Ius soli/1 – Per un nuovo diritto di cittadinanza
Inserito il 02 giugno 2011


- Una seria riflessione sul concetto di cittadinanza in Italia è oggi più che mai necessaria, non solo in funzione di avere chiare regole per gestire i flussi migratori, ma anche per l’esaurirsi, negli Italiani, della consapevolezza di cosa significa essere cittadino.

Mentre i diritti civili sono universali in tutte le costituzioni democratiche, da sempre “cittadinanza” vuol dire diritto di esercitare i diritti politici. In alcuni ordinamenti esistono poi altri diritti legati alla cittadinanza, come quello di non estradizione in un paese straniero.

Storicamente si sono determinati due meccanismi principali con cui viene definita la cittadinanza. In Francia e in tutto il continente americano vige lo ius soli: vale a dire che la cittadinanza viene riconosciuta ad una persona per il fatto di essere nata sul territorio dello stato. Nelle altre nazioni, tra cui l’Italia, vige lo ius sanguinis, vale a dire che la nazionalità si ottiene nascendo da almeno un genitore in possesso della cittadinanza.

In entrambi i meccanismi, ad eccezione della regola, sono previste procedure di naturalizzazione per gli immigrati. Mi è capitato in questi giorni di analizzare una di queste procedure, quella australiana, che a mio modo di vedere brilla per la chiarezza e la linearità.
In essa vengono previsti, per chi voglia accedere alla cittadinanza australiana, un periodo di residenza nel Paese e un test. Infine, la cittadinanza viene conferita in una cerimonia formale pubblica, per sottolineare il valore di essere diventati cittadini.
Emerge con grande chiarezza la differenza tra chi si dà questo obiettivo e chi invece vuole immigrare per lavorare. In Australia, infatti, non esistono permessi di “soggiorno” (già dal nome ipocrisia tutta italica) ma permessi di lavoro.

Studiando la normativa mi sono reso conto che è il caso di lanciare una provocazione intellettuale.
Vogliamo davvero continuare a definire la cittadinanza sulla base di concetti medioevali quali la discendenza o il territorio? Non sarebbe meglio invece ridefinire un concetto organico di cittadinanza basato su criteri innovativi? La cittadinanza dovrebbe essere strettamente legata al concetto di comunità nazionale, legata alla conoscenza di cosa eravamo e di cosa siamo, capace di valorizzare la pluralità nell’unità. Capace di scegliere quali apporti di altre culture valorizzare, forte di una propria identità e senza paura. In Italia questa è una riflessione che, dai tempi dell’unità, si è sempre evitata, sottoponendola al massimo allo scontro politico del momento.
La provocazione è questa: la cittadinanza dovrebbe essere concessa sulla base di una doppia scelta, quella di una persona di fare parte della comunità italiana e quella della comunità italiana di accettarla in essa.

Vi propongo lo schema di cosa significherebbe in concreto questo approccio.
Fonte dell’innesco della procedura di ottenimento della cittadinanza è la domanda di una persona di ottenerla. Requisiti per presentare la domanda sono un lavoro, oppure essere studenti, e la residenza da un anno in Italia. Nessun automatismo, ma esplicita espressione di volontà e di impegno verso l’obiettivo di diventare cittadini.

Dopodiché serve un periodo di integrazione nella comunità italiana. Il che può voler dire, a mio avviso, impegnarsi a 5 anni di vita e di lavoro (conteggiando lo studio fino ai 25 anni) in Italia dal momento della domanda, con meno di 12 mesi di assenza complessiva dall’Italia e gli ultimi 12 mesi necessariamente in Italia. Senza commettere reati.
Attenzione: vi ricordo che stiamo parlando di ottenimento della cittadinanza e non di immigrazione a generico fine di lavoro, che a mio modo di vedere andrebbe normata ad hoc, magari prendendo spunto proprio da chi l’immigrazione la gestisce da centinaia di anni.
In Australia, ad esempio, tranne casi eccezionali, per ottenere il permesso di lavoro è richiesta la conoscenza della lingua, che è quindi un prerequisito di fatto del processo di ottenimento della cittadinanza.
Alla fine di questo periodo di 5 anni si sottopongono i richiedenti ad un test, sulla falsariga di quello australiano. Chi passa il test, come ultimo atto del procedimento, deve partecipare alla cerimonia pubblica di concessione della cittadinanza in feste nazionali che si terranno due volte all’anno sostitutive delle attuali ricorrenze che festeggiano guerre passate e non invece gli italiani che guardano al futuro.

L’innovazione della mia provocazione rispetto a qualsiasi ordinamento è che questo processo non andrebbe applicato solo per gli immigrati come fanno gli australiani: lo applichiamo a tutti, a partire per esempio da tutti i nuovi nati dal 2015. L’universalità di questo processo e il fatto che crea un percorso comune tra richiedenti di origine italiana e straniera è quello che garantisce da qualsiasi discriminazione e che anzi dà uno straordinario impulso all’integrazione. Risolve sul nascere il tema del voto agli stranieri.

Ma la vera ragione per cui deve essere per tutti è per consolidare una coscienza della comunità del popolo italiano che sta evaporando. Senza la coscienza di chi siamo e soprattutto di dove vogliamo andare e cosa vogliamo essere nel futuro, non esiste speranza di creare politiche condivise che diano un futuro. Il parlamento attuale, infatti, rispecchia oggi quello che siamo.
Con una cittadinanza definita dalla scelta e dalla libertà andremmo a definire a tutti gli effetti uno ius eligendi, un diritto in cui la naturalizzazione non è una eccezione destinata agli stranieri ma un processo continuo di definizione dell’identità nazionale, un processo che ci lega alla nostra storia e al territorio ma che ci proietta nel definire cosa vuol dire essere italiano oggi e nel futuro.
In forza di questa libera scelta si prescriverebbe costituzionalmente la responsabilità individuale e sociale dei cittadini, dove ognuno assume le proprie responsabilità e contribuisce secondo le proprie forze alla realizzazione dei compiti della Società.

Per introdurre un tale cambiamento serve una modifica costituzionale che ridefinisca la cittadinanza e che preveda una legge costituzionale che definisca i dettagli di implementazione della stessa tra cui la maggioranza qualificata necessaria per modificarla, come verificare i prerequisiti e l’idoneità ad ottenere la cittadinanza, l’insegnamento della cittadinanza nelle scuole e i corsi per chi lavora. Questo per mettere al riparo principi importanti dalla volubilità della maggioranza di turno.
Tale legge dovrebbe inoltre normare lo status di richiedente, equiparandolo per tutto ciò che concerne diritti civili e sociali a chi è già cittadino. E bisognerebbe probabilmente individuare meccanismi per penalizzare chi sfrutta lo status di richiedente a tempo indeterminato.

Le sfide che abbiamo di fronte ci richiedono oggi di ripensare dalle fondamenta alcuni concetti che oggi diamo per scontati e su cui stiamo costruendo passo dopo passo una giungla giuridica di eccezioni senza affrontare i veri nodi.
La mia speranza, quindi, è che questa provocazione possa aiutare ad aprire una discussione ed a costruire una visione sul tema.
Ius soli/1 – Per un nuovo diritto di cittadinanza

Ius soli/2 – I figli di immigrati in Italia sono figli italiani
Inserito il 02 giugno 2011

- Nel suo discorso di ringraziamento alla LUISS durante la cerimonia che gli ha concesso la laurea honoris causa, Robert Putnam ha condiviso con un piccolo ed attento pubblico alcuni pensieri che potevano suonare quasi banali per molti osservatori esterni all’Italia: il fatto che la tolleranza, sia religiosa, nazionale ed etnica, possa a lungo andare far nascere delle società più coese, ricche e creative anche se in un primo momento tali fenomeni demografici – che portano i venti della diversità di idee e colti culture – creino sentimenti di sfiducia e diffidenza nelle popolazioni che accolgono tali flussi.

Il concetto del capitale sociale a cui Putnam si riferiva è infatti un concetto semplice, ma che non deve essere assolutamente dato per scontato. Nella sua definizione, la qualità democratica di un popolo è direttamente proporzionata al livello di networks sociali che esistono all’interno di una nazione, una specie di indicatore di fiducia sociale. Quando la fiducia si abassa, un chiaro campanello d’allarme dovrebbe suonare in modo che governi e iniziative sociali possano lavorare insieme per ricucire i legami fra i cittadini. Qui inizia il discorso legato alla diversità. Infatti, come Putnam ha chiaramente detto, alcuni dei sentimenti essenziali per costruire un coeso e funzionante capitale sociale sono quelli di non aspettarsi che il ‘diverso’ diventi come te e nemmeno che il diverso non abbia niente a che fare con te, ma piuttosto che ci sia una specie di metamorfosi fra entrambi, in modo che il nuovo cittadino che nasce da questa fusione sia infatti un risultato ancora migliore dalle parti che lo hanno ideato. Un paese che abbia come obbiettivo aumentare il suo proprio capitale sociale deve far si che tali legami si rafforzino grazie all’azione di governi lungimiranti, ovvero attraverso l’approvazioni di leggi con obiettivi di lungo periodo attente agli interessi generali.

A questo punto si arriva al nocciolo della questione che riguarda la seconda generazione di figli di immigranti nati (o venuti giovanissimi) in Italia e il dovere politico di riconoscerli come pari cittadini attraverso lo ius soli (la legge che concede la cittadinanza per quelli nati sul territorio dello stesso paese). Per più di un millione di questi ragazzi e ragazze la legge vigente sulla cittadinanza è uno strumento arcaico ed arretrato anche rispetto ad altri paesi europei. I figli di immigrati nati in Italia possono solo sognarsi la cittadinanza fino ai 18 anni e poi devono fare domanda mentre in Francia viene concessa automaticamente una volta raggiunta la maggiore età. In Italia, la domanda deve essere presentata entro 1 anno dal compimento del 18esimo anno e intanto si è costretti a vivere con un permesso di soggiorno in attesa di una risposta. Mentre la maggioranza dei coetanei, figli di italiani (o di almeno un genitore italiano) con cui sono cresciuti e con cui anno condiviso gli stessi valori possono godersi dei passaggi importanti nella vita, come l’università o i viaggi, senza maggiori preoccupazioni, i figli di immigrati di lungo corso vivono una vita governata dall’incertezza del limbo burocratico in cui si trovano, che li costringe a crescere più in fretta degli altri.

In Germania ad esempio, la legge è ancora più avanti da questo punto di vista. Basta che uno dei due genitori stranieri risieda legalmente in territorio tedesco ed abbia vissuto lì per almeno 8 anni per concedere al loro figlio il diritto alla cittadinanza tedesca al momento della nascita. Certo, non entro nemmeno nel merito dei paesi del “nuovo mondo” dove lo ius soli è automatico, indipendentemente dal tempo di permanenza dei genitori stranieri nel loro territorio.

Insisto su un punto importante che riguarda la legge attuale (1992) dello ius sanguinis (che trasmette la cittadinanza per legami di sangue). L’Italia é stato un paese di emigrazione fino a poco tempo fa. In tale contesto, lo ius sanguinis aveva senso visto che l’Italia voleva tutelare i diritti dei suoi cittadini sparsi nel mondo. I numeri dell’emigrazione italiana sono così impressionanti che basta guardarsi intorno per capire che sono moltissime le famiglie italiane che hanno parenti all’estero.

Il punto è che bisogna guardare avanti e capire i cambiamenti sociali del nostro tempo. Anche se vi sono forze conservatrici che si rifiutano di accettare le nuove regole del mondo contemporaneo, la realtà sta cambiando sotto i loro occhi ed è solo una questione di tempo. Putnam, che conosce bene l’Italia, ne è consapevole e ha fatto un appello chiaro alla fine del suo intervento: “Quando uno dice pazienza, il cambiamento eventualmente arriverá, bisogna guardare avanti con coraggio e dire “impazienza!” il cambiamento lo facciamo noi”. Ossia, siamo noi i responsabili per costruire un capitale sociale più ricco per i nostri figli e l’Italia deve affrontare la sua nuova realtà con l’obiettivo di aumentarne la coesione. Una sana politica pubblica dovrebbe guardare a questi indicatori sociali e investire sul nuovo capitale di un paese che ha tante potenzialità, ma che deve anche essere in grado di cogliere socialmente e politicamente i cambiamenti del XXI secolo senza troppa demagogia.
Ius soli/2 – I figli di immigrati in Italia sono figli italiani