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    Predefinito Elogio della Milano spagnola

    ELOGIO DELLA MILANO SPAGNOLA
    Contro gli spettri di manzoniana memoria

    Tipica ossessione del nazionalista italiota è l’assoluta e incondizionata ripugnanza per tutto ciò che, nella storia degli stati italiani preunitari, rappresenta la dominazione di una nazione o di un impero straniero nella penisola. Naturalmente tale valutazione ideologica si capovolge invece acriticamente non appena s’intraveda il minimo accenno d’italianità, vera o, più spesso, presunta. L’errore storiografico alla base di queste considerazioni sta evidentemente nella proiezione del sentimento nazionalista ottocentesco in un’epoca in cui il concetto di nazione moderna non esisteva neppure. In secondo luogo queste prese di posizione non tengono minimamente conto del reale stato della popolazione e di tutti gli altri parametri che servirebbero a definire la bontà di un governo: i milanesi stavano meglio sotto gli Asburgo “austriaci” o sotto i Savoia “italiani”? A memoria non ricordo che durante la dominazione asburgica i milanesi fossero mai scesi in piazza, mossi da quella disperazione che solo la fame può dare, come fecero nel maggio del 1898 contro il governo italiano!
    Forse ancor più che il periodo della dominazione austriaca, apprezzato per aver accolto in parte gli ideali illuministi, quello del governo spagnolo sul Ducato di Milano è stata uno più vilipesi della storia della nostra terra. Il paragone tra i due, peraltro, non è certo una mia invenzione dato che il noster Lisander Manzoni, com’è ben noto, nei Promessi sposi giocò proprio su questo parallelismo per esprimere la sua critica alla dominazione austriaca, senza rischiare d’incorrere nella censura. Nonostante l’evidente gioco di specchi, non c’è dubbio che il Manzoni avesse un’idea piuttosto negativa del periodo spagnolo, in quanto epoca di decadenza sociale e letteraria, visione che sarebbe giunta pressoché invariata fino a noi a causa della sostanziale incomprensione della cultura barocca da parte dell’illuminismo prima e dell’idealismo poi.
    Il Seicento lombardo per Manzoni fu un universo caotico che tanto assomigliava, parlando per metafore, allo “scartafaccio” da cui finse di aver tratto il suo racconto: “declamazioni ampollose, […] solecismi pedestri, […] goffaggine ambiziosa”, insomma una società malata nascosta dietro gli apparati della pompa magna barocca. Ecco quindi che dietro le magniloquenti grida contro i bravi non c’erano che vuote parole dei governatori spagnoli, troppo impegnati, come il famigerato Fuentes, a “ordire cabale” per amministrare onestamente la giustizia. Questa giustizia d’altra parte, dalla dotta penna del Manzoni, emerge come una cortina ingannatoria di leggi prolisse e pene “pazzamente esorbitanti”, oltre cui si celava un mondo di sopraffazioni dei potenti, affratellati contro coloro i quali, come Renzo, “non avessero mezzi di far paura altrui”. La morale cui il debole doveva uniformarsi per sopravvivere era quella di don Abbondio, d’altra parte cosa poteva fare, nella latitanza dello Stato, “un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”? Neanche la cultura esce immune dagli strali della critica manzoniana. L’inutile e pomposa cultura barocca, quando non serviva strumentalmente ai potenti (come il latinorum dell’Azzeccagarbugli), era un vuota astrazione che si rifiutava di fare i conti con i dati dell’esistenza reale: don Ferrante morì di quella peste che, secondo i suoi sillogismi, non poteva esistere!
    Insomma dal riquadro storico tracciato dal Manzoni, che pur non manca di tratti d’indiscustibile storicità (soprattutto per quanto riguarda le guerre e la peste), non si salva proprio nulla e solo la maestria artistica e la fede permisero allo scrittore milanese di sublimare la vasta materia in una visione più alta: non è la giustizia dell’uomo a tirare in definitiva le somme e, al di sopra del “guazzabuglio del cuore umano”, domina quella divina Provvidenza capace di dirigere con sapienza il destino degli uomini!
    La visione eccessivamente negativa che Manzoni aveva del Seicento lombardo fu ereditata dalla lettura di alcune fonti non certo imparziali: l’opera Economia e statistica del giacobino Gioia, la Storia di Milano di Pietro Verri e, soprattutto, la Storia delle repubbliche italiane del ginevrino Sismondi. Quest’opera in particolare, vituperando la tirannide spagnola contrapposta alla libertà veneziana (e ciò venne ripreso da Manzoni nella sorte di Renzo, perseguitato e infelice a Milano, felice e prospero nel bergamasco), diede vita allo stereotipo del “secolo senza politica” spagnolo, che per molti anni ha fatto il paio nella storiografia italiana con “la messa in vendita dello stato” di Braudel.
    Certamente il Manzoni ritrasse gli anni più infelici del periodo spagnolo di Milano (funestati da guerre, invasioni, carestie e dalla terribile peste del 1630) ma la condanna senza appello da lui espressa non poté che trascinare con sé l’intero periodo che va dalla fine del dominio sforzesco, con la caduta del debole Francesco II Sforza nel 1535, sino al 1706 quando, durante la guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano. Certo ogni buon milanese dovrebbe rattristarsi per la scomparsa di una dinastia autoctona come gli Sforza ma, a onor del vero, bisogna dire che l’autonomia milanese era, dallo scoppiò del confronto tra gli Asburgo e i francesi Valois, del tutto un’utopia dato che fu Fernando d’Avalos, luogotenente di Carlo v, a vendicare nel 1525 a Pavia la sconfitta di Marignano (1515) e a rimettere sul trono gli Sforza.
    Basterebbe anche solo menzionare la tranquillità che la pax hispanica seppe garantire a Milano per circa un secolo e mezzo, di contro alle continue guerre a cui fu partecipe nel Settecento, per ribaltare il giudizio del Manzoni, ma le motivazioni per rivedere criticamente le pagine dei Promessi sposi sono ben di più. Innanzitutto bisogna evidenziare come il dominio spagnolo sul Ducato di Milano, come sugli altri stati della penisola che la pace di Cateau Cambrésis (1559) aveva attribuito a Filippo II Asburgo, fu ben lungi dall’essere una tirannide spietata, votata solo al fiscalismo oppressivo tanto da lasciare il territorio all’anarchia dei signorotti alla don Rodrigo. In realtà i sovrani spagnoli applicarono sin da subito la prassi dell’accordo coi ceti dirigenti, cioè col patriziato cittadino, e, in secondo luogo, gli interessi di tutti i territori italiani avevano una giusta rappresentanza a Madrid attraverso il Consiglio d’Italia. Le garanzie d’autonomia del patriziato milanese s’avvalsero anche di una contingenza particolarmente favorevole: Pio IV Medici (1559-64), primo e unico papa milanese, con una bolla del 1560 garantì, riservando ai patrizi milanesi alcune cariche che gli spagnoli avrebbero potuto assoggettare, il controllo del Collegio dei Nobili giureconsulti, il cui palazzo s’affaccia ancora su piazza Mercanti. Grazie a ciò il Senato di Milano, supremo tribunale del ducato, divenne la roccaforte dell’autonomia patrizia insieme al Magistrato Ordinario, organo fiscale. Peraltro l’esser inserita nell’impero spagnolo non significò per il ducato perder la sua dimensione internazionale, dato che lo Stato di Milano, di concerto col governatore, aveva diritto d’inviare rappresentanti diplomatici a Madrid e alle altre corti europee. Come tornasole della saggezza della politica spagnola di compromesso con i notabili locali, si può osservare come anche le riforme del duca Olivares del 1647, che suscitarono il celebre tumulto di Masaniello a Napoli, trovarono pacifica accoglienza nella popolazione milanese.
    Lasciando il campo della politica lo splendore della Milano barocca può sfuggire solo a chi ha gli occhi offuscati dalla cataratta del razionalismo illuminista. Lo splendore delle chiese e delle cappelle costruite durante la controriforma (di cui mirabile esempio sono S.Alessandro in Zebedia, il macabro ossario di S.Bernardino e la S. Fedele del celebre Pellegrino Tibaldi) sono l’immagine di una città nella quale la fede cattolica tornò a rivivere, scongiurando il pericolo del protestantesimo, soprattutto grazie all’operato di San Carlo Borromeo, nipote del già menzionato Pio IV (non sempre il nepotismo ha effetti deleteri!) e arcivescovo di Milano dal 1564 al 1584. I nuovi ordini religiosi dei gesuiti e dei barnabiti importarono a Milano la fede genuina e semplice della Controriforma, fatta di devozioni ma anche di confraternite e congregazioni, in cui l’intimo perfezionamento religioso non andava a scapito della dimensione sociale del cattolicesimo. Insieme alla religiosità barocca questi ordini portarono ai meneghini una ventata di freschezza culturale assicurata dalle scuole, il collegio di Brera e le scuole arcimbolde di S.Alessandro soprattutto, che avrebbero formato generazioni di nobili milanesi. Sempre ad un ecclesiastico, il cardinal Federigo Borromeo, figura che rifulge per generosità e magnanimità anche dalle righe del Manzoni, dobbiamo la nascita della Biblioteca Ambrosiana, istituto che, nei secoli, ha conservato la memoria ed accresciuto la conoscenza della storia meneghina. Manifesto di un’epoca in cui religione, politica e cultura non andavano disgiunte, ma procedevano insieme per lo scopo duplice della salvezza delle anime e la felicità sulla terra è il teatro morale in dialetto del grande poeta Carlo Maria Maggi (1630-99), inventore della figura del Meneghin, maschera del milanese schietto e cont el coeur in man.
    La Milano spagnola era ancora quella in cui il lavoratore, anziché essere lasciato in balia del padrone, trovava accoglienza e riparo nelle corporazioni e nelle botteghe, dove il padrone era una maestro e un padre anziché un oppressore. Alla crisi dell’economia seicentesca Milano seppe rispondere inoltre con la conversione: abbandonò la grande tradizione metallurgica, legata alla produzione di armi e corazze, per investire sulla lana e sulla seta, che permisero anche al contado di lavorare e sviluppare, di conseguenza, l’agricoltura.
    Vero è che la peste (la cui diffusione è peraltro irrelata, contrariamente a quanto si crede, con la denutrizione) periodicamente si presentava alle porte dello Stato di Milano mietendo vittime in campagna e, in particolar modo, nelle affollate città. Le epidemie e le carestie però non risvegliavano solo gli istinti turpi dell’uomo, ben descritti dal Manzoni per la peste del 1630, ma anche quelli più magnanimi, visibili, sia per quanto riguarda l’opera d’assistenza che per la preghiera, nel comportamento di San Carlo Borromeo durante l’epidemia del 1576. Questi inoltre, a peste finita, andò in pellegrinaggio a Torino per pregare sulla Sindone; monumento ancora visibile del ringraziamento all’Altissimo da parte del Borromeo è il Tempio civico di San Sebastiano.
    Non vi ho ancora convinto: osservate allora l’esuberante palazzo Litta in corso Magenta, la maestosa severità del Collegio elvetico in via Senato, la facciata della Ca’ Granda oppure, ancor meglio, uno qualsiasi dei ritratti dei nobili milanesi del periodo spagnolo. Anzi prendete quest’ultimo e accostatelo alla foto di Berlusconi che fa le corna: forse Manzoni ai nostri giorni avrebbe trovato tempi più turpi di cui parlare!

    Davide Canavesi

    Fonte: Cinghiale Corazzato numero 25, settembre-ottobre 2008

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    Predefinito Rif: Elogio della Milano spagnola

    Elenco dei governatori

    Presentiamo di seguito la serie di governatori succedutisi nel comando del Ducato di Milano in età spagnola, secondo l'elencazione data alle stampe nel 1776 ad opera di Francesco Bellati

    1535, 2 novembre
    Antonio de Lea, principe di Ascoli, capitano della lega difensiva d'Italia, cesareo luogotenente generale nel dominio milanese.
    Ebbe per primo l'idea di una nuova cinta muraria cittadina. Morì nella guerra di Provenza il 15 settembre 1536, e fu sepolto in Milano, nella chiesa di San Dionigi.

    1536, 9 ottobre
    cardinale Marino Caracciolo, cesareo luogotenente generale del dominio milanese.
    Ebbe solo poteri politici ed economici (i poteri militari vennero attribuiti a don Alfonso d'Avalos d'Aquino, marchese del Vasto). Morì in città il 28 gennaio 1538.

    1538, febbraio
    don Alfonso d'Avalos d'Aquino, marchese del Vasto, capitano generale in Italia, luogotenente di sua maestà cesarea per lo stato milanese.
    Durante il suo governo vennero promulgate le Nuove Costituzioni (vedi la pagina su Bartolomeo Arese e il Senato di Milano). Morì a Vigevano il 31 marzo del 1546.

    1546, aprile
    don Alvaro de Luna, castellano, ottenne la carica interinalmente.

    1546, 1 ottobre
    don Ferrante (o Fernando) Gonzaga, principe di Molfetta, duca di Ariano, capitano generale e luogotenente.
    Fece erigere il nuovo giro di mura (vedi la pagina sul Castello sforzesco) avvalendosi di Giovanni Maria Olgiati, e potenziare il Castello. Aumentò la grandezza della piazza del Duomo.
    Fu uomo di vasta cultura e amante dell'arte. Si avvalse del genio di Domenico Giunti, cui affidò un piano architettonico unitario per migliorare la città. Si fece erigere, dallo stesso architetto, una prestigiosa villa di campagna, villa Simonetta.

    1555, 12 giugno
    don Ferdinando Alvarez de Toledo, duca d'Alba, cesareo luogotenente e capitano generale d'Italia. Il 31 gennaio 1556 viene trasferito.

    1556, giugno
    cardinale Cristoforo Madrucci, vescovo e principe di Trento e Brissone, luogotenente.

    1557, gennaio
    don Giovanni de Figueroa, castellano, governò interinalmente.

    1558, 20 luglio
    don Consalvo Ferrante de Cordova, duca di Sessa, capitano generale.

    1560, giugno
    Francesco Ferdinando d'Avalos de Aquino, marchese di Pescara.
    Emise numerosi editti sulle monete, al fine di dar loro una sistemazione razionale. In materia finanziaria stabilì anche il divieto, per i sensali (mediatori di valute), di esigere più di un sesino sopra ogni scudo o altro prezzo d'oro nei cambi della specie, o valute ricercate.

    1563, 27 marzo
    don Consalvo Ferrante de Cordova, duca di Sessa, per la seconda volta.

    1564, 16 aprile
    don Gabriele de la Cueva, duca di Albuquerque, marchese di Cugliar, conte di Ledesma e Huelma. Capitano generale di SM Cattolica in Italia.
    Descritto come buon governatore, durante una carestia non lesinò gli aiuti ai bisognosi elargendo sussidi. Morì a Milano il 21 agosto 1571, fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini di S. Vittore agli olmi in porta Vercellina.

    1571, 21 agosto
    governo interinale dei consiglieri del Consiglio Segreto.

    1571, settembre
    don Alvaro de Sande, capitano generale per SM in Italia, castellano di Milano.
    Con lui il Senato prese il titolo di Eccelso e Eccellentissimo.

    1572, 7 aprile
    don Luigi de Requesens, commendatore maggiore di Castiglia, del consiglio di stato e capitano generale di SM cattolica in Italia.
    Si adoperò contro gli abusi e gli strapoteri degli Ecclesiastici. Passò poi a governare le Fiandre.

    1573, 17 settembre
    don Antonio de Guzman, marchese d'Ayamonte, del consiglio segreto di SM e capitano generale in Italia.
    Si impegnò per arginare i problemi della terribile peste del 1576-1577, promulgando numerosissime grida in materia.. Morì a Milano il 20 aprile 1580, fu sepolto nella chiesa della Pace.

    1580, aprile
    governo interinale dei consiglieri del Consiglio Segreto.

    1580, luglio
    don Sancio de Guevara e Padiglia, castellano e capitano generale in Italia.
    Apprezzato da Carlo Borromeo per le sue inclinazioni religiose. Eliminò alcuni privilegi introdotti dai suoi predecessori.

    1583, 21 marzo
    don Carlo d'Aragona, principe di Castelvetrano, duca di Terranova, marchese d'Avola, conte di Burgeto, grande ammiraglio, gran contestabile di Sicilia, capitano generale in Italia.
    Stabilì che i governatori venissero appellati col titolo di Magnifici o Spectabiles, e il Senato Potentissime rex. A quest'ultimo tolse il potere di avocare a se le cause di spettanza dei giudici inferiori.

    1592, 4 dicembre
    Ivan Fernandez de Velasco, contestabile di Castiglia, cameriere maggiore di SM in Italia, duca di Frias, conte di Haro e Castelnuovo, signore della casa dei Velasco, capitano generale in Italia.

    1595, 11 marzo
    don Pietro di Padiglia, castellano. Governò interinalmente.

    1595, novembre
    Ivan Fernandez de Velasco, per la seconda volta.
    Prese numerose iniziative contro gli abusi ecclesiastici, fu ricordato tuttavia per aver autorizzato l'apertura della via detta tutt'oggi Velasca, a spese di Ermete Visconti, affinché la via Larga fosse agevolmente unita al corso di porta Romana, di modo che migliore risultasse la sfilata dei carri di carnevale.
    Contro il lusso delle classi agiate, emise una grida, in occasione del carnevale, perché nessuno osasse vestirsi con tele d'oro o d'argento o drappi di seta, pena la confisca dell'abito.

    1600, 16 ottobre
    don Pietro Enriquez de Acevedo, conte di Fuentes, del consiglio di stato di SM cattolica, capitano generale
    Introdusse l'obbligo per gli stampatori di sottoporre ogni libro all'approvazione del governo. Dispose il trasferimento delle bancarelle del mercato ortofrutticolo dalla piazza del Duomo alla vicina zona del Verziere, per rispetto verso la cattedrale. A lui si deve il palazzo del capitano di giustizia. Uniformò i pesi e le misure.
    Condusse il naviglio pavese quasi al Ticino, secondo i progetti originari. Non riuscì comunque a portare a termine l'opera di sterramento, benché di ciò si volesse vantare facendo erigere (1605) il famoso monumento, con magniloquente epigrafe latina, posto tra la Darsena e l'imbocco del naviglio pavese (il cui ponte fu poi detto quindi "del trofeo"; poi tale manufatto fu demolito nel 1865, e parzialmente conservato presso i Civici musei d'Arte Antica).
    Morì a Milano il 22 luglio 1610.

    1610, luglio
    governo interinale dei consiglieri del Consiglio Segreto, per gli affari politici ed economici; don Diego de Portugal, conte di Jeleus, del consiglio supremo di guerra, castellano, per gli affari militari. Quest'ultimo ebbe numerosi scontri di competenze con il consiglio segreto, volendosi arrogare tutto il potere di governo.

    1610, dicembre
    Ivan Fernando de Velasco, per la terza volta.
    Introdusse il principio secondo il quale le gride dei governatori continuassero ad avere effetto per due mesi dopo la morte del governatore promulgante. Si impegnò contro l'incetta del grano, autorizzando i "prestinai" a prendere al prezzo comune il grano di cui abbisognassero, a prescindere dal prezzo praticato dagli speculatori.

    1612, maggio
    governo interinale dei consiglieri del Consiglio Segreto.

    1612, 30 luglio
    don Giovanni de Mendoza, marchese de la Hynoiosa, gentiluomo della camera e del consiglio di guerra, generale dell'artiglieria di Spagna.
    Istituì la milizia nazionale, per la custodia della città. Partì per la guerra del Monferrato lasciando il governo al castellano.

    1614, 20 agosto
    don Sanchio de Luna e Rojas, castellano, membro del consiglio segreto, governò in assenza di Giovanni de Mendoza.

    1614, novembre
    don Giovanni de Mendoza, ritornato dalla campagna militare.

    1616, 13 agosto
    don Sanchio de Luna, per nuova assenza del Mendoza.

    1616, 19 gennaio
    don Pietro de Toledo Osorio, marchese di Villafranca, membro del consiglio di stato, capitano generale.
    Fu l'artefice della cosiddetta "Concordia Giurisdizionale" per la riappacificazione tra il foro secolare e quello ecclesiastico.

    1618, 22 agosto
    don Gomez Suarez de Figueroa e Cordova, duca di Feria, capitano generale.
    Dovette affidare temporaneamente al Consiglio Segreto il governo di Milano, per assenza dovuta a motivi militari. Vietò ai sudditi milanesi di far stampare i libri all'estero.

    1625, aprile
    interinalmente, i consiglieri del Consiglio Segreto.

    1626, 22 maggio
    don Gonzales Fernandez de Cordova, capitano generale del consiglio di guerra. Prima interinalmente, poi confermato per il triennio.
    Numerosi provvedimenti in favore dei poveri, con blocco dei prezzi del pane e delle biade. Questa manovra tuttavia spinse i fornai a chiudere bottega, con conseguente assalto alle rivendite ("rivolta di S.Martino", descritta nei Promessi Sposi).
    Ordinò che nei processi, allegazioni e suppliche di parti fossero raccolte in libri, quando formate da più fogli.

    1629, 29 agosto
    don Ambrogio Spinola Doria marchese de los Balbases, commendator maggiore di Castiglia, capitano generale del consiglio di stato.
    Si ammalò sul campo di battaglia del Monferrato, e morì poco dopo aver ceduto il governo interinalmente al Consiglio Segreto.

    1630, febbraio
    interinalmente il Consiglio Segreto.

    1630, 3 dicembre
    don Alvaro Bazan marchese di santa Croce, generale del mare, capitano generale.
    Partecipò alla guerra del Monferrato, alla sua uscita dalla città fu insultato dalla folla.

    1631, 30 marzo
    Duca di Feria, per la seconda volta.
    Iniziò con lui la tassa della Mezzannata. La rese poi meno gravosa per gli impiegati pubblici. Partecipò alle manovre in Monferrato e poi alla campagna d'Alsazia contro gli eretici.

    1633, 24 maggio
    don Ferdinando, infante di Spagna, fratello del Re, cardinale e arcivescovo di Toledo.

    1634, 14 luglio
    don Gil de Albornoz, cardinale di santa Maria in Via, capitano generale.

    1635, 17 novembre
    don Diego Felippez de Guzman, marchese di Leganes, Gentiluomo della sua camera, presidente del consiglio di fiandra, cap. gen d'artiglieria di Spagna, commendator maggiore di Leone, primo cavallerizzo, (…).

    1636, aprile
    don Ferdinando d'Affan de la Riviera, Enriquez duca di Alcalà.
    Morì a Vienna, inviatovi quale plenipotenziario.

    1636, giugno
    don Diego Felippez de Guzman, per la seconda volta.
    Istituì l'archivio generale, ingiunse ai notai di usare libri bollati, come anche i tesorieri, mercanti, banchieri e simili.

    1637, giugno
    consiglieri del Consiglio Segreto, interinalmente. Contemporaneamente anche il Cardinale Trivulzio firmò alcune gride, a titolo, evidentemente, interinale, con una non chiara sovrapposizione al Consiglio Segreto.

    1641, 12 febbraio
    don Giovanni de Velasco e della Cueva, conte de Sirvela, capitano generale.

    1643, agosto
    don Antonio Sanchio Davila, Toledo e Colonna marchese di Velada.

    1646, 24 febbraio
    don Bernardino Fernandez de Velasco e Tovar, contestabile di Castiglia e di Leone, duca di Frias, marchese di Verlanga, conte di Haro e Castelnovo, signore della casa di Velasco e Tovar, coppiere maggiore e cacciatore maggiore, capitano generale di Castiglia la Vecchia e delle corti del mare. Si impegnò su alcuni problemi della procedura criminale e sulla velocità dei giudizi.

    1647, 15 novembre
    don Inigo Fernandez de Velasco e Tovar, conte di Haro.
    Figlio del precedente governatore, fu nominato per quattro mesi, per supplire alla malattia del padre.

    1648, 25 giugno
    don Luigi De Benavides Carillo e Toledo, marchese di Fromista e Caracena, conte di Punac, signore delle ville di Yues, S.Munoz, e Matilla, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, commendatore di Gnamachiucco, gentiluomo di Camera.
    Vietò alle carrozze di attraversare le funzioni pubbliche che si svolgevano lungo le vie. Proibì inoltre alle meretrici di passare in carrozza lungo i corsi frequentati dalle dame.

    1656, 1 aprile
    Teodoro cardinale Principe Trivulzio.
    Morì a Milano nel marzo del 1657, e fu sepolto in santo Stefano in Brolio nella cappella di famiglia.

    1656, 5 settembre
    don Alfonso Perez de Vivero, conte di Fuenseldagna.
    Proibì che durante il carnevale, nelle case private i festeggiamenti continuassero oltre la mezzanotte, e vietò pure che a tali festini entrassero uomini travestiti da donna e donne da uomini.

    1660, aprile
    interinalmente i consiglieri del Consiglio Segreto.

    1660, 13 maggio
    don Francisco Gaetano duca di Sermoneta e di san Marco, principe di Caserta, marchese di Cisterna, signore di Bassiano, Ninfa, S.Felice, e S.Donato; cavaliere dell'ordine del toson d'oro.
    Vietò che si giocasse per le strade durante le ore della dottrina cristiana.

    1662, 5 giugno
    don Luigi de Guzman, Ponze de Leon, gentiluomo della camera di SM, capitano della guardia spagnola.
    Istituì gli appalti per gli alloggiamenti delle truppe. Morì a Milano il 29 marzo 1668, e trovò sepoltura presso la chiesa di S.Maria alla Scala.

    1668, 14 aprile
    interinalmente don Paolo Spinola Doria, marchese de los Balbases.
    Paolo Spinola Doria (nato a Milano il 24 febbraio 1632 e morto a Madrid il 23 dicembre 1699) è figlio di Filippo, a sua volta figlio di Ambrogio, già governatore di Milano. Sposa Anna Colonna e ha un figlio Filippo. [Ringrazio di queste notizie Anna Bardazza Serralunga.]

    1668, 10 settembre
    don Francisco de Orozco, marchese de Olias, Mortara e s.Reale, gentiluomo della camera di SM.

    1668, 28 dicembre
    interinalmente i consiglieri del Consiglio Segreto.
    Venne proibito agli osti di ospitare presso le loro osterie le meretrici al fine di gestire postriboli.

    1669, marzo
    interinalmente don Paolo Spinola Doria, per la seconda volta.

    1670, 21 maggio
    don Gaspare Tellez Giron Gomez de Sandoval Enriquez de Rivera, duca di Ossuna, conte di Uregna, marchese di Pegnafiel e di Belmonte, cameriere maggiore, notaro maggiore dei Regni di Castiglia, clavero dell'ordine di Calatrava, tesoriere perpetuo della real casa della moneta di SM.
    Vietò ai nobili di piantare davanti ai loro palazzi le colonnine-paracarro di pietra per delimitarsi porzioni di strada, poichè risultavano di grande intralcio alla circolazione.
    Rimase tristamente famoso per aver insidiato alcune signore della nobiltà.

    1674, 7 luglio
    Claudio Lamoraldo principe di Ligne, de Amblice e del sacro romano impero, sovrano di Faignoles, cavaliere dell'ordine del toson d'oro.
    Vietò per il futuro ai Governatori che si fossero trovati in impedimento di delegare le proprie funzioni alla moglie, ai figli o ai parenti, salvo specifiche autorizzazioni reali.

    1678, 6 novembre
    don Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera e Toledo, conte di Melgar, gentiluomo della camera di SM.
    Istituì la necessità, per i Ministri, di ottenere autorizzazione governativa nel caso volessero uscire dai confini del ducato. Proibì il cumulo delle cariche pubbliche.

    1686, 8 aprile
    don Antonio Lopez de Ayala, Velasco e Cardenes, conte di Fuensalida, di Colmenar, signore dello stato di Villerias e delle ville di Orexa, Guecas, Lillo, Humanes, Guadamur. Primo capitano perpetuo di una compagnia della guardia vecchia di Castiglia.

    1691, 26 maggio
    don Diego Felippez de Guzman, duca di san Lucar la Major, marchese di Leganes, di Mayrena e di Movata, gentiluomo della camera di SM, commendator maggiore di leone nell'ordine di san Giacomo, signore delle ville di Valverde, Villar dell'Aquila, e Vacia Madrid, Alcade Perpetuo della casa reale, Regidore perpetuo di Madrid, capitano generale dell'artiglieria di Spagna.
    Regolò le problematiche connesse alle truppe, come le vettovaglie, le munizioni, la fortificazione delle piazze, …

    1698, 17 maggio
    don Carlo Enrico di Lorena, principe di Vaudemont, conte di Bilth, Sarwerden, Folkenstein e Walham, barone di Fenestrange, signore di Flobecq, Lessines, Ninove Waure, cavaliere dell'ordine del Toson d'oro, gentiluomo della camera di sua maestà.
    Tale Governatore mantenne il suo incarico anche dopo che nel novembre 1700 lo stato fu occupato dai Francesi col duca d'Angiò (col nome di Filippo V).
    Sopraggiunti gli Austriaci nel settembre 1706, il Governo fu affidato dall'imperatore Giuseppe I a suo fratello Carlo III.

    1706, 26 settembre
    Eugenio principe di Savoia e Piemonte, marchese di Saluzzo, consigliere di Stato, presidente del consiglio aulico di guerra, maresciallo di campo, colonnello di un reggimento di dragoni, cavaliere dell'ordine del Toson d'oro.
    Il suo ingresso a Milano segnò definitivamente la fine della dominazione spagnola: la città passò nelle mani degli Austriaci.

    Fonte: ::: Storia di Milano ::: Governatori della Milano spagnola

  3. #3
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    Predefinito Rif: Elogio della Milano spagnola

    Citazione Originariamente Scritto da Guelfo Nero Visualizza Messaggio
    ELOGIO DELLA MILANO SPAGNOLA
    Contro gli spettri di manzoniana memoria

    Tipica ossessione del nazionalista italiota è l’assoluta e incondizionata ripugnanza per tutto ciò che, nella storia degli stati italiani preunitari, rappresenta la dominazione di una nazione o di un impero straniero nella penisola. Naturalmente tale valutazione ideologica si capovolge invece acriticamente non appena s’intraveda il minimo accenno d’italianità, vera o, più spesso, presunta. L’errore storiografico alla base di queste considerazioni sta evidentemente nella proiezione del sentimento nazionalista ottocentesco in un’epoca in cui il concetto di nazione moderna non esisteva neppure. In secondo luogo queste prese di posizione non tengono minimamente conto del reale stato della popolazione e di tutti gli altri parametri che servirebbero a definire la bontà di un governo: i milanesi stavano meglio sotto gli Asburgo “austriaci” o sotto i Savoia “italiani”? A memoria non ricordo che durante la dominazione asburgica i milanesi fossero mai scesi in piazza, mossi da quella disperazione che solo la fame può dare, come fecero nel maggio del 1898 contro il governo italiano!
    Forse ancor più che il periodo della dominazione austriaca, apprezzato per aver accolto in parte gli ideali illuministi, quello del governo spagnolo sul Ducato di Milano è stata uno più vilipesi della storia della nostra terra. Il paragone tra i due, peraltro, non è certo una mia invenzione dato che il noster Lisander Manzoni, com’è ben noto, nei Promessi sposi giocò proprio su questo parallelismo per esprimere la sua critica alla dominazione austriaca, senza rischiare d’incorrere nella censura. Nonostante l’evidente gioco di specchi, non c’è dubbio che il Manzoni avesse un’idea piuttosto negativa del periodo spagnolo, in quanto epoca di decadenza sociale e letteraria, visione che sarebbe giunta pressoché invariata fino a noi a causa della sostanziale incomprensione della cultura barocca da parte dell’illuminismo prima e dell’idealismo poi.
    Il Seicento lombardo per Manzoni fu un universo caotico che tanto assomigliava, parlando per metafore, allo “scartafaccio” da cui finse di aver tratto il suo racconto: “declamazioni ampollose, […] solecismi pedestri, […] goffaggine ambiziosa”, insomma una società malata nascosta dietro gli apparati della pompa magna barocca. Ecco quindi che dietro le magniloquenti grida contro i bravi non c’erano che vuote parole dei governatori spagnoli, troppo impegnati, come il famigerato Fuentes, a “ordire cabale” per amministrare onestamente la giustizia. Questa giustizia d’altra parte, dalla dotta penna del Manzoni, emerge come una cortina ingannatoria di leggi prolisse e pene “pazzamente esorbitanti”, oltre cui si celava un mondo di sopraffazioni dei potenti, affratellati contro coloro i quali, come Renzo, “non avessero mezzi di far paura altrui”. La morale cui il debole doveva uniformarsi per sopravvivere era quella di don Abbondio, d’altra parte cosa poteva fare, nella latitanza dello Stato, “un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”? Neanche la cultura esce immune dagli strali della critica manzoniana. L’inutile e pomposa cultura barocca, quando non serviva strumentalmente ai potenti (come il latinorum dell’Azzeccagarbugli), era un vuota astrazione che si rifiutava di fare i conti con i dati dell’esistenza reale: don Ferrante morì di quella peste che, secondo i suoi sillogismi, non poteva esistere!
    Insomma dal riquadro storico tracciato dal Manzoni, che pur non manca di tratti d’indiscustibile storicità (soprattutto per quanto riguarda le guerre e la peste), non si salva proprio nulla e solo la maestria artistica e la fede permisero allo scrittore milanese di sublimare la vasta materia in una visione più alta: non è la giustizia dell’uomo a tirare in definitiva le somme e, al di sopra del “guazzabuglio del cuore umano”, domina quella divina Provvidenza capace di dirigere con sapienza il destino degli uomini!
    La visione eccessivamente negativa che Manzoni aveva del Seicento lombardo fu ereditata dalla lettura di alcune fonti non certo imparziali: l’opera Economia e statistica del giacobino Gioia, la Storia di Milano di Pietro Verri e, soprattutto, la Storia delle repubbliche italiane del ginevrino Sismondi. Quest’opera in particolare, vituperando la tirannide spagnola contrapposta alla libertà veneziana (e ciò venne ripreso da Manzoni nella sorte di Renzo, perseguitato e infelice a Milano, felice e prospero nel bergamasco), diede vita allo stereotipo del “secolo senza politica” spagnolo, che per molti anni ha fatto il paio nella storiografia italiana con “la messa in vendita dello stato” di Braudel.
    Certamente il Manzoni ritrasse gli anni più infelici del periodo spagnolo di Milano (funestati da guerre, invasioni, carestie e dalla terribile peste del 1630) ma la condanna senza appello da lui espressa non poté che trascinare con sé l’intero periodo che va dalla fine del dominio sforzesco, con la caduta del debole Francesco II Sforza nel 1535, sino al 1706 quando, durante la guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano. Certo ogni buon milanese dovrebbe rattristarsi per la scomparsa di una dinastia autoctona come gli Sforza ma, a onor del vero, bisogna dire che l’autonomia milanese era, dallo scoppiò del confronto tra gli Asburgo e i francesi Valois, del tutto un’utopia dato che fu Fernando d’Avalos, luogotenente di Carlo v, a vendicare nel 1525 a Pavia la sconfitta di Marignano (1515) e a rimettere sul trono gli Sforza.
    Basterebbe anche solo menzionare la tranquillità che la pax hispanica seppe garantire a Milano per circa un secolo e mezzo, di contro alle continue guerre a cui fu partecipe nel Settecento, per ribaltare il giudizio del Manzoni, ma le motivazioni per rivedere criticamente le pagine dei Promessi sposi sono ben di più. Innanzitutto bisogna evidenziare come il dominio spagnolo sul Ducato di Milano, come sugli altri stati della penisola che la pace di Cateau Cambrésis (1559) aveva attribuito a Filippo II Asburgo, fu ben lungi dall’essere una tirannide spietata, votata solo al fiscalismo oppressivo tanto da lasciare il territorio all’anarchia dei signorotti alla don Rodrigo. In realtà i sovrani spagnoli applicarono sin da subito la prassi dell’accordo coi ceti dirigenti, cioè col patriziato cittadino, e, in secondo luogo, gli interessi di tutti i territori italiani avevano una giusta rappresentanza a Madrid attraverso il Consiglio d’Italia. Le garanzie d’autonomia del patriziato milanese s’avvalsero anche di una contingenza particolarmente favorevole: Pio IV Medici (1559-64), primo e unico papa milanese, con una bolla del 1560 garantì, riservando ai patrizi milanesi alcune cariche che gli spagnoli avrebbero potuto assoggettare, il controllo del Collegio dei Nobili giureconsulti, il cui palazzo s’affaccia ancora su piazza Mercanti. Grazie a ciò il Senato di Milano, supremo tribunale del ducato, divenne la roccaforte dell’autonomia patrizia insieme al Magistrato Ordinario, organo fiscale. Peraltro l’esser inserita nell’impero spagnolo non significò per il ducato perder la sua dimensione internazionale, dato che lo Stato di Milano, di concerto col governatore, aveva diritto d’inviare rappresentanti diplomatici a Madrid e alle altre corti europee. Come tornasole della saggezza della politica spagnola di compromesso con i notabili locali, si può osservare come anche le riforme del duca Olivares del 1647, che suscitarono il celebre tumulto di Masaniello a Napoli, trovarono pacifica accoglienza nella popolazione milanese.
    Lasciando il campo della politica lo splendore della Milano barocca può sfuggire solo a chi ha gli occhi offuscati dalla cataratta del razionalismo illuminista. Lo splendore delle chiese e delle cappelle costruite durante la controriforma (di cui mirabile esempio sono S.Alessandro in Zebedia, il macabro ossario di S.Bernardino e la S. Fedele del celebre Pellegrino Tibaldi) sono l’immagine di una città nella quale la fede cattolica tornò a rivivere, scongiurando il pericolo del protestantesimo, soprattutto grazie all’operato di San Carlo Borromeo, nipote del già menzionato Pio IV (non sempre il nepotismo ha effetti deleteri!) e arcivescovo di Milano dal 1564 al 1584. I nuovi ordini religiosi dei gesuiti e dei barnabiti importarono a Milano la fede genuina e semplice della Controriforma, fatta di devozioni ma anche di confraternite e congregazioni, in cui l’intimo perfezionamento religioso non andava a scapito della dimensione sociale del cattolicesimo. Insieme alla religiosità barocca questi ordini portarono ai meneghini una ventata di freschezza culturale assicurata dalle scuole, il collegio di Brera e le scuole arcimbolde di S.Alessandro soprattutto, che avrebbero formato generazioni di nobili milanesi. Sempre ad un ecclesiastico, il cardinal Federigo Borromeo, figura che rifulge per generosità e magnanimità anche dalle righe del Manzoni, dobbiamo la nascita della Biblioteca Ambrosiana, istituto che, nei secoli, ha conservato la memoria ed accresciuto la conoscenza della storia meneghina. Manifesto di un’epoca in cui religione, politica e cultura non andavano disgiunte, ma procedevano insieme per lo scopo duplice della salvezza delle anime e la felicità sulla terra è il teatro morale in dialetto del grande poeta Carlo Maria Maggi (1630-99), inventore della figura del Meneghin, maschera del milanese schietto e cont el coeur in man.
    La Milano spagnola era ancora quella in cui il lavoratore, anziché essere lasciato in balia del padrone, trovava accoglienza e riparo nelle corporazioni e nelle botteghe, dove il padrone era una maestro e un padre anziché un oppressore. Alla crisi dell’economia seicentesca Milano seppe rispondere inoltre con la conversione: abbandonò la grande tradizione metallurgica, legata alla produzione di armi e corazze, per investire sulla lana e sulla seta, che permisero anche al contado di lavorare e sviluppare, di conseguenza, l’agricoltura.
    Vero è che la peste (la cui diffusione è peraltro irrelata, contrariamente a quanto si crede, con la denutrizione) periodicamente si presentava alle porte dello Stato di Milano mietendo vittime in campagna e, in particolar modo, nelle affollate città. Le epidemie e le carestie però non risvegliavano solo gli istinti turpi dell’uomo, ben descritti dal Manzoni per la peste del 1630, ma anche quelli più magnanimi, visibili, sia per quanto riguarda l’opera d’assistenza che per la preghiera, nel comportamento di San Carlo Borromeo durante l’epidemia del 1576. Questi inoltre, a peste finita, andò in pellegrinaggio a Torino per pregare sulla Sindone; monumento ancora visibile del ringraziamento all’Altissimo da parte del Borromeo è il Tempio civico di San Sebastiano.
    Non vi ho ancora convinto: osservate allora l’esuberante palazzo Litta in corso Magenta, la maestosa severità del Collegio elvetico in via Senato, la facciata della Ca’ Granda oppure, ancor meglio, uno qualsiasi dei ritratti dei nobili milanesi del periodo spagnolo. Anzi prendete quest’ultimo e accostatelo alla foto di Berlusconi che fa le corna: forse Manzoni ai nostri giorni avrebbe trovato tempi più turpi di cui parlare!

    Davide Canavesi

    Fonte: Cinghiale Corazzato numero 25, settembre-ottobre 2008
    notevole testo e bella la chiusa (il riferimento al berlusca): mi piace questo vostro rifiuto della volgarita! ;-)

  4. #4
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    Predefinito Rif: Elogio della Milano spagnola

    Grazie di cuore. E' inutile dire che ricambiamo l'apprezzamento. A dimostrazione di come dei cattolici integrali possano, ognuno con le proprie sfumature e peculiarità, contribuire alla Buona Battaglia.

    In certis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas.

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