È ora di disfare l’Italia
L’Italia non va salvata dalla crisi, ma da se stessa: l’Italia va disfatta. Disfare l’Italia significa due cose: secessione e au¬togoverno delle comunità, drastica ridu¬zione dei poteri e degli àmbiti del gover¬no a ogni livello.
Il diritto alla secessione è un diritto na¬turale, perché scaturisce dal diritto a di¬sporre liberamente della propria perso¬na. Il diritto alla secessione ha la mede¬sima origine e la stessa sacralità del dirit¬to all’autogoverno. Se posso decidere chi mi governa, devo anche poter decidere che cosa mi governa. Ne consegue che ogni comunità — dal singolo nucleo fami¬liare a intere regioni del paese — ha il di¬ritto, in ogni momento, di secedere dal corpo politico di cui fa parte (senza peral¬tro averlo mai scelto né deciso) per auto-governarsi come meglio crede. Quando una Costituzione nega un diritto naturale, è da considerarsi nulla e illegittima, e co¬me tale decaduta. Ne consegue che il di¬ritto naturale alla secessione e all’autogo¬verno è anche un diritto costituzionale, indipendentemente da ciò che la Costitu¬zione attuale contiene. Disfare l’Italia, in questa prima acce¬zione, significa dunque consentire alle comunità di organizzarsi come preferisco¬no. Attraverso successive secessioni, e secessioni di secessioni, il governo naziona¬le cessa spontaneamente di esistere per lasciare il posto a una pluralità di comu¬nità e di corpi politici liberi di interagire e cooperare spontaneamente tra loro e con il resto del mondo.
Questa, del resto, è stata la sola gran¬dezza dell’Italia: è dalla sua pulviscolare frammentazione politica che sono nati l’Umanesimo, il Rinascimento, le banche e il capitalismo, Leonardo e Dante. Sol¬tanto da centocinquanta anni la Penisola è ridotta in schiavitù da una gabbia artifi¬ciale e posticcia, storicamente ingiustifi¬cata, frutto delle mode nazionaliste di un pugno di letterati di provincia e, da ogni punto di vista, del tutto inefficiente. Di¬sfare l’Italia significa dunque liberarla e restituirla alla propria millenaria tradizione di territori, regioni e città libere.
L’altro modo per disfare l’Italia è la ri¬volta fiscale. Anche questo è un diritto naturale, poiché discende dal diritto di proprietà (tutte le rivoluzioni liberali, del resto, sono nate come rivolte fiscali). Sepp¬ur prelevati forzosamente dallo Stato, i miei soldi restano infatti i miei soldi, e se ho la ragionevole convinzione che venga¬no dissipati, è mio diritto fare di tutto per metterli al sicuro. Fino alla Grande Guer¬ra l’aliquota sul reddito non superava in occidente l’8 per cento; oggi è dappertut¬to oltre il 40 per cento. E’ nostro diritto ri¬prenderci quel terzo del nostro patrimonio che lo Stato ha incamerato con la forza nel corso dell’ultimo secolo.
Meno soldi allo Stato significa abbatte re la mostruosa burocrazia istituzionale e politica che ci soffoca e ci impedisce di la¬vorare. Meno soldi allo Stato significa che lo Stato dovrà privatizzare, cioè restitui¬re alla libertà di scelta dei cittadini, set¬tori pubblici oggi del tutto anacronistici, come la radiotelevisione, la Sanità e l’I¬struzione. Meno soldi allo Stato significa che la pubblica amministrazione dovrà drasticamente dimagrire perché non ci sarà di che pagare gli stipendi; di conse¬guenza, non dovendosi più giustificare l’esistenza di un esercito sterminato di fun¬zionari incaricato di ostacolarci la vita, diminuiranno sensibilmente anche le leggi, i regolamenti e le circolari. Meno sol¬di allo Stato significa, in generale, che lo Stato si occuperà sempre meno di noi, e che ogni singolo e ogni comunità potran¬no scegliere liberamente sul mercato i servizi e le opportunità che preferiscono.
Con meno tasse e meno vincoli, in un ambiente privo della mastodontica buro¬crazia politi¬co stata¬le, dove le per¬sone, le merci e i capitali circolano libera¬mente, la prosperità e il benessere sono alla por¬tata di chiunque abbia voglia di pro¬vare a raggiungerli. Fer¬mo restando il diritto di ciascu¬no a scegliere la propria strada alla feli¬cità.
La crisi aiuta a disfare l’Italia perché colpisce al cuore lo Stato sociale assisten¬ziale, di cui mette a nudo il carattere in¬trinsecamente truffaldino. A far cadere le Borse e a far aumenta¬re lo spread non so¬no i fantomatici “speculatori” evoca¬ti dalla propaganda politico-burocra¬tica, ma i cit¬tadini ri¬spar¬miatori che metto¬no al ri¬paro i propri soldi. Il cuore della crisi è tanto sem¬plice quanto definitivo: il debito pubblico, che ha finanziato ne¬gli anni un welfare sempre più inefficien¬te e sempre più spendaccione, consenten¬do così a una classe politica parassitaria ai comprare ogni volta ilconsenso degli elettori, ha superato il livello di guardia e sta implodendo sull’economia del mon¬do.
Per questo la crisi è epocale, e proba¬bilmente irreversibile. Lo Stato sociale — cioè lo Stato che prende i soldi dalle ta¬sche dei cittadini per imporre loro una se ne di servizi non richiesti, che re-distri¬buisce la ricchezza a propria insindacabi¬le discrezione, e che interviene sistematicamente nell’economia — è la peggior in¬venzione del Novecento, ed è il degno fi¬glio naturale della peggior invenzione dell’Ottocento, il nazionalismo. Fascismo, comunismo, New Deal, nazionalsociali¬smo, socialdemocrazia, cattolicesimo de¬mocratico e sociale sono altrettante declinazioni (certo non tutte uguali) dello stesso principio ipertrofico, dirigista e impiccione dello Stato.
Ma qualsiasi economia alterata dall’in¬tervento pubblico è destinata prima o poi implodere e a trascinare con sé il sistema politico di cui è espressione E’ successo con il socialismo reale, che è crollato per un fallimento economico (quello politico era già evidente da mezzo secolo); sta succedendo con il socialismo occiden¬tale, finalmente prossimo alla bancarotta. Il mondo del futuro può dipendere an¬che da noi. Il crollo dello statalismo democratico sotto il peso di un debito ab¬norme s’accompagna non per caso alla frantumazione politica e istituzionale. Anche qui vale il precedente dell’Est. Do¬ve c’era l’URSS, oggi ci sono una dozzina di paesi; la guerra “civile” in Iugoslavia è fi¬nita quando finalmente ogni comunità ha potuto secedere dalla Serbia; la Cecoslo¬vacchia è stata sciolta. Con il crollo dello statalismo democratico, nulla potrà impe¬dire alla Catalogna o alla Baviera, alla Lombardia o al Tirolo di proclamare l’in¬dipendenza. Le nazioni non esistono: so¬no per metà una teoria politica fra le tante, e per l’altra metà un accordo fra le ca¬se regnanti di due secoli fa. Le nazioni non esistono: in natura esistono le perso¬ne, le comunità che si formano e si autogovernano liberamente, e il grande mon¬do. Non abbiamo bisogno di altro per vivere liberi.
L’Italia, per la sua gloriosa tradizione di frammentazione politica, è nei fatti all’avanguardia del processo di dissoluzio¬ne degli Stati nazionali assistenziali. La possibilità che il default del paese, oltre a travolgere una classe politica parassitaria e un apparato burocratico assistenziale impiccione, inefficace e costosissimo, fac¬cia anche esplodere l’artificiosa unità “nazionale” che ci è stata imposta centocinquanta anni or sono dal Re di Sardegna, restituendo così agli italiani le loro li¬bertà naturali, è oggi una possibilità più concreta. Disfare l’Italia sta diventando qualcosa di più di una speranza.
Fabrizio Rondolino
[fonte: www.ilfoglio.it]
E' ora di disfare l'Italia
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