Giù le mani dal corpo delle donne - Cronache Laiche
In pieno stile vaticaliota, infuria la polemica politica sulla pillola dei cinque giorni dopo, alias EllaOne, un contraccettivo d’emergenza efficace fino a 120 ore dopo un rapporto a rischio. Su Cronache Laiche ne abbiamo già parlato poco meno di due mesi fa dando conto degli ingiustificati ritardi alla sua commercializzazione, ma da allora sono subentrate evoluzioni (o involuzioni?) che meritano di essere riportate. In particolare, a una buona notizia – il via libera da parte del Consiglio superiore di sanità – se ne aggiungono due cattive.

La prima è che secondo il Consiglio EllaOne non può essere somministrata in caso di gravidanza accertata, non essendo un farmaco abortivo. Il che significa che potrà essere prescritta solo dietro presentazione di test di gravidanza ematico negativo. Da notare che la pillola è già commercializzata in America, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Gran Bretagna, Olanda, Finlandia, Svezia, Lituania, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Danimarca, Norvegia, Spagna, Austria, Grecia, Polonia, Lettonia, Lettonia, Portogallo e Romania senza che sia richiesto il test. Facendo due banali conti, nelle 120 ore seguenti al rapporto a rischio ci devono rientrare il prelievo venoso, i tempi di analisi, il ritiro del referto, la ricerca di un medico non obiettore che prescriva la pillola e quella di un farmacista non obiettore che la venda. Come dire: forse è meglio che lasciate perdere.

La seconda è una mozione bipartisan presentata al governo a seguito dell’intervento di monsignor Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, che nella migliore tradizione italiana ha dettato al governo le linee da seguire: «È un aborto a tutti gli effetti, un aborto di raffinata malizia: una pillola del giorno dopo 5 volte» ha tuonato. «Mi auguro che questa delibera sia responsabilmente respinta dal governo».

Detto fatto, qualche parlamentare si è mosso e ha redatto una nota nella quale chiede al governo di impegnarsi «a fermare l’introduzione della pillola dei 5 giorni dopo». «Il via libera da parte del Consiglio superiore di sanità a questa pillola per la contraccezione d’emergenza è un ulteriore passo verso la trasformazione dell’aborto in contraccezione. Per questo motivo chiediamo al governo risposte certe, al fine di evitare che ciò accada». Non è sufficiente che il test di gravidanza sia negativo, perché questo «dà esito positivo solo 8-9 giorni dopo la fecondazione, quando l’embrione si è già annidato nell’utero. Quindi se c’è stata fecondazione ma l’embrione non si è annidato, il test fatto entro il quinto giorno (così come indicato dal Css) sarà comunque negativo, anche se la gravidanza esiste e gli effetti del farmaco non sarebbero contraccettivi ma abortivi».

Primi firmatari della petizione la senatrice Laura Bianconi, Pdl, tra i soci fondatori di Valori e Libertà, un’associazione per la promozione e la diffusione dei «principi e i valori di una cultura ispirata alla tradizione del pensiero conservatore e alla difesa delle radici cristiane della civiltà occidentale», e il senatore Claudio Gustavino, primario ginecologo di Genova con un passato Dc, Ppi, Margherita, Pd e Apl, attualmente nell’Udc.

Ma soffermiamoci per un momento su questa meraviglia dell’ipocrisia che è la frase «… e gli effetti del farmaco non sarebbero contraccettivi ma abortivi». Se ne deduce che il problema non è la salute della donna, ma l’uso lessicale eventualmente (e solo eventualmente) improprio del termine contraccezione. Che infatti in questo caso è d’emergenza, intendendo con ciò una forma di prevenzione che si adotta dopo (e non prima) un rapporto sessuale non protetto o a rischio.

Il discrimine, secondo gli illuminati parlamentari, è il rischio di una avvenuta – e non verificabile – fecondazione, uno stato che, sancendo il passaggio dell’ovuolo e dello spermatozoo a embrione, non può essere “risolto” con una tempestiva pillola ma richiede l’applicazione della legge 194 sull’aborto. Potere della retorica, si approda così a un contenzioso legale che potrebbe costringere una donna a dover aspettare una decina di giorni per avere il risultato del test per poi abortire, sottoponendosi a quel calvario dell’intervento chimico (ammesso e non concesso che viva una regione civile) o chirurgico con tanto di visite, accertamenti, colloqui, ricovero. Visto che non si può obbligare per legge una donna a non peccare, che almeno la si costringa a espiare con la sofferenza parte della sua colpa. Sarebbe troppo “facile” scegliere una strada indolore, domestica e immediata.

Riecheggia alla mente l’aberrante ostracismo alla commercializzazione della Ru486, la pillola abortiva. «Abortire non può diventare come bere un bicchiere d’acqua!» urlavano le frange più retrive del Parlamento. Ancora una volta la battaglia sui valori etici cattolici passa sul corpo delle donne, sulla loro dignità e sui loro diritti. Ancora una volta la valutazione scientifica cede il passo a quella ideologica e la salute delle donne arretra in second’ordine rispetto al concetto “divino” – e non biologico – di vita. Chi ricorre a EllaOne non vuole una gravidanza. E che la fecondazione sia avvenuta o meno, che ci sia stato annidamento o no non sposta di una virgola il diritto all’autodereminazione garantito dai principi di uno Stato laico. Che ha l’obbligo etico, questo sì, di mettere a disposizione delle sue cittadine tutti i mezzi che la medicina prevede per alleviare e prevenire la loro sofferenza.

In un paese civile di medicina si occupano le commissioni scientifiche, non quelle parlamentari. Queste ultime si limitano a ratificare i risultati delle valutazioni mediche. Da noi non solo succede il contrario ma c’è un passaggio in più per la Curia, che indica al Parlamento i paletti da mettere alla scienza e alla salute, ossia al progresso e alla libertà.

Cecilia M. Calamanni