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  1. #1
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    Predefinito Gli articoli di Emma Bonino

    INFIBULAZIONE: NON MOLLARE, MAI
    Vanity Fair - 2 gennaio 2008


    La lotta alle mutilazioni genitali femminili si fa sempre più difficile. Ma, scrive il leader radicale, sconfiggerle è possibile


    di Emma Bonino


    Sono passati cinque anni da quando le attiviste più impegnate nella lotta alle mutilazioni genitali femminili (mgf) si riunirono al Cairo con le associazioni Aidos e Non c'è Pace Senza Giustizia per discutere le strategie più efficaci per combatterle.
    Da allora, 18 su 28 Paesi afro-arabi dove si praticano le mgf hanno adottato una legge che le proibisce come una violazione dei diritti della donna. E questo è un cambiamento di fondamentale importanza, perché il fenomeno non è più considerato solo come un problema socio-sanitario. L'esistenza di una legge legittima poi il lavoro delle militanti anti-mgf. Certo, di per sé non basta a sconfiggere la pratica, e in diversi Paesi c'è ancora molto da fare proprio per migliorare le norme adottate.
    Quello che è emerso con più forza dalla Conferenze "Dichiarazione del Cairo +5", che Non c'è Pace Senza Giustizia ha organizzato al Cairo il 14 e 15 dicembre scorso, è il consolidamento di un lavoro di squadra che, tenendo alta la pressione a livello sociale e politico, porterà nella direzione della completa eliminazione delle mgf.
    Ministri, parlamentari, attivisti e rappresentanti delle organizzazioni internazionali più impegnate su questo fronte hanno voluto chiudere i lavori della Conferenza assumendo un impegno per quest'anno: ritrovarsi ancora più numerosi in un prossimo incontro, da tenere magari proprio in uno dei Paesi in cui le mgf sono più diffuse, per elaborare nuove strategie, consolidare i risultati acquisiti, gettare le basi per ulteriori passi avanti e favorire l'armonizzazione delle legislazioni.
    Quest'ultimo aspetto ha un'importanza particolare per via di un fenomeno nuovo, che sta prendendo sempre più piede. Si tratta di una sorta di "emigrazione mutilatoria" tra Paesi confinanti. Chi, per esempio, in Burkina Faso vuole far mutilare le proprie figlie, rischia dai 5 ai 10 anni di reclusione. Così si mette su un treno e va in Mali, dove non c'è ancora una legge che proibisce le mgf.
    Da questo nasce la necessità di un'azione più incisiva e di un coordinamento più stringente, anche a livello di campagne d'informazione e sensibilizzazione. Perché bandire definitivamente le mgf non solo è possibile, ma è un risultato a portata di mano. Bisogna però non mollare, mai.

    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7173

  2. #2
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    Predefinito Riferimento: Gli articoli di Emma Bonino

    SALVIAMO IL MERCATO INTERNO
    The Financial Times - 12 febbraio 2009


    di Giuliano Amato e Emma Bonino*


    Dalla fine della seconda Guerra mondiale sino a oggi, l’Europa ha goduto di pace e di prosperità come non mai. Pochi possono contestare il fatto che la Comunità Europea abbia giocato un ruolo chiave. Il suo elemento centrale è il mercato comune, che garantisce libertà di movimento sul continente alle persone, ai capitali, ai beni e ai servizi.

    Le economie dei stati membri sono adesso cosi inter-connesse da formare un forte mercato interno. Questo è ciò che tiene insieme le diverse visioni dell’Europa. E' stata la forza trainante che ha spazzato via frontiere e controlli, e ha indotto 16 stati a lasciar cadere le loro monete nazionali per adottare l’euro. Ha inoltre sospinto la crescita economica, e attraverso l’allargamento ha rafforzato e stabilizzato la democrazia in Europa.

    È per questa semplice ragione che ogni minaccia al mercato interno deve essere interpretata come una minaccia alla prosperità dell’Europa. Guardando il modo in cui alcuni stati membri stanno reagendo all’attuale crisi finanziaria siamo convinti che il pericolo per il mercato interno è reale.

    Certamente la crisi è cosi vasta da richiedere varie misure di pubblico intervento. Gli strumenti politici sono nelle mani dei governi degli stati membri. Ma se le decisioni sono prese in maniera scoordinata con lo sguardo rivolto esclusivamente allo stretto interesse nazionale, queste misure rischiano di entrare in collisione con le regole della concorrenza che presidiano il mercato interno.

    Il trattato contempla alcune eccezioni a questa regola, ma chi è il giudice? Non gli stati membri, ma il loro arbitro, la Commissione Europea.

    Qui interviene il fattore tempo. L’economia rischia di precipitare nella depressione. Non c’e tempo, dicono alcuni, perché la "burocrazia" di Bruxelles esamini se certi aiuti di stato “distorcono o minacciano di distorcere la concorrenza”. Questa insistenza sull’urgenza è comprensibile. Tuttavia, se misure che generano distorsione entrano in vigore, esse devono essere annullate dalla Commissione oppure rischiano di essere reciprocate da altri stati membri, lasciando alla fine nessuno in condizioni migliori, ognuno in condizioni peggiori, e il mercato interno a pezzi.

    I due settori in Europa che hanno beneficiato di massicci aiuti di stato sono il settore bancario e quello automobilistico. La Commissione Europea ha cercato di accelerare il suo processo di revisione, ma i governi hanno preso l’abitudine di annunciare pubblicamente nuove misure quasi quotidianamente. Alcune di queste misure sono di dubbia compatibilità con le regole della concorrenza anche ad un occhio non allenato. Il fatto di accompagnarle con minacce a Bruxelles perché dia il suo consenso si avvicina, in ogni caso, ad una politica del fatto compiuto.

    E' tempo di cambiare approccio. Una procedura che funziona in tempi normali, quando le richieste di aiuti di stato sono infrequenti, non può funzionare nelle attuali circostanze. Il Consiglio Europeo dovrebbe riunirsi urgentemente e dichiarare che le banche europee e i produttori di automobili sono in uno “stato di crisi”. Dovrebbero essere create due task forces composte da rappresentanti nazionali nominati dai governi per i due settori, entrambe presiedute dalla Commissione Europea, per coordinare gli aiuti statali, assicurandosi nel contempo che le misure nazionali si rinforzino mutualmente per il maggior beneficio dei settori interessati senza compromettere le regole della concorrenza.

    Questo scambio di informazioni può evitare che i governi prendano decisioni che possono apparire sagge ma poi si rivelano disastrose. Questo da anche all’arbitro della concorrenza, la Commissione Europea, un ruolo ex ante, dato che quello attuale ex post è palesemente inadeguato.

    I settori bancario e automobilistico stanno attraversando una crisi strutturale che richiede sforzi di ristrutturazione più ambiziosi. C’è un precedente storico per un intero settore industriale sottoposto a un processo di ristrutturazione su scala europea: il settore dell’acciaio negli anni settanta e ottanta, quando la Commissione Europea guidò questo processo grazie ai poteri derivanti dal Trattato costitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.

    Ma le similitudini, per quanto incoraggianti, finiscono qui. Il tempo di assegnare quote di produzione è passato. L’essenza della nostra proposta è il coordinamento. Quasi tutti gli stati membri dell’UE sono coinvolti nella produzione automobilistica. La Repubblica Ceca produce più automobili l'anno dell’Italia. Ma chi produce che cosa in Europa è irrilevante. La nostra prosperità è basata su un bene pubblico intangibile: l’insieme di regole che ha reso possibile il mercato interno. I governi europei non dovrebbero mai dimenticare che il loro superiore interesse nazionale è la difesa del mercato interno europeo.



    *Giuliano Amato è ex Primo Ministro ed Emma Bonino ex-Commissario Europeo. Entrambi sono membri dell'European Council on Foreign Relations.

    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7266

  3. #3
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    Predefinito Riferimento: Gli articoli di Emma Bonino

    CASO ENGLARO LA VERITA' E LE MENZOGNE
    L'Unità - 13 febbraio 2009


    di Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia*


    La lotta contro il tempo per ottenere in fretta l'approvazione della legge che avrebbe dovuto "salvare" Eluana Englaro è stata condotta a suon di insulti e di menzogne. Gli insulti si qualificano da sé e soprattutto qualificano chi li ha lanciati. Alle menzogne invece risponderemo nel convegno «Verità e menzogne a proposito di "eutanasia", Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro» (domani, ore 10, al Piccolo Eliseo di Roma) al quale parteciperanno fra gli altri Ignazio Marino, Furio Colombo e Stefano Rodotà. In attesa che riprenda lo scontro sul merito della legge sul testamento biologico, vorremmo riportare l'attenzione su due argomenti usati contro di noi e che forse non sono stati colti in tutta la loro gravità a causa del concitato clamore politico-mediatico che ha accompagnato gli ultimi giorni di Eluana. Il primo è l'accusa di Berlusconi di essere, noi, degli "statalisti". Berlusconi ci ha abituato alle barzellette, però faremmo male se passassimo questa sotto silenzio. Non solo perché in materia di vita e di morte c'è poco da scherzare ma perché questa sortita del Premier s'inserisce nella campagna rivolta ad alimentare l'equivoco che con la legge si voglia attribuire allo Stato un potere sulle nostre vite quando è esattamente il contrario: ciò che si vuole difendere è la facoltà della persona di scegliere se sottoporsi o no ad alcune terapie. Ma come: Berlusconi, Sacconi, Eugenia Roccella, l'intero governo e la sua maggioranza si propongono di toglierci questo diritto di scelta e d'imporci, non solo in caso di coma irreversibile, idratazione e alimentazione forzata e poi saremmo noi gli statalisti? E chi sceglierà per noi dal momento che Sacconi ha già annunciato la contrarietà del governo all'indicazione di una persona di fiducia esecutrice della mia volontà? Il secondo argomento, ancor più grave, è quello che intima al Parlamento e al Diritto di lasciare intorno al malato una "zona grigia" (sono le parole testuali usate da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera), in cui a decidere sarebbero la pietà e l'affetto dei familiari supportati, immaginiamo, da qualche centinaio di euro al personale medico o paramedico. Per l'aborto, prima della legge 194, questa zona grigia è sempre esistita: si chiamava "aborto clandestino". Nel silenzio e nell'ipocrisia dovremmo ora rassegnarci ad una sorta di "fine vita clandestina"? Papà Englaro ha fatto scandalo proprio perché non ha voluto risolvere nel silenzio e nell'ipocrisia il dramma di sua figlia, perché ha creduto nella Costituzione, nella legge e nel diritto. Così facendo ha scosso e turbato le nostre coscienze, ci ha obbligato a interrogarci, a scegliere e a dividerci, mostrando a tutti che la contrapposizione non è fra il partito della vita e quello della morte, ma fra chi difende il diritto di autodeterminazione della persona e chi, invece, lo nega.


    *Rispettivamente Vicepresidente del Senato ed ex Segretario del Partito Radicale
    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7268

  4. #4
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    LA MINACCIA PROTEZIONISTA
    Affari & Finanzia - 23 febbraio 2009


    di Giuliano Amato ed Emma Bonino


    Dalla fine della Seconda Guerra mondiale l'Europa ha goduto di pace e di prosperità come non mai. Pochi possono contestare il fatto che la Comunità Europea abbia giocato un ruolo chiave. Il suo elemento centrale è stato, ed è, il mercato comune, che garantisce libertà di movimento alle persone, ai capitali, ai beni e ai servizi. Le economie degli stati membri sono adesso così interconnesse da formare un forte e coeso mercato interno. Questo è ciò che tiene veramente insieme le diverse visioni dell'Europa. E` stata la forza trainante che ha spazzato via frontiere e controlli, e ha indotto 16 stati membri a rinunciare alle loro monete nazionali per adottare l'euro. Ha inoltre sospinto la crescita economica e, attraverso l'allargamento, ha rafforzato e stabilizzato la democrazia in Europa. E per questa semplice ragione che ogni minaccia al mercato interno deve essere interpretata come una minaccia alla prosperità dell'Europa. Il modo in cui alcuni stati membri stanno reagendo all'attuale crisi finanziaria ci convince che il pericolo per il mercato interno sia reale. Certamente la crisi è cosi vasta da richiedere varie misure d'intervento pubblico. Gli strumenti politici sono nelle mani dei governi degli stati membri. Ma se le decisioni sono prese in maniera scoordinata, con lo sguardo rivolto esclusivamente allo stretto interesse nazionale, queste misure rischiano di entrare in collisione con le regole della concorrenza che presidiano il mercato interno. Il trattato contempla alcune eccezioni a questa regola, ma chi è il giudice? Non gli stati membri, ma il loro arbitro, la Commissione europea.
    Qui interviene il fattore tempo. L'economia rischia di precipitare nella depressione. Non c'è tempo, dicono alcuni, per la "burocrazia" di Bruxelles di esaminare se certi aiuti di stato "distorcono o minacciano di distorcere la concorrenza". Questa insistenza sull'urgenza è comprensibile. Ma allora la Commissione deve poter intervenire annullando misure prima che abbiano dispiegato i loro effetti distorsivi sul mercato, oppure siano replicate in altri stati membri, lasciando alla fine nessuno in condizioni migliori, ognuno in condizioni peggiori, e il mercato interno a pezzi. I due settori in Europa che hanno beneficiato di massicci aiuti di stato sono il settore bancario e quello automobilistico. La Commissione Europea ha cercato di accelerare il processo di revisione nonostante i governi abbiano preso l'abitudine di annunciare pubblicamente nuove misure su base pressoché quotidiana. Alcune di queste misure sono di dubbia compatibilità con le regole della concorrenza anche ad un occhio non allenato. Il fatto di accompagnarle con minacce a Bruxelles perché dia il suo consenso si avvicina, in ogni caso, ad una politica del fatto compiuto. E` tempo di cambiare approccio. Una procedura che funziona in tempi normali, quando le richieste di aiuti di stato sono infrequenti, non può funzionare nelle attuali circostanze. Il Consiglio Europeo dovrebbe riunirsi urgentemente e dichiarare che le banche europee e i produttori di automobili sono in uno "stato di crisi". Dovrebbero essere create due task forces composte da rappresentanti nazionalì nominati dai governi per i due settori, entrambe presiedute dalla Commissione, per coordinare gli aiuti, assicurandosi nel contempo che le misure nazionali si rinforzino mutualmente per il maggior beneficio dei settori interessati senza però compromettere le regole della concorrenza.
    Questo scambio di informazioni può evitare che i governi prendano decisioni che possono apparire sagge ma poi si rivelano disastrose. Questo dà anche all'arbitro della concorrenza, la Commissione, un ruolo ex ante, dato che quello attuale ex post è palesemente inadeguato.
    I settori bancario e automobilistico stanno attraversando una crisi strutturale che richiede sforzi di ristrutturazione più ambiziosi. C'è un precedente storico per un intero settore industriale sottoposto ad un processo di ristrutturazione su scala europea: il settore dell'acciaio negli anni settanta e ottanta, quando la Commissione guidò questo processo grazie ai poteri derivanti dal Trattato costitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio.
    Ma le similitudini, per quanto incoraggianti, finiscono qui. Il tempo in cui si assegnavano quote di produzione è passato. L'essenza della nostra proposta è il coordinamento. Quasi tutti gli stati membri dell'Ue sono coinvolti nella produzione automobilistica. La Repubblica Ceca produce più automobili l'anno dell'Italia. Ma chi produce che cosa in Europa è irrilevante. La nostra prosperità è basata su un bene pubblico intangibile: l'insieme di regole che ha reso possibile il mercato interno. I governi europei non dovrebbero mai dimenticare che il loro superiore interesse nazionale è la difesa del mercato interno europeo.


    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7290

  5. #5
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    DARFUR BRUCIATO
    Corriere Magazine - 12 marzo 2009

    di Emma Bonino

    Dal 2003 il governo di Khartoum appoggia politicamente e materialmente le scorribande dalle milizie Janjaweed nella regione del Darfur. La crisi umanitaria che ne è derivata è una delle più drammatiche dell'ultimo decennio. In questi giorni la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato di cattura a carico del presidente sudanese Bashir, al potere dal 1989. La decisione della Corte non stupisce, perché fa seguito ad una precisa richiesta d'indagine da parte del Consiglio di Sicurezza ONU. Per questo trovo fuori luogo le polemiche che da più parti vengono sollevate all'indirizzo del procuratore Ocampo, che a detta di qualcuno avrebbe peccato di eccessivo protagonismo. La Corte si è limitata a svolgere, peraltro con perizia, il proprio lavoro. Se gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza lo ritengono, possono scegliere di ricorrere all'art. 16 dello Statuto di Roma, che io stessa a suo tempo contribuii a negoziare e che consente di sospendere per 12 mesi il procedimento in corso, magari per trovare una politica da proporre per la soluzione del conflitto sudanese. Questa decisione devono però "motivarla", ossia mettere l'opinione pubblica in grado di conoscerne le ragioni.

    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7337

  6. #6
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    WOMEN IN THE MEDITERRANEAN: AN UNTAPPED RESOURCE
    March 6, 2009*


    Emma Bonino
    Vice-President of the Italian Senate


    Italy, given its geographic location, history, cultural ties, trade flows and security interests, cannot avoid engaging with the Mediterranean region. More importantly, it has no wish to disengage. Historically, the Mediterranean has a symbolic significance as a place of both confluence and conflict between different cultures. It is precisely because of this strong tradition that the Mediterranean can offer the most appropriate backdrop for dialogue and for developing a model of peaceful coexistence that can only be positive for Europe.

    Irrespective of whoever has been in power, Italy has always been ready to contribute passionately to the integration process within the Mediterranean region, working shoulder-to-shoulder with its European partners and its coastal neighbours on the southern shores, albeit with modalities that changed according to situations.

    Nevertheless, there have been two developments in recent years that we cannot ignore and which I wish to highlight, before moving on to the central theme of women. These developments raise critical issues which call for us to reflect on our identity as Italians and Europeans, and on how we wish to convey this identity to the outside world.

    The Mediterranean as a geopolitical priority

    The first development is a patent drift in our Euro-Mediterranean policy. On the one hand, there is the Barcelona Process, whose Tenth anniversary the European Union celebrated in 2005 without – to say the truth – popping too many champagne bottles. On the other hand, we have adopted the European Neighbourhood Policy in an effort to go beyond Barcelona. By so doing, we have further clogged an already busy Barcelona agenda with even more diplomatic meetings and various other complications. But what have we achieved? What is the final result? And what are the evaluation criteria?

    Clearly, with 2010 looming, we are still far off target of a Free Trade Area. Nor have we seen great progress on governance in the South of the region, whether in terms of economic transparency or of markers of democracy. A few economic indicators here and there have moved in the right direction (such as growth and competitiveness). However, electoral processes have remained the same, in the same countries and under the same conditions. To say nothing of the tensions which continue to beset the southern Mediterranean towards the West (the Sahara) and the East (Israel-Palestine and Lebanon-Syria). Regrettably in these regions, even today, peace conferences far outnumber those devoted to economic cooperation.

    Doubtless, even we Europeans have made little progress towards achieving greater cohesion and demonstrating a greater capacity for integration. I am referring to the difficulties encountered in the ratification of the Lisbon Treaty on the redistribution of institutional powers and competences, and the inability to raise public awareness among Europeans, let alone internationally, of the very essence of the "European success story", namely: moving, albeit partially, beyond national States towards an identity, a common area of freedom, free movement and shared values.

    In short, whichever way you look at Euro-Mediterranean policy (the Barcelona Process, the 5+5 Dialogue, Neighbourhood Policy or the Turkish accession process), it is very difficult to feel self-satisfied.

    The second development is that the Mediterranean is less and less a European sea. For instance, there is a strong and growing presence of Chinese and Indians. My point is that the southern Mediterranean no longer lives in endless anticipation of the arrival of the Europeans.

    If truth be known, our common goal has never been to establish some kind of modern-day Monroe Doctrine. In the age of globalisation, that would be simply inconceivable. However, the loss of Europe's "special relationship" with the southern Mediterranean region would not merely impact on business. It is a much more strategic issue – and here I am thinking of geopolitical stability, management of migration flows, the threat of international terrorism and religious fundamentalism. It also relates particularly to the type of model of society and good governance that we wish to promote.

    Faced with these two developments, we were pleased to see that, during the course of 2008, the issue of the state of Euro-Med relations was raised at the highest European political level, namely, through the French proposal for the creation of a Union for the Mediterranean and the Italo-Spanish proposal for the establishment of the "Mediterranean Business Development Agency".

    If anything, it is the scope and objectives of these proposals that need to be examined, given that since the launch in Paris last 13 July of the "Barcelona Process: Union for the Mediterranean" (as the initiative was finally called), there has not been much progress made. After four months it has been agreed, not without difficulties, that the Secretariat will be based in Barcelona. In respect of everything else, particularly the issues dealing with content, or with who should participate in meetings and who should head the Union, it has to be said, if I may, that we are still in high seas.

    In respect of the Union for the Mediterranean – a product of Sarkozy’s "hyper-proactiveness", which is perhaps tactically useful but at times impromptu and confusing – the same can be said as applies to other initiatives adopted in a group or unilaterally by EU Member States: such initiatives cannot make up for the absence of a fully "political" Europe. Only the latter can make us a credible counterpart, in this case in the eyes of other Mediterranean partners who need to have a totally clear understanding of the benefits they stand to gain by joining this Union. To date, there has been no such clarity.

    Women in the Mediterranean

    As with the rest of the world, women in the Mediterranean represent a great untapped resource. In this regard, I refer to both shores of the Mediterranean, as the issue of the largely underutilised female potential also closely concerns the Mediterranean countries of the European Union. Promoting cultural exchange, networking, opportunities for dialogue and fostering relationships within the business world would contribute to the recognition of this potential along with all its similarities and differences, and to distinguishing between stereotypes and the reality. Indeed, if there are two worlds whose diversity needs to be recognised, without falling prey to the most clichéd of stereotypes, these are exactly women and the melting-pot of the Mediterranean.

    If we confine ourselves to looking at the Mediterranean and the neighbouring Gulf States, it is immediately clear that there are profound differences between the Balkans and Egypt, between Turkey and the Middle East and between the Gulf States and the Maghreb – differences which have given rise to very diverse situations.

    If we start by examining the issue of human and civil rights, we see States that have legislation that is completely in line with that of the European States and have everyday social relations reflecting this, such as the Balkans. In other countries, such as some of the Maghreb States, modern legislation exists alongside traditions that often, especially in rural areas far from urban centres, contradict and disregard the former in many practices (including forced marriages, restricted freedom of action and limited access to education and employment). Finally, there are countries where legislation is, to a greater or lesser extent, completely aligned with more fundamentalist tradition and therefore often provides a rudimentary (the Emirates) and at times extremely limited (Saudi Arabia) guarantee of rights.

    In all cases, there are changes afoot. A recent example is the case of Egypt, where the efforts of the First Lady Suzanne Mubarak and other activists have led to the enactment of an almost radical law prohibiting female genital mutilation and early marriages, and underpinned by a very effective public awareness campaign.

    In any discussion of the status of women in the Mediterranean area, it is also worthwhile looking at the Persian Gulf, given that there are significant channels of communication within the regions. There is an increasing number of women in the Gulf who have cleverly exploited the importance of their family of origin in order to break taboos and who today hold influential positions in politics (such as Sheikha Lubna Al Kassimi in the Emirates and Sheikha Moza in Qatar), in the business world (Al Olayan in Saudi Arabia) and many within the cultural sphere. They have also established transnational associations through which their voice is growing more and more powerful and is increasingly exerting pressure for reform.

    However, as often occurs, the situation on the ground is moving faster than the institutions.

    In 2007, as Minister for International Trade, I organised a Forum for Women Entrepreneurs of the Southern Mediterranean and the Gulf. I believed that, in my ministerial capacity, I would be in a position to encourage greater participation of female entrepreneurs in the growing trend towards internationalisation, thanks also to an increase in networking, and to contribute to boosting trade flows which, although satisfactory, were – and remain – below expectations.

    We were expecting around eighty participants but over 250 finally took part which, when added to the 200 Italian women who attended, created a truly unforgettable conference. With its vibrant buzz, lively speeches, the diversity of business sectors represented and even the variety of styles of dress, the audience made it clear just how superficial it is to think in terms of there being a "single type" of Islamic woman – like some faceless black shadowy figure. By further turning the spotlight on this potential, which has remained so invisible to many, it was finally possible to openly reveal its existence and show it off to best advantage.

    Veil or no veil, in all of these areas women are acquiring influence and economic independence, which can only help call into question their lack of complete equality of rights.

    Hence, the question becomes: What can more advanced democracies do to facilitate a process that can only benefit everyone?

    First and foremost, it is necessary to support and encourage signs of progress that emerge in the various countries of origin with all the means at our disposal, including diplomatic pressure and cooperation projects – particularly in the areas of female education and microenterprises. As the Nobel Peace Prize winner Muhammad Yunus said: "It is better to grant loans to women than to their husbands".

    There is no doubt that each of these countries offers contradictions and revelations, which add to the temptation for us to simplify and generalize.

    In Yemen, where it is still rare to see unveiled women, a visit to universities surprisingly reveals a high number of women who study and obtain degrees. It is also almost never mentioned that in this poor country, still beset by many problems, elections have been held for years – elections in which women may vote and stand as candidates. It may require a few more years before they are elected but, on the other hand, it is not as if Italy provides them with an exemplary model to follow! Yet alongside these positive developments, baleful traditions that are difficult to eradicate still persist. Even these, however, are no longer passively accepted by everyone. A case in point is that of Nojoud, the ten-year-old girl who managed to obtain a divorce from a court in Sana’a by demonstrating the violence perpetrated by her husband, a man three times her age (in Yemen, the law prohibits marriages under the age of fifteen, but an amendment passed in 1999 permits marriage before that age on the condition that it is not consummated before the bride reaches puberty).

    Turkey is one of the countries experiencing the most change, courageously adapting its legal system to European standards, with a vibrant economy in which women often participate in positions of leadership, as with the head of TUSIAD, the confederation of Turkish industry. Precisely because of its many contradictions, failing to help Turkey move even more decisively towards complete equality of rights and status is – and would be – a truly lost opportunity.

    Perhaps the most striking contrasts, in a positive sense, can be found in the Gulf States, where women educated in the best colleges and universities in the world may manage astonishing fortunes on returning home, whilst adhering strictly to tradition in their private and social lives.

    Morocco provides a paradoxical example, where women, especially in the city, are totally emancipated and look on incredulously at emigrant women who return to visit their relatives, labelling them as "veiled women".

    Syria is another interesting case: a secular, but non-democratic country, in which women are quickly emancipating themselves.

    These are the women of the Mediterranean region: not some monolith, some uniform and homogenous bloc, but rather a diverse and complex world, a great reserve of potential whose nuances need to be completely understood and appreciated. All of which confirms that a more open political regime corresponds with a more tolerant interpretation and practice of Islam. While, conversely, the more authoritarian the political system is, the more reactionary and misogynist the practice of Islam. As Ramin Jahanbegloo, an Iranian liberal intellectual persecuted by the Teheran regime, correctly insists: violence and intolerance are not the products of religion as such, but of the ideologisation of religion.

    Female immigration: the case of Italy

    Yet we can begin by doing something at home too, starting by fully protecting the rights of immigrant women – as obvious as that might seem. First of all, we need to ensure that they know their rights, they understand who to turn to when those rights are violated and receive support to remove themselves from situations of rights abuse. This applies to wearing a veil, forced marriages, polygamy, so-called house confinement and so on. To give a good example where I was personally involved: in 2006, the Italian parliament felt the need to enact a national law that until a few years ago would have seemed pointless, namely, a law outlawing female genital mutilation.

    However, this is clearly not enough. The most recent ISTAT (the national statistics institute) figures for 2008 indicate that there are around 3.5 million immigrants in Italy today, half a million more than in the preceding year. In addition, a recently published report entitled "Donne del Mediterraneo. L'integrazione possibile" (or "Women of the Mediterranean. Integration made possible"), based on research carried out by the Fondazione Farefuturo with field surveys by the Istituto Piepoli, notes that the presence of women is the truly new factor in recent immigration flows (now characterised by equal numbers for both sexes). The report also highlights that women are, in their own right, an important "agent of integration" vis-à-vis their own family unit and the community to which they belong. In short, women represent a clear trait d'union between identity and integration. Indeed, the Istituto Piepoli's surveys show that, for instance, almost 60% of the female sample viewed polygamy as an offensive practice, while only 37% of men agreed, with 11% believing that it is actually "beneficial" for women (!). 56% of women felt that Italian law should not make an exception for women wearing a veil, while those more in favour of such an exception were (Muslim) men. Women predominantly supported a mixed Italian and immigrant child education model, while comparatively more men preferred that dedicated schools be established for foreign children. This latter position finds more than a little support within the Berlusconi government, as we have seen during the recent debate on the Gelmini Decree.

    If there is wide consensus today on the part of almost all political forces, both on the right and the left of the spectrum, over the notion that a contemporary State must of necessity remodel itself as a cosmopolitan State capable of internally generating the dynamics of globalisation, the question must therefore be posed as to whether the legislative initiatives of Centre-Right governments in Italy, ranging from the Bossi-Fini Law to the recent so-called Security Package and anti-Rom laws, are the most appropriate response. From a more strictly political perspective, it must also be asked whether it is fitting – for a modern multicultural State – to exploit human diversity, and "fear" as a consequence, a tried and tested weapon of Lega Nord supporters. But also of more refined minds such as writer Oriana Fallaci who, with her trilogy (The Rage and the Pride being the first instalment), remains a point of reference for many exponents of the Centre-Right; or Giulio Tremonti, our Finance Minister, who, with his recent book Fear and Hope, chose to greatly fuel fear but to engender little hope; or Marcello Pera, former President of the Senate, who believed in the "unavoidable" clash of cultures. Leaving aside any ideology or particular political stance, it seems to me that the events unfolding today before our very eyes and the uncertain times that lie ahead tell us that the answer to these questions is "No". As Ramin Jahanbegloo puts it, the reality is that "today, we are not experiencing a clash of civilizations, but a clash of intolerances".



    * The Euro-Mediterranean dialogue: prospects for an area of prosperity and security, a report edited by the Foundation for European Progressive Studies with the support of Fondazione Italianieuropei

    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7328

  7. #7
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    Predefinito Riferimento: Gli articoli di Emma Bonino

    SE IL MONDO SCOPRE LA GIUSTIZIA
    L'Unità - 12 marzo 2009


    di Emma Bonino


    Quando la macchina della giustizia internazionale si mette finalmente in moto, magari colmando un vuoto lasciato dalla politica, c'è sempre qualcuno che si erge a difensore dello status quo. Così, pur di non attaccare un dittatore sanguinario, alcuni trovano più facile attaccare il Tribunale penale internazionale.
    Il fatto che il Tpi, che rappresenta 108 governi, abbia, con prove schiaccianti, incriminato il Presidente sudanese al-Bashir di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità, nei sei anni nei quali ha perseguitato le popolazioni non musulmane del Darfur, non li sfiora neppure. Crimini che hanno provocato più di 300 mila morti e 2,7 milioni di rifugiati. Anche Gino Strada si unisce al coro, nel fondato timore di non riuscire ad aprire il suo nuovo centro nel Darfur meridionale, fingendo di non vedere l'espulsione di 13 Ong che alleviavano le sofferenze della popolazione quanto la sua Emergency ma accusate di aver collaborato con gli investigatori del Tpi.
    E facile lanciare strali contro il Tpi potendo evitare di sporcarsi le mani con la politica. Ma qualcuno deve farlo. Oppure continueremo in futuro ad avere bisogno non di un ospedale ma di dieci, cento, mille ospedali. È la politica la grande assente in quell'area, non il Tpi che ha fatto il mestiere per il quale è stato creato. E agli scettici ricordo che nel 1999, il Tribunale ad hoc per l'ex Jugoslavia chiese l'arresto di un altro Capo di Stato in carica, Slobodan Milosevic. Nonostante in quel momento sembrasse totalmente al sicuro, un anno e mezzo dopo fu arrestato e trasferito all'Aja.
    Nel 2003, un altro tribunale internazionale incriminò l'allora presidente della Liberia, Charles Taylor, che dovette fuggire e, dopo un breve asilo politico in Nigeria, è ora sotto processo all'Aja. Quando quelle richieste di arresto furono inoltrate nessuno poteva predire come si sarebbero sviluppati gli eventi. In retrospettiva, è evidente che i loro effetti delegittimanti hanno avuto conseguenze importanti. Oggi al-Bashir, grazie al Tpi, è un paria internazionale; domani, con grande delusione degli stessi scettici immagino, potrebbe finire all'Aja. Ora è alla politica, se c'è, a dover dare un colpo in Sudan. L'articolo 16 dello Statuto del Tpi prevede che l'ordine di cattura possa essere sospeso per 12 mesi rinnovabili per dare tempo e modo di trovare soluzioni altre, come quella di spingere verso un regime change a Khartum oppure di negoziare impegni seri e verificabili.
    Continuare a colpevolizzare il Tpi è sterile, oltre che facile. Più difficile accusare i governi che continuano ad essere i veri latitanti, anche quando finanziano le Ong.


    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7338

  8. #8
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    Predefinito Riferimento: Gli articoli di Emma Bonino

    VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI: ORA LA CINA NON E' PIU' DI MODA?
    Oggi - 1 aprile 2009


    Risponde Emma Bonino, Vicepresidente del Senato


    Il 2008 è stato l'anno delle aspettative per i diritti umani in Cina. Pechino, con le Olimpiadi, aveva promesso maggiore libertà di espressione del dissenso è continuata. Per questo occorre che riprendano con forza le iniziative per chiedere alla Cina di rispettare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo dell'Onu, un'organizzazione al cui interno aspira ad assumere un ruolo autorevole. Da qui, la necessità di avere la Cina come partner responsabile e trasparente, all'estero come al suo interno, una necessità resa ancor più evidente dalla crisi economica in corso.
    Sia tolto dunque il segreto di stato sulle condanne a morte, come chiesto dalla risoluzione Onu per la moratoria universale; sia consentito di monitorare il rispetto dei diritti umani in regioni come il Tibet o il Turkestan Orientale, abituato dagli Uiguri di religione musulmana, come chiesto da una mozione presentata da noi Radicali e approvata all'unanimità il 10 marzo alla Camera; e Pechino partecipi in futuro ad iniziative presso il Parlamento europeo, come l'audizione promossa dai Radicali il 31 marzo sulla questione tibetana, accettando che, come avviene in tutte le crisi internazionali, le parti in causa siano "facilitate" dalla comunità internazionale nel trovare soluzione condivise.


    http://www.emmabonino.it/press/by_emma_bonino/7388

  9. #9
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    Predefinito Riferimento: Gli articoli di Emma Bonino

    Int. ad Emma Bonino: "L'Europa rischia una chiusura nazionalista"

    • da Corriere della Sera del 6 aprile 2009, pag. 5

    di Maurizio Caprara

    «Invece di prendere la crisi come un`opportunità, l`Europa scivola verso una preoccupante visione nazionalista. La questione della Turchia dimostrerà se si aprirà al mondo o si chiuderà», dice Emma Bonino. Radicale eletta senatrice nelle liste del Partito democratico, la vicepresidente del Senato ieri si stava occupando di come evitare che tra poco, a Kabul, entri in vigore la legge sull`obbligo al sesso con i mariti per le sciite afghane non consenzienti. Ma Emma Bonino fa parte anche della commissione guidata dal finlandese Martti Ahtisaari che compie un monitoraggio sulle riforme varate dai turchi per entrare nell`Ue, e aveva presente la divergenza su Ankara tra il presidente degli Stati Uniti, quello dello Francia e la cancelliera tedesca.

    Barack Obama, a Praga, ha ribadito la richiesta americana di aprire l`Ue all`ingresso della Turchia. Il francese Nicolas Sarkozy ha confermato di essere contrario, la tedesca Angela Merkel preferirebbe una, meno impegnativa, «partnership privilegiata». Secondo lei chi ha ragione?

    «Seguendo una linea esistita da 40 anni, l`Europa in Consigli europei di 1999 e 2002 ha riconosciuto l`eleggibilità della Turchia all`ingresso nell`Unione. Tant`è che nel 2005 sono stati avviati i negoziati per l`adesione, non per una partnership. Obama ne prende atto, gli Usa sono da sempre a favore. Le reazioni rendono evidenti cose note nei corridoi».

    Le riserve francese e tedesca?

    «Già. L`idea della partnership fu battuta nel Consiglio europeo che diede via libera ai negoziati. Sarkozy poi li ha rallentati, non fermati. Sarebbe drammatico se, dopo un processo decennale, l`Europa dicesse: ci siamo sbagliati».

    Perché drammatico? Per chi?

    «Per l`affidabilità dell`Europa e i contraccolpi in Turchia. Chiedevamo la riforma del codice penale, e l`hanno fatta. Abbiamo chiesto diritti per i curdi, ed è nata una rete tv di Stato in curdo. Se si blocca tutto, altro che "ponte con il mondo musulmano"».

    L`Ue non è già abbastanza in affanno dopo l`allargamento a 27 membri? Oltre che all`Irlanda, la ratifica del trattato di Lisbona sui nuovi meccanismi decisionali è appesa alla crisi di governo ceca.

    «L`allargamento doveva andare di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni politiche. Comunque, oggi bisogna procedere nella direzione opposta alle misure protezionistiche sulle crisi bancaria e dell`auto, adottate dagli Stati senza coordinamento e con il rischio di cannibalizzarsi a vicenda. La Turchia conta per l`energia, è un Paese democratico e islamico. Saranno quattro o cinque attori a decidere le sorti del mondo: Usa, Cina, Russia, Brasile o altri e l`Europa, se c`è. Se torniamo tutti agli Stati nazionali, siamo destinati all`irrilevanza politica».

    Secondo Berlusconi per rassicurare Parigi e Berlino la Turchia potrebbe entrare rinviando a dopo la libera circolazione dei turchi nell`Ue. Che ne dice?

    «Dopo? La Turchia entrerebbe verso il 2015-2017. Lei ha idea di che cosa saremo nel 2015-2017? Chi ne ha idea?»

  10. #10
    L'estremista moderato
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    Predefinito Riferimento: Gli articoli di Emma Bonino

    Int. a Emma Bonino: "Aiutiamo le donne o perderemo l'Afghanistan"
    Sassi sulle manifestanti in piazza a Kabul contro la legge pro-stupri. Emma Bonino: "Sbagliato cedere ai talebani sui diritti umani"

    • da Corriere della Sera del 16 aprile 2009

    di Maurizio Caprara

    Sassi contro le donne a Kabul. Dopo l'approvazione da parte del Parlamento della legge che stabilisce la subordinazione della moglie al marito, e in pratica ne autorizza lo stupro, un gruppo di un centinaio di attiviste per i diritti umani ha manifestato in piazza denunciando "l'insulto alla dignità delle donne" sancito con l'approvazione del testo e scandendo slogano come: "Non vogliamo la legge talebana". Il corteo è stato però preso di mira da un gruppo di circa duecento uomini (tra loro c'erano anche delle donne) che hanno iniziato a lanciare sassi inneggiando alla "giustizia islamica". Un cordone di poliziotti e di poliziotte è riuscito a tenere separati i due gruppi. Il presidente Hamid Karzai, su pressione degli occidentali, ha promesso di rivedere il testo, che riguarda solo la minoranza sciita del Paese. Secondo il presidente afghano, tuttavia, polemiche e preoccupazioni potrebbero risultare da una "traduzione impropria, perfino errata della legge o di una sua cattiva interpretazione".



    Quella dei sassi lanciati sulle afghane scese in piazza contro la legge sugli obblighi di letto per le mogli sciite è una delle notizie che ci ricordano quanto l'Afghanistan resti diverso da come noi occidentali lo vorremmo. Benché sia giusto difendere i diritti delle donne, non stiamo coltivando più illusioni di quante un sano idealismo ne autorizzerebbe?



    Il corpo del Paese è meno retrogrado di quanto sembra. L'Afghanistan ebbe nel 1964 una Costituzione che prevedeva il lavoro delle donne. Non era la Svezia, ma succedeva nel 1964. e prima che i talebani andassero al potere, mentre i maschi erano sempre in guerra, spettava alle afghane tenere in piedi la pubblica amministrazione. Non imponiamo nulla, aiutiamo le afghane che chiedono aiuto. E sui diritti di base non si negozia", risponde Emma Bonino, radicale, vicepresidente del Senato, promotrice di un appello per non far entrare in vigore la legge contestata firmato anche da musulmane, tra le quali il ministro egiziano per la Famiglia Moushira Khattab.



    L'Amministrazione di Baraci Obama negli Stati Uniti ha ridimensionato le attese: più che prefiggersi di democratizzare l'Afghanistan, come proclamava Gorge W. Bush, punta a neutralizzare il terrorismo. Teme ripercussioni sui diritti come quelli invocati nella manifestazione di ieri?



    "Bisogna capire che neppure la nostra sicurezza sarebbe salvaguardata se l'Afghanistan tornasse a uno stadio così crudele e reazionario come quando governavano i talebani. Erano stati loro a togliere le ragazze dalle scuole, a proibire i tacchi perché avrebbero sprigionato un rumore erotico, a vietare le calze bianche perché attiravano l'attenzione. Ho letto con preoccupazione un commento di Gideon Rachman sul Financial Times secondo il quale siamo lì per combattere il terrorismo, non per difendere i diritti umani. Non è nemmeno una buona Realpolitik".



    Chi ha sentito di recente a Kabul?



    "Martedì, al telefono, Sima Samar, presidente della commissione governativa sui diritti umani. Soprattutto sull'ultima coppia assassinata, due che uscivano insieme senza essere sposati".



    Attualmente che ne è della legge che imporrebbe alle sciite, consenzienti o meno, il sesso con il marito?



    "Dopo le sollecitazioni estere il presidente Hamid Karzai ha chiesto ai ministri della Giustizia di valutare se viola la Costituzione. Cerchiamo di riempire questa pausa con l'appello che è su www.npwj.org".



    se la legge entrerà in vigore, il mnistro della Difesa Ignazio La Russa aveva ipotizzato sul Corriere il ritiro delle militari italiane.



    "E' importante trovare una posizione univoca della comunità internazionale, senza che ogni Paese faccia le cose sue".

 

 
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