La rabbia dell’Italia insultata
domenica 04 settembre 2011 | Claudio Fava | 3 commenti



Tra qualche mese me ne vado da questo paese di merda. Lo dice Berlusconi, il presidente del Consiglio dei ministri. Lo dice da un telefono taroccato che gli hanno recapitato furtivamente a casa sua con una scheda intestata a un numero peruviano, come usano i narcotrafficanti di coca. Lo dice a un signore che per lusingarlo e per consolarlo gli risponde che “non c’è una donna al mondo che se lei telefona, le dice vieni qua a farmi una pompa, quella non viene correndo”. Per i servigi ottenuti e per l’omertà concordata, quel signore (tal Lavitola, editore dell’Avanti), assieme il suo amico (tal Tarantini, uno che “a vent’anni andavo in barca con D’Alema e a trenta dormivo da Berlusconi”), hanno ricevuto mezzo milione di euro più congrui appannaggi mensili. Ieri i quotidiani hanno riempito a vagonate le proprie pagine con le intercettazioni fra i tre compari. Non una virgola è stata omessa, non una miseria è stata censurata: non ne resterà traccia. Come accade ai feuilleton estivi letti sotto l’ombrellone, le cronachette delle case reali, gli amorazzi da spiaggia: cose così, parole crociate per riempire i pomeriggi.

L’Avanti era il giornale di Pertini, in un tempo in cui le parole e le storie avevano ancora un loro decoro: sapere che è finito nelle mani di un intrallazzatore mette tristezza più che rabbia. E leggere che il capo del nostro governo giudica il paese su cui governa un paese di merda da quale andarsene al più presto è cosa che provoca disagio più che stupore. Umilia, perché in questo paese di merda, assieme a Berlusconi, Tarantini e Lavitola, ci viviamo anche noi. E poco abbiamo saputo fare per evitare i teatrini di cui sopra. Fino a ieri abbiamo letto le acute articolesse, anche a sinistra, di chi ritiene che in nome della patria e dell’unità nazionale occorra usare parole prudenti, evitare voti anticipati, disertare gli scioperi della Cgil, trattare sulla macelleria sociale del ministro Tremonti, insomma fare finta che questo sia pur sempre un paese risolto, adulto, normale. Se proprio qualcosa dobbiamo fare, propone qualcuno, dimezziamo il numero dei parlamentari e voilà, la buona politica tornerà tra noi: peccato che chi suggerisce questi tagli non dica mai dove colloca se stesso, nel 50 per cento che parte o in quello che resta.

Oggi si ricorda Carlo Alberto dalla Chiesa che morì da prefetto della Repubblica 29 anni fa. Abbiamo pudore a immaginare i suoi pensieri, se fosse vivo, di fronte al capo di un governo che parla al telefono con un cellulare recapitato da Lima per non farsi ascoltare. Abbiamo fastidio, invece, a immaginare l’arabesco di parole che oggi verranno scelte per ricordarne la morte: parole alte e fasulle che citeranno il senso dello Stato, il rigore morale dei servitori della Repubblica, il sacrificio come atto estremo di obbedienza civile. Tra gli addendi alla manovra finanziaria vedrei bene un emendamento che proponesse la sospensione di tutte le pubbliche cerimonie di cordoglio e di commemorazione fino a quando la faccia dell’Italia coinciderà con quella di Berlusconi o dei suoi prosseneti. Dalla Chiesa e gli altri che come lui abbiamo perduto per strada ce ne sarebbero molto grati.

Questa rubrica si chiama furti di memoria. Ma comincio a pensare che anderebbe cambiato il titolo. Si ruba qualcosa che altri posseggono, e difendono, e vogliono conservare. Questa memoria sfratta, ridotta ormai a parole di rito, non ci è stata rubata da nessuno: l’abbiamo abbandonata. Ce ne siamo sbarazzati come un fardello cupo e faticoso, senza nemmeno darcene pena. Il senatore Dell’Utri, pregiudicato per concorso in associazione mafiosa, è stato ricompensato da Berlusconi con dieci milioni di euro per i suoi silenzi: con che diritto chi è al corrente di quel baratto, e di ciò che quel baratto protegge, potrà andare ad aspergere incenso oggi a Palermo sulla memoria di dalla Chiesa? Leggiamo che il governo di Silvio Berlusconi sarà rappresentato oggi a Palermo da un suo sottosegretario, Alfredo Mantovano. Immaginiamo già le parole, ferme e fiacche, da dire in fretta, sulla lotta alla mafia. Ci consola sapere che la cerimonia sarà cosa breve: poi tutti a pranzo, poi tutti a casa.

Claudio Fava

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