romano, da cui avrebbe tratto molti dei suoi futuri collaboratori: A. Baldini, L. Montano, A. Savinio, A. Bartoli; fu introdotto ai salotti letterari dei Cecchi - e dunque conobbe i Longhi, N. Rota, G. Ungaretti, R. Bacchelli, C. Pascarella - e del pittore A. Spadini. Rientrando a Bologna si fermò a Firenze, dove, con una presentazione di Cecchi, poté incontrare G. Papini e D. Giuliotti.

    Tale intreccio di relazioni, conoscenze, amicizie - nate e incrementate nel corso degli anni fra salotti, locali notturni, redazioni di giornali - fu elemento fondante nell'evolversi della carriera del L., il quale, nonostante il carattere irridente e litigioso, pur fra alti e bassi volle e seppe coltivare con cura questo vivaio di collaborazioni e di rapporti, necessari alla realizzazione delle varie imprese in cui via via si cimentò.

    Rientrato a Bologna, si iscrisse a giurisprudenza, ma non si laureò mai, proseguendo invece, con sempre maggior determinazione, l'attività giornalistica: assunse (e tenne fino al 1926) la direzione de Il Dominio, periodico nazionalista e monarchico finanziato dal fascio locale. Contemporaneamente offrì la propria collaborazione anche a M. Maccari, che era andato a trovare a Colle di Val d'Elsa, dove questi stava preparando l'uscita de Il Selvaggio, organo semiufficiale del movimento di Strapaese, su cui il L. iniziò a pubblicare nel 1925.

    Strapaese, sul piano strettamente culturale - soprattutto attraverso Il Selvaggio, quando nel 1926 Maccari ne rimase il solo direttore -, fu uno dei modi possibili messi in atto dalla cultura italiana per riassorbire e liquidare l'ubriacatura delle avanguardie e rientrare nel solco della grande tradizione nazionale; sul piano politico fu un richiamo al fascismo provinciale e squadristico delle origini nel breve momento in cui il fascismo "statalista e di governo", dopo il delitto Matteotti (1924), entrò in crisi. Per il L., già in evidente sintonia con le posizioni sostenute dal movimento, affiancarsi a Maccari ("i due nani di Strapaese" furono detti, data la bassa statura di entrambi) significò soprattutto potersi avvicinare, e quindi poi lavorare appoggiandosi a personalità quali Soffici e Cardarelli di cui apprezzava la moralità critica e risentita che riteneva affine alla propria e di cui condivideva d'istinto il richiamo alle memorie familiari e paesane alla classicità italica; inoltre Strapaese era un movimento "contro", assimilabile al "ribellismo" delle riviste toscane d'anteguerra: contro il partito istituzionalizzato, contro la romanità d'accatto che tanto attraeva il fascismo, contro i borghesi di città immemori dei buoni e domestici valori antichi, contro l'esterofilia. Tutti elementi che, con correzioni di linea ed evidenti modifiche, sarebbero rimasti come costanti delle posizioni ideologiche del L. anche perché corrispondenti alla natura ipercritica e fondamentalmente scettica del suo carattere.

    Fu quindi "salvatico", ma non bastando al suo protagonismo l'affiancare Maccari, con l'appoggio finanziario di Arpinati e con il sostegno dello stesso Maccari, di Soffici e di Gherardo Casini, riuscì a far partire un suo periodico, L'Italiano (n. 1, 14 genn. 1926).

    L'Italiano fu la creatura prima e più longeva (chiuse a fine 1942) del L.; fu la palestra dove per molti anni egli sperimentò tecniche e collaboratori; e, nel momento degli esordi, la sua lettera di presentazione, la malleveria delle sue capacità. Nel primo periodo fu quindicinale e di medio formato; impaginato su quattro colonne, si distingueva per l'eleganza nella composizione, arricchita dall'uso dei disegni (quasi sempre satirici e, nella prima fase, di mano sia principalmente del L. e di Maccari, sia di classici come G. Grosz e H. Daumier), e per la riesumazione, subito celebre, dei caratteri Bodoni che proprio Morandi aveva suggerito al L., indicandogli anche la vecchia tipografia dove erano reperibili. Sottotitolato Rivista della gente fascista, i primi otto numeri furono quasi tutti assorbiti dalla polemica politica: "ostile se occorre anche al fascismo ufficiale"; la linea ideologica veniva epigrammaticamente, e sbrigativamente, riassunta nel n. 1 dal giovane direttore: "L'Italia ha il sole e con il sole non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, l'entusiasmo, l'armonia, la salute filosofica, l'antidemocrazia, il fascismo, Mussolini". In breve volger di tempo, la maturazione di una differente linea politica da parte del fascismo e l'assidua presenza in redazione di un intellettuale di matrice rondista quale G. Raimondi, che favorì la collaborazione, fra gli altri, di Cardarelli, di Bacchelli, di C. Malaparte, portò la rivista a indirizzarsi piuttosto sul versante letterario. Nel 1928 con l'allontanarsi di Raimondi, cui seguì un certo distacco anche da Cardarelli, il "colore" ideologico-culturale venne definito da una figura più in linea con l'ufficialità, C. Pellizzi, amico di G. Bottai e di G. Gentile. Di fatto, la specifica caratteristica che il giornale derivava dal direttore (che vi firmava soprattutto con pseudonimi) era strettamente legata, al di là del bric-à-brac strapaesano, alle molte curiosità e ai molti interessi del L., e consisteva nella grande varietà di argomenti - sull'Italiano c'era di tutto: rivoluzione e tradizione, le poesie di Ungaretti e il manganello, una piccola posta "I misteri dell'Italia", la proclamazione dell'autarchia culturale e la traduzione di opere straniere - unita al modo in cui questi argomenti venivano presentati e distribuiti anche a livello di impostazione grafica e di impaginazione.

    In questa fase, forse la più impegnata sul piano della politica militante, il L. aveva pubblicato il famoso Vademecum del perfetto fascista (Firenze 1926), una cinquantina di pagine di aforismi, assiomi, slogan destinati a grande notorietà (tra cui il famoso "Mussolini ha sempre ragione", peraltro già apparso sul n. 3 dell'Italiano), cui seguirono, nel 1927, Cinque anni di rivoluzione (Bologna) e, nel 1928, La figlia del tipografo (ibid.); questi ultimi due volumi furono però pubblicati in proprio dal L., che aveva avviato anche un'attività editoriale, Le Edizioni dell'Italiano, nel cui alveo - grazie alla consueta eleganza formale e dimostrando un fiuto che non lo avrebbe mai abbandonato - riuscì ad attrarre alcuni fra i migliori nomi della letteratura nazionale, talvolta con raffinate piccole opere eterodosse rispetto alla produzione maggiore (fra i titoli: La ruota del tempo di Bacchelli, illustrato da 22 disegni di Morandi, che vinse il premio Bagutta; Il perdigiorno di L. Montano, ambedue del 1928; Il sole a picco di Cardarelli, e la La dolce calamita, ovvero La donna di nessuno di Baldini, del 1929).

    Benché appena ventiquattrenne, il L. si era ormai guadagnato una solida reputazione. Nel 1929 si presentò alle elezioni e non fu eletto. In luglio il federale di Bologna, M. Ghinelli, in rotta con il direttore de L'Assalto, settimanale della federazione fascista, chiamò a sostituirlo il L., che accettò l'incarico e rimase al giornale fino all'autunno 1931, rivedendone al solito l'impostazione grafica e arricchendolo con nuove rubriche e inchieste. La lettera di dimissioni, pubblicata sul numero 42 del 17 ottobre, adduceva un generico motivo di altri impegni, ma le circostanze in cui era maturata erano di tutt'altro genere.

    La meccanica dell'incidente - una recensione fortemente derisoria, Vecchiaia delle parole (n. 41, 10 ott. 1931), che colpiva un influente senatore bolognese - destinata a riproporsi in futuro in diverse situazioni, illumina un aspetto particolare e significativo del carattere del L., il quale, pur nell'esercizio di una critica spietata, riusciva tuttavia - probabilmente più per caratteriale cinismo che per calcolo - a mantenersi sempre all'interno della parte politica dominante senza dissociarsene mai fino in fondo, senza costituire quindi un pericolo reale e finendo per configurarsi alla fin fine come una sorta di testimonianza vivente della tolleranza del regime. Molto più difficile, quasi impossibile, come in questo caso, gli era invece astenersi dallo sberleffo, dalla battuta, dallo schiaffo in piena faccia (e pare avesse rivestito un certo ruolo in quello materialmente inferto a Toscanini nel corso della gazzarra al Comunale del 14 maggio 1931, tanto che girava la voce, peraltro infondata, che proprio lui ne fosse stato l'estensore) e di questo invece gli capitò di pagare spesso le conseguenze, guadagnandosi anche la fama di persona mai interamente affidabile o manovrabile.

    Nel 1929, per il tramite di C. Malaparte, direttore della Stampa, ottenne l'incarico di allestire il padiglione della stampa letteraria per un'esposizione da tenersi a Barcellona. L'ottimo risultato conseguito gli procurò un ben più significativo compito: la sistemazione della Sala T, interamente dedicata a Mussolini, nell'ambito della Mostra del decennale della Rivoluzione fascista che si sarebbe tenuta nel 1932. L'allestimento incontrò la piena approvazione del duce e dimostrò la particolare sensibilità e abilità del L. nell'utilizzare strumenti di comunicazione così importanti nella società di massa.

    La nozione del ruolo fondante e primario del duce nella vita della nazione "passava", senza uso di eccessi retorici e senza trionfalismi, in forma allusiva ma estremamente chiara, attraverso la semplice citazione dei dati salienti della biografia, l'evocazione del suo habitat quotidiano (lo studio al Popolo d'Italia, perfettamente ricostruito), l'esposizione di una nuda documentazione quasi priva di commento.

    Ancor prima dell'episodio che pose fine alla direzione dell'Assalto, le sensibilissime antenne del L. avevano avvertito che, a regime solidamente impiantato, non era più salutare parlare di politica, o quanto meno parlarne in forma diretta, come del resto esplicitò a Pellizzi: "È bene parlare di cravatte (politiche), di pittura (politica), di usanze, di fisionomia".

    Decise quindi di dedicarsi di più all'Italiano e, ottenuta un'erogazione di 36.000 lire dall'Ufficio stampa del duce, tra il 1930 e il marzo 1931, data d'inizio della nuova serie, approntò diverse modifiche.

    Divenuto Foglio mensile della Rivoluzione fascista, ne fece una classica, raffinata rivista d'arte e letteratura, formato 18 per 24,5 cm, 40 pagine, uso di caratteri bodoniani e corsivi, con una redazione più strutturata e un frequente ricorso a numeri monografici. Vi si mescolavano racconti, saggi, trouvailles storiche, commenti, qualche polemica, argomenti di varia attualità sociologica, spesso di taglio eterodosso e inusuale. Vi si riscontrava, inoltre, un uso crescente della fotografia, originale per il taglio, l'impaginazione, la promiscuità tra foto d'epoca, foto attuali (spesso del L.), disegni in rapporto al testo. Larga parte veniva lasciata alla letteratura straniera con una notevole presenza americana (W. Faulkner, W. Saroyan, E. Hemingway) e, fra i numerosi altri, J. Giono, A. Gide, J. Roth, D.H. Lawrence. Particolarmente significativo anche l'ampliamento della collaborazione italiana (intensa quella con G. Ansaldo, conosciuto nel 1926), che vide affiancarsi ai vecchi nomi quelli della generazione che avrebbe fatto la storia letteraria dell'Italia del dopoguerra, poi partecipe, almeno in parte, delle future avventure editoriali del L.: Moravia, Elsa Morante, G. Comisso, V. Brancati, D. Buzzati, M. Soldati, M. La Cava.

    I primi anni Trenta non furono un periodo particolarmente soddisfacente per il L. che, dopo la partenza bruciante, da enfant prodige, viveva, almeno parzialmente, una situazione di stallo. Forse anche per dare una svolta alla sua carriera, nel maggio 1932 si trasferì a Roma con tutta la famiglia. Suo obiettivo primario era quello di ottenere dal duce il permesso di realizzare un settimanale di attualità: finalmente, l'11 febbr. 1937, ottenne da Mussolini la sospirata nomina a direttore del settimanale d'attualità Omnibus, titolo suggerito, sembra, dal duce in persona.

    Rizzoli fu l'editore - ma dopo soli sei mesi, dati gli alti costi, gli si affiancò Mondadori -, amministratore T. Monicelli; la stampa era in rotocalco, procedimento fino ad allora adottato solamente dalle riviste femminili, in 16 pagine di grande formato (55 cm per 40), a sei colonne, che per le rubriche si riducevano a 4 o 5. Il n. 1 uscì il 15 apr. 1937; il L. lo definì, in una lettera ad Ansaldo, "una trincea all'ombra del regime, contro[…] le dirò chi". L'elenco dei collaboratori di Omnibus, che comprende anche tutti o quasi i nomi dei precedenti compagni di strada del L., è in pratica un vero e proprio "gotha" di due generazioni di giornalisti: fra gli altri M. Pannunzio (critica cinematografica), A. Benedetti (critica letteraria), A. Guerriero (Ricciardetto, politica estera), B. Barilli (critica musicale), A. Savinio (critica teatrale), e poi E. Flaiano, A. Bonsanti, Irene Brin (cronache mondane), I. Montanelli, P. Monelli, E. Patti, B. Tecchi (la corrispondenza e varia letteratura), e ancora E. Emanuelli, M. Praz, M. Missiroli, V. Gorresio, U. Stille, M. Alicata, G. Pintor, C. Muscetta, M. Cesarini.

    Destinato a durare neppure due anni, Omnibus divenne, col tempo, quasi leggendario e, in effetti, può essere considerato a giusto titolo il progenitore di tutti i successivi settimanali italiani di attualità. La formula era sicuramente nell'aria e al L. fu suggerita in particolare da alcuni periodici francesi cui riuscì a coniugare i risultati del giornalismo illustrato angloamericano: Look, Life, Picturepost, New Yorker. Sul piano grafico impaginativo si può cogliere l'influenza dell'espressionismo grottesco tedesco e l'approccio ludico del dada francese, sempre cari al L.; ricchissimo di foto - rivoluzionò alla radice in ambito giornalistico il tradizionale rapporto tra fotografia e scrittura - alcune di sostanza, alcune di richiamo ("Diamole dunque le gambe delle attrici e tante immagini accanto a testi ben fatti"), ospitava anche vignette di Maccari, Cavallo, G. Mosca. I contenuti si tenevano in equilibrio tra attualità e costume, cronaca e letteratura: c'erano recensioni artistico-letterarie e degli spettacoli, racconti di autori italiani e stranieri e servizi degli inviati speciali, profili biografici e romanzi a puntate, tendenze della moda, cronaca giudiziaria ed eventi mondani. L'ineliminabile, e prevalente, approccio critico era in generale rivolto a quanto, nell'ambito della cultura e del costume sociale, apparisse sciatto, inelegante, volgare, supponente - e quindi sotto trasparente metafora, riferibile a molti caratteri e aspetti del "fascismo di potere" -. Questo pot-pourri era reso omogeneo dallo stile: filo conduttore e collante, caratterizzato dal gusto per il particolare apparentemente inessenziale giustapposto all'essenziale della notizia, da un tono divagato e sensibilmente snob che indugiava sul piacere dell'aneddoto, della boutade, del paradosso, dell'annotazione di costume, abbastanza prossimo a quello che più tardi sarebbe stato definito il "radical-chic", e che nasceva per tanta parte dal piacere dell'inutile, del fine a se stesso, parte integrante della vena creativa del Longanesi. Egli profuse in Omnibus le sue doti di grande organizzatore e, pur non pubblicandovi cose sue, esercitò sui vari contributi un editing interventista, qualificante quell'approccio particolare a qualsivoglia argomento che era il vero elemento destabilizzante e politicamente pericoloso, giacché capace di realizzare dall'interno un'impalpabile ma costante erosione dei "valori" propugnati dal regime. Essendo Omnibus, al di là delle stesse intenzioni del L., costituzionalmente e irriducibilmente incompatibile con il fascismo, fu chiuso; l'articolo che provocò il provvedimento fu un servizio di Savinio da Napoli in cui si parlava anche della morte di Leopardi: per diarrea.

    L'avventura di Omnibus si concluse il 29 genn. 1939; il L. prese la cosa con una certa filosofia, forse perché ormai abituato a questi incidenti di percorso. Nel febbraio 1939 sposò Maria Spadini, figlia del pittore, con la quale aveva rinnovato la conoscenza dopo il trasferimento a Roma e da cui ebbe tre i figli, Virginia, Caterina e Paolo. Acquistò una casa in campagna presso Imola che volle chiamare "La lotta", e cominciò a collaborare con l'editore Tumminelli alla rivista Storia (che ribattezzò Storia di ieri e di oggi).

    Direttore figurava Gorresio, ma il L., che non poteva firmare in tale veste per la troppo recente sospensione, gli dette tuttavia il suo imprinting portandosi dietro alcuni collaboratori (Brancati, P.P. Trompeo, A. Tilgher) e inserendo molti dei suoi argomenti prediletti: la moda, il cinema, l'arte popolare, la Roma "quotidiana", Napoleone, Renan, la caricatura.

    In buoni rapporti con Rizzoli, questi gli affidò la direzione della collana "Il sofà delle muse", brillantemente inaugurata da Il deserto dei Tartari di Buzzati (Milano 1940). Nel giugno 1940, allo scoppio della guerra, fu nominato da A. Pavolini consulente tecnico-artistico del ministero della Cultura popolare; in quella veste partecipò alla redazione di Fronte. Giornale del soldato, pubblicato ancora da Tumminelli, e curò personalmente alcuni manifesti per la propaganda di guerra, un primo passo sulla via dell'ideazione di manifesti pubblicitari quali effettivamente avrebbe realizzato nel dopoguerra su Il Borghese (fra molti altri per Vov, Fiat, Borsalino, Olivetti, Agipgas, Pirelli, Cirio, Cynarsoda), a ulteriore dimostrazione della sua istintiva capacità di utilizzare gli strumenti mediatici della società di massa. Dall'ottobre 1941 iniziò a collaborare, soprattutto con illustrazioni e copertine, al Primato di Bottai; sul finire del 1942 iscrisse alla Confederazione fascista dell'industria la Longanesi editore, che contò presto su due collane, stampate da Rizzoli, "La Gaja Scienza" e "Nuova Società".

    Si sa che dal 1942 in privato aveva incominciato a criticare pesantemente Mussolini e che non aveva alcuna fiducia in una positiva risoluzione della guerra. Quando si arrivò al 25 luglio 1943, insieme con Benedetti, Flaiano e Pannunzio pubblicò su Il Messaggero un articolo titolato Per la patria, di tono nettamente moderato senza alcuna forzatura critica nei confronti del fascismo. Contemporaneamente si occupava di cinema, da tempo un altro fra i suoi più spiccati interessi.

    L'amore per il cinema del L., anche in questo caso ben consapevole dell'enorme impatto del mezzo come strumento di propaganda, risaliva alla metà degli anni Venti: ne aveva scritto e fatto scrivere sui suoi giornali, e nel gennaio 1933 (sul n. 17-18 dell'Italiano) aveva pubblicato l'abbozzo di una sua sceneggiatura, Film dal vero, in nove piccoli episodi che mostravano una decisa propensione per una sorta di pre-neorealismo. Nel 1938, insieme con I. Perilli, aveva contribuito alla sceneggiatura di Batticuore di M. Camerini e, sempre con Perilli, nel 1941, aveva steso soggetto e sceneggiatura del Fra' Diavolo di L. Zampa. Nei 45 giorni che corrono dal 25 luglio all'8 sett. 1943, lavorando per la prima volta come regista, cercò di portare a termine Dieci minuti di vita - prodotto da R. Marcellini, sceneggiato con Flaiano, Orsola Nemi, Stefano Vanzina (Steno), e un cast di tutto rispetto: Soldati come aiuto, fotografia di A. Tonti, attori come G. Cervi, R. Lupi, G. Tumiati, V. De Sica, Emma Gramatica -, storia assai longanesiana di un vecchio anarchico che mette una bomba in un palazzo e poi, per evitare vittime, va ad avvertire tutti gli inquilini, intersecando così cinque diverse tranches de vie. Il film fu completato a Torino, profondamente modificato, da N. Giannini e uscì con il titolo di Vivere ancora. La sceneggiatura originale apparve successivamente nel Caffè politico e letterario (IX [1961], 3, pp. 9-42).

    Dopo la liberazione di Mussolini (12 sett. 1943), il L. seppe di essere stato inserito dai repubblichini fra i "giornalisti traditori". Timoroso di possibili rappresaglie nella città occupata dai Tedeschi, insieme con Steno e R. Freda decise di raggiungere Alleati e badogliani al Sud; partito da Roma a metà settembre, facendo sosta in Abruzzo arrivò a Napoli ai primi di ottobre. Qui, anche con l'aiuto di Garosci e Pintor, fu ammesso a far parte del Centro italiano di propaganda, istituito dagli Americani, che gli affidò una piccola rubrica umoristica, "Stella bianca", a Radio Napoli ricevendo come compenso vitto e alloggio.

    L'esperienza napoletana fu traumatica per il L.: abituato, nonostante i fastidi, del resto contenuti, avuti dal regime, a godere di stima, considerazione e di un'agiata vita borghese, si trovò pressoché solo in una città, distrutta fisicamente e moralmente dalla guerra, che lo disgustava e lo impauriva; si sentiva inoltre guardato con totale disinteresse dagli Alleati e quasi con disprezzo dagli antifascisti, dai quali aveva creduto di poter essere riconosciuto come compagno di strada. Nel 1944 chiese la tessera del partito comunista, che gli fu rifiutata. Sicuramente legato anche a tali esperienze è il suo atteggiamento astioso, profondamente irrispettoso verso l'antifascismo, di cui vide solo gli aspetti rivendicativi e meschini senza riuscire a valutare e comprendere l'alta moralità dei molti che avevano scelto con coraggio e pagato di persona.

    Rientrato a Roma il 1° luglio 1944, per breve tempo come tanti "reduci" seguì la trafila dei piccoli mestieri del dopoguerra (si occupò di romanzi polizieschi, collaborò a settimanali di "bassi consumi giornalistici"; con Steno e Castellani scrisse una rivista di scarso successo, Il suo cavallo). Ma nel 1945 riprese i contatti con Rizzoli e quell'anno uscì il 25° volume nel "Sofà delle muse", il Libro degli appunti di Katherine Mansfield, tradotto dalla Morante. Soprattutto il L. aveva capito che c'era poco o nulla da temere dalla nuova classe politica e che avrebbe potuto riprendere tranquillamente non solo il suo lavoro ma anche l'antico ruolo di impietoso fustigatore, ora dei nuovi costumi e delle nuove debolezze della società italiana. Sempre nel 1945, durante un soggiorno a Milano venne in contatto con l'industriale Giovanni Monti il cui figlio, Mario, interessato al settore editoriale, era stato indirizzato al L. da O. Vergani. L'accordo per la fondazione di una nuova casa editrice fu raggiunto abbastanza velocemente e il contratto firmato il 1° febbr. 1946: il L., che si trasferiva con la famiglia a Milano, destinava alla Longanesi & C. ogni sua attività e competenza (con l'eccezione della produzione pittorica) nonché il magazzino proveniente da precedenti attività editoriali; era globalmente responsabile della direzione editoriale e riceveva una partecipazione azionaria e uno stipendio di 60.000 lire; Monti metteva il capitale e aveva il controllo della gestione finanziaria dell'impresa.

    Senza alcun aiuto interno, con un'unica segretaria cui si affiancò un giovane collaboratore, B. Licitra, destinato a diventare amministratore della società e ottimo gestore della rete di distribuzione e vendita, il L. si servì soprattutto di consulenti esterni più o meno regolari, Ansaldo fra i primi. Contemporaneamente preparò l'uscita di un bollettino editoriale mensile, Il Libraio (15 luglio 1946 - dicembre 1949, di formato medio, in 12 pagine, stampato a rotocalco) che si occupava, principalmente ma non esclusivamente, di segnalazioni relative alla casa editrice - interviste e discussioni con gli autori, rubriche di varietà ("Il giardino dei supplizi", "Giro del mondo", "Il vizio dei premi") -, secondo un modulo che avrebbe preso piede in numerose aziende analoghe.

    La linea editoriale della Longanesi corrispose alle direttive fondamentali di tutta la precedente attività del L. e dunque, in definitiva, al suo carattere individualista e anarchico, accentratore e "interventista". Articolata in un nutritissimo numero di collane (la prima si chiamò "La Fronda", poi "Il Labirinto" per le opere filosofiche, "I Marmi", "La Buona Società", "Piccola Biblioteca", "I Cento libri", ecc.), arricchita dalla possibilità di spaziare, anche per una maggiore disponibilità economica, in un mercato autoriale molto più vasto in Italia e all'estero, ci si ritrova il gusto della scoperta di autori nuovi od ormai giunti a maturazione, italiani e stranieri (Flaiano vi pubblicò il suo Tempo di uccidere, vincitore dello Strega nel 1947, Brancati, Il bell'Antonio, Orsola Nemi, Maddalena delle paludi; il L. stampò per primo Françoise Sagan e inoltre pubblicò A. Gide, J. Reed, C. Isherwood, E. Cassirer, V. Cajumi, Gorresio, Gentile, P. Monelli, Montanelli); quello di ristampare i classici, meglio se con opere un po' dimenticate e comunque in ottime traduzioni; la passione per un "antiquariato" letterario curioso e insolito; la leggerezza di argomenti stravaganti, tuttavia garantita da firme di prestigio e sorvegliata da un'attenta cura professionale; il prodotto per palati raffinati e la letteratura d'evasione con particolare attenzione alle curiosità del pubblico sempre più avido d'indiscrezioni sapide (per tutti Le memorie del cameriere di Mussolini di Q. Navarra), gialli, libri di letteratura scientifica e libri per ragazzi.

    Curatissimo, come d'abitudine, sul piano della grafica, realizzò in dieci anni di attività un catalogo ricchissimo e una linea "ideologica" molto più aperta e varia di quanto avrebbe potuto far pensare la coeva attività del L. come giornalista e scrittore. In effetti, negli anni Cinquanta la Longanesi riempì un vuoto nel panorama editoriale italiano, creando un modello di casa editrice di medie dimensioni, originale e raffinata, immediatamente riconoscibile, sul piano grafico come su quello dei contenuti, a suo modo paradossalmente più libera di altre, perché di fatto meno influenzata da una specifica parte politica.

    Diverso fu il caso de Il Borghese, la rivista fondata nel 1950 (il primo numero è del 15 marzo, con periodicità quindicinale, settimanale dal 23 apr. 1954; piccolo formato tipo Economist, su due colonne e sulla carta giallo paglierino utilizzata per la casa editrice) che, nulla aggiungendo al magistero del L. come giornalista, presenta tuttavia alcuni punti di interesse in una prospettiva sociopolitica.

    Riproposizione un po' stanca di alcuni elementi del vecchio armamentario di Strapaese, sostenuti da un atteggiamento morale più scettico e allusivo che mai, il ruolo del "nemico" fu affidato all'antifascismo, al comunismo, alla grande borghesia riposizionatasi a sinistra, al proletariato becero, cui si aggiunse, con il passar del tempo, una iniziale critica alla ormai incombente società dei consumi. Il Borghese reiterò soprattutto, con gli abituali meccanismi, l'eterno tema, questo sì molto longanesiano, della critica a una classe dirigente inadeguata, adesso quella fornita dalla Democrazia cristiana, rispetto alla quale il L. e la sua rivista si posizionarono, in definitiva e come sempre, all'interno (rifiutando, nonostante un'indubbia aura nostalgica e una posizione di spiccato "revisionismo" nei confronti del Ventennio, un rapporto più stretto con la destra neofascista) ma da cui contemporaneamente si tennero a distanza, fustigandone l'ignoranza, la mancanza di nerbo nella lotta al comunismo, la sciatteria etica e culturale, le continue compromissioni progressivamente individuate nei vari momenti della storia politica italiana.

    Pur con l'abituale presenza dei soliti nomi (Ansaldo, Prezzolini, Furst, la Nemi), e di alcuni giovani di più definita osservanza neofascista che, alla morte del L., avrebbero preso il controllo del giornale (M. Tedeschi, Gianna Preda, P. Buscaroli), Il Borghese fu anche la camera di decompressione - qualcuno scrisse il luogo di vacanza -, spesso sotto pseudonimo, di una parte del giornalismo italiano caratterialmente conservatore (Montanelli in primis che si firmava A. Siberia o Adolfo Coltano, e molti altri con lui), fascista senza troppa convinzione ma anche senza vera repulsione, almeno fino al '43, che ora si vedeva proiettata in una realtà politica e lavorativa che non le corrispondeva fino in fondo. La rivista divenne inoltre un punto di riferimento per quella parte della borghesia nazionale, piccola e media, sostanzialmente democristiana, particolarmente meridionale, che aveva sofferto la guerra ma non aveva condiviso né compreso i valori della Resistenza, che aveva paura del comunismo egemonizzatore della sinistra, ed era infastidita dall'impresentabilità culturale del qualunquismo alla Giannini. Fu proprio questo particolare appeal dell'ideologia longanesiana a rendere plausibile, seppur per breve tempo, la trasformazione del Borghese in movimento politico o una sua utilizzazione "forte" in questa direzione (si pensi agli episodi de Il Garofano rosso - un foglietto semiclandestino, fittiziamente insediato a Parigi, subdolamente ma violentemente anticomunista, finanziato principalmente da E. Mattei, che uscì dal giugno 1952 al marzo 1953 - e dei Circoli del Borghese del 1955), subito abortita per la costituzionale idiosincrasia del L. a ogni forma di impegno autenticamente ed esclusivamente politico.

    I libri scritti dal L., acutamente ed esaustivamente definito da Montanelli "un memorialista epigrammatico", furono pubblicati quasi tutti nel dopoguerra.

    Essi costituiscono, in effetti, una sorta di "diario italiano": talvolta in forma di raccolta di vicende familiari, piccoli episodi di cronaca, incontri al caffè, aforismi, battute brucianti, a formare il ritratto del loro autore e più in generale dell'Italia, prima, durante e dopo il fascismo (Parliamo dell'elefante (frammenti di un diario), Milano 1947; Il destino ha cambiato cavallo, ibid. 1951; Un morto fra di noi, ibid. 1952; Ci salveranno le vecchie zie, ibid. 1953; La sua signora, ibid. 1958); in altri, un analogo contenuto è organizzato in album fotografici accompagnati da didascalie significative (Storia di cinquant'anni, Milano 1949; Una vita. Romanzo album, ibid. 1950); o ancora, particolarmente originale per struttura compositiva, In piedi e seduti (ibid. 1948), un ritratto dell'Italia dalla marcia su Roma all'armistizio, costituito da un collage di brani di giornali, sequenze di diario, carteggi, interviste, telegrammi, epigrafi di cortile. Per quanto la scrittura del L. sia alleggerita dal paradosso, dalla forma epigrammatica che la rende rapida e di immediata comunicazione, mirabolante per il gioco d'intelligenza di cui si nutre, il costante malcontento per tutto e su tutto, che trascolora soprattutto negli ultimi anni nel fastidio di sé e per sé, può in qualche momento comunicare al lettore quasi un senso di ripetitività e di insofferenza. Nei primi anni Quaranta aveva scritto per il teatro, atti unici soprattutto (Una conferenza, Il commendatore, La colpa è dell'anticamera, Troppo facile), che erano stati anche messi in scena.

    Il L. svolse un'intensa attività pittorica e si può dire che incominciò a disegnare prima ancora che a scrivere.

    Autore di non molti quadri e di numerosissimi disegni il L. "per tutta la vita tracciò centinaia di schizzi per spiegare a un tipografo come impostare una pagina, suggerire a un architetto come progettare una casa, per dire a un tipografo che taglio dare a un'immagine" (P. Longanesi, in L. L.… 1905-1957, p. 22). Nei soggetti si leggono spesso piccole ossessioni, del resto ricorrenti anche nella sua produzione letteraria: la famiglia, la coppia, la donna e l'eros, il macabro e la morte, la politica, il ritratto e l'autoritratto; più ancora che semplici caricature, i suoi disegni riflettono inquietudine, amarezza, l'accesa critica del costume italiano; come già accennato, gli esempi e le fonti cui il L. guardò sono rintracciabili nell'opera di Daumier, H. de Toulouse Lautrec e soprattutto Grosz. Disegnava a penna o con un pennello cinese, acquarellava con il caffè, faceva litografie, xilografie e fotomontaggi. Pittura e disegno lo attraevano molto, ma al tempo stesso gli davano un senso di affanno e di insoddisfazione, come ricorda Appella (ibid., p. 14). I pochi momenti di serenità degli anni Quaranta lo portarono a realizzare due piccoli capolavori: Roma, del 1941 (Roma, Galleria naz. d'arte moderna) e Angelo romano (coll. privata), due omaggi a Scipione (G. Bonichi), in cui il L. riuscì stranamente a far uso di colori tenui, mentre di solito usava solo colori sfrenati, neri profondi, all'interno di visioni sempre a metà tra l'onirico e il caricaturale come nel Ragioniere del 1950 o nel Fantomas (1950, Milano, Eredi Longanesi). Anche in arte fantasioso, critico, acuto, sostanzialmente autodidatta, la pittura e il disegno lo sollecitavano continuamente; malgrado il tempo passato a studiare tecniche, colle, vernici, non riuscì mai a superare alcuni problemi, per esempio l'articolazione della mano che in tutti i suoi disegni appare rattrappita, più per un limite che per un vezzo (cfr. D. Bisutti, Il pittore L. L., in Arte, XIV [1984], 147, pp. 70-75, 119 s.).

    Nel 1949 erano iniziati i primi attriti con Monti anche se il rapporto andò avanti, con alti e bassi, fino al 1956, quando, in luglio, il L. ricomprò dai suoi soci le quote del Borghese e contestualmente abbandonò la casa editrice, prendendo contatto e accordandosi con Rizzoli per far partire una nuova collana, denominata "I libri di Leo Longanesi".

    Colpito da un malore improvviso il L. morì a Milano il 27 sett. 1957.

    Alla sua morte tutta la cultura italiana ne riconobbe le capacità, il ruolo magistrale esercitato, il dono maieutico di suscitare negli altri idee, di rivelare ingegni; il suo limite, se tale si può definire, fu forse quello individuato da Gorresio, che scrisse (La vita ingenua, Milano 1980, p. 157): "il suo scherno implacabile poteva farci ridere ed illuderci in una possibilità di evasione, ma erano risate che non davano sollievo di coscienza, lasciandoci piuttosto l'amaro in bocca".

    Fonti e Bibl.: Una bibliografia completa ed esaustiva del L. e sul L., cui si rimanda, si trova nei due cataloghi: L. L., editore, scrittore, artista 1905-1957, a cura di G. Appella - P. Longanesi - M. Vallora, Milano 1996 (con una completa cronologia della vita, delle opere, delle mostre) e P. Albonetti - C. Fanti, L. e Italiani, Faenza 1997; per il periodo successivo si tenga presente R. Liucci, L'Italia borghese di L., Venezia 2002, anch'esso corredato di ricchissima bibliografia.

    Leopoldo Longanesi in Dizionario Biografico

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    ottimo Florian e splendido Longanesi, mi pare che si sta imboccando una strada buona per questo forum, piu' sganciato dall'attualità, piu' culturale e piu' italiano

  10. #10
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    Predefinito Rif: DOSSIER Leo Longanesi

    Citazione Originariamente Scritto da Candido Visualizza Messaggio
    ottimo Florian e splendido Longanesi, mi pare che si sta imboccando una strada buona per questo forum, piu' sganciato dall'attualità, piu' culturale e piu' italiano
    Grazie Candido

 

 
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