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    Predefinito Il grande gioco del Mar Cinese

    Il grande gioco del Mar Cinese

    di Matteo Dian

    Pechino rivendica la sovranità sulle isole Parcels e Spratyls nel Mare cinese meridionale e sulle Senkaku/Diaoyu nel Mare cinese orientale. Giappone, Vietnam e Stati Uniti contestano queste pretese e si alleano. La pericolosa tentazione di una versione anticinese del containment.

    Uno dei maggiori successi di CCTV, la televisione di Stato cinese, si chiama The rise of great powers (大國崛起; Dàguó Juéqǐ). Una commissione di storici, con la benedizione del Comitato centrale del partito, illustra l’ascesa delle precedenti potenze, dall’Impero portoghese agli Stati Uniti. L’idea di fondo è quella di spiegare come la Cina sia impegnata a comprendere l’ascesa delle altre grandi potenze per imparare dai loro errori.


    Per prima cosa, evitare dispute con i vicini che portino all’isolamento e alla formazione di coalizioni avverse. Il modello da seguire è l’America della Dottrina Monroe, egemone nel suo continente e capace di evitare conflitti al di fuori. Quello da evitare: l’Unione Sovietica circondata da potenze ostili.


    È possibile? E soprattutto, la Cina ci sta riuscendo? Uno dei test fondamentali sarà la risoluzione delle dispute per le isole off shore e per le Eez (zone marittime di influenza esclusiva) in cui la Cina è coinvolta con quasi tutte le nazioni confinanti (in particolare Taiwan, Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei a Sud e Giappone a Est).


    Pechino rivendica la sovranità sulle isole Parcels e Spratyls nel Mare cinese meridionale oltre alle isole Senkaku/Diaoyu nel Mare cinese orientale. Considerando queste isole come proprie, rivendica anche l’utilizzo esclusivo delle acque territoriali fino a 200 miglia dalla costa, arrivando a rivendicare la propria sovranità sull'80% del Mare cinese meridionale, che viene trattato come un “lago cinese”. Inoltre, il controllo delle isole e delle Eez è stato definito da Pechino interesse fondamentale (core interest). In precedenza, il concetto di interesse fondamentale era indicato da Pechino solo per il Tibet, lo Xinjiang e Taiwan, considerate strettamente legate alla sovranità e all’indivisibilità territoriale. Sui core interest Pechino considera ogni ingerenza straniera un intromissione nei propri affari interni.


    La contesa con gli Stati confinanti riguarda diversi aspetti. In primo luogo, recentemente è stata scoperta l’esistenza di notevoli giacimenti di idrocarburi. Pechino afferma che il Mare cinese meridionale potrebbe contenere riserve di petrolio equivalenti a quelle dell’Arabia Saudita (il 90% in meno, secondo stime di Washington). Inoltre, l'area è uno snodo cruciale per le comunicazioni e per il commercio: nella zona compresa tra Taiwan e lo stretto di Malacca transita il 40% del commercio mondiale.


    La disputa nel Mare cinese orientale riguarda direttamente solo Cina e Giappone. Le dinamiche sono in qualche modo simili a quelle per il Mare cinese meridionale: le isole Senkaku/Diaoyu sono state oggetto di disputa territoriale dalla fine dell’Ottocento e in particolare dalla resa giapponese nel 1945; sono state governate direttamente dagli Stati Uniti fino al 1972 (facendo parte della prefettura di Okinawa) quando sono passate sotto la sovranità di Tokyo. Si trovano circa a metà strada tra Okinawa, Taiwan e la Cina continentale. Il controllo esclusivo delle isole comporta anche lo sfruttamento delle acque territoriali circostanti (circa 40mila km² di mare) dove sono presenti notevoli quantità di gas naturali.


    Nessuna di queste dispute è recente. Risalgono in gran parte all’immediato dopo guerra e hanno causato una serie di crisi diplomatiche particolarmente intense durante gli anni Settanta, in particolare tra Cina da una parte e Vietnam e Giappone dall’altra. Dal 2010 tuttavia la gestione pacifica di queste controversie sembra sempre più difficile: una serie di incidenti ha messo in evidenza come le rivendicazioni cinesi e l’opposizione degli Stati confinanti rappresentino un rischio concreto per la stabilità della zona, così come per i rapporti bilaterali tra Cina e Stati Uniti, alleati di quasi tutti i paesi interessati.


    Il cosiddetto “incidente delle Senkaku” del settembre 2010 (una collisione tra un peschereccio cinese e una nave della Guardia costiera giapponese) ha indotto gli Stati Uniti a prendere posizione nella disputa e a dichiarare che le isole vengono considerate parte del territorio giapponese e quindi ricadono sotto il Trattato di alleanza tra Stati Uniti e Giappone. L’incidente ha rappresentato un momento di svolta fondamentale per il governo guidato da Naoto Kan, appena entrato in carica. Dopo l’incidente, Kan ha messo da parte la retorica “asianista” di Hatoyama (equidistanza tra Cina e Usa e proposta di una comunità asiatica indipendente da Washington) e ha dato vita a nuove iniziative per rafforzare la partnership con l'America, soprattutto sul piano della collaborazione in materia di tecnologia militare. In seguito all’incidente la marina statunitense e la Maritime self defense force giapponese - considerata un corpo paramilitare, una seconda marina dotata di notevoli capacità di supporto e controllo militare delle acque territoriali - hanno promosso una serie di esercitazioni navali sul fronte sud-occidentale per dimostrare la loro prontezza e il loro impegno a difendere la catena di isole che comprende le Ryukyus, Okinawa e le Senkaku. Queste esercitazioni sono state considerate una risposta alla anti access strategy cinese nello stretto di Taiwan e, più in generale, al programma di modernizzazione della marina cinese.


    Un'altra situazione di attrito coinvolge il Vietnam, le Filippine e, in misura minore, altri membri dell’Asean (Brunei, Malesia, Indonesia). Tra la fine maggio e l'inizio di quest’anno navi cinesi hanno per due volte interrotto i tubi che permettevano il perforamento del sottosuolo marino e l’estrazione di petrolio in una zona contestata. Hanoi ha accusato Pechino di violare la propria sovranità, mentre la Repubblica Popolare ha ribadito le proprie rivendicazioni sull’area. La questione è stata al centro dello Shangri Dialogue di Singapore del 2010; Robert Gates ha sollecitato tutte le parti a trovare un compromesso per evitare il rischio di conflitto e a rilanciare il processo di negoziato multilaterale tra Asean e Cina. Nel 2002, gli Stati dell’Asean avevano negoziato un modus vivendi con Pechino, arrivando alla Dichiarazione sulla condotta nel Mar cinese meridionale.


    Le parti coinvolte si erano impegnate a cercare una risoluzione pacifica delle dispute e a non alterare lo status quo. Nel maggio 2009, Malesia e Vietnam si sono rivolte ad un apposita commissione Onu per stabilire i limiti delle acque territoriali. Pechino ha risposto ribadendo le proprie rivendicazioni sulle isole e sulle Eez. Gli Stati dell’Asean hanno tentato di rilanciare il processo multilaterale avviato nel 2002, ma la Cina rifiuta di riconoscere l’Asean come partner negoziale e rifiuta il possibile coinvolgimento degli Stati Uniti proposto dall’Asean stesso.


    Da metà giugno, la Vietnam petroleum company ha rafforzato la propria presenza nella zona contestata, avviando cinque diversi progetti di esplorazione del fondale marino. Il 18 giugno gli Stati Uniti e il Vietnam hanno emanato una dichiarazione congiunta che sostiene il diritto alla libertà di navigazione e rifiuta l’uso della forza nella risoluzione delle controversie. Tra il 10 e il 15 luglio hanno promosso una serie di esercitazioni navali congiunte, che Pechino ha definito “estremamente inappropriate”. Il recente vertice di Bali (20-21 luglio) tra gli stati dell’Asean e la Cina ha prodotto l’approvazione delle linee guida per l’implementazione del Codice di condotta negoziato nel 2002. Il segretario generale dell’Asean Surin Pitsuwan ha definito il vertice un successo e il ministro degli Esteri vietnamita ha sottolineato come questo costituisca un passo avanti per il raggiungimento di una soluzione negoziale. Il ministro degli Esteri filippino Albert Del Rosario, al contrario, ha espresso l’insoddisfazione del suo paese, lamentando il fatto che non si è giunti a un meccanismo vincolante e la Cina non ha accettato di presentare la questione davanti al Tribunale dell’Onu.


    Il miglior risultato del vertice di Bali è il rilancio del dialogo, soprattutto perché Pechino sembra maggiormente disponibile a trovare una soluzione multilaterale congiunta con l’Asean, riconoscendola come interlocutore. Precedentemente, infatti, il governo cinese aveva dichiarato di voler risolvere le dispute con una serie di negoziati bilaterali. È presto per sapere se questo vertice rappresenta un'inversione di tendenza o solo un momento di pausa dell’escalation che negli ultimi mesi ha riguardato la Cina, i membri dell’Asean, il Giappone e gli Stati Uniti; di fatto, le dispute su quelli che i cinesi definiscono “mari vicini” hanno chiuso definitivamente la finestra di opportunità per un riavvicinamento con Tokyo durante la premiership di Hatoyama, e minato i rapporti con gli unici paesi che condividono con la Cina qualche tipo di affinità ideologica, come il Vietnam.


    Il negoziato è complicato dalla non conciliabilità di fondo delle posizioni attuali e dalla “tensione strutturale” derivante dall’espansione militare che caratterizza tutti gli attori rilevanti dell’area. La rivendicazione cinese delle zone contestate è infatti unita a una nuova dottrina navale, la difesa marittima in profondità, che prevede l’ampliamento della zona di difesa della marina della Repubblica Popolare, oltre Taiwan, fino alla Seconda catena di isole (dalle Kurili alla Nuova Guinea). Questa strategia è incompatibile sia con le esigenze di sicurezza del Giappone e degli altri membri dell’Asean sia con la proclamata intenzione americana di mantenere la libertà di navigazione dallo Stretto di Malacca al Giappone. Inoltre, nel lungo periodo, è decisamente incompatibile con la dottrina americana del “command of the commons” e in particolare con la volontà di Washington di preservare la superiorità militare nel Pacifico. Questa dottrina considera la capacità di proiettare il potere militare americano sui global commons (oceani, aria e spazio), ed eventualmente la possibilità di negarne l’accesso e l’utilizzo per fini militari ad altre potenze, come fondamento essenziale per la supremazia militare degli Stati Uniti. Di conseguenza, l’intenzione cinese di espandere la propria influenza nei mari vicini, unita alla dottrina della difesa marittima in profondità, viene percepita dal Pentagono come una minaccia alla supremazia marittima, uno dei pilastri fondamenti dell’egemonia militare di Washington.


    La difesa marittima in profondità è considerata il tentativo mettere in pratica “una Dottrina Monroe con caratteristiche cinesi”. Nel lungo periodo, alcuni analisti attendono anche l’equivalente cinese del “Corollario Roosevelt”, ovvero la rivendicazione della possibilità di intervenire militarmente per il mantenimento della sfera di influenza cinese ed escludere la presenza di potenze straniere. La Repubblica Popolare di oggi, tuttavia, non è l’America di Monroe o di Theodore Roosevelt. L’Asia Orientale è affollata da grandi e medie potenze pronte a difendere la propria sicurezza e i propri interessi. Le rivendicazioni cinesi, unite alla strategia di difesa marittima in profondità stanno spingendo tradizionali alleati degli Stati Uniti a rafforzare le loro alleanze con Washington.


    Il Giappone, ad esempio, ha recentemente pubblicato un nuovo documento strategico - Linee guida per la difesa nazionale 2011 - che prevede un notevole ampliamento del ruolo giapponese nelle alleanze e il rafforzamento del raggio d’azione delle competenze della marina. Ex nemici come il Vietnam stanno mettendo da parte le divisioni ideologiche e si stanno progressivamente allineando con gli Stati Uniti. Il Vietnam, inoltre ha intrapreso un programma di modernizzazione della marina militare, in particolare per quanto riguarda i sottomarini, acquistando dalla Russia sei sottomarini della classe Kilo, simili a quelli comprati dalla marina cinese.


    In conclusione, le dispute legate ai “mari vicini” potrebbero portare al pericoloso isolamento della Cina e alla formazione di una “coalizione di bilanciamento” tra gli Stati dell’Asean, il Giappone e gli Stati Uniti. Come ha scritto Henry Kissinger, tutte le parti coinvolte sono coscienti del fatto che il contenimento sia una delle peggiori risposte possibili all’ascesa cinese. Le rivendicazioni di interessi fondamentali e non negoziabili sia da parte di Washington sia di Pechino, tuttavia, rendono il “grande gioco” dell’Asia Orientale sempre più problematico e incline a degenerare verso una nuova forma di containment che nel lungo periodo danneggerebbe tutti gli Stati coinvolti e metterebbe in dubbio la stabilità regionale.


    Anche se la Cina sta cercando di imparare la strada dell’ascesa pacifica dai suoi predecessori, fattori geopolitici di lungo periodo - quali l’espansione dei suoi interessi navali in contrasto con la supremazia americana nell’area - e la gestione dei conflitti sulle Eez nel breve periodo rendono la strada verso l'ascesa pacifica difficile e non esente da rischi di conflitto con i vicini e con il loro protettore americano.
    (4/08/2011)
    Il grande gioco del Mar Cinese - rivista italiana di geopolitica - Limes

  2. #2
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    Predefinito Rif: Il grande gioco del Mar Cinese

    gia postato io sulla sezioni sondaggi dei paesi che minacciano la pace mondiale... cmq...per me è come la questione dei megadepositi di gas trovati davanti al libano e vicini a cipro e israele... quelli spettano al ibno... questi direi principalemente al vietnam
    Matsudaira Izu no Kami disse al Maestro Mizuno Kenmotsu: "Voi siete un uomo di grande valore, peccato siate così basso".

    Kenmotsu gli rispose: "E' vero. A volte in questo mondo non tutto va come si desidera. Ora, se io vi tagliassi la testa e l'attaccassi sotto i miei piedi, sarei più alto. Ma è qualcosa che non si potrebbe fare".

 

 

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