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    Predefinito Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franco

    Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franco
    di Francesco Lamendola



    C’è stato un tempo in cui intellettuali e militanti del fascismo pensavano che il regime sarebbe intervenuto nella guerra civile spagnola non dalla parte dei franchisti, ma al fianco dei repubblicani; cosa che essi desideravano e speravano ardentemente.
    Detta così, nel contesto della Vulgata dominante liberaldemocratica, sembra quasi una esercitazione di ucronia, la “scienza” della storia possibile, ma non effettivamente accaduta, teorizzata dal filosofo francese Charles Renouvier e sviluppata da diversi scrittori e studiosi, a cominciare da Tito Livio, il quale si domandava che cosa sarebbe accaduto se Alessandro Magno avesse puntato ad espandere il regno macedone non verso Oriente, cioè verso l’Impero Persiano e l’India, ma verso Occidente, ossia in direzione di Roma.
    Infatti, secondo la Vulgata liberaldemocratica, il fascismo è sempre stato uguale a se stesso: un regime becero e monolitico, sistematicamente arroccato a sostegno degli interessi delle classi possidenti e sostanzialmente nemico di quelle lavoratrici; un regime che non poteva non schierarsi dalla parte di Franco, così come - qualche anno dopo - non avrebbe potuto non fare la sua scelta di campo al fianco di Hitler.
    Ora, a parte il fatto che resta tutto da spiegare, in una simile prospettiva, come questo regime anti-popolare abbia potuto reggersi per vent’anni e godere di un vasto sostegno popolare, che venne meno solamente sotto il peso di una sconfitta militare schiacciante, è chiaro che l’errore fondamentale consiste nel considerare il fascismo come un tutto omogeneo e nel non voler distinguere tra le varie componenti del fascismo come movimento e quelle del fascismo come governo prima, come regime poi.
    La maggior parte dei testi divulgativi, a cominciare da quelli di uso scolastico, sono ancora basati su una tale impostazione; quelli specialistici si degnano di riconoscere una certa eterogeneità ideologica e una certa complessità sociale del fenomeno “fascismo”, anche se ben raramente sfuggono alla tentazione di appiattirsi sull’ideologia dei vincitori e di fare di tutta l’erba un fascio, condannando come un tragico errore, come una crociana malattia della società italiana, quel ventennio della nostra storia, senza darsi troppa pena nel distinguere, nel puntualizzare e nel precisare categorie politiche e sociologiche assai generiche.
    Il fascismo di sinistra, in particolare, non è mai stato riconosciuto come una componente organica e coerente, con una sua dignità intellettuale e politica, distinta dal fascismo-regime e addirittura alternativa all’orientamento borghese-conservatore della dittatura; né si è evidenziata a sufficienza la continuità esistente fra esso e le origini sociali, rivoluzionarie e antiborghesi del fascismo delle origini: quello di Piazza San Sepolcro.
    Inoltre, si è parlato del fascismo di sinistra (in genere mettendo l’espressione tra virgolette, come si trattasse di una cosa da non prendere troppo sul serio) più sul versante letterario, magari per spiegare la successiva, “miracolosa” conversione di scrittori passati alla sinistra socialcomunista e divenuti poi famosi, come Elio Vittorini e Vasco Pratolini, che non su quello propriamente politico e sindacale; perché, se si fosse approfondito quest’ultimo aspetto, si sarebbe probabilmente dovuto ammettere che aveva solide radici popolari, non solo nelle campagne, ma anche nelle fabbriche, il che avrebbe fatto cadere la manichea e semplicistica equivalenza tra fascismo e conservatorismo da un lato, e fra socialcomunismo e progressismo, dall’altro.
    Sarebbe imbarazzante, per la Vulgata storica oggi dominante, ammettere che non tutti gli squadristi consideravano i contadini come i loro nemici naturali, ma che alcuni vedevano invece questi ultimi proprio negli agrari (cfr. Il nostro precedente articolo: «Tullio Cianetti, il fascista che bastonare gli agrari», apparso sul sito di Arianna Editrice il 12/10/2009); o che la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, forse fu pianificata dall’alta borghesia precisamente per impedirgli di riprendere il programma sociale delle origini (cfr. il nostro articolo: «Fu il progetto di socializzare l’economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/11/2008).
    Su questi temi sono usciti alcuni eccellenti studi, come i saggi contenuti nel volume di Enrico Landolfi «Rosso imperiale», i quali, però, non sono riusciti a scalfire sostanzialmente l’impianto tradizionale della storiografia italiana sul fascismo, ma che hanno semmai coinvolto una piccola minoranza di storici, lasciando fuori la grande massa del pubblico.
    Eppure, il fascismo di sinistra, negli anni Trenta e fino ala guerra di Spagna, fu una componente importante del fascismo, sia sul piano culturale, sia sul piano sociale e sindacale; filosofi come Ugo Spirito e sindacalisti come Tullio Cianetti puntavano a una ripresa del programma corporativo in chiave integrale; uomini di cultura come Berto Ricci, dalle colonne di una prestigiosa rivista come «L’universale», tenevano viva l’anima originaria del regime, sovversiva e antiborghese; figure prestigiose come Ardengo Soffici e Giovanni Papini gravitavano in quella direzione; giornalisti di prim’ordine, come Concetto Pettinato, guardavano nella stessa direzione e auspicavano non già una alleanza dell’Italia fascista con la Germania di Hitler, ma, semmai, con l’Unione Sovietica, o, quanto meno, una politica di collaborazione con essa, parallela al bolscevismo.
    E non è che questi ambienti fossero del tutto isolati o che queste voci chiamassero nel deserto; sia Bottai, sia lo stesso Mussolini tenevano in un certo conto il fascismo di sinistra, dialogavano con esso e, per certi aspetti, lo proteggevano; tanto è vero che, dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, questi temi e queste aspirazioni sarebbero tornati prepotentemente alla ribalta e, addirittura, sarebbero entrati a far parte del programma del Manifesto di Verona - anche perché, questo è vero, la separazione dalla monarchia e dagli ambienti conservatori ad essa vicini aveva reso le cose più chiare e, in un certo senso, aveva reso inevitabile l’accentuazione delle tendenze sociali e antiborghesi del governo di Salò.
    Scrivono Romano Luperini e altri (in: «La scrittura e l’interpretazione», Palermo, Palumbo & C. Editore, 2011, vol. 6, pp. 51-52):

    «Il fascismo va al potere utilizzando il sovversivismo piccolo-borghese; ma, diventando regime, tende poi a soffocarlo. Si spezza così il legame fra avanguardia e sovversivismo, fra impegno sperimentale e movimento di lotta. Se si aggiunge che nel generale ritorno al’ordine le avanguardie sono mal viste o combattute, si può capire il motivo per cui esse, dopo il 1925, continuino a sopravvivere solo in forme moderate, trasformandosi in movimenti di fronda interni al fascismo.
    È così per “stracittà” e per “Strapaese”, che si inseriscono nel dibattito fascista sull’ordine di priorità e di importanza da assegnare a campagna e industria, a politica rurale e modernizzazione “Stracittà” recupera il modernismo cittadino dei futuristi, “Strapaese” prosegue il sovversivismo antiborghese e campagnolo della tradizione lacerbiana (e infatti è appoggiato da Paini e Soffici).
    Il primo dei due movimenti a darsi una rivista “Strapaese” attraverso “Il Selvaggio”, fondato dal pittore Mino Maccari a Colle Val d’Elsa (Siena) nel 1924,. La rivista fu poi spostata a Firenze e per un certo periodo anche a Torino ed ebbe lunga vita (sino al 1943). Dopo una prima fase più spiccatamente politica, divenne prevalentemente artistica e letteraria, conservando però un acceso fervore antiborghese. Su di essa Maccari attaccava, con la penna e con le immagini, le tendenze conservatrici del regime e la propensione del fascismo a diventare istituzione. […]
    La tendenza strapaesana continua negli anni Trenta passando anche ad altre riviste, come “L’Italiano” di Longanesi, e soprattutto influenzando i giovani “fascisti di sinistra” che ne riprendono l’aspetto ribellistico e utopico. Si tratta di un gruppo di giovani, attivi negli anni Trenta a Firenze: Berto Ricci, Dino Garrone, e gli scrittori Elio Vittorini, Romano Bilenchi, Vasco parato lini. Essi collaboravano a “L’universale” (1931-36), rivista diretta da Berto Ricci, e a “Il Bargello”, organo settimanale della federazione fascista di Firenze.
    I giovani fascisti di sinistra sostenevano la necessità che il fascismo approfondisse le proprie radici popolari e si avvicinasse al socialismo e all’URSS; proponevano di espropriare i possidenti e di dare la terra ai contadini e allo Stato; erano portatori di un programma utopico volto ad abolire le differenze fra lavoro manuale e intellettuale. Il popolo è per loro sinonimo di cultura, di civiltà, di umanità. In base a tale credo umanitario e a tale acceso populismo, , si battevano contro i caratteri elitari della riforma Gentile e della cultura dell’idealismo: affermavano l’esigenza per l’intellettuale d’impegnarsi politicamente rivendicando il diritto al dissenso all’interno del fascismo. “L’universale” e la terza pagina del “Bargello” proponevano insomma la figura del “letterato-ideologo”, in polemica contro i “letterati-letterati” e dunque contro i solariani e gli ermetici.
    In realtà i fascisti di sinistra puntavano a scavalcare la mediazione della burocrazia fascista e ad avvalersi della diretta protezione di Mussolini. La loro illusione durò sino alla guerra di Spagna, quando invano sperarono che il fascismo intervenisse contro Franco, a fianco dei repubblicani. Delusi, alcuni di loro (Vittorini, Bilenchi, Pratolini) si avvicinarono fra il 1939 e il 1940 al partito comunista clandestino, e parteciparono poi alla Resistenza.
    In un primo tempo, però, fra il 1936 e il 1939, i fascisti di sinistra, sconfitti e amareggiati, ripiegarono sulla letteratura, avvicinandosi ai “letterati-letterati”. La rivista che dette voce a tale confluenza fu la fiorentina “Campo di Marte”, diretta nel 1938-39 da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto. Qui si incontrarono ermetici e populisti, unificati dalla tensione verso un’essenza universale dell’Uomo che solo l‘arte sarebbe in grado di cogliere. Valore assoluto dell’arte e credo umanitario potevano così saldarsi.»

    Il fascismo di sinistra non fu un movimento puramente letterario, anche se dovette ripiegare prevalentemente sul terreno culturale dopo il 1936; come già abbiamo accennato, lo si sarebbe visto riemergere con prepotenza nell’ultima stagione del regime, quella repubblicana, allorché, in pratica, riuscì a divenire il credo “ufficiale” di Salò.
    La storiografia liberaldemocratica ha sempre presentato la politica socializzatrice del 1943-45 e, in particolare, i diciotto punti del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943, come un mero espediente per tentare d’ingraziarsi le masse lavoratrici; sarebbe invece più logico e più semplice vedervi la naturale conclusione del ciclo storico del fascismo, la chiusura del cerchio aperto con l’adunata di Piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919.
    Quel che appare evidente, infatti, è che nel periodo della Repubblica Sociale Italiana si fecero avanti non i furbi e i profittatori del regime, ma gli idealisti che avevano tutto da perdere, a cominciare dalla loro sicurezza personale, tranne le loro idee; non i moderati e i conservatori, come Dino Grandi e gli altri che avevano causato il crollo del 25 luglio e che sempre avevano parteggiato per la Gran Bretagna, ma i socializzatori, quelli che erano stati accusati di “bolscevismo” durante il ventennio e che avevano considerato un gravissimo errore la guerra voluta da Hitler contro l’Unione Sovietica, mentre avevano individuato il vero nemico da abbattere nelle “plutocrazie”, ossia nel capitalismo anglo-americano.
    Non per niente Berto Ricci, scrittore, poeta, giornalista, aveva lasciato la sua cattedra di matematica e la sua famiglia per andare volontario in guerra nell’Africa Settentrionale e combattere contro gli Inglesi, nella speranza di vedere «un mondo un po’ meno ingiusto»; e lì, nel deserto della Libia, aveva concluso con la morte, sotto un mitragliamento britannico, una vita intellettualmente onesta e dignitosa, di specchiata coerenza.
    Berto Ricci, da giovane, aveva simpatizzato per l’anarchia, prima di aderire con convinzione al fascismo: non quello dei gerarchi, ma quello dei lavoratori; nulla di straordinario in ciò: era stato lo stesso percorso di uomini come il filosofo Giovanni Papini, come il pittore Lorenzo Viani o come lo scrittore Marcello Gallian; ed era stato, non si deve dimenticarlo, un percorso abbastanza simile a quello dello stesso Mussolini. Non si vuol dire, con ciò, che la maggior pare degli anarchici sia confluita nel fascismo; ma che non si trattò di casi isolati e scandalosi.
    Anche il sindacalista Cianetti era uno che deprecava come le esigenze della politica estera avessero reso necessario un intervento italiano a sostegno della Spagna clericale e conservatrice di Francisco Franco, invece che al fianco del governo repubblicano; ma il cuore dei fascisti di sinistra aveva continuato a battere per la causa repubblicana, non per quella franchista.
    Tutto l’arcano, ammesso che sia tale, diverrebbe un po’ meno misterioso se solo si ammette che il fascismo, pur nella sua complessità e, per certi aspetti, disorganicità, non fu mai, e tanto meno all’inizio, un fenomeno politico di “destra”, ma di “sinistra”, se con ciò si intende rivoluzionario, antiborghese e anticlericale; una sinistra diversa e alternativa a quella “ufficiale”, rappresentata dal socialismo e, poco dopo, dal comunismo di ispirazione bolscevica, ma autenticamente popolare e autenticamente italiana, che traeva la sua linfa vitale non da suggestioni importate dall’estero (come il bakunismo, il marxismo, il leninismo) ma da esigenze e problematiche antiche della nostra società, vissute e sentite con dolorosa urgenza, in una prospettiva nazionale.
    È vero che “Il Selvaggio” e il movimento strapaesano di Mino Maccari dovettero rinunciare alla loro dimensione “politica” negli anni della normalizzazione del regime, cioè a partire dal 1925, accontentandosi di ripiegare nell’ambito puramente culturale e, con ciò, di chiudersi nel ghetto della letteratura, in contrasto con le proprie tendenze e aspirazioni più profonde; ma è altrettanto significativo il fatto che essi tennero viva la fiammella rivoluzionaria negli anni del grigiore borghese e svolsero un ruolo non secondario nel consentire che la fiamma socializzatrice si riaccendesse nella stagione finale della Repubblica di Salò.
    Potremmo spingere oltre questa linea interpretativa e pensare che l’anima sociale del fascismo sopravvisse alla catastrofe del 1943-45, della guerra civile e della sconfitta militare (sconfitta che, a differenza di quanto sostiene la Vulgata liberaldemocratica, non fu solo del fascismo, ma fu nazionale e riguardò anche la parte che allora si autoproclamò vittoriosa, quella antifascista), per passare le consegne all’Italia democratica del dopoguerra.
    Il Partito comunista avrebbe mai raggiunta una tale presa sulle masse operaie, se non vi fosse stata la politica sociale di Salò? Il referendum istituzionale sarebbe mai stato vinto dai sostenitori della Repubblica contro quelli della Monarchia, se non vi fosse stata l’esperienza repubblicana di Salò? Vi sarebbe mai stata la stagione culturale del neorealismo, senza i precedenti di Strapaese, senza registi come Alessandro Blasetti, senza scrittori provenienti dal fascismo di sinistra, come Bilenchi, Pratolini e Vittorini?
    Anche se una simile tesi farà certamente infuriare i sostenitori della assoluta “purezza” ideologica dell’Italia democratica e antifascista, una analisi storiografica spassionata non può che evidenziare gli elementi di continuità, logica e cronologica, fra la dimensione sociale del fascismo e molti aspetti, molte manifestazioni e molti esiti di quella politica, di quella società e di quella cultura che, ormai per abitudine, si definiscono democratiche e antifasciste, come se si contrapponessero, con assoluta radicalità, all’insieme dell’esperienza fascista.
    Lo stesso pluralismo politico non nasce, nel 1945, dal nulla, cioè dalle sole forze dell’antifascismo militante, ma era già in embrione nella concezione del fascismo di sinistra, per poi fare ritorno nel fascismo repubblicano: incoraggiato, pur con limiti ben precisi, dovuti in gran parte alla drammatica situazione politico-militare del 1943-45, da Mussolini in persona.
    Questa è un’altra cosa che gli storici della Vulgata dominante non amano riconoscere: che Mussolini, nella sua ultima stagione politica, lavorò per consegnare all’Italia del dopoguerra, ch’egli - da uomo intelligente, qual era - sapeva benissimo sarebbe stata senza di lui, un embrione di pluralismo e di libertà politiche, oltre che una parziale socializzazione dell’economia; e che, in questo senso, l’esperienza della Repubblica Sociale non fu affatto inutile e dettata solo da meschine ragioni di vendetta e da ambizioni personali, ma nacque dalla necessità storica di costituire un ponte fra l’Italia dell’8 settembre 1943, umiliata, divisa, dominata dai maneggi delle classi conservatrici, e quella futura, che avrebbe dovuto ricostruire la coesione interna e riprendere il suo posto in seno alla comunità internazionale.
    Anche in questo senso, si può serenamente affermare che i fascisti di sinistra non furono un manipolo di visionari o di illusi, ma che seppero vedere più lontano di tanti altri, sia fascisti che antifascisti; e che seppero interpretare dignitosamente, con coerenza e, spesso, con autentico spirito di sacrificio, delle esigenze profonde della società italiana, che non erano il piacere del manganello e dell’olio di ricino, ma la volontà di realizzare una profonda trasformazione della società italiana, in senso autenticamente popolare ed in tutte le sue manifestazioni: dall’economia, alla politica, alla cultura.





    Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franco, Francesco Lamendola
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    Gli umori corrodono il marmo

  2. #2
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    Predefinito Rif: Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franc

    La storia ha dato ragione ai fascisti di sinistra, se costoro avessero avuto più potere anche nel fascismo regime (che non è da buttar via, anzi, fece cose mirabili, pur tra mille compromessi) oggi la strada per noi sarebbe un tantino più facile.

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    Predefinito Rif: Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franc

    Secondo alcuni storici durante la RSI ci furono tentativi di tornare alle origini socialiste e a tratti libertarie del fascismo originario.

    Ma parlare di fascismo di 'sinistra' o di 'destra' secondo me è antistorico e anacronistico.
    Indubbiamente le origini del fascismo risiedono nel programma sansepolcrista, ma è innegabile anche l'influenza che ha avuto l'impresa di Fiume e il dannunzianesimo nella formazione dottrinale del primo fascismo.

    Ma come la storia insegna (vedasi URSS et similia) si parte da una base idealistica per poi finire al pragmatismo dei regimi burocratici.

  4. #4
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    Predefinito Rif: Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franc

    Citazione Originariamente Scritto da Avanguardia Visualizza Messaggio
    La storia ha dato ragione ai fascisti di sinistra, se costoro avessero avuto più potere anche nel fascismo regime (che non è da buttar via, anzi, fece cose mirabili, pur tra mille compromessi) oggi la strada per noi sarebbe un tantino più facile.
    Alla fine i fascisti di sinistra sono stati "premiati"
    dai fatti.

 

 

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