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Questo passo è volutamente tradotto male dal latino ed anche privato di alcune frasi chiarificatrici.
Il passo dovrebbe essere tradotto ed integrato in questo modo più correttamente:
La servitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla servitù
e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento ……Non è contrario alla legge naturale e divina che un servo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato. Il venditore dovrebbe chiaramente esaminare se il servo messo in vendita sia stato giustamente o ingiustamente privato della sua libertà e che il compratore non possa fare nulla che potrebbe danneggiare la vita, la virtù o la fede cattolica del servo.
Il documento in questione è l’ Instructio 1293 (Collectanea, Vol. 1, pp. 715-720). In latino il termine utilizzato nel documento e tradotto male con la parola schiavitù è "servitudo" e quello tradotto con la parola schiavi è “serviti”.
Storicamente tale termine può comprendere sia coloro i quali si trovano in servitù penale (come ad esempio carcerati che sono costretti al lavoro) e in servitù volontaria, contrattata (chi liberamente per motivi economici mette a disposizione di qualcuno la sua libertà) che coloro che si trovano in condizioni di schiavitù (considerati cioè come oggetti di proprietà di un padrone).
Dal momento che nessuna distinzione viene fatta nel testo tra le diverse forme comprese in questo termine e dal momento che la Chiesa non ha condannato la servitù penale o quella volontaria-contrattata come intrinsecamente contrarie alla legge naturale e divina, non c’è nulla di nuovo o controverso in ciò che sta insegnando questa istruzione.
L’immediato predecessore di PIO IX, Gregorio XVI nella bolla In Supremo (1839) scrisse:
Elevati al supremo fastigio dell’Apostolato, ed esercitando senza alcun Nostro merito le veci di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che per la sua eccelsa carità si è fatto uomo e si è degnato di morire per la redenzione del mondo, abbiamo ritenuto essere compito della Nostra pastorale sollecitudine adoperarci per distogliere completamente i fedeli dall’indegno mercato dei Neri e di qualsiasi altro essere umano.
In verità, fin da quando cominciò a diffondersi la luce del Vangelo, si cominciò a sentire alleviata di molto presso i cristiani la condizione di quei miseri che erano caduti in durissima schiavitù, specialmente in conseguenza delle numerosissime guerre. Gli Apostoli, ispirati dallo Spirito divino, insegnavano agli schiavi ad obbedire ai padroni carnali come a Cristo, ed a compiere volentieri la volontà di Dio, ma imponevano poi ai padroni di agire umanamente verso gli schiavi per dar loro quello che era giusto ed equo, e di non compiere minacce, sapendo che essi avevano nei cieli un Padrone in comune con loro, e che presso Dio non c’è discriminazione di persone (Ef 6,5ss; Col 3,22ss; Col 4,1). Poiché si predicava universalmente una sincera carità verso tutti come legge evangelica, e poiché Cristo Signore aveva dichiarato che riteneva fatto a sé, oppure negato a sé, quello che fosse stato fatto o negato ai più piccoli e agli indigenti (Mt 25,35), ne conseguì facilmente che i cristiani non solo consideravano come fratelli i loro schiavi, specialmente quelli cristiani , ma molti erano anche orientati a concedere la libertà a coloro che la meritavano: il che era consuetudine farsi specialmente in occasione delle solennità pasquali, come ricorda Gregorio Nisseno .
Non mancarono coloro che, animati da più ardente carità, "si consegnarono spontaneamente alla schiavitù per redimere altri". Il Nostro Predecessore apostolico Clemente I, uomo di santissima memoria, attesta di aver conosciuto molti di costoro .
Pertanto, col trascorrere del tempo, essendosi dissipata più ampiamente la caligine delle superstizioni barbariche ed essendosi mitigati i costumi anche dei popoli più selvaggi sotto l’influsso della carità cristiana, si arrivò al punto che da diversi secoli non ci sono più schiavi presso moltissimi popoli cristiani. Ma poi, e lo diciamo con immenso dolore, sono sorti, nello stesso ambiente dei fedeli cristiani, alcuni che, accecati dalla bramosia di uno sporco guadagno, in lontane e inaccessibili regioni ridussero in schiavitù Indiani, Negri e altre miserabili creature, oppure, con un sempre maggiore e organizzato commercio, non esitarono ad alimentare 1’indegna compravendita di coloro che erano stati catturati da altri.
Numerosi Pontefici di venerata memoria, Nostri Predecessori, come doverosa opera del loro ministero non tralasciarono mai di condannare tale delitto, contrario alla salvezza spirituale di chi lo compie, e disonorevole per il nome cristiano, prevedendo che le tribù degl’infedeli si sarebbero confermate sempre più nell’odio contro la vera Nostra Religione. Ne fanno fede la lettera apostolica di Paolo III, datata 29 maggio 1537, sotto l’anello del Pescatore, indirizzata al Cardinale Arcivescovo di Toledo, e un’altra ancora più ampia di Urbano VIII, datata 22 aprile 1639 al Collettore dei diritti della Camera Apostolica in Portogallo. In questa lettera vengono condannati severissimamente tutti coloro che osano o si propongono "di ridurre in schiavitù gl’Indiani occidentali o meridionali; venderli, comprarli, scambiarli o donarli: separarli dalle mogli e dai figli; spogliarli dei loro beni; trasportarli da un luogo ad un altro; privarli in qualsiasi modo della loro libertà; tenerli in schiavitù; favorire coloro che compiono le cose suddette con il consiglio, l’aiuto e l’opera prestati sotto qualsiasi pretesto e nome, o anche affermare e predicare che tutto questo è lecito, o cooperare in qualsiasi altro modo a quanto premesso". In seguito il papa Benedetto XIV confermò e rinnovò queste sanzioni dei sopraddetti Pontefici con una nuova lettera ai Vescovi del Brasile e di altre regioni, in data 20 dicembre 1741, con la quale spronò a tal fine la sollecitudine dei predetti Presuli. Prima ancora un altro più antico Predecessore, Pio II, allorché ai suoi tempi si estendeva la conquista dei Portoghesi nella Guinea abitata dai Negri, in data 7 ottobre 1462 inviò una lettera al Vescovo Rubicense che si accingeva a partire per quei luoghi. In questa lettera non solo furono concesse tutte le facoltà necessarie ad un Vescovo per esercitare con il maggior frutto possibile il suo ministero, ma si coglieva l’occasione per condannare gravemente quei cristiani che riducevano in schiavitù i neofiti.
E anche ai Nostri tempi, Pio VII, mosso dallo stesso spirito di fede e di carità, si adoperò presso i potenti con tanto zelo affinché la tratta dei Negri venisse a cessare completamente fra i cristiani.
Questi interventi e queste sanzioni dei Nostri Predecessori giovarono non poco, con l’aiuto di Dio, agli Indiani e agli altri predetti per difenderli dalla crudeltà e dalla cupidigia degli invadenti, ossia dei mercanti cristiani, ma non abbastanza per far sì che questa Santa Sede potesse rallegrarsi del pieno esito dei suoi sforzi in questo settore; così che la tratta dei Negri, benché sia notevolmente diminuita in molte parti, tuttavia è ancora esercitata da numerosi cristiani. Per tale ragione Noi, volendo far scomparire detto crimine da tutte le terre cristiane, dopo aver considerato maturamente la cosa, utilizzando anche il consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa, seguendo le orme dei Nostri Predecessori, con la Nostra Apostolica autorità ammoniamo e scongiuriamo energicamente nel Signore tutti i fedeli cristiani di ogni condizione a che nessuno, d’ora innanzi, ardisca usar violenza o spogliare dei suoi beni o ridurre chicchessia in schiavitù, o prestare aiuto o favore a coloro che commettono tali delitti o vogliono esercitare quell’indegno commercio con il quale i Negri vengono ridotti in schiavitù, quasi non fossero esseri umani, ma puri e semplici animali, senza alcuna distinzione, contro tutti i diritti di giustizia e di umanità, destinandoli talora a lavori durissimi. Inoltre, chi propone una speranza di guadagno ai primi razziatori di Negri, provoca anche rivolte e perpetue guerre nelle loro regioni.
Noi, ritenendo indegne del nome cristiano queste atrocità, le condanniamo con la Nostra Apostolica autorità: proibiamo e vietiamo con la stessa autorità a qualsiasi ecclesiastico o laico di difendere come lecita la tratta dei Negri, per qualsiasi scopo o pretesto camuffato, e di presumere d’insegnare altrimenti in qualsiasi modo, pubblicamente o privatamente, contro ciò che con questa Nostra lettera apostolica abbiamo dichiarato.
Il modo per comprendere come quello che fu affermato 27 anni prima non è in contrasto con quanto detto da Pio IX è semplicemente il notare che papa Gregorio stava condannando la schiavitù e la tratta degli schiavi e non la servitù stessa considerata di per se e in senso assoluto. La bolla di Gregorio è quindi logicamente compatibile con l’Instructio del 1866 che non può essere in alcun modo ritenuta un supporto teologico per la schiavitù come quella praticata ad esempio negli stati sudisti americani e che fu abolita, in quegli stessi anni, dopo la guerra di secessione. L’instructio chiaramente implica che alcuni serviti siano giustamente trattenuti come tali e quindi fa riferimento solo al commercio di serviti i cui padroni hanno un giusto titolo, non opposto alla legge naturale e divina. Questo chiaramente implica che alcuni serviti fossero giustamente trattenuti come tali e che altri non lo fossero. Il commercio in serviti che non sono giustamente asserviti sarebbe immorale perché essi sono stati ingiustamente privati della loro libertà. Quindi l’instructio 1866 è compatibile con le precedenti, ripetute condanne papali della schiavitù e della tratta degli schiavi culminate con la bolla In Supremo. Non ci fu quindi inconsistenza con l’insegnamento papale precedente.
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