Si spezza anche il monolite leghista e Bossi diserta il voto
Gran parte del gruppo ha seguito le indicazioni di Maroni, per la prima volta il Senatur è finito in minoranza
FABIO MARTINI
ROMA
Alla fine, dopo 22 anni, il monolite si è spezzato. Appena il presidente della Camera finisce di leggere i risultati della votazione che manda in galera Papa, si capisce che si è consumato qualcosa di inaudito. La Lega, dal 1989 il più tetragono partito italiano, si è rotta. Tagliata in due spicchi. La maggioranza degli onorevoli ha seguito le indicazioni di Roberto Maroni, favorevole all’arresto e soltanto una minoranza ha preferito interpretare i suggerimenti del capo, Bossi. E dunque, l’Umberto, il vecchio capo acciaccato, per la prima volta in vita sua, è finito in minoranza.
Per capire cosa sia accaduto, più di ogni aggettivo, è eloquente la sequenza che si dipana nell’emiciclo di Montecitorio. Sono le 18,38, sul tabellone elettronico si sono appena spenti i numeri del voto e l’aula precipita in un silenzio generalizzato. A destra come a sinistra. Sarà lo stupore, sarà la paura dell’incognito, ma è un silenzio raggelante, un attimo indimenticabile per chi si trova lì. Il presidente del Consiglio - giunto in aula pochi minuti prima, rassicurato da Bossi - ha lo sguardo inciso nel vuoto, un volto senza espressione. Ma lassù tra i banchi della Lega c’è anche un ministro. Un ministro che sorride. E’ Roberto Maroni, leghista di lotta e di governo. Sul suo viso, una letizia incisa appena sulle labbra, che replicherà qualche minuto più tardi, chiacchierando con i cronisti: «La Lega è coerente, tutti hanno votato come avevamo annunciato».
Formalmente Maroni ha ragione. La Lega aveva annunciato il suo voto a favore dell’arresto, ma lo aveva fatto con qualche contorsione verbale, tanto è vero che proprio in zona Cesarini, pochi attimi prima del voto decisivo, il capogruppo Marco Reguzzoni - uno di quelli del «cerchio magico» bossiano - si era espresso con grande ambiguità: «I nostri deputati voteranno secondo coscienza, anche se c’è un’indicazione del movimento». Ed appena Reguzzoni finisce di parlare - e oramai mancano pochi attimi alla votazione finale - si capisce che sta accadendo qualcosa di epocale, che il 20 luglio è destinata a restare una giornata indimenticabile per il Carroccio. Prima sorpresa: Bossi non c’è. Possibile? In fondo anche Giulio Tremonti sembrava non ci fosse e invece eccolo spuntare, lassù in «montagna», nell’ultima fila degli scranni Pdl. Tremonti c’è, ma Bossi non c’è per davvero. Col fiuto che non gli è mai mancato, neppure negli anni del declino, Bossi deve aver capito che tirava un’aria brutta, che la maggioranza dei suoi deputati era favorevole all’arresto di Papa. E non è andato. Per non associare simbolicamente la sua presenza con la sua sconfitta? Oppure, come sostiene uno dei deputati «maroniani», «perché ha dato carta bianca a Bobo»?
Certo, nei decisivi attimi che precedono il voto finale, Bossi è altrove e invece Maroni si aggira tra i colleghi, dispensando consigli, controllando di persona il voto. E finalmente, quando il presidente della Camera indice la votazione, accade qualcosa mai visto prima: il ministro dell’Interno, occhieggiando verso la tribuna stampa, ostenta il suo voto, facendo vedere a tutti che il suo indice sinistro si infila nella fessura «giusta», quella del sì. Ma sempre alle 18,38 accade qualcosa di ancora più originale: diversi deputati leghisti- tra cui il capogruppo Reguzzoni - mentre infilano il dito nella finca del sì, si fotografano con il proprio telefonino. Ma gesti come questi li fanno gli elettori in alcuni paesi meridionali per poter rassicurare i boss locali.
Ma cosa è successo veramente? Un golpe bianco senza spargimento di sangue? O, più realisticamente, Maroni - senza voler colpire Bossi - ha voluto definitivamente far capire al «cerchio magico» che l’unico vero delfino è lui? I deputati leghisti, come sempre in questi casi, si chiudono nel mutismo. Al massimo concedono qualche battuta nel più assoluto anonimato. E uno di loro giura di aver parlato con Bobo e di avergli sentito pronunciare una battuta: «La Lega ce l’ha duro!». Maroni evoca metafore collettive, metafore tipicamente bossiane. Sa che nella Lega, chi ha cercato fortuna da solo, è sempre finito male. Ma il messaggio che esce da questo campale 20 luglio è molto forte: la Lega non perde di vista il popolo indignato. E che il voto su Papa non resterà una «una tantum», lo conferma il viceministro Roberto Castelli: «Mi dispiace che Berlusconi fosse furibondo per il voto su Papa, la Lega non poteva far altro, perché il politico deve essere come la moglie di Cesare. E personalmente darò un altro dispiacere a Berlusconi: domani voterò no al decreto per il rifinanziamento delle missioni militari italiane in giro per il mondo».