Due sorprese nel giro di trenta giorni. Dopo essersi ricandidato a riprendersi il posto di presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin già rende noto al suo popolo e al mondo intero quale sarà il grandioso progetto che egli promuoverà subito dopo la vittoria elettorale di marzo, data da tutti per sicura: la ricostituzione, con progressivo e parziale allargamento, di una parte dello spazio geografico che fino al 1991 si chiamava Unione Sovietica. Lo annuncia lo stesso Putin, in attesa di spiccare il salto dal governo alla terza presidenza, firmando nelle «Izvestia» un articolo dal linguaggio morbido, invitante, non allarmante, in cui i termini economicisti del progetto attutiscono accortamente quelli di significato più politico. Eccone il passo essenziale: «Proponiamo il modello di una potente unione sovrannazionale, in grado di diventare uno dei poli del mondo moderno e di svolgere un ruolo di efficace legame tra l’Europa e la dinamica regione Asia-Pacifico».
Non si capisce bene di quale legame con quale Europa Putin parli con un piglio che risente già d’autorevolezza presidenziale. L’Europa comunitaria del Reno e del Danubio oppure l’Europa ex sovietica del Volga e degli Urali? Propenderei per la seconda versione eurasiatica. Infatti il modello geopolitico e geoeconomico, illustrato da Putin, esclude l’europea e riluttante Ucraina, per tacere dell’ostile Georgia e delle irrecuperabili repubbliche baltiche, basandosi precipuamente sull’unione doganale in atto tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un bulbo di schietta e quasi leggendaria Eurasia.
Dal primo gennaio 2012 la triade, che formava suppergiù un terzo dell’Unione Sovietica, costituirà, rispetto ai 27 Paesi e ai 500 milioni dell’Unione Europea, un mercato comune di 165 milioni di «consumatori» (non più «proletari») definiti così secondo una vecchia terminologia fiorita a Belgrado e a Zagabria ai tempi dell’eclettico riformismo titoista.
Accentuerà la componente non europea e non slava il probabile ingresso nell’unione putiniana, che già accoglie il semistalinista bielorusso Lukašenko, di due minori democrature islamiche dell’Asia centrale, Kirghizistan e Tagikistan.
Questa sorta di riviviscenza o di «copia e incolla», con espedienti e finzioni interdoganali, di uno spazio storico dissolto dai crolli comunisti suggerisce il dubbio che il premier Putin stia cercando di surrogare l’Unione Sovietica pesante d’una volta con una sorta di «Urss leggera»: non più basata sull’ideologia delle tonnellate, sul mito e l’incubo dell’acciaio, bensì sugli oleodotti energetici, gli investimenti stranieri, la mobilità del lavoro, il benessere anziché la miseria e spesso la quasi schiavitù degli operai. Sarà.
Ma, al tempo stesso, non va dimenticato che l’enigmatico Putin definì il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Quell’accento così drammatico sulla «catastrofe geopolitica» può aiutarci a comprendere, fino ad un certo punto, i suoi sforzi mirati a ricomporre oggi pezzo per pezzo, con la mezza finzione di un mercato o bazar comune, un’entità che almeno in parte possa evocare gli spazi «geopolitici» dell’impero perduto.
Del resto, si vede ormai benissimo che l’esercizio diuturno della finzione è stato e resta più che mai uno dei motori vitali dell’ambiziosa quanto straordinaria carriera politica di Putin. Fino a ieri molti credevano che il presidente Dmitry Medvedev, dimissionario in anticipo sui tempi legislativi, non fosse un fantoccio nelle mani del suo mèntore e padrone. Lo si dipingeva come un liberale in salita, uomo di riforme, in procinto di emanciparsi dal suo principe elettore e, in certi casi, perfino di opporglisi. Solo chiacchiere.
Il controllo sulla stampa e sulle televisioni si è assolutizzato; il partito putiniano «Russia Unita» è divenuto di fatto un partito unico circondato e sostenuto da simulacri pseudodemocratici; contemporaneamente la popolarità del presidente reale, che fingeva di fare il primo ministro, è cresciuta a balzi esponenziali. Oggi il volto sorridente e rassicurante del presidente Medvedev ci appare simile alla faccia intensamente dipinta di una matrioska che al proprio interno conteneva da sempre, fin dall’inizio, dal 2008, la grinta gelida dello zar autentico di tutte le Russie.
Il gioco delle parti, lo scambio fisiologico delle consegne tra burattinaio e burattino, è affare concluso da tempo e da tempo accettato dalla maggioranza dei «consumatori» votanti. Al terzo mandato al Cremlino di Putin potrà seguire il quarto e la durata prolungarsi fino al 2024. Praticamente presidente a vita. Una simile longevità politica ricorda solo quella di Stalin. Così come il rimpianto, più o meno segreto, della grandezza di Stalin sembra riflettersi in chiave minore nell’«Urss leggera» che Putin sta pianificando e già realizzando da Minsk al cuore dell’Asia.
Putin sogna di resuscitare l'Urss - LASTAMPA.it