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    Predefinito Polemiche sul Concilio Vaticano II e la FSSPX

    Risposta a Don Cantoni
    fra teologia e amarezza


    Intervista a Mons. Brunero Gherardini


    di Dante Pastorelli




    Da quando nel 2099 apparve il primo libro sul Vaticano II (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice), in cui Mons. Brunero Gherardini iniziava una disamina attenta e puntuale dei documenti conciliari, fra larga messe di consensi anche ad altissimo livello, s’è levata qualche rara voce critica, legittima certo, ma per lo più alquanto superficiale e ripetitiva. Né diversa accoglienza ha ricevuto il successivo Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011.
    In questi due approfonditi studi i nodi cruciali del Vaticano II vengon al pettine e non basta a contrastar l’analisi del grande Maestro biascicar ad ogni pie’ sospinto il mantra: il Papa sostiene che c’è continuità tra il Vaticano II e l’intero Magistero che lo precede, e quindi la continuità c’è. Il proceder del Concilio nel solco della Tradizione va dimostrato. Se non si vuole dimostrar con argomentazioni se non esaustive almeno credibili, si dogmatizzi in modo inequivocabile l’ultima assise ecumenica o almeno una parte dei suoi documenti o capitoli d’essi, dato il loro diverso valore magisteriale da inquadrar sempre nel livello “più modesto”, pastorale, su cui dall’alto s’è voluto por quest’importante evento ecclesiale.
    Non è mia intenzione polemizzar con nessuno in questa sede, poiché già a certe critiche ho risposto sul mio bollettino “Una Voce dicentes”, Gennaio-Aprile 2011.
    Ma molto di recente un’altra voce s’è aggiunta alla sparuta ma sgomitante schiera dei contestatori. Mi son fatto coraggio, allora, e mi son rivolto all’antico Maestro che m’onora della sua amicizia, chiedendogli di risponder finalmente almeno a qualcuno di questi dissenzienti - soprattutto all’ultimo che, sapevo, con le sue pagine gli avrebbe procurato amarezza -, pur conoscendo la sua ritrosia, il disagio che gl’impediscon di scender nell’agone di vacue dispute. E con mia viva sorpresa m’ha rilasciato un’ampia ed accorata intervista destinata al mio sopra citato bollettino, ma che, ne sento il dovere, volentieri affido in anticipo a qualche blog.
    Assieme all’affetto di sempre, a don Brunero il mio più profondo ringraziamento, nell’attesa del terzo testo sul tema Vaticano II. E che Maria Santissima, tanto da lui venerata ed amata, lo sostenga e lo illumini nella santa battaglia in difesa della vera Fede e dell’unica Chiesa di Cristo.


    D.P.



    D – Caro don Brunero, in questi giorni, come saprà, il Suo nome è oggetto d’un attacco pesantissimo da parte d’un prete che si dichiara Suo ex-alunno. Non gli risponde?

    R – Per le rime, no. Anzi, se si trattasse solo della mia persona, manterrei ancor il silenzio che in tutta la mia vita ho mantenuto. Questa volta, tuttavia, ho intenzione di farmi sentire in qualche modo, se pur con molta riluttanza. Non scriverò direttamente una risposta articolata sulle singole tematiche ed accuse, ma complessiva, breve e sostanziale. Ho già in mente dove e come inserirla, al solo scopo di fornire opportuni chiarimenti e quella che mi offri, nonostante la mia idiosincrasia al genere Intervista, è un’occasione d’oro. Non risponderò per le rime, perché rifuggo dall’uso del vetriolo che m’è stato scaraventato in faccia. E vorrei aggiungere che la mia risposta, così come tutta la mia analisi del Vaticano II, parte da quel gesto rivoluzionario che il 13 ottobre del 1962 dette al Concilio un orientamento prima imprevisto. Son convinto che chi non parte di lì non può esser in grado di capirci qualcosa.


    D – Se accetta di rispondere, comunque lo faccia, mi par di capire che c’è rimasto male.

    R – Certamente non bene, specie perché si tratta d’un attacco portato contro di me da un mio ex alunno, come hai ricordato. Incontro spesso qualcuno che fu alla mia scuola. Son tanti: laici, suore, preti, vescovi e perfino qualche cardinale. Ogni volta è una gioia reciproca ed a me non fa certamente dispiacere sentirmi dire: quando devo parlare sulla Chiesa, prendo in mano i suoi manuali e gli appunti delle sue lezioni. Recentemente un parroco di Roma, rivolto a me dall’altare, ha detto: si tremava un po’ dinanzi al suo rigore, ma non la ringrazieremo mai abbastanza per quello che ci ha dato. L’uscita di don Piero Cantoni, l’alunno di cui mi parli, e dal quale mi sarei aspettato ben altro che vetriolo in faccia, ha rotto l’incantesimo.


    D - Se non son indiscreto: c’è qualche motivo per dire che da lui non se l’aspettava?

    R – Ce n’è più d’uno e mi trovo un po’ a disagio nel metterli in vetrina. Si tratta soprattutto d’uno stato d’animo. Quando si presentò al Laterano, proveniva da Écone e bastava questo, allora più di oggi, a provocare non poca diffidenza. Seppi da lui le difficoltà che incontrava nella diocesi nella quale si sarebbe incardinato. Aveva il volto triste; non lo vidi mai sorridere. Con lui c’era un suo collega austriaco, egli pure atteggiato a perenne tristezza e, come lui, proveniente da Écone. Mi guardai bene dal fare un sola domanda sui motivi del loro abbandono del ben noto Seminario lefebvriano: fossero transfughi o espulsi, non cambiava le carte in tavola: due esseri umani da aiutare. Così feci, con tutt’i miei limiti, ma con sincerità. Ricordo d’averli portati pure a pranzo insieme. Quanto a Cantoni, anche dopo l’adempimento accademico, lo rivedevo quando ritornava a Roma, m’interessavo alla sua vicenda, mi compiacevo nel costatare il graduale assestarsi della sua situazione. Ho tra i miei ricordi che fu parroco, insegnante e responsabile del Seminario interregionale, fondatore d’un’opera mariana, e varie altre cose. Lo rividi una decina d’anni or sono in un comune del pisano (Fauglia) per un incontro mariano: fu una gioia enorme passare qualche ora insieme, ascoltarlo, ma soprattutto costatare il seguito che riscuoteva da parte di numerosi giovani, di sacerdoti, del Vescovo presente. Tutto confermava il mio giudizio di persona d’altissima intelligenza ed ottima preparazione teologica, lodevolmente impegnata nel servizio ecclesiale. Quando incominciò a mandarmi richieste d’aiuto per la sua opera mariana, sia pur con la consapevolezza della mosca che tira il calcio che può, non me lo feci ripetere. Ora capisci da te perché “non me l’aspettavo”.


    D – Certo che capisco. Ma voglio immaginare che non ci sia stato un ribaltamento di posizioni improvviso ed imprevisto. Possibile che non abbia mai intuito qualche discrepanza, qualche riserva, qualche eccezione?

    R – Mai, perché mai me ne aveva manifestato neanche un piccolo sintomo. In ultim’analisi, però, non è questo il punto. Dante, di cui tu porti il nome e che conosci molto meglio di me per la tua specializzazione letteraria, direbbe: “…e ’l modo ancor m’offende” (I, 5, 102). I precedenti ai quali ho fatto un sommario riferimento avrebbero consigliato a chiunque, prima di prender la clava in mano e scagliarmela addosso, di sentirmi, di chieder chiarimenti, di contestarmi, riservando un eventuale attacco a dopo che le mie risposte non l’avessero soddisfatto. Ha fatto esattamente il contrario. Contraddetto, peraltro, dal suo collega austriaco che, all’oscuro di tutto, poco prima che la bomba esplodesse, mi scrisse: “E’ un grande onore l’essere stato suo discepolo”.


    D – Che si senta offeso dal modo è comprensibile, ma immagino che abbia anche qualche cosa da eccepire nel merito.

    R – Sì, e non poco. Se dovessi risponder puntualmente a tutto quanto mi vien rimproverato sia attraverso labussolaquotidiana ed altri siti, sia soprattutto con un intero volume scritto nel modo dottorale e definitorio del “so io ogni cosa e zitti tutti”, dovrei venir meno all’impegno assunto con una pubblicazione che uscirà a marzo 2012 per i tipi di Lindau, nella quale dichiaro che quello è il mio ultimo intervento sul Vaticano II: quanto, infatti, dovevo e volevo dire, l’ho detto; ho avuto riscontri sulla serietà della mia iniziativa da varie e non poche parti; ciò mi basta. Risponderò, dunque, soprattutto per chiarire l’equivoco nel quale don Cantoni è caduto e nel quale potrebbero cader i suoi lettori. Contrapponendo alcuni miei giudizi di oggi ad altri di ieri, o viceversa, egli dimostra la mia doppiezza e la mia contraddittorietà. E’, questa, una conclusione estremamente superficiale; ma potrebb’esser pure estremamente cattiva.
    Ogni persona umana, infatti, è in un ininterrotto processo di maturazione. Ho detto altrove che solo le cariatidi non s’evolvono. Ieri ero quello che sono oggi e che sarò domani, ma non allo stesso modo né allo stesso livello di maturazione. Quello che oggi percepisco restava in ombra, o forse era del tutto inavvertito, ieri. E’ avvenuto in me quello che avviene in tutti: è maturata l’età, si son avvicendati impegni e responsabilità che lascian il segno, l’esperienza tocca oggi livelli ieri nemmeno intuiti. Nessuna meraviglia se il giudizio d’ieri non collima, o in parte o in tutto, con quello d’oggi; l’importante è che quello d’oggi indichi i motivi per cui non ripete quello d’ieri. E’ importante, cioè, la fondazione. Dalla quale si potrà sempre dissentire, sempre però riconoscendo la serietà del procedimento fondativo. E’ superficiale il critico che non ne tien conto, ma è cattivo quello che ne fa la premessa per giustificare la conclusione con cui m’addita alla pubblica esecrazione: è un doppiogiochista, è in contraddizione con se stesso. E detta così, sarebbe quasi una carezza, la realtà essendo ben altra.
    Oltre alla maturazione, c’è una ragione anche più determinante che non sfiora nemmeno l’anticamera del mio accusatore: da una parte, la “missio canonica” per la quale ero “mandato” ad insegnare la dottrina della Chiesa, non le mie idee; dall’altra, la necessità di non turbare la coscienza della personalità “in fieri” d’ogni mio discepolo. Ebbi la mia bella crisi, che superai solo perché un eminentissimo personaggio e il mio direttore spirituale mi dissero di non abbandonar il mio posto, ma di continuare l’insegnamento con opportune precisazioni, se del caso, tratte dall’ininterrotta Tradizione della Chiesa su quei punti che mi fossero apparsi meritevoli di precisazioni siffatte. E tutt’i miei alunni sanno quanti puntini sulle “i” ho messo: sul “subsistit in” che, invece di condannare come non pochi facevano, giustificai sul piano metafisico; sulla collegialità dei vescovi, ricondotta nell’alveo del primato petrino mentre tutti ne facevano un organo di governo accanto ed analogo a quello del Papa; sull’ecumenismo per strapparlo all’alea del dialogo fine a se stesso e ricondurlo nella sfera dell’ “Unam sanctam”, e così via dicendo.


    D – Quindi, Lei afferma che la Sua posizione critica nei confronti del Vaticano II non è di data recente.

    R – Sicuramente. Pur non essendo ufficialmente un “perito”, seguivo giornalmente i lavori conciliari come uomo di fiducia (insieme con un collega dell’allora Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi, Mons. R. Pozzi) di S. E. Mons. D. Staffa e gl’interrogativi s’affacciavano e crescevano durante gli stessi lavori conciliari. Posso rivelare a questo riguardo che, qualche tempo dopo, un’alta personalità dell’allora sant’Uffizio e pochi anni dopo il suo successore, oltretutto mio conterraneo, mi convocarono per chiedermi se fosse vero che criticassi il Vaticano II. Al primo risposi che insegnavo ciò ch’egli stesso aveva insegnato a me; al secondo ed al suo invito alla prudenza per non compromettere il mio domani, risposi che dovevo risponder al presente della mia coscienza e che l’unico mio domani era quello di Dio. E già allora sostenevo ciò che ho sostenuto oggi: che il Vaticano II è un autentico e legittimo Concilio ecumenico, il più grande dei 20 che l’han preceduto, con un suo magistero supremo e solenne, ancorché non dogmatico, ma pastorale, e con non pochi interrogativi sulla sua continuità con la Tradizione di sempre.


    D – Ma, tutto sommato, di che cosa viene oggi accusato?

    R – Un po’ di tutto, dalla disinformazione alla contraddittorietà, dal non aver capito il Concilio alla volontaria manomissione del suo insegnamento, e di questo passo s’arriva fino alla conclusione del “formalmente eretico”.
    Mi si dice che ignoro le ripetute asserzioni conciliari di continuità con la grande Tradizione ecclesiale; non è vero, ho detto soltanto che altro è una declamazione ed altro una dimostrazione. E questa, fin ad oggi, è mancata. Mi s’accusa di non conoscere, o non riconoscere, la Tradizione/soggetto, là dove ho solo rilevato, con i grandi storici del dogma e della Tradizione stessa, che questo è solo uno sviluppo della teologia moderna e che, comunque, la Tradizione soggettiva resta costitutivamente legata a quella oggettiva, dalla quale non può allontanarsi né d’un apice né d’un iota; può solo approfondire illustrare precisare senza apporti sostanziali e solo nella linea d’uno sviluppo omogeneo. Si dice equivoca, per questo, la mia posizione sul Magistero vivente della Chiesa, come se ad impedirne la capacità e possibilità d’intervento oltre il limite d’una novità omogenea fossi io e non Gv 14,26 e 16,13-14, nonché il cap. IV dell’ “Æterrni Patris” del Vaticano I. Si ha anzi il coraggio d’appellarsi al Lerinense e al beato Newman la cui dottrina sul progresso dogmatico è quella appena accennata. Si prendon poi, uno ad uno, i testi conciliari che ho criticamente analizzato per negarne la mia interpretazione, con ragionamenti che non stanno né in cielo né in terra. P. es., il famoso GS 22/c (“con l’incarnazione il Figlio di Dio s’unì in certo modo ad ogni uomo”) non dichiarerebbe, sia pur “quodammodo”, il Figlio di Dio unito ad ogni persona, ma alla natura umana d’ogni persona: bel modo di svicolare da una difficoltà, come se il testo non dicesse “cum omni homine” e non chiudesse in tal modo lo spazio ad interpretazioni di comodo: “ogni uomo” è ogni persona umana, il supposito, il soggetto, non la sua natura. Mi si dà sulla voce anche per le mie analisi di DH: chissà se, leggendo domani il libro che ho prima annunciato, nel quale dimostro la non corrispondenza di non poche citazioni bibliche ai testi di DH e di NÆ, ch’esse dovrebbero suffragare, non si ricreda anche un don Cantoni.
    Non dico nulla sul giudizio, almeno implicito, ch’egli dà della mia produzione scientifica, di cui sembra degnare d’una qualche considerazione solo quella d’indole ecumenica, perché dovrei parlare di me e non della mia posizione dinanzi al Vaticano II, ch’è invece il vero tema. Può darsi, inoltre, che abbia ragione il mio oppositore a definire involuta, oscura ed ambigua la mia scrittura; perché dovrei preoccuparmene più di tanto, dal momento che son infinitamente più numerosi coloro che mi lodano del contrario? A proposito di lode, non mi son mai lodato d’appartenere alla gloriosa Scuola Romana, come dichiara don Cantoni, pur essendo grato a chi in essa mi riconosce. No, su me in quanto me, “ne verbum quidem”.
    Aggiungo un’osservazione. Nella storia il “conciliarismo” è conosciuto come l’eresia che sottomette il Papa al Concilio ecumenico; nel sottotitolo del libro che mi tartassa, Cantoni scrive: “riflessioni sul Vaticano II e sull’anticonciliarismo”, ovviamente pensando a me come “anticonciliarista”. Stando all’accennato significato storico della parola “conciliarismo”, son fiero d’essere “anticonciliarista”.


    D – Caro don Brunero, mi pare che un quadro come quello che ha descritto meriti molto più d’una semplice intervista. E’ proprio dell’avviso di non volerci rimetter le mani sopra?

    R – Sì, caro Dante. Spero che altri portino avanti il discorso iniziato. Gl’indizi non mancano. Son già in cantiere due congressi per il cinquantenario del Vaticano II: l’uno, nel 2012 per celebrar i cinquant’anni dall’inizio e l’altro per il 2015 per i cinquant’anni dalla fine. Chissà che non sia l’occasione buona per rimetter in sesto una situazione che, sotto l’azione della famigerata volgata, s’è ammalata d’elefantiasi, fin a fare del Vaticano II o l’unico Concilio della Chiesa, o la sintesi del magistero ecclesiale di tutti gli altri. Io ho fiducia. Se è vero, come sembra, che già si comincia a concedere d’interpretare “con libertà” qualche dichiarazione conciliare, vuol dire che siamo sulla strada buona e ne ringrazio il buon Dio. Così come ringrazio te, per la tua intervista.


    D.P. – No, sono io che ringrazio Lei per avermela concessa.

    Intervista a Mons. Brunero Gheradini - Risposta a don Cantoni fra teologia e amarezza
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    Predefinito Rif: Polemiche sul Concilio Vaticano II e la FSSPX

    Questa la recensione del libro di don Cantoni (ex FSSPX), in cui attacca monsignor Gherardini, fatta da M. Introvigne:

    Concilio Vaticano II, istruzioni per l'uso

    di Massimo Introvigne,
    da La Bussola Quotidiana (24/09/2011)

    L'anno prossimo, 2012, si celebrerà il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Si annunciano, in tutto il mondo, decine di convegni e di pubblicazioni, dei più diversi orientamenti. Don Pietro Cantoni, teologo ben noto ai lettori del mensile di apologetica cattolica Il Timone e che da anni riflette sul Concilio, anticipa l'anniversario e arriva tra i primi in libreria con Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull'anti-conciliarismo (Sugarco, Milano 2011).

    Si tratta di un libro molto importante che, già nel titolo, fa riferimento a due interventi di Benedetto XVI riportati in appendice. Il primo è il discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, in cui il Papa distingue a proposito del Vaticano II una «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che legge il Concilio non alla luce del Magistero precedente ma in contrapposizione a esso, e una corretta «ermeneutica della riforma nella continuità», che non nega gli elementi di novità del Concilio - diversamente, non ci sarebbe riforma - ma legge ogni novità in continuità, e non in contraddizione, con gli insegnamenti precedenti della Chiesa. A sua volta, come Benedetto XVI ebbe a spiegare nell'incontro ad Auronzo di Cadore con i sacerdoti delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso del 24 luglio 2007, l'ermeneutica della discontinuità e della rottura oggi è proposta nella Chiesa da due versanti diversi: da un «progressismo sbagliato», che considera la presunta rottura con il passato una benedizione per la Chiesa, e da un «anti-conciliarismo» per cui la stessa rottura è stata al contrario catastrofica. Le due correnti convergono nell'analisi, anche se divergono nelle opposte valutazioni.

    Ma le due correnti, come spiega con dovizia di argomenti don Cantoni, sbagliano. La condanna del «progressismo sbagliato» non è, come molti pensano, una novità «restauratrice» di Benedetto XVI. Si ritrova già nel magistero del servo di Dio Paolo VI (1897-1978), il Papa che concluse il Vaticano II, di cui l'autore ricorda alcuni interventi sorprendentemente simili a quello del 2005 di Benedetto XVI. Appena a un anno dalla chiusura del Concilio, nel 1966, il servo di Dio Paolo VI mette in guardia contro l’errore «di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbitrarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizione storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Giovanni XXIII [1881-1963]. Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa». E nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972 lo stesso Pontefice denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa "nuova", quasi "reinventata" dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».

    La parte più corposa del volume di don Cantoni è consacrata alla critica dell'anti-conciliarismo, «fuoco amico» - come lo definisce - nei confronti del Magistero, che rischia di comprometterne l'autorità anche presso persone devote e fedeli al Papa. L'autore che don Cantoni assume come più rappresentativo di questa corrente - peraltro, piuttosto un network dove convivono opinioni parzialmente diverse - è il teologo romano mons. Brunero Gherardini che in una sorta di crescendo, passando dai primi agli ultimi dei diversi volumi che ha dedicato negli ultimi anni al Vaticano II, ha finito per sostenere che l'ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI è, almeno con riferimento a diversi documenti conciliari, impossibile. In questi documenti non ci sarebbe continuità, ma rottura con il Magistero precedente della Chiesa. Il Vaticano II andrebbe dunque sì considerato un autentico e legittimo Concilio cattolico, ma i suoi insegnamenti sarebbero vincolanti per i fedeli solo quando riaffermano il Magistero precedente della Chiesa, mentre potrebbero e dovrebbero essere messi in discussione, e anche francamente rifiutati, se contraddicono la Tradizione: il che, secondo Gherardini, accade certamente per diversi testi cruciali prodotti dall'assise ecumenica.

    Non è possibile riassumere qui la critica dettagliata di don Cantoni alla posizione anti-conciliarista su singoli documenti del Concilio - in particolare le costituzioni Gaudium et Spes, Lumen Gentium e Dei Verbum e la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae -, ma è importante fare emergere il tema metodologico di fondo. Nella posizione anti-conciliarista la nozione di Tradizione è ipostatizzata in modo essenzialista e diventa un codice o un libro immaginario sulla cui base giudicare gli atti del Papa e del Concilio, decidendo quali vanno accolti e quali no. Come nota don Cantoni, così l'autorità della Chiesa si sposta dal Papa a chi si auto-nomina custode e interprete della Tradizione, con un processo simile a quello messo in atto dai protestanti con riferimento alla Scrittura. Non si tratta, nota l'autore, di sostenere che il Papa è al di sopra della Tradizione, così come nella controversia con i protestanti non si trattava di sostenere che il Papa fosse al di sopra della Scrittura.

    L'autore cita Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), il quale rispondeva ai protestanti che «noi non diciamo che la Chiesa sia giudice della Parola di Dio, ma assicuriamo che è giudice delle interpretazioni che gli uomini danno della santa Parola di Dio». Analogamente - tanto più che, a differenza della Scrittura, neppure esiste un libro o manuale chiamato La Tradizione con cui confrontare le diverse posizioni - don Cantoni afferma che l'alternativa oggi non è se credere a Benedetto XVI o credere alla Tradizione, ma se farsi spiegare che cos'è la Tradizione da Benedetto XVI o da mons. Gherardini, o magari dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), sulle cui posizioni in tema di Vaticano II il monsignore romano nelle sue opere più recenti sembra andare sempre più convergendo.

    E don Cantoni fa notare che la divergenza fra i seguaci di mons. Lefebvre e l'insegnamento di Benedetto XVI non sta nella tesi secondo cui dopo il Concilio c'è stata una drammatica crisi nella Chiesa. Che questa crisi ci sia stata è evidente, e lo afferma anche il Pontefice. Ma, a differenza dei “lefebvriani” - e degli anti-conciliaristi - Benedetto XVI attribuisce la crisi al prevalere di una errata ermeneutica dei documenti del Concilio, non ai documenti medesimi nella loro essenza e nel loro insieme, senza escludere che essi contengano qua e là qualche formulazione meno felice o bisognosa di chiarimenti da parte dello stesso Magistero. Che nei documenti del Vaticano II ci siano espressioni da chiarire e su cui si può legittimamente discutere - ma questo, nota don Cantoni, vale anche per tante espressioni di Concili precedenti - non significa che tali testi si possano rifiutare in blocco o nel loro messaggio essenziale, che si tratti di struttura della Chiesa, ecumenismo, esegesi biblica o libertà religiosa.

    Come ha spiegato Andrea Tornielli su La Bussola Quotidiana, si situa qui l'essenziale del Preambolo dottrinale - il cui testo rimane riservato - proposto dalla Santa Sede alla Fraternità Sacerdotale San Pio X come condizione per un'auspicata riconciliazione.

    Molto utile - anche per comprendere la posta in gioco proprio del dialogo in corso fra Santa Sede e Fraternità Sacerdotale San Pio X - è un'appendice dove don Cantoni traccia una breve storia della nozione di Magistero ordinario. Gli anti-conciliaristi spesso rappresentano in modo caricaturale la posizione dei loro critici, attribuendo loro la tesi certamente infondata secondo cui tutti gli insegnamenti del Vaticano II sarebbero infallibili o di natura dogmatica. Non è affatto così. I critici dell'anti-conciliarismo - e, cosa assai più importante, Benedetto XVI - sostengono una cosa diversa, e cioè che il buon fedele deve prestare il suo assenso non solo formale ma sostanziale anche al Magistero ordinario, non dogmatico e non infallibile, pure nella sue dimensioni pastorali, che può certo avere espressioni più o meno felici e su cui i teologi possono condurre discussioni, ma che resta la guida normale della Chiesa cui i cattolici possono e devono affidarsi con fiducia. Non è un buon cattolico chi segue il Magistero solo nei suoi rari pronunciamenti infallibili, ignorando invece la sua guida continua e quotidiana che ha spesso appunto natura non dogmatica ma pastorale.

    Grande merito del libro di don Cantoni è ricordarci che questa posizione non è nuova. Nasce quando - dopo la Rivoluzione Francese - il Magistero inizia a esprimersi in modo molto più frequente, tra l'altro attraverso la moltiplicazione delle encicliche. L'espressione «Magistero ordinario» si deve al teologo gesuita tedesco Joseph Kleutgen (1811-1883), ma passa nel Magistero pontificio con la lettera Tuas libenter, indirizzata dal beato Pio IX (1792-1878) all'arcivescovo di Monaco di Baviera il 21 dicembre 1863. Questo testo, dove si afferma che la «sottomissione» dei buoni cattolici non ha come oggetto solo il Magistero infallibile ma anche il Magistero ordinario è la premessa della condanna nel Sillabo del 1864 - ironicamente, un testo spesso invocato dagli anti-conciliaristi - della seguente proposizione, denunciata come erronea: «L'obbligazione che vincola i maestri e gli scrittori cattolici, si riduce a quelle cose solamente, che dall’infallibile giudizio della Chiesa sono proposte a credersi da tutti come dommi di fede». «Né si deve ritenere - aggiunge il venerabile Pio XII (1876-1958) nell'enciclica Humani generis del 1950 - che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, per cui valgono pure le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Luc. X, 16)». Né, evidentemente, possiamo considerare i testi di un Concilio Ecumenico meno autorevoli delle encicliche.

    Un'altra utile appendice del libro di don Cantoni riguarda il beato John Henry Newman (1801-1890), citato da alcuni anti-conciliaristi a sostegno delle loro tesi, in quanto avrebbe affermato che durante la crisi ariana diversi concili e l'intero corpo episcopale avrebbero insegnato l'eresia. Queste però, precisa don Cantoni, erano affermazioni attribuite al beato Newman dai suoi critici, che lo denunciarono a Roma come eretico. Rispondendo a tali critici, il beato affermò che se in effetti egli avesse attribuito l'eresia ariana a «concili ecumenici» e al corpo episcopale nel suo insieme - inseparabile dal Papa - allora certamente le sue affermazioni sarebbero state eretiche. Ma in realtà egli aveva parlato di «concili generali» - che sono cosa diversa dai concili ecumenici, e «non ci fu nessun concilio ecumenico tra il 325 e il 381» - e della maggioranza dei vescovi, non del loro corpus o collegio in senso giuridico e teologico. Di fatto nella crisi ariana buona parte dei vescovi non fu fedele alla sua missione. Ma questo, spiegava Newman, non significa che di diritto anche in quella crisi non restasse presente almeno in modo «virtuale» l'insegnamento di verità del Magistero vivente, che rimaneva per così dire presente sullo sfondo anche se di fatto pochi vescovi lo diffondevano.

    Non si tratta di una sottigliezza storica. Se un concilio ecumenico e l'intero corpo episcopale unito al Papa potessero insegnare l'eresia - che è cosa diversa dall'esprimere la verità in formulazioni che talora possono essere poco felici o poco precise, e richiedere una interpretazione autentica da parte del Magistero successivo - allora le porte dell'inferno avrebbero prevalso sulla Chiesa. Sappiamo per divina rivelazione che questo non può accadere. E di fatto le «portae inferi» non hanno prevalso. La Chiesa, nonostante le tante crisi che la tormentano, c'è ancora, e per sapere dov'è e che cosa insegna, anche a proposito del Vaticano II, non dobbiamo metterci alla ricerca di un immaginario libro che conterrebbe la Tradizione nella sua forma «pura» e neppure rivolgerci ai teologi - o agli storici, o ai giornalisti - che ci sembrano più simpatici o persuasivi. Dobbiamo guardare al Magistero e al Papa. «Ubi Petrus, ibi Ecclesia, ubi Ecclesia, ibi Christus». «Dov'è Pietro, lì è la Chiesa, dov'è la Chiesa, lì è Cristo». Il volume di don Cantoni costituisce un argomentato, puntuale, severo e prezioso richiamo a questo punto cardine della nostra fede.

    Vaticano II e anticonciliarismo | CRISTIANESIMO CATTOLICO
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    Predefinito Rif: Polemiche sul Concilio Vaticano II e la FSSPX

    Il libro di don Cantoni: RIFORMA NELLA CONTINUITA'
    Credere - Pregare - Obbedire - Vincere

    "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo" (Ger 17, 5).

  4. #4
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    Predefinito Rif: Polemiche sul Concilio Vaticano II e la FSSPX

    La critica dell'Istituto del Buon Pastore all'atteggiamento della FSSPX, definito contraddittorio e incoerente:


    ACCORDO ROMA-ECÔNE: “ABBIAMO SCHERZATO”?

    Nota sugli sviluppi di una disputa teologico-ecclesiale

    Sono in crescita le voci sulla possibilità di un imminente accordo tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede, collegata alla concessione di un Ordinariato personale e alla convocazione a Roma il 14 settembre del Superiore Generale della FSSPX con i suoi due Assistenti.
    Naturalmente, è bene ricordare, voci e certezze non automaticamente coincidono; qualcosa tuttavia c’è. In pochissimo tempo, infatti, si sono registrati sulla materia più interventi: l’abbé Franz Schmidberger, Superiore emerito della FSSPX; Mons. Richard Williamson, uno dei quattro vescovi consacrati da Mons. Lefebvre, ha confermato il dato, ma con valutazioni assai differenti (e a suo tempo, ricordiamo a chi l’avesse dimenticato, Mons. Bernard Fellay negò l’esistenza di divisioni tra i vescovi, attribuendo ciò a malevole rappresentazioni esterne); infine il Superiore di un distretto FSSPX importante come quello italiano, don Davide Pagliarani, è intervenuto rispondendo ad alcune obiezioni. E’ soprattutto quest’ultimo intervento che ci spinge a tornare sulla questione, per il motivo che diremo. In ogni caso, l’incontro del 14 settembre è certo.
    Quanto a noi, di per sé non potremmo che rallegrarci se infine la FSSPX farà quella che, peraltro, sostanzialmente è la nostra stessa scelta (finora trattata come roba da traditori; maltrattati, puniti e disprezzati): cioè un accordo sostanzialmente pratico-canonico, congiunto alla possibilità di “fare l’esperienza della Tradizione” (secondo una formula che Mons. Lefebvre ha perorato per tanti anni, sicuramente per la maggioranza del tempo della sua resistenza), e all’attestazione della presenza di questioni dottrinali su cui allo stato attuale non c’è accordo, ma intenzione di discutere. Quanto però alle modalità di realizzazione non possiamo che rilevare, e porre ai diretti interessati, un problema di chiarezza e di verità; aspetti quest’ultimi, che alla FSSPX – in base alle ricorrenti dichiarazioni – dovrebbero stare sommamente a cuore.
    Chiaramente non stiamo qui a ripetere tutte le cose già dette: i nostri precedenti articoli, “Il fallimento dei colloqui dottrinali della Fraternità San Pio X e la questione ordinariato tradizionale” e “La necessità teologica ed ecclesiale di una “terza via”: né vortice “scismatico” né conformismo “allineato” (prima e seconda parte)”, sono disponibili su questa rivista per chiunque voglia consultarli con attenzione e obiettività. In questa sede concentreremo l’attenzione sugli sviluppi dell’articolo “Il fallimento dei colloqui dottrinali…” e sul dibattito che ne è scaturito.



    Accordo possibile…
    Come accennato, il Superiore del Distretto italiano alla valutazione su un fallimento delle discussioni ha replicato in questi termini:
    «Penso che sia un errore pregiudiziale considerare i colloqui falliti. Questa conclusione è tirata forse da chi s’aspettava dai colloqui qualche risultato estraneo alle finalità dei colloqui stessi. Il fine dei colloqui non è mai stato quello di giungere ad un accordo concreto, bensì quello di redigere un dossier chiaro e completo, che evidenziasse le rispettive posizioni dottrinali, da rimettere al Papa e al Superiore generale della Fraternità». Quanto alla eventuale prossima offerta di un Ordinariato, essa «sarebbe presa serenamente in considerazione […]»[1].
    A sua volta il Distretto tedesco afferma:
    «tuttavia la questione dello status canonico non ha avuto finora risposta»[2].
    In entrambe le dichiarazioni è presente un oggettivo possibilismo sulla realizzazione di un accordo canonico: e ciò sebbene, come riferisce anche uno dei quattro vescovi paventando l’accettazione, «tutti dicono che le Discussioni hanno confermato che nessun accordo dottrinale è possibile tra la FSSPX […] e la Roma di oggi […]». Prosegue il Vescovo: «la situazione dopo le Discussioni è esattamente la stessa che prima».[3]



    …malgrado il reale fallimento dei colloqui dottrinali
    Osserviamo che, a dispetto di quello che anche noi avevamo scritto sul fallimento dei colloqui dottrinali, si dichiara oggi che la loro finalità sarebbe stata soltanto quella di far conoscere meglio le posizioni e che quindi essi sarebbero non già un fallimento, ma un successo. Ora questo è insostenibile per più ragioni:


    1) Perché atti in cui le parti evidenziavano le rispettive posizioni esistevano già da tempo: ad esempio, la risposta di Roma ai Dubia presentati da Mons. Lefebvre (1987); ad esempio, gli studi di Mons. de Castro Mayer (sulla Libertà religiosa e sul Novus Ordo Missae) e di Mons. Fellay (sull’odierno ecumenismo), trasmessi a Roma rispettivamente nel 1974 e nel 2004; ad esempio, le articolate risposte scritte di Mons. Lefebvre all’ex Sant’Uffizio sulle questioni controverse, agli inizi del pontificato di S.S. Giovanni Paolo II (ed oggi per nulla messe in valore dalla stessa FSSPX, malgrado le sollecitazioni scritte ricevute recentemente da un sacerdote del clero romano, che aveva assistito Mons. Lefebvre nella loro redazione). Se si fosse trattato solamente di completare l’insieme di tali scritti, allora l’accordo avrebbe potuto essere firmato già da anni: infatti, come abbiamo scritto, Roma già allora aveva dato disponibilità a concedere contestualmente due cose: la regolarizzazione canonica e una Commissione bilaterale teologica di approfondimento dei punti controversi. Ecône dunque ci ha ripensato ? Ora forse apprezza quello che qualche anno fa aveva disprezzato ? O era forse una questione pubblicitaria, per dare l’immagine di vittoria su una Roma che s’era infine arresa a discutere ?


    2) Perché non era certamente “estraneo alle finalità dei colloqui stessi” - come invece oggi affermato - il risultato qui di seguito illustrato dai vertici della FSSPX, come obiettivo dichiarato. Le affermazioni non scarseggiano, ad esempio sulla necessità preliminare della conversione di Roma, ma, a titolo esemplificativo, ci limitiamo a riportare due testi significativi, il primo è di Mons. Fellay - già regnante Benedetto XVI - e il secondo è la Dichiarazione del Capitolo Generale:


    «Intravediamo tre tappe verso una soluzione della crisi: preliminari, discussioni, accordi […]. Se Roma concede i preliminari, converrà passare alla seconda tappa, cioè alle discussioni. Questa tappa sarà difficile, movimentata, e probabilmente abbastanza lunga […] in ogni caso, è impossibile ed inconcepibile passare alla terza tappa, e quindi prevedere degli accordi, prima che le discussioni siano riuscite a chiarire e correggere i principi della crisi»[4].


    «Infatti, i contatti che essa (la FSSPX) mantiene sporadicamente con le autorità romane hanno per unico scopo di aiutarle a riappropriarsi della Tradizione che la Chiesa non può perdere senza rinnegare la propria identità, e non la ricerca di un vantaggio per se stessa, o di giungere ad un impossibile “accordo” puramente pratico. Il giorno in cui la Tradizione ritroverà tutti i suoi diritti, “il problema della riconciliazione non avrà più alcuna ragione di essere e la Chiesa ritroverà una nuova giovinezza”»[5].






    Chiediamo quindi alla FSSPX di rispondere pubblicamente alle seguenti domande: i principi della crisi sono oggi, grazie alle discussioni, non soltanto “chiariti” ma anche “corretti”? La Tradizione ha ritrovato oggi “tutti” i suoi diritti? Tra Ecône e Roma c’è oggi accordo dottrinale? Anche da quanto hanno detto sull’incontro di Assisi, proprio a ottobre, sembrerebbe di no… Dunque come mai oggi non sembra escludere, almeno di principio, quanto ieri aveva dato per «impossibile» e addirittura «inconcepibile»? Forse si sono resi conto della erroneità di tali dichiarazioni? Bene, in ossequio ai diritti della verità e per amor di chiarezza che lo dicano apertamente. Finora Mons. Fellay non ha spiegato neppure perché prima aveva detto[6] di non poter fare domanda scritta di ritiro del decreto di scomunica, giacché questo avrebbe comunque implicato un riconoscimento della validità di dette censure, e poi invece la domanda scritta l’ha fatta come nulla fosse.






    Coi seguenti presupposti, quale accordo “dottrinale” è possibile?
    Qualora non si riconoscesse di aver optato per il più modesto accordo pratico-canonico, arrampicandosi sugli specchi per nascondere “l’inversione a u”, ciò vorrà dire che l’eventuale accordo sarà ancora dato per dottrinale, come lo si pretendeva in ripetute dichiarazioni pubbliche. Alimentando la confusione. Ma ci si spieghi allora quale accordo dottrinale sarà coerente con le rigide posizioni tassativamente esposte, a seguito della procedura scelta, dalle parti dialoganti in questi ultimi anni. Tale infatti era il tenore della dichiarazione del Capitolo:
    «Se, dopo la loro realizzazione, la Fraternità aspetta la possibilità di discussioni dottrinali, è solo al fine di far risuonare più fortemente nella Chiesa la voce della dottrina tradizionale. Infatti, i contatti che essa mantiene sporadicamente con le autorità romane hanno per unico scopo di aiutarle a riappropriarsi della Tradizione che la Chiesa non può perdere senza rinnegare la propria identità, e non la ricerca di un vantaggio per se stessa, o di giungere ad un impossibile “accordo” puramente pratico. Il giorno in cui la Tradizione ritroverà tutti i suoi diritti, “il problema della riconciliazione non avrà più alcuna ragione di essere e la Chiesa ritroverà una nuova giovinezza”»[7].


    Queste le parole di Mons. Fellay:
    «Non siamo disposti ad avallare il veleno che si trova nel concilio»[8].


    Queste le dichiarazioni del Superiore del distretto italiano:
    «Tutti sanno che la Fraternità non accetterà mai né l’art. 31, né l’art. 19 [della Istruzione “Universae Ecclesiae”]»[9].


    Né mancano altri esempi di cose che esponenti anche autorevoli di tale Fraternità rifiutano pubblicamente, anche in maniera totale e categorica; negli articoli di questo sito se ne può trovare un campione, appunto tutt’altro che esaustivo e talvolta addirittura sconcertante.


    Queste le condizioni della Segreteria di Stato:
    «Come già pubblicato in precedenza, il Decreto della Congregazione per i Vescovi, datato 21 gennaio 2009, è stato un atto con cui il Santo Padre veniva benignamente incontro a reiterate richieste da parte del Superiore Generale della Fraternità San Pio X. Sua Santità ha voluto togliere un impedimento che pregiudicava l'apertura di una porta al dialogo. […] La gravissima pena della scomunica latae sententiae, in cui detti vescovi erano incorsi il 30 giugno 1988, dichiarata poi formalmente il 1° luglio dello stesso anno, era una conseguenza della loro ordinazione illegittima da parte di Monsignor Marcel Lefebvre.
    Lo scioglimento dalla scomunica ha liberato i quattro vescovi da una pena canonica gravissima, ma non ha cambiato la situazione giuridica della Fraternità San Pio X, che, al momento attuale, non gode di alcun riconoscimento canonico nella Chiesa cattolica. Anche i quattro vescovi, benché sciolti dalla scomunica, non hanno una funzione canonica nella Chiesa e non esercitano lecitamente un ministero in essa.


    Per un futuro riconoscimento della Fraternità San Pio X è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del concilio Vaticano II e del Magistero dei Papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI»[10].



    Per onestà intellettuale
    Visto che la FSSPX poneva l’accordo dottrinale addirittura come prospettiva “sine qua non” alla regolarizzazione canonica, ci si potrebbe accordare almeno sul testo delle dichiarazioni ? Infatti non risulta pubblicato l’originale della risposta di Mons. Fellay ai cinque punti (il cosiddetto “ultimatum”) di Roma. Mentre su un passo dottrinalmente importante della lettera con cui è stato ottenuto l’annullamento del decreto di scomunica circolano addirittura due versioni (pubblicate sulla rispettiva stampa): in base all’una, Mons. Fellay e FSSPX accettano fino al Vaticano I; in base all’altra, accettano fino al Vaticano II (quest’ultimo con delle riserve). Per loro natura, documenti del genere sono atti pubblici: come mai ne sono circolati due testi virgolettati diversi? Quale dei due corrisponde all’originale? Cosa esattamente ha firmato Mons. Fellay? È possibile, «nell’intento della più grande trasparenza possibile», pubblicare entrambe le lettere?


    Un’ultima considerazione. Se la FSSPX accetterà la regolarizzazione canonica, se in ogni caso ora, tramite suoi autorevoli esponenti, vi si mostra disponibile nonostante «tutti dicono che le Discussioni hanno confermato che nessun accordo dottrinale è possibile», allora i casi possibili sono due. O la FSSPX ha capito di aver sbagliato nell’escludere, addirittura ontologicamente, la regolarizzazione senza previo accordo dottrinale e ha cambiato idea (ma questo, per onestà intellettuale, andrebbe dichiarato). O ha voluto alzare la posta, usando tale materia per ottenere maggiori concessioni pratiche.


    In questa seconda, gravissima eventualità potrebbe inquadrarsi anche la dimenticanza del Superiore italiano, che nella suddetta intervista afferma: «l’unico prelato che non ha mai cessato di celebrare pubblicamente nel rito tradizionale, allora erroneamente considerato abrogato e bandito, è stato il fondatore della Fraternità San Pio X». Senza nulla togliere al «venerato» Mons. Lefebvre, «un grande uomo di Chiesa»[11], c’è però da obiettare: e Mons. de Castro Mayer? Forse che questo prelato «ha […] cessato di celebrare pubblicamente nel rito tradizionale»? O forse che, non essendo oggi strumentalizzabile a pro dell’attuale FSSPX, anche se non ha mai cessato, è conveniente non ricordarlo ?


    Un altro interrogativo richiede risposta. Come mai l’intervento del vescovo Williamson sembra evocare la presenza «già nel 2001» di problemi pratici all’accordo (sulle nomine di futuri vescovi e superiori della FSSPX), allorquando Mons. Fellay ci aveva riferito che le offerte di Roma erano ottime e convenientissime alla Fraternità sotto il profilo pratico, ma questa non poteva accettare solo per i motivi filosofico-teologici sopra ricordati?


    Anche per fugare ogni dubbio di “mercificazione” delle questioni dottrinali per avere vantaggi praticissimi, per giunta dietro l’immagine di un loro disprezzo, chiediamo pubblicamente a Mons. Fellay di riconoscere con umiltà e chiarezza che certe passate affermazioni – con i relativi criteri, mentalità e impostazione – vanno profondamente corretti.



    La Redazione di Disputationes Theologicae







    --------------------------------------------------------------------------------


    [1] Intervista al Superiore del Distretto Italiano della FSSPX, tratta dal sito del Distretto italiano della FSSPX, luglio 2011, Intervista a don Davide Pagliarani

    [2] «[…], jedoch wurde die Frage nach dem kirchenrechtlichen Status bislang nicht beantwortet», (Generaloberer nach Rom gebeten).

    [3] Mons. R. Williamson, Commentaire Eleison del 20 agosto 2011, Actualité Traditionaliste - TradiNews: [Mgr Williamson - Commentaire Eleison] «Les dons des Grecs?» -- I
    [4] Mons. Fellay, in Fideliter n. 171, maggio-giugno 2006, pp. 40-41.
    [5] Dichiarazione dell’ultimo Capitolo generale della FSSPX, Roma felix,luglio-agosto 2006, p. 6; la Dichiarazione è stata fatta «nell’intento della più grande trasparenza possibile, e per evitare anche qualsiasi falsa speranza o illusione».
    [6] Ad esempio, nell’omelia del 2 febbraio 2006 a Flavigny.

    [7] Dichiarazione dell’ultimo Capitolo della FSSPX (cfr nota 5).


    [8] Omelia di mons. Fellay a Saint-Malô, nella S. Messa dell’Assunta 2008.


    [9] Intervista al Superiore del Distretto italiano (cfr nota 1)


    [10] Nota della Segreteria di Stato Vaticana, 4 febbraio 2009.
    [11] Secondo le espressioni del Pontefice regnante nell’udienza dell’estate 2005.

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