Re Umberto di Padania
di Roberto Di Caro
Lo stop al referendum elettorale. Le poltrone della Rai. Il governo di due regioni del Nord. Il Senato federale. La Lega passa subito all'incasso. E detta le sue condizioni al Cavaliere




Per passare all'incasso, la Lega, non ha aspettato neppure che finisse la conta dei voti. Niente kermesse nella sede di via Bellerio, non c'è tempo, lunedì sera. Bossi non si vede, Calderoli e Cota sembrano lì solo per sbrigare in fretta la pratica con le tv. Poco dopo le nove sono già tutti ad Arcore, solita sala da pranzo a pianterreno, a presentare il conto. I tre Roberto: Calderoli, Maroni, Cota. Umberto Bossi arriva col figlio Renzo, team manager della Nazionale padana di calcio: quando non c'è Rosi Mauro è lui che accompagna papà. Assente giustificato perché in Lussemburgo un habitué come Tremonti, trovano col premier il clan dei fedelissimi: Aldo Brancher ufficiale di collegamento con la Lega, Valentino Valentini il segretario personale del Cavaliere e, mai senza legale ormai, l'avvocato-deputato Niccolò Ghedini.

Non è di buon umore, Berlusconi, tanto che, per la prima volta nella storia delle cene del lunedì, non racconta neanche una barzelletta. Quel 35,2 per cento alle europee lo patisce come uno schiaffo personale: lo rincuorano giusto i risultati che continuano ad arrivare, uno alla volta, su province e comuni strappati al centrosinistra o trascinati al ballottaggio.

Ecco, i ballottaggi. Ancora nei primi commenti tv, la Lega minaccia di non partecipare per non favorire il raggiungimento del quorum nel contemporaneo referendum sulla legge elettorale, una mannaia pendente sulla sua stessa esistenza: se mai passasse il sì, infatti, il premio di maggioranza verrebbe attribuito non più alla coalizione ma al primo partito, rendendo il Carroccio un accessorio o costringendolo a impattugliarsi nel Pdl. Berlusconi, in campagna elettorale, s'è lasciato scappare che voterà 'sì', e ancora quello stesso lunedì sera si vede in tv lo zelante Capezzone difendere la linea coi soliti toni da bomba-fine-di-mondo.


Scherzi delle tribune referendarie preregistrate: perché mentre il portavoce s'accalora per il sì, il capo ha già fatto dietrofront. A metà cena, infatti, dopo averci girato intorno per un'ora parlando d'altro, bastano un paio di minuti per fare pari e patta. Bossi uscirà dichiarando: "Voteremo ai ballottaggi", Berlusconi con il contrordine compagni sintetizzato in: "L'appoggio al referendum non è più opportuno". E uno.

Per la cronaca, non molto più tempo è servito per concordare la presentazione di una contromozione in difesa del lodo Alfano e la blindatura col voto di fiducia della legge sulle intercettazioni che vieta la pubblicazione di qualsiasi atto giudiziario fino al processo (per questo la chiamano legge-bavaglio): atti puntualmente compiuti subito il giorno appresso, martedì 9.

Il punto due della lista d'incasso ha i giorni stretti. Si tratta delle nomine in Rai. L'intero parterre dei direttori di rete e tg, escluso il Tg1. A trattare è Roberto Maroni: inusuale, con tutto il lavoro e le rogne che già ha come ministro degli Interni. Racconta Calderoli che, quando Bossi provò a girare a lui la patata bollente, si sfilò "schifato per averlo già fatto nel 2001". Stanti le bocche cucite degli interessati, col totonomine si può giusto azzardare un borsino di chi sale e chi scende. Con Antonio Marano, Lega, già diventato vicedirettore generale Rai, chi prenderà il suo posto alla direzione di Raidue?

Dopo il voto si fa più dura l'ascesa di Susanna Petruni, attuale volto del Tg1 che sulla richiesta di divorzio di Veronica Lario riuscì a occultare le frasi "un uomo che frequenta le minorenni" e "un uomo che non sta bene". Il nome detto e scritto è Pierluigi Paragone, ex direttore de 'La Padania' e attuale vice di Vittorio Feltri a 'Libero', che sul Due ha condotto Malpensa-Italia, prossima edizione già in palinsesto forse con nuovo titolo e orari più appetibili.

Lui però ha detto a destra e a manca che a Roma non si trasferisce manco morto, dopo una settimana già gli vengono i nervi. Passa la mano, magari solo per una vicedirezione, a Milo Infante, area Lega, conduttore di 'Italia' sul Due? Gira anche un altro ragionamento: Marano ha già spostato il 60 per cento della produzione di Raidue a Milano, un Paragone direttore con doppio ufficio nelle due capitali sarebbe un ulteriore passo, anche simbolicamente spendibile dalla Lega vincente. Ma tant'è, si vedrà presto.



Lunghissimi, invece, i tempi del punto tre sul tappeto, quello sulle presidenze delle Regioni del Nord. Antefatto: "Il Veneto potrei anche darlo alla Lega", lascia cadere Berlusconi in campagna elettorale; segue sommossa degli azzurri di Giancarlo Galan attuale presidente, sorpasso della Lega mancato in regione di poco, candidata leghista alla Provincia di Venezia in ballottaggio a un soffio dalla vittoria, da ultimo tutti a dire che non c'è motivo di scannarsi ora per elezioni del 2010. Ragionevole. Intanto però, col 10,2 per cento alla Lega, è cambiata la posta: non più due regioni, il Lombardo-Veneto, ma tre.

Già, perché il Piemonte, pecora nera del Carroccio dai tempi di Gipo Farassino e del poco presentabile tuttora eurodeputato Mario Borghezio, col giovane Roberto Cota a capo è diventato terra di espansione e di conquista: otto deputati e tre senatori alle politiche dell'anno scorso, ora vittoriosi al primo turno i due leghisti alle province di Biella e di Cuneo, quest'ultima Gianna Gancia, nuova compagna di Calderoli. "Il radicamento non si arresta qui, c'è una scuola quadri, a Torino abbiamo quattro sedi e ne apriremo una ogni quartiere, abbiamo la classe dirigente in grado di governare: certo che chiederemo la candidatura alla presidenza della Regione", dice Cota.

Scenario di ieri: ne chiediamo due per averne una. Nuovo scenario: se vogliono tenersi la Lombardia ci mollino le altre due. Si aggiunga l'uscita di Matteo Salvini, deputato e capogruppo al Consiglio comunale di Milano, che ipoteca la poltrona della deludente sindaco Letizia Moratti. Insomma, per cominciare a giocare c'è tempo, ma il terreno di gioco è già cambiato.

E non è l'unico. Tutta la partita delle riforme istituzionali, dalla semplificazione degli enti locali all'impalcatura bicamerale fino al sistema elettorale esce sensibilmente modificata, e chiarificata, dal successo della Lega. Le Province, chi le tocca più? Se già prima c'erano serissimi dubbi sull'effettiva volontà dei partiti di privarsi di questa mammella generosa di prebende e gettoni, ora, con buona pace dei tagliatori di teste e posti in nome del risparmio, Brunetta, Tremonti, lo stesso Berlusconi, la Provincia è diventata come il sagrato delle chiese nel Medioevo: luogo sacro e inviolabile.

Esattamente ciò che la Lega, in controtendenza con le dichiarazioni di tutti gli altri, aveva sempre propugnato. "Altro che abolirle!", spiega Calderoli, "le Province saranno ancora più centrali. Il nuovo Codice delle autonomie cui sto lavorando, sul quale mi sono incontrato due giorni dopo il voto con i ministri competenti e i capigruppo per portarlo già la settimana dopo al Consiglio dei ministri, ridefinisce totalmente le competenze. Lo sa quanti enti intermedi abbiamo trovato che per la Costituzione neanche dovrebbero esistere? 34 mila, ognuno col suo presidente, consiglio di amministrazione, gettoni, sedi: comunità montane anche al mare, Ato rifiuti, consorzi di bonifica, commissari alle acque, enti parco regionali, circoscrizioni.

Li aboliremo, almeno per lo Stato, e il grosso delle loro competenze passerà proprio alle Province. Se poi le Regioni vorranno mantenere alcuni di quegli enti sarà affar loro. A loro spese".

Aver allontanato la mannaia del referendum ha però ridefinito l'intero calendario delle riforme: non c'è più motivo di metter mano subito alla legge elettorale, che dunque passa in coda alla riforma istituzionale. Cos'hanno in mente i leghisti sono mesi che sta scritto in una bozza. Berlusconi l'aveva in mano, ma tra un terremoto e una Noemi è dubbio l'abbia mai soltanto letta. Alla citata cena di Arcore lunedì 8, però, "mentre altre volte mi dava nomi di riferimento dei suoi con cui lavorare, stavolta mi ha detto che dovremo incontrarci perché se ne vuole occupare lui in prima persona. Vuol dire che si fa", giura Calderoli.

Contempla il taglio del numero dei parlamentari, la fine del bicameralismo perfetto, una sola Camera chiamata a esprimere la fiducia al governo, un Senato federale eletto direttamente dal popolo (come vogliono gli attuali senatori, destra e sinistra) o indirettamente dai Consigli regionali (come hanno messo nero su bianco i deputati, destra e sinistra). Nel disegnino iperfederalista della Lega, ogni Regione decida come le pare in che modo eleggere i suoi senatori, purché i loro destini siano legati a quelli del relativo Consiglio regionale: via questo, a casa anche loro. Technicalities, ma non di poco conto.

Chiusura netta, invece, sul vero dramma del 'Porcellum': che a scegliere gli eletti siano i partiti con le liste bloccate anziché gli elettori con le preferenze. E francamente non si vede perché Berlusconi, col suo partito del capo carismatico, dovrebbe mettersi a litigare in difesa di una simile democratica istanza.

Chi può frapporsi in questo idillio obbligato? Non Pier Ferdinando Casini, cui pure Berlusconi non smette di fare avances, anche se non va alle sue feste di compleanno: "Il suo 6 per cento, per giunta spalmato su tutto il Paese, non serve a nessuno", taglia corto Calderoli. L'unico che può mettere i bastoni fra le ruote è Gianfranco Fini. Che ha cominciato a farlo attraverso una nota della sua fondazione Farefuturo, dura contro "una politica di governo a trazione leghista" e disattenta al Sud, dove infatti hanno disertato le urne. "Noi lavoriamo giorno e notte sul territorio, invece di lamentarsi Fini farebbe meglio a prenderci come esempio", liquida Cota.

Concorrenza su tutto il territorio nazionale, dopo lo sfondamento leghista nell'Emilia? "Emilia e Romagna sono Nord. Non abbiamo nessuna intenzione di diventare un partito nazionale"


(15 giugno 2009)

Re Umberto di Padania | L'espresso