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Discussione: LA CRITICA CRITICANTE

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    Predefinito LA CRITICA CRITICANTE

    LA CRITICA CRITICANTE

    Ricevo e pubblico


    Ciò che caratterizza la critica rivoluzionaria attuale, in tutte le sue varianti, è l’attacco frontale che sferra alla tecnica. Un aspetto della critica talmente generalizzato da essere sottinteso in ogni discorso tanto da averlo reso apodittico. Così è dato per acquisito quanto in tempi non lontani si presentava in modo del tutto opposto. Infatti nella teoria classica, nel marxismo, il capitalismo era considerato come prodotto dello sviluppo scientifico e tecnico, in quanto tendenza immanente allo sviluppo storico della divisione del lavoro. ”L’aumento della produttività del lavoro e la massima negazione del lavoro necessario è la tendenza necessaria del capitale. La realizzazione di questa tendenza è la trasformazione del mezzo di lavoro in macchine.” (Marx, Grundrisse) Il comunismo, contestualmente al materialismo storico, era posto come erede del capitalismo proprio in quanto quest’ultimo non era ritenuto in grado di portare a compimento lo sviluppo delle forze produttive che lo avevano generato, costituendo i rapporti di produzione in esso vigenti un ostacolo a tale sviluppo. Infatti il movimento rivoluzionario classico considerava l’istruzione tecnica e scientifica dei proletari come un atto rivoluzionario, in quanto base necessaria per il possesso non solo astrattamente politico ma soprattutto pratico degli strumenti della produzione.
    Negli anni 70 quel principio viene messo in mora. La critica radicale che il movimento dell’epoca rivolge a se stesso, resa necessaria dall’involuzione stalinista e dai nuovi sviluppi del capitalismo, investe fin nei fondamenti anche la teoria. La critica del burocratismo e del consumismo, spinge il revisionismo fino alle radici della questione, cioè al modo di produrre, quale rapporto di produzione concreto, che nel capitalismo è produzione di profitto a mezzo di macchine. Ma la critica affronta tale compito concentrandosi alternativamente solo su uno dei due termini, perdendo quindi di vista l’uno o l’altro. Da una parte dimentica che il capitale è un rapporto di produzione in quanto specifico rapporto di sfruttamento, dall’altra che è lo sviluppo delle forze produttive ciò che determina il rapporto. Così la critica sociale e quella storica si separano, giungendo tuttavia per vie diverse allo stesso risultato, il rifiuto della tecnica. Infatti, da una parte nasce una critica sociale come negazione del rapporto di produzione capitalistico in quanto tale, in quanto rapporto di sfruttamento, dove però lo sviluppo delle forze produttive è visto solo negativamente, senza rendersi conto di rifluire così nel luddismo, relegando la classe dei produttori in un ruolo storico reazionario. Questa fu la posizione diffusamente assunta dall’operaismo. Dall’altra, non separata nettamente della precedente, una diversa corrente del movimento dell’epoca si pose prevalentemente sul terreno della critica della tecnica, ma spostandola progressivamente dalla sfera della produzione a quella del consumo, trasformandola quindi in critica culturale, cioè sovrastrutturale. Si può congetturare che tale singolare evoluzione nascesse dall’aver posto in termini dogmatici quella critica, ciò che la indusse a credere perduta la battaglia sul fronte della produzione. Per cui si poté giungere a considerare questa una attività irrimediabilmente alienata, privilegiando come terreno di scontro la sfera del consumo come consumo di ideologia, e creando nuove categorie, come la società dello spettacolo e la critica della vita quotidiana. Categorie che se nelle intenzioni originarie rimanevano all’interno della totalità, ben presto divennero strumenti di una critica settoriale, per l’appunto culturale, cioè solo sovrastrutturale. Si esaltò “la critica della merce” attuata attraverso “la distruzione delle macchine del consumo permesso”, esaltando i saccheggi che sempre più caratterizzavano le rivolte di strada, teorizzando una sorta di luddismo del consumo. Epigoni di tale corrente critica sono stati i movimenti della cultura alternativa e attualmente quelli ecologisti.

    E’ necessario riunificare le due critiche, ma per questo occorre fare ordine su questioni che sono trattate all’interno di una attività teorica che ha dimenticato le proprie radici e si muove tra l’ansia di trovare nuove strade che permettano di affrontare i problemi che l’attualità pone urgentemente al movimento, e la tentazione di dare per scontate dogmaticamente affermazioni che non lo sono affatto e che in nessun luogo sono state sviluppate adeguatamente. Ciò che sorprende è che in entrambe le tendenze le nuove categorie appaiono completamente avulse dalla teoria rivoluzionaria classica, mentre dovrebbe apparire ovvio che in un corpo teorico non dogmatico ogni nuovo contributo deve inserirsi nella teoria esistente sia criticandola che tenendo fermi i principi fondamentali, non semplicemente cancellandola e sostituendo ad essa una teoria completamente diversa, che in realtà sovente non appare come una teoria adeguatamente articolata ma come un disorganico insieme di frasi ad effetto. In ogni caso la responsabilità di argomentare le proprie tesi sta agli innovatori, dato che la teoria già esistente ha dalla sua il fatto che è già stata criticata in passato e quindi ha già superato delle prove. Ciò non significa che non debba costantemente essere messa in questione, ma occorre che le argomentazioni portate contro di essa siano altrettanto sviluppate e comunque non mera ripetizione di tesi già dibattute in passato. In ogni caso occorre entrare nel merito, sia sul terreno scientifico che su quello sociale, sul primo perché altrimenti si cade nel positivismo, sul secondo in quanto altrimenti il rischio è quello dell’idealismo. D’altro canto, prima di scrivere “Il Capitale”, la sua critica dell’economia politica dell’epoca, Marx aveva ritenuto necessario impadronirsi di tutta la letteratura esistente. Nessuno è obbligato a produrre teoria, che è solo un aspetto dell’attività rivoluzionaria, ma se si impegna a questo compito, peraltro non indispensabile, non può esimersi dal tenere ben fermo di fronte a sé tale metodo di lavoro.

    Considerando la tecnica intrinsecamente, in primo luogo va detto che la critica della tecnica in quanto tale dimentica che essa è uno strumento, quindi se è criticabile lo è per l’uso che ne viene fatto e pertanto deve investire chi ha il potere di deciderne l’uso, quindi il proprietario, sia giuridicamente inteso, sia quello che lo è di fatto, cioè tecnicamente. E’ possibile che lo strumento porti il segno del suo artefice e possessore, che sia commisurato all’uso che ne viene fatto, cioè ai fini per i quali tale tecnologia è stata concepita. Ma allora va criticata come tecnica specifica, non come tecnica in generale, anzi come tecnica alienata contrapposta ad una tecnica libera e liberatoria, non più determinata da condizionamenti di classe. Occorre quindi esaminare ogni tecnica dal punto di vista del profitto, quindi del valore di scambio in opposizione al valore d’uso. Questo può essere il caso dei cibi biologici, delle energie alternative e delle medicine alternative. Ma queste tecniche appaiono più antitecnologiche e antiscientifiche che alternative e in ciò sta il loro limite.
    Infatti una tale analisi comparata deve lasciar fuori del discorso la scienza, dato che essa è il fondamento di qualsiasi tecnica. Altra parte il metodo stesso del lavoro scientifico, caratterizzato dall’intersoggettività in quanto fondato su di un linguaggio esatto e condiviso (matematico-quantitativo) e una pratica comune (sperimentazione verificabile), lascia poco spazio nel discorso interno all’ideologia, cioè alla manipolazione interessata dei contenuti, senza peraltro escluderla del tutto, in ciò non dissimile da altre pratiche ed ambienti sociali, ma in misura più controllabile. Ciò significa che la scienza può essere criticata solo prendendone di mira i fondamenti metodologici, ma in tal caso si perviene a una contraddizione analoga a quella per cui la critica del linguaggio richiede un linguaggio già criticato, concludendo quindi necessariamente nell’impossibilità di un linguaggio non alienato. Allo stesso modo per la scienza ciò significherebbe dichiarare l’impossibilità della scienza. Ma colpire quel bersaglio non appare necessario per la realizzazione del comunismo, per la quale non è indispensabile una riforma della metafisica. Se mai un tale problema risulta subordinato all’eliminazione dell’alienazione materiale, come per la religione e l’ideologia in generale.
    Ma, in una prospettiva del tutto opposta, viene rimproverato alla tecnologia anche il fatto di essere esente da valori, e quindi di prestarsi ad ogni uso possibile, cioè di essere espressione di una ragione strumentale. In ciò paradossalmente gli si imputa di non essere intrinsecamente classista, quindi di essere di per sé strumento di dominio, ma neutrale. Ma questo non è un limite, salvo che non si esiga che la tecnica sia di per sé portatrice del comunismo, il che sarebbe pretendere troppo. E’ già abbastanza, l’aver infranto un antico divieto, l’aver scoperto che la natura può essere piegata alle necessità di ogni società, qualunque siano i suoi scopi, e quindi che il sociale non è condizionato intrinsecamente dalla natura in cui è immerso, quindi nemmeno da un eventuale essere trascendente. Tale principio è sufficiente per il comunismo e tanto basta.

    Quanto al versante storico e sociale, la critica della tecnica come realtà autonoma dal sociale porta a delle conseguenze infauste.
    In primo luogo criticando la tecnica in termini assoluti si esime la borghesia dall’essere chiamata a rispondere dell’uso che essa fa della tecnica. Basta accennare alle conseguenze più deleterie e generali, cioè soprattutto al risultato più contraddittorio dello sviluppo del macchinismo nel capitale, cioè il fatto che lo sviluppo tecnologico, nonostante accresca la produttività del lavoro, ne aumenta l’intensità, crea dequalificazione, genera disoccupazione e precarietà, salvo che per una minoranza di specializzati. Pertanto aumenta complessivamente la subordinazione al capitale, quindi la schiavitù salariata.
    Ma vi sono conseguenze teoriche più generali.
    Alla critica della tecnica sfugge un fatto di estrema importanza, cioè che la tecnica è la forma che assume la socializzazione del lavoro sotto il capitale. Infatti la scienza e la tecnica sono un risultato storico e sociale, anzi il risultato più importante in una realtà che consideriamo per principio immanente. Risultato storico in quanto il movimento rivoluzionario considera, e deve considerare, il comunismo come conseguenza necessaria dello sviluppo della divisione del lavoro, cioè della sua socializzazione, in quanto forma sociale adeguata al suo più completo sviluppo. Risultato sociale perché l’impresa scientifica è fra le imprese collettive la maggiore, quella che più ha lasciato una traccia permanente nella storia, e lo è sempre più, essendosi progressivamente ampliata e avendo accelerato il suo sviluppo. Prima separatamente, la tecnica come fatto empirico e la scienza come attività teorica, poi recentemente insieme come attività complessiva teorico-pratica, cioè da poco più di un secolo. Quindi occorre ancora attendere i risultati ultimi di tale evoluzione, prima di emettere una sentenza inappellabile.
    Ma in conseguenza di ciò vi è altro. La critica della tecnica, alienata o meno, dichiara implicitamente inefficace quello che è il fattore principale del movimento storico, cioè la crisi cui vanno incontro i rapporti di produzione, per l’inerzia che li caratterizza, di fronte al dinamismo delle forze produttive, delle quali la tecnica è la principale. Escludendo questo rapporto causale, necessariamente si suppone che sia la coscienza ciò che mette in crisi i rapporti sociali e quelli di produzione in primo luogo. Si deve quindi ammettere che siano le idee a fare la storia, che esiste la storia perché le idee hanno una storia autonoma, dando nuovamente fiato all’idealismo. E’ sempre il vecchio idealismo, che perennemente ritorna alla ribalta e continuerà finché durerà il capitale. Non è necessario però soffermarsi su di esso più di quanto necessario a ricordare che la liquidazione di tale ideologia è già stata compiuta da Marx ed Engels all’atto della loro separazione dai giovani hegeliani, e rilevare che non è opportuno per qualunque critico marxista della critica marxiana ripercorrere questo itinerario a ritroso.
    Ma ancora più preoccupante è il fatto che seguendo questa strada si rinuncia a quello che è l’unico titolo storico che permette ad una classe di seppellire una società che ha fatto il suo tempo, e che deve scomparire, cioè farsi portatori dello sviluppo di nuove forze produttive. Sviluppo, inoltre, che è il solo fattore che può portare alla crisi i rapporti di produzione, cioè la struttura su cui riposano tutti i rapporti sociali e quindi anche la coscienza di classe stessa, cioè la sovrastruttura. Solo così la coscienza di un’epoca, che è determinata come pensiero dominante dal pensiero della classe dominante, può a sua volta entrare in crisi ed essere trasformata. E non viceversa, dato che, come è ben noto, è l’essere materiale che produce la coscienza.
    In questo senso, il nichilismo che caratterizza una società in decadenza, cioè la crisi dei rapporti sociali a tutti i livelli, è un portato della tecnica. Ma non lo è nel senso che la tecnica determini la crisi dei valori in quanto fattore negativo in assoluto. Sono i rapporti sociali capitalistici che, sempre più inadeguati allo sviluppo della tecnica, mettono in crisi i valori esistenti. Quindi il nichilismo imperante segnala una crisi che non è dovuta alla tecnica in quanto dato assoluto, ma ad una tecnica in evoluzione che si scontra con un contesto sociale incapace di dare forma sociale alle conseguenze dello sviluppo delle nuove forze produttive. Ciò mette in crisi il pensiero dominante e permette l’apparizione di una coscienza negativa, inizialmente in forma assoluta. Infatti la tecnica come forza produttiva appare elemento del capitale e così anche i valori in crisi, che nel marasma generale non possono che apparire capitalistici, cioè reazionari, sebbene in crisi. Rimane nascosto infatti il lato positivo del processo, ma solo in termini di coscienza, non in termini pratici, che storicamente anticipano la coscienza e appaiono per primi, sebbene non riconosciuti, mentre la coscienza, la nottola di Minerva, non può che apparire “sul far del crepuscolo.” La parte costruttiva del processo è già apparsa nel passato, alle origini come utopia, prima religiosa poi laica, e successivamente come realizzazione pratica nella forma del socialismo reale. Ma si trattava di comunismo ancora ideologico, generato dall’insufficiente sviluppo delle forze produttive, inadeguato a mettere realmente in crisi i rapporti di produzione capitalistici, quindi incapace di spezzare il dominio della borghesia sul pensiero. Pertanto tali forme positive del superamento del capitale contenevano in sé elementi non superati del capitalismo, e non potevano che rientrare nel suo alveo, dopo breve tempo. Dopo l’attuale fase nichilista ci si può attendere necessariamente una nuova fase di realizzazione positiva. Quanto più profonda la crisi, tanto più radicale sarà il movimento del superamento.
    In concreto, è il movimento rivoluzionario, cioè storico, l’unica verifica della teoria, analogamente alla predestinazione per il calvinista, verificata solo dal suo successo mondano. Così la teoria afferma che l’avvento del comunismo è scritto nel libro della storia, ma non scende nei particolari, soprattutto non dà scadenze e accenna pure ad un possibile prevalere del nichilismo, cioè a una ricaduta nella barbarie. Quale alternativa si realizzerà e quando è solo una questione pratica.

    Si è parlato di revisionismo. Le parole non devono spaventare: ogni teoria è rivedibile ed emendabile. Infatti, per quanto concerne il materialismo storico, non è che una revisione non sia possibile e in parte anche necessaria, ma occorre entrare “in medias res”, affermare esplicitamente e in modo argomentato che il materialismo storico è oggi inadeguato a rappresentare i recenti svolgimenti del capitalismo, in modo da poter assumersene fino in fondo la responsabilità. Ma, in tutta evidenza, nessuno dei critici del marxismo si è mai veramente fatto carico di tale compito, nemmeno di un serio tentativo in tal senso, limitandosi invece a considerale la tecnica (e il materialismo) già criticata per il solo fatto di dichiararla criticabile, o poco più. Questo modo di procedere non solo è dogmatico e quindi ha a che fare più con la mistica che con l’analisi, ma è anche sul piano pratico una enorme concessione elargita alla borghesia e ai suoi apologeti, sia sul piano sociale perché solleva, come già rilevato, la borghesia dalle sue responsabilità pratiche, sia sul piano della lotta teorica, in quanto si liquida una teoria rivoluzionaria sostituendovi una metafisica che si inserisce agevolmente nella corrente dell’idealismo borghese.


    Valerio Bertello
    Torino, giugno 09


    Per la Comunità Umana
    Muntzer il Sopravvissuto

  2. #2
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    Predefinito Riferimento: LA CRITICA CRITICANTE

    FORZE PRODUTTIVE E STORIA

    Ricevo e pubblico

    1. Il determinismo economicista


    Secondo il materialismo storico la società si presenta come successione di stratificazioni. Alla base vi sono le forze produttive, che possono essere identificate con i fattori della produzione. Queste costituiscono il fondamento dei rapporti di produzione, cioè della struttura sociale, “forme di sviluppo delle forze produttive”, che ne costituiscono il contenuto. Nel loro insieme rapporti di produzione e forze produttive, forma e contenuto, costituiscono unitariamente il modo di produzione, cioè il modo in cui viene prodotta la base materiale della società. Il modo di produzione determina tutti gli altri rapporti e produzioni della società, cioè la sovrastruttura: rapporti giuridici, politici, famigliari, etc. e le produzioni intellettuali connesse: diritto, scienza, filosofia, religione, arte, letteratura, etc.
    Questo modo di descrivere e comprendere l’assetto sociale è stato oggetto di molte critiche, fra le quali la più controversa è l’accusa di determinismo meccanicistico. Se la struttura della società è determinata dalla sua base economica, tutto ciò che il soggetto pensa e i fini che vuole perseguire non sono il risultato di una scelta libera, e comunque il loro esito è sempre strettamente condizionato dalla struttura materiale in cui il soggetto agisce. Il rilievo è fondato poiché lo stesso Marx afferma recisamente “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza.”
    Un tale determinismo costituiva una contraddizione grave per il materialismo storico, in quanto tale teoria si proponeva di analizzare e comprendere la storia e in particolare la formazione sociale attuale, il capitalismo, al fine di formulare previsioni riguardo la transizione verso una società superiore, il comunismo. Questa società, secondo Marx, si caratterizzava innanzitutto come la prima società nella quale il corso della sua storia sarebbe stato coscientemente determinato dal corpo sociale stesso, per la prima volta costituitosi in soggetto. Il determinismo economico contraddice questa prospettiva e ne rende impossibile la realizzazione poiché esclude che la coscienza, quale elemento derivato dalla base materiale, possa costituire un fattore di evoluzione storica.
    Ma la contraddizione è solo apparente. In effetti questo schema deterministico si attagliava perfettamente al quadro della storia trascorsa fino al tempo di Marx, dove effettivamente il determinismo economico spiegava perfettamente tutta la storia conosciuta. Ma una teoria storica è essa stessa un prodotto storico, e non può rimanere immutata nel tempo, soprattutto in una epoca come la nostra nella quale un decennio vale più di un secolo dei tempi passati. E rispetto ai tempi di Marx il capitalismo, pur rimanendo tale, ha mutato completamente aspetto divenendo qualcosa che Marx stesso aveva vagamente preconizzato, ma che non poteva rappresentarsi nella sua concretezza. Il capitalismo attuale è quello della Seconda Rivoluzione Industriale, un capitalismo che non ha quasi nulla in comune con quello della Prima. Considerando quello nei suoi caratteri essenziali, diviene necessario modificare il quadro storico delineato dal materialismo storico classico, che non risulta più deterministico.

    2. Le forze produttive

    Nel materialismo storico non è chiaro che cosa si intenda per forze produttive. In definitiva tutto in una società contribuisce, direttamente o indirettamente, alla produzione. Quindi vi è certamente una varietà di forze produttive: naturali e sociali, materiali ed intellettuali, individuali e relazionali, qualitative e quantitative. Si possono identificare con quelli che vengono chiamati i fattori di produzione: terra, mezzi di produzione, forza lavoro. Ma si tratta in realtà di una loro specificazione. Le forze produttive possono essere così classificate:

    - naturali: la terra e i fattori geografici, cioè conformazione e composizione del suolo, il clima, i prodotti spontanei.
    - sociali:
    intellettuali: la scienza (conoscenza teorica e pratica)
    materiali: tecnologia (macchine e immobili)
    relazionali: divisione del lavoro e mercato (cooperazione e scambio)

    Marx le accomuna qualificandole come fattori che hanno avuto uno sviluppo storico. Infatti in origine si presentano come forze naturali, ma con l’evoluzione dei modi di produzione assumono sempre più carattere sociale, sia materialmente che nelle relazioni sociali, cioè quello di essere prodotti sociali e di divenire sempre più l’elemento caratterizzante le società umane. La società cioè si caratterizza come comunità che non è più in contatto diretto con la natura, ma “interpone” tra sé e la natura dei manufatti che mediano sia la produzione che la fruizione dei beni necessari alla sua esistenza. Ma questi manufatti, come i beni di cui mediano la produzione, sono sempre più la materializzazione di esperienza teorico-pratica sociale e storica, raccolta e codificata in rappresentazioni simboliche. Quindi in realtà ciò che viene interposto è sempre più una rappresentazione della natura in termini di una “teoria” della stessa, per cui fra tali forze produttive assumono storicamente importanza crescente la produzione intellettuale in generale e la scienza in particolare, in quanto forma raggiunta e adeguata della conoscenza, forza produttiva che sussume sotto di sè tutte le altre. Infatti riduce la tecnologia a una sua applicazione, fa dei fattori naturali altrettante scienze, così come dei fattori relazionali: la divisione del lavoro diviene scienza dell’organizzazione, lo scambio scienza economica (matrici input-output). Infine fa di se stessa una attività sociale formalizzata e organizzata (metodologia scientifica e organizzazione della ricerca).
    Ciò comporta un radicale mutamento del concetto stesso di forza produttiva. Infatti inizialmente lo sviluppo delle forze produttive è casuale e spontaneo, cioè naturale, ed ha luogo essenzialmente nella sfera della produzione. Quelle materiali, cioè che nascono come tecniche artigianali, sorgono infatti nel corso del processo stesso di produzione, per tentativi ed errori, nella precarietà di tentativi quasi sempre falliti, nel timore perenne di allontanarsi da procedure sperimentate o di sbagliare accidentalmente, ma nella consapevolezza che talvolta l’errore casuale può aprire la via a grandiose scoperte. In mancanza di una reale comprensione dei processi naturali, di un modello di natura affidabile che potesse essere di guida all’esplorazione di sentieri nuovi, mantenersi fedeli alle tradizioni era una scelta obbligata. Solo successivamente, con la costruzione di rappresentazioni della natura sempre più verosimili e sperimentate, con l’acquisizione di una metodologia scientifica affidabile, lo sviluppo di nuove forze produttive assume sempre più il carattere di una impresa intellettuale, sottratta sempre più all’empiria cieca e subordinata ad una teoria sempre meno vuota, cioè fine a se stessa. Difatti in precedenza la ricerca scientifica aveva avuto tradizionalmente il carattere di attività privata di tipo dilettantistico, avulsa da ogni rapporto con la realtà del quotidiano, separatezza di cui la scienza andava fiera, almeno fino alla nascita della scienza moderna e della sua vocazione alla trasformazione del mondo, profetizzata da Bacone e attuata poi solo nel corso della Seconda Rivoluzione Industriale, in cui il suo carattere di forza produttiva per eccellenza viene realizzato nel suo sviluppo pianificato in istituzioni apposite (Politecnico) e nelle unità produttive stesse, divenendo un lavoro specialistico.
    Tutto ciò è vero anche per le forze produttive di carattere relazionale. Il loro sviluppo ha inizio originariamente nella comunità primitiva autosufficiente, con scarsa o nulla divisione del lavoro, se non come coordinamento di sforzi individuali di singoli in grado di svolgere l’intero compito anche da soli (ad esempio, caccia collettiva, opere di irrigazione). Solo successivamente si ha lo sviluppo dei mestieri e ancora più tardi quello della divisione del lavoro al loro interno, che ha luogo effettivamente solo in epoca contemporanea. Anche lo scambio si realizza inizialmente solo all’esterno della comunità, in quanto in essa ognuno, come gruppo famigliare, è autosufficiente e lo scambio riguarda solo l’eccedenza del prodotto e beni superflui. Solo in seguito lo scambio diviene regolare e i gruppi famigliari iniziano a produrre non più esclusivamente per l’autoconsumo, ma per lo scambio, cioè iniziano a produrre non valori d’uso ma merci.
    La storicità connota le forze produttive anche per il loro carattere quantitativo e qualitativo. In passato gli sviluppi qualitativi, che corrispondono all’introduzione di nuove tecniche che ne soppiantano altre, sono sporadici e appaiono come eventi casuali, intervallati da lunghi periodi di lento sviluppo quantitativo, come è stato per l’invenzione dell’agricoltura, che dopo la sua istituzione ha dominato la storia per millenni estendendosi quasi solo quantitativamente. Solo recentemente, con lo sviluppo della ricerca scientifica come attività produttiva specifica, lo sviluppo complessivo delle forze produttive è divenuto prevalentemente qualitativo. Cioè si è aperta un’epoca in cui l’innovazione tecnologica è permanante, e prevalente rispetto alla moltiplicazione di unità produttive tecnologicamente simili, in quanto il tasso di profitto si mantiene alto solo per chi introduce per primo l’innovazione, in quanto la concorrenza tende a ridurlo rapidamente.

    3. Il passaggio alla storia cosciente


    Poiché non vi è conoscenza senza coscienza (e viceversa, che altrimenti è sempre falsa coscienza), il risultato complessivo di tale processo di sviluppo delle forze produttive come forze intellettuali, è che questo sviluppo storico, che costituisce l’origine del movimento storico complessivo, tende a passare sempre più sotto il controllo cosciente della società. Infatti dopo essere divenuto risultato dell’attività scientifica lo sviluppo delle forze produttive non si trasforma in attività puramente sovrastrutturale ma continua ad essere a parte integrante della struttura, però senza perdere il suo carattere di attività sovrastrutturale, extralavorativa, in quanto non totalmente integrabile in una struttura istituzionale. Si tratta della facoltà umana della creatività, che sorge e si sviluppa come attività gratuita, come esuberanza intellettuale, come gioco altamente sofisticato, attività il cui svolgimento può essere favorito creando le circostanze adeguate, ma che non può essere indirizzato nè tanto meno determinato.
    Proprio per questo suo doppio carattere di attività che si svolge a cavallo fra la sfera del consumo e quella della produzione, trattandosi ad un tempo sia di scienza applicata che di tecnologia scientifica, costituisce modernamente il momento in cui la sovrastruttura può retroagire sulla struttura, infrangendo il rigido determinismo che lega la prima alla seconda. Infatti per il materialismo storico classico le forze produttive determinano i rapporti di produzione (struttura) e questi tutte le attività intellettuali, che sono parte della sovrastruttura “alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”. Cioè “è l’essere sociale che determina la coscienza”, e questa “non ha storia”, cioè storia cosciente o coscienza di sè. Solo le forze produttive, quale primo motore della storia, hanno una storia, perché sono esse che la producono. Ma questo è vero solo nel prime fasi dello sviluppo storico complessivo. Infatti le forze produttive inizialmente fanno la storia come storia incosciente, perché originariamente il loro sviluppo ha luogo in modo casuale nella sfera produttiva. La scienza, che nel passato si sviluppa nella sfera del consumo, non ha alcun rapporto con esse, se non quello di esserne inconsapevolmente determinata. Solo con il passaggio al capitalismo si produce una saldatura tra scienza e tecnica, cioè tra una attività sovrastrutturale e una strutturale, dove la prima viene a determinare la seconda, quindi se stessa. In definitiva si verifica per la prima volta nella storia la retroazione di una attività legata alla sfera della coscienza, quindi (potenzialmente) alla libertà, su una attività condizionata e condizionante, cioè deterministica e fonte di tutto il determinismo sociale, ponendola in grado di dominare quella che è la fonte del movimento storico, lo sviluppo delle forze produttive. Quindi qui emerge storicamente la possibilità per la società di governare se stessa, di passare dalla storia incosciente a quella cosciente. Ma poiché la frantumazione della società in classi è legata proprio all’impossibilità di autodeterminanrsi che ha caratterizzato finora le società umane, tale passaggio che coincide con quello a una società senza classi.

    4. La prospettiva

    Proprio per questo ciò rimane per ora solo una possibilità, perché non solo il dominio delle forze produttive attuali ma anche del potere di indirizzare il loro stesso sviluppo è nelle mani del capitale, ed è quindi finalizzato al suo interesse di classe, cioè al profitto e alla riproduzione delle condizioni stesse di tale dominio. Ciò ha generato nel rapporto con la scienza e la tecnologia un disagio generalizzato, sintomo di atteggiamento contradditorio. Da una parte vi è la consapevolezza di quanto si sia debitori non solo per una varietà di consumi sofisticati da esse resi possibili e accessibili, ma per la stessa sopravvivenza della specie. Dall’altra è sorta una critica diffusa della scienza e delle tecnologie che da essa hanno origine (Alta Velocità, centrali nucleari, inceneritori, etc.). Questa critica, per un verso assolutamente fondata, è però puramente negativa, considerando solo un aspetto della questione, quello delle realizzazioni puramente speculative, cioè di opere inutilmente costose, trascurando così completamente in generale le potenzialità della scienza come strumento di trasformazione della qualità della vita. Al contrario, l’apprezzamento per il consumo disponibile è cieco di fronte ai prezzi sociali che esso comporta, che sono percepiti in modi apparentemente slegati dalla questione, cioè solo come logoramento esistenziale degli individui.
    Certo attualmente riuscire a ravvisare e distinguere le inaudite potenzialità insite nello sviluppo della scienza appare quanto mai problematico, in una società nella quale tutto ciò che esiste si mostra come opera del capitale e illuminato dai suoi bagliori luciferini. Ma il dominio delle forze produttive e soprattutto del loro sviluppo, cioè la conquista di un uso consapevole della scienza, è inscritto nell’attuale linea di tendenza storica. Come attuare un uso consapevole delle forze produttive è un compito storico di cui il proletariato deve farsi carico, insieme a quello di impadronirsi di quelle esistenti, cioè della loro materializzazione in quanto mezzi di produzione. Si tratta non solo di pianificare l’uso di quelle esistenti, ma prevedere le conseguenze di tale uso e di quello di forze che non esistono ancora. Cioè di prevedere le conseguenze dell’interazione reciproca tra forze produttive e società, previsione quindi che deve essere costruita in relazione a condizioni non statiche ma in progressione storica.
    Si tratta di una pratica collettiva tutta da inventare, preliminare alla classica autogestione della produzione. Infatti si tratta dell’autogestione del proprio futuro, che deve vedere impegnata la totalità degli individui, ciascuno apportando in essa le proprie esigenze e le proprie competenze. Non solo le tecniche procedurali per affrontare in tale dimensione i problemi, ma i problemi stessi che dovranno essere affrontati non possono essere anticipati oggi, se non per analogia. Ma non vi è dubbio che, in quanto problema fondamentale, quello che si porrà immediatamente sarà la soluzione di quella che è la contraddizione principale dello sviluppo delle forze produttive: il rapporto tra sapere sociale e potere sociale. Infatti lo sviluppo della produttività del lavoro è sempre stato connesso allo sviluppo della tecnica e nel mondo moderno essa ne è totalmente determinata. Ma è pure vero che la conoscenza è potere, anzi lo è proprio per lo sviluppo assunto da questo rapporto. Quindi oggi tale potere è divenuto, o può divenire, totale. Infatti la trasformazione della conoscenza in consumo qualitativo e in lavoro creativo è sempre più subordinata allo sviluppo di una conoscenza specialistica di vasta portata, attingibile solo ad una ristretta cerchia di esperti. Vi è quindi il pericolo di creare una casta di monopolisti del sapere, di stampo platonico, o più concretamente di ricreare una delle condizioni che determinano la formazione di una nuova classe dominante. Infatti occorre rammentare che, se è lo sviluppo delle forze produttive ciò che determina l’assetto della società, questo sviluppo è opera di una classe sociale che non solo dispone di quelle forze in quanto classe proprietaria, ma è anche quella che ne ha il possesso intellettuale, sapendo come utilizzarle. Questo è chiaro fin dall’ascesa della borghesia e basta ricordare quanto questo problema, il ruolo dei tecnici, divenne cruciale nella rivoluzione russa, costringendo i bolscevichi a rimettere nelle loro mani la direzione della produzione.
    Quindi la questione della gestione delle forze produttive è determinante nella transizione al comunismo, ma si presta a diversi esiti alternativi, che vanno dall’accesso alla storia cosciente attraverso il loro consapevole controllo, alla possibilità che il loro inarrestabile sviluppo comporti il passaggio ad una ulteriore fase della società di classe.

    Valerio Bertello
    Torino, 28 aprile 2009


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    Muntzer il Sopravvissuto

 

 

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