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Discussione: Gabriel Garcia Moreno

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    Predefinito Gabriel Garcia Moreno

    Posto qui di seguito la Breve biografia di Gabriel Garcia Moreno di J.M. Villefranche che trovo nel sito dell'abbé Belmont. AMDG

    (Faccio precedere lo scritto dalle informazioni che si trovano su wikipedia).

  2. #2
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    Predefinito Riferimento: Gabriel Garcia Moreno

    Gabriel García Moreno
    Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


    Gabriel García MorenoGabriel Gregorio García y Moreno y Morán de Buitrón (24 dicembre 1821 – 6 agosto 1875) fu uno statista ecuadoriano, eletto due volte presidente dell'Ecuador (1859-1865 e 1869-1875). Fu assassinato il 6 agosto 1875, durante il suo secondo mandato, per mano dei sicari della Massoneria. Crivellato di colpi, al loro grido: «Muori, carnefice della libertà!», egli ebbe ancora la forza di rispondere: «Dios no muere!» (Dio non muore!).[1] È ricordato per il suo conservatorismo, la sua prospettiva di fede solidamente allineata con la tradizione della Chiesa cattolica e per la sua rivalità con il liberale Eloy Alfaro. Sotto la sua amministrazione, l'Ecuador divenne il leader nel campo della scienza e dell'educazione superiore nell'ambito dell'America Latina.


    Biografia [modifica]
    Gabriel Garcia Moreno nacque nel 1821, figlio di Gabriel García y Gómez, un mercante spagnolo, e di María de las Mercedes Moreno y Morán de Buitrón, discendente di una facoltosa famiglia aristocratica spagnola di Guayaquil. Fra i suoi parenti si annoverano José de la Cruz Ignacio Moreno y Maisonave, arcivescovo di Toledo e cardinale, primate di Spagna e suo fratello Teodoro Moreno y Maisonave, conte di Moreno e giudice della Corte Suprema spagnola.

    Garcia Moreno studiò teologia e giurisprudenza all'università di Quito. Pensano di avere una vocazione per il sacerdozio, ricevette gli ordini minori e la tonsura, ma i suoi amici più stretti e i suoi stessi interessi lo convinsero a intraprendere una carriera mondana. Laureatosi nel 1844, esercitò l'avvocatura e fu anche giornalista (opponendosi al governo liberale in carica). Nel 1849 intraprese un viaggoi di due anni in Europa per constatare in prima persona gli effetti della rivoluzione del 1848. Compì poi un secondo viaggio fra il 1854 e il 1856. Louis Veulliot descrisse l'importanza di questi viaggi per Garcia Moreno:

    « In una terra straniera, solitario e sconosciuto, García Moreno si preparava a governare. Apprese tutto ciò che gli era necessario per governare una nazione, originariamente cristiana ma ora rapidamente decadente verso una condizione quasi selvaggia...Parigi, che è ad un tempo città cristiana e pagana, è precisamente il luogo dove poté meglio imparare la lezione di cui aveva bisogno, giacché i due opposti elementi si affrontano colà in un perpetuo conflitto. Parigi è una scuola per preti e martiri, è anche una manifattura di anticristi e assassini. Il futuro presidente dell'Ecuador fissò il suo sguardo sul bene e sul male, e quando ripartì per la sua patria lontana, la sua scelta era matura. »


    Fece ritorno in patria nel 1856, dove trovò il paese in pugno agli anticlericali; fu eletto senatore e aderì all'opposizione. Sebbene fosse un monarchico (avrebbe voluto un principe spagnolo sul trono) s'inchinò alle circostanze e acconsentì a divenire presidente dopo una guerra civile l'anno successivo al suo ritorno, tanto grande era la fama del suo lavoro al Senato. Nel 1861 fu confermato alle elezioni per un mandato quadriennale. Il suo successore fu deposto dai liberali nel 1867. García Moreno fondò il Partito conservatore nel 1869. In quell'anno fu rieletto e ancora fu eletto nel 1875. Durante il suo secondo mandato, favorì il progresso della nazione, mantenendola al contempo in stretto legame con il Cattolicesimo.

    Personalmente devoto (frequentava la Messa e visitava il Santissimo Sacramento quotidianamente; si comunicava tutte le domeniche, pratiche abbastanza rare prima di papa Pio X), riteneva che il primo dovere dello Stato fosse quello di promuovere e sostenere il Cattolicesimo. La Chiesa e lo Stato erano uniti, ma secondo i termini del nuovo concordato, il diritto dello Stato di presentare i vescovi ereditato dal "Patronato reale" spagnolo fu abolito. La Costituzione del 1869 fece del Cattolicesimo la religione dello Stato e richiese che sia i candidati sia gli elettori fossero cattolici. Fu l'unico Capo di stato del mondo a protestare per la soppressione dello Stato Pontificio e due anni dopo consacrò l'Ecuador al Sacro Cuore di Gesù. Uno dei suoi biografi scrive che dopo questa consacrazione pubblica, fu condannato a morte dalla Massoneria tedesca.[2]

    Parte dell'animosità verso García Moreno fu generata dalla sua vicinanza alla Compagnia di Gesù. Durante un periodo di esilio, aiutò un gruppo di gesuiti a trovare rifugio in Ecuador. Quest'azione e molte altre simili lo resero inviso ai partiti anticattolici dell'Ecuador, specialmente alla Massoneria, che lo considerò un nemico inveterato.

    Mentre la politica del suo tempo era estremamente contorta e poco chiara, il fatto di essere eletto per un secondo mandato indica chiaramente il suo ascendente sul popolo. Il suo vigoroso sostegno all'alfabetizzazione universale e all'istruzione basata sul modello francese fu tenace e controverso.

    La sua rielezione nel 1875, fu considerata un certificato di morte. Egli scrisse immediatamente a papa Pio IX per richiedere la sua benedizione prima dell'inizio del suo terzo mandato il 30 agosto:

    « Vorrei ricevere la Vostra benedizione prima di quel giorno, perché io abbia la forza e la luce di cui ho tanto bisogno per essere fino alla fine un figlio fedele del nostro Redentore e un servo leale e obbediente del Suo Infallibile Vicario. Ora che le Logge Massoniche dei paesi vicini, istigate dalla Germania, stanno vomitando contro di me ogni sorta di atroce insulto e di orribile calunnia, ora che le Logge stanno segretamente cospirando per il mio assassinio, ho bisogno più che mai della divina protezione perché possa vivere e morire in difesa della nostra santa religione e dell'amata repubblica che sono chiamato ancora una volta a governare »


    Il pronostico di García Moreno si avverò; fu assassinato all'uscita della Cattedrale di Quito, colpito da coltelli e revolver. Le sue ultime parole furono: "¡Dios no muere!" ("Dio non muore!").

    Il 5 agosto,poco prima del suo assassinio, un sacerdote gli aveva fatto visita e l'aveva avvisato, "Siete stato avvisato che la Vostra morte è stata decretata dai massoni; ma non vi è stato detto quando. Ho appena sentito che gli assassini stanno mettendo in opera le loro trame. Per amor di Dio, prendete le Vostre precauzioni!" [3] García Moreno rispose che aveva già ricevuto simili avvertimenti e dopo calma riflessione concluse che l'unica precauzione da prendere era prepararsi ad apparire al cospetto di Dio. [4]

    «Pare che fu assassinato da membri di una società segreta» osservava una rivista contemporanea.[5]

    Gabriel García Moreno ricevette l'estrema Unzione appena prima di morire e fra i suoi effetti personali aveva una copia dell'Imitazione di Cristo. Papa Pio IX dichiarò che Gabriel García Moreno «morì vittima della Fede e della Carità cristiana per il suo amato paese». Dopo l'assassinio, la sua memoria ha continuato ad essere celebrata in Ecuador, sia come grande patriota ed educatore sia come amico della Chiesa.


    Note [modifica]
    ^ Gabriel García Moreno in Catholic Encyclopedia. URL consultato il 02-18-2007.
    ^ Maxwell-Scott, Mary Monica, Gabriel Garcia Moreno, Regenerator of Ecuador, Londra 1914, p. 152
    ^ Berthe, P. Augustine, Garcia Moreno, President of Ecuador, 1821-1875 p. 297 ,1889 Burns and Oates
    ^ Berthe, P. Augustine, "Garcia Moreno, President of Ecuador, 1821-1875" p. 297-298 ,1889 Burns and Oates
    ^ Burke, Edmund Annual Register: A Review of Public Events at Home and Abroad, for the year 1875 p.323 1876 Rivingtons

    Link:http://it.wikipedia.org/wiki/Gabriel_Garc%C3%ADa_Moreno

  3. #3
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    Predefinito Riferimento: Gabriel Garcia Moreno

    J.M. Villefranche
    Brève biographie de Gabriel García Moreno
    extraite de Dix grands chrétiens du siècle publiée en 1892 chez Bloud&Barral à Paris

    Un géant debout au milieu d’un torrent, portant l’enfant Jésus sur une épaule et résistant seul aux flots impétueux qui entraînent tout un pays tel est, dans les peintures du Moyen-Âge, saintChristophe, patron du grand chrétien qui découvrit l’Amérique; tel pourra être également, dans l’iconographie de l’avenir, l’Américain García Moreno, le chevalier du droit, probablement le plus énergique et à coup sûr le plus extraordinaire de nos contemporains. Gabriel García Moreno naquit à Guayaquil le 24 décembre 1821, six mois avant la chute du gouvernement espagnol et la proclamation de la république dans cette lointaine colonie des bords du Pacifique. Son père, Don Gabriel García Gómez, émigré de Villaverde, dans la Nouvelle-Castille, resta fidèle au gouvernement déchu et préféra au parjure les confiscations et la pauvreté. Sa mère, dont il prit le nom, suivant un usage espagnol, à la place du deuxième nom de son père,s’appelait doña Mercedes Moreno; elle était fille d’un alcade de Guayaquil et tante de l’illustre cardinal Moreno, archevêque de Tolède. Les deux époux étaient aussi fidèles à leur Dieu qu’à leur roi; ils eurent huit enfants qu’ils élevèrent dans la pratique de tous les devoirs, y compris l’amour de leur pays lorsque l’Espagne eutreconnu, par traité, l’indépendance de l’Équateur. Gabriel fut le huitième. Il n’annonça nullement, dans sa première enfance, ce qu’il devait être un jour. Faible et chétifde corps, craintif et pusillanime d’esprit, les ténèbres, les tempêtes, le bruit du canon, tout ce qu’il devait braver plus tard avec tant d’aisance, lui causait des frayeurs mortelles. Sa mère triompha de ces terreurs par le raisonnement, et son père par des moyens plus topiques encore. Lorsqu’un de ces orages, si fréquents dans les Cordillères, ébranlait les fondements de la maison, il enfermaitl’enfant sur un balcon et le laissait seul s’accoutumer aux grondements et aux éclairs de la foudre.Une nuit, un homme était mort dans une chambre isolée ; le cadavre se trouvait seul, quatre cierges l’éclairaient de leur lueur vacillante et silencieuse; García Gómez profita de cettecirconstance; il commanda au petit Gabriel d’aller allumer une bougie à ces terribles cierges, etl’enfant obéit, d’un pas chancelant et d’une main tremblante, mais il obéit. La pauvreté, qui s’était abattue peu à peu sur la famille, s’aggrava d’un malheur plus grand: García Gómez mourut. Qu’allait devenir le petit Gabriel? Ses frères et ses sœurs plus âgés étaientélevés déjà et en état de gagner leur vie; mais lui, pourrait-il seulement faire des études quelconques? Sa pieuse mère ne désespéra de rien. Après lui avoir elle-même enseigné à lire et à écrire, elle sollicita l’aide d’un religieux de Notre-Dame de la Merci, le P.Betancourt; celui-ci se chargea des premières leçons de latin et de sciences; il obtint même, à son tour, de deux de ses sœurs domiciliées à Quito, qu’elles voulussent bien donner asile à un jeune étudiant qui, leur écrivit-il, ferait un jour honneur à tous ceux qui s’occupaient de lui. Les deux bonnes dames,malgré leur peu de ressources, acceptèrent cette œuvre de charité, et la prophétie du P.Betancourt se réalisa surabondamment. L’université de Quito, une des premières fondées par les Espagnols, jouissait alors d’une grande réputation dans toute l’Amérique méridionale. Le jeune Gabriel y paya d’abord sa pension par les services qu’il y rendit. Chargé de surveiller ses camarades dans les heures d’étude, il eut bien vite acquis sur eux un grand ascendant, fruit de sa pénétrante et inflexible vigilance, àlaquelle nul délit n’échappait, non moins que de son étonnante mémoire. Chaque matin et chaquesoir il faisait, sans registre et par ordre alphabétique, l’appel de trois cents condisciples; il savait même par cœur le nombre des points, bons ou mauvais, que chacun avait mérités dans la durée de la semaine. Il obtint ensuite une bourse complète, mais à la condition de professer la grammaire,tout en suivant les cours de philosophie. Il passa quatre ans à l’université et révéla dès lors l’étendue extraordinaire de ses aptitudes, non moins que la puissance de sa volonté. Ne sachant encore à quelle branche de l’enseignement se fixer, il s’attacha à toutes et devint un spécialiste dans chacune. Les mathématiques et la chimie finirent par obtenir ses prédilections; mais il ne négligea pour elles ni la philosophie, ni même la théologie, encore moins l’art d’écrire et celui de parler en publie. Il devint à la fois poète, orateur, polémiste, apprit, avec l’espagnol et le latin, le français, l’anglais et l’italien, qu’il parlait couramment, et s’il se reposait avec quelques amis, c’était en dissertant avec eux sur un pointd’histoire ou de littérature. La nuit, raconte le Père Berthe, quand la ville entière était endormie, il veillait à la clarté d’une pauvre lampe, courbé sur ses livres. Vaincu enfin par la fatigue, il enlevaitde son lit matelas et couvertures et se couchait tout habillé sur les planches, pour ne pas s’exposer à prolonger son sommeil au-delà du temps strictement nécessaire. À trois heures du matin, il étaitdebout. Si ses paupières se refermaient malgré lui, il se lavait le visage ou se mettait les pieds dans l’eau froide et passait ainsi de longues heures. Ce sont là de beaux excès, mais des excès, et nous sommes loin d’en conseiller l’imitation, car tout excès se paie. García Moreno contracta dans les siens des névroses, des maux d’yeux et d’autres infirmités graves dont il ne se débarrassa plus tard que par des traitements douloureux et par des périodes de suspension, plus douloureuses encore,de sa dévorante activité. Comme, dans une république, et surtout dans les républiques hispano-américaines siorageuses, un homme de cabinet n’est que la moitié d’un homme s’il ne sait pas, au besoin,descendre dans la rue pour y protéger son droit, García Moreno ne négligea point les exercices du corps. Son tempérament de fer s’y prêtait admirablement. Il devint très habile tireur et mania l’épée et la lance comme un maître d’escrime. Non content d’avoir l’adresse et la vigueur d’un soldat, il visa, par l’étude de l’art militaire et bientôt par l’observation et la comparaison de la tactique dans les différents pays, à acquérir les qualités d’un chef. Là encore la promptitude de son coup d’œil le servit avec une facilité et une supériorité à peine croyables; si bien que le plus grand orateur et le premier homme d’État de l’Équateur en fut aussi le meilleur lancier, le plus infatigable cavalier – ce qui n’est pas peu dire – et le meilleur général; bref, le citoyen le plus complet qui se pût imaginer. On ne lui reprocha jamais qu’une chose: l’excès de son courage, souvent poussé jusqu’à la témérité. À vingt ans, lorsque s’achevèrent ses études, il n’avait pas encore l’auréole politique et militaire,mais c’était un jeune homme accompli: grand, le front large, l’œil noir, perçant et limpide, et dans tous ses gestes, dans toutes ses paroles, un air de franchise qui lui gagnait tous les cœurs. Les salons de Quito s’ouvrirent devant lui, les mères qui avaient des filles à marier le distinguèrent, malgré sa pauvreté, et plus d’une coquetterie innocente parut vouloir disputer ce beau savant à ce qui avait été jusqu’alors son unique passion: les livres. Lui-même s’y laissa prendre un instant. Invité partout, brillant causeur, le sauvage s’aperçut un beau matin en rentrant chez lui, que la danse était encore plus amusante que l’escrime ou l’algèbre; il regretta d’avoir moins cultivé le fandango que les thèses de philosophie; bref il se sentit mollir. Ce ne fut qu’un éclair. «La vie esttrop courte pour en perdre un seul jour en futilités!» s’écria-t-il se jetant au pied de son crucifix,car il était profondément pieux, et ce n’était ni l’ambition ni la vanité qui le dévouaient ainsi corps et âme à la poursuite d’un idéal si fort au-dessus de son âge. Il se releva, prit des ciseaux et se rasa la tête comme un moine. Ensuite, jetant un regard triomphant du côté de ses livres: «Ô mes livres, ajouta-t-il, êtes-vous contents de moi? Désormais je vous reste fidèle, bon gré, mal gré, au moins pour six semaines!» Vers la même époque, il se crut appelé à l’état ecclésiastique, reçut la tonsure et les ordres mineurs et alla même jusqu’à faire emplette d’une soutane qu’il serra précieusement dans une armoire en attendant de recevoir le sous-diaconat, qui l’aurait engagé définitivement et pour toujours. Mais plusieurs de ses amis le conjurèrent de ne rien précipiter. Sans doute il avait la piété, la régularité de vie et la science d’un prêtre; mais ne possédait-il pas aussi, à un degré nonmoins remarquable, les qualités d’un laïque éminent, et la république n’avait-elle pas au moins autant besoin de bons chefs de famille, d’hommes politiques honnêtes et d’officiers fidèles? Lejeune Gabriel attendit, tout en poursuivant ses éludes dans toutes les directions, cueillit en passantle diplôme de docteur en droit et se fit inscrire au barreau; il atteignait sa vingt-troisième année. Mais cette carrière nouvelle ne devait pas non plus le retenir bien longtemps. Une affaire malheureuse, dans laquelle il reconnut s’être trompé en plaidant pour un ecclésiastique indigne contre l’archevêque de Quito, le dégoûta d’une profession où sa conscience délicate ne pouvait se flatter de n’avoir jamais à soutenir que des causes justes. Un instinct secret, disons mieux, l’appel de la divine Providence le poussait vers une carrière complexe, mais plus militante encore que celle de l’avocat ou du prêtre. Il était né pour être l’épée du droit et celle de l’Évangile, le grand justicier qui rétablirait l’ordre dans son pays en même temps que le protecteur de l’Église et, selon la belle expression de l’empereur Constantin, l’évêque du dehors. Mentionnons ici un événement intime, arrivé en 1846. Voyageant avec un ami dans les Cordillères, il le réveilla la nuit, dans une hôtellerie, pour lui dire: «Tu crois avoir pour compagnon de route un célibataire? — Mais oui, un original du nom de García Moreno, quidevrait bien me laisser dormir. — Eh bien, tu es dans l’erreur depuis deux heures déjà. —Comment cela? Et quelle est cette plaisanterie? Je n’aperçois ici ni noce ni fiancée; laisse-moi dormir! — Je te dis la vérité pure, reprit García Moreno; j’ai laissé ma procuration en quittant la ville, et voici deux heures que le contrat est signé; retournons à Quito.» Il avait conduit cette affaire comme il conduisait toutes les affaires graves, dans le secret le plus absolu; comme ce général qui disait: «Si mon bonnet de nuit connaissait l’endroit où je me propose de camper demain, je brûlerais mon bonnet de nuit.» Il épousait la señorita Rosa Ascásubi, sœur de deux de ses amis, Manuel et Roberto Ascásubi,qu’enfiévrait la passion de la patrie, et qui furent plus d’une fois ses utiles auxiliaires. Leur jeune sœur était charmante; néanmoins l’idylle de l’entrée en ménage paraît avoir été courte: ce corps de fer, cette âme trempée si virilement pour l’action, n’avaient que peu de temps à donner auxlangueurs énervantes, même les plus légitimes. Un de ses beaux-frères lui conseillait d’écrire l’histoire de l’Équateur. — «Non, répondit-il, il vaut mieux la faire, car elle a été trop triste jusqu’à ce jour.» Mais avant d’entrer avec lui dans cette période nouvelle qu’il sut rendre si merveilleuse, un coup d’œil sur le passé politique et social du pays devient nécessaire. Depuis qu’il avait secoué le joug de la mère patrie, l’Équateur – comme du reste la plupart des anciennes colonies de l’Espagne – n’avait pas cessé de trébucher de révolutions en révolutions. Compris d’abord par Bolivar dans la grande république colombienne, puis annexé au Pérou, il avait reconquis en 1830 sa personnalité et son indépendance, mais non sa tranquillité. Il usait, en moyenne, une constitution tous les deux ans. Le général Florès, Vénézuélien, un des plus habiles lieutenants de Bolivar, mais aussi un des plus dépourvus de scrupules, avait fini par s’y tailler, sous le titre de président de la république, une sorte d’autocratie qu’il exerçait au profit d’une soldatesque effrénée, étrangère comme lui et qu’on avait commis l’imprudence de naturaliser. Ces vétérans de l’indépendance, vieux soudards sans familles, sans patrie, avaient pris l’habitude de rôder de province en province, de rançonner les habitants, de recouvrer sur eux la solde que le gouvernement ne leur payait presque jamais. L’agriculture et le commerce étaient aux abois, le trésor à sec, tous les emplois au pillage. Quant à Florès, il menait joyeuse vie et se croyait inattaquable au milieu de ses prétoriens ou Tauras.Une insurrection éclata néanmoins, le 6 mars 1846, et García Moreno, impatient de rendre l’Équateur aux Équatoriens, ne contribua pas peu à en assurer le succès. Florès expédiait unconvoi d’armes au gouverneur de la grande province à demi sauvage qui se trouve à l’orient des Cordillères et qu’en appelle le Napo. Une troupe d’Indiens escortait ce transport. García Morenoen fut informé; il devança la caravane et s’embusqua dans les montagnes avec quelques jeunesgens. Bientôt il vit arriver les naïfs indigènes, qui firent halte pour le repas. García s’aboucha avec eux et se mit à leur raconter des histoires, dont ils sont très friands, jusqu’au moment où, sous l’influence de la fatigue et de la chicha (bière du pays), ils s’endormirent d’un profond sommeil. Quand ils s’éveillèrent, ils furent tout surpris de ne plus retrouver ni leur joyeux conteur ni leur cargaison de fusils. Après deux mois de lutte, Florès consentit à s’embarquer pour Panama, à la condition qu’on lui maintiendrait son titre de général en chef, ses propriétés et une forte pension. García Moreno, un des promoteurs de cet arrangement, reçut alors de ses concitoyens une preuve de confiance bien rare pour un jeune homme de vingt-quatre ans. On le chargea de faire rentrer les impôts en retard, et il y mit tant de fermeté, d’esprit de justice et de désintéressement personnel, que cette mission délicate fut menée à bien à la satisfaction de tous, mais de personne plus que du ministre des finances. On voulut lui faire accepter une récompense nationale; il la refusa: «L’estime de mes concitoyens est la seule récompense que je convoite, dit-il; ajoutée à la satisfaction de ma propre conscience, elle vaut pour moi toutes les distinctions et tout l’or du monde.» Les successeurs de Florès à la présidence ne réalisèrent que fort peu les espérances qu’avait fait naître le départ du despote. L’un se montra incapable, l’autre vénal et rapace, un autre, leprésident Manuel Ascásubi, beau-frère de García Moreno, ne fit que passer; un autre, le général Roca, tomba dans les mêmes excès que Florès. Ce dernier, qui avait laissé derrière lui de nombreux partisans, surtout parmi les fonctionnaires et les Tauras, dont il toléra toutes les déprédations, jugea le moment venu de ressaisir le pouvoir. Il prétexta le non-paiement de sa pension, sollicita des secours de l’Espagne, promit de rétablir à l’Équateur une royauté au profil d’un fils de la reine Marie-Christine, acheta quatre vaisseaux de guerre et enrôla des hommes en Irlande et en Espagne. Le danger était pressant ; García Moreno, pour le conjurer, se substitua en quelque sorte à ungouvernement complice ou trop mou. Il écrivait, dans un journal, ces paroles qui décelaient l’implacable justicier de l’avenir: «Si nous étions le gouvernement, nous mettrions l’océan entre les janissaires et nous et, en cas de récidive, l’éternité.» Ensuite, tandis que, soulevées par ses violentes philippiques, les populations se préparaient à la résistance, il excitait les républiques voisines à se mettre également en garde et à s’unir à celle de l’Équateur. Son appel fut entendu; le Pérou et la Nouvelle-Grenade négocièrent une alliance défensive et proposèrent de suspendre toute relation commerciale avec l’Espagne et, au besoin, avec l’Angleterre. García Moreno put écrire alors, avec son emphase juvénile, mais avec une légitime confiance: «Florès arrive avec ses flibustiers. Partira-t-il des côtes d’Espagne ou des côtes d’Angleterre? on l’ignore; mais enfin, dans quelques mois, il apparaîtra sur nos rivages. Qu’il vienne donc, noustâcherons de le bien recevoir, et de lui préparer une tombe assez profonde pour l’ensevelir, lui et ses crimes. Qu’il vienne, nous irons à sa rencontre pour exterminer la race des traîtres! Qu’il vienne, nous argumenterons contre ces bandits avec des raisons subtiles comme la lance et solides comme le plomb. Qu’il vienne, et de toutes les poitrines sortira ce cri vainqueur: mort aux envahisseurs et vive l’Amérique!» Mais l’égoïsme mercantile fit encore plus, dans cette circonstance, que le patriotisme et l’équité. Informés que les menaces d’interruption de trafic étaient sérieuses de la part des républiques du Pacifique, les négociants anglais signèrent un mémoire à lord Palmerton pour lui représenter que ces républiques achetaient presque toutes leurs marchandises chez eux, qu’elles avaient contracté de nombreux emprunts à la Bourse de Londres, que, par conséquent, l’expédition projetée par Florès serait un désastre pour les sujets de Sa Majesté Britannique. Lord Palmer ton comprit et mit l’embargo sur les vaisseaux prêts à partir; Florès se vit donc réduit à licencier les trois ou quatre mille hommes qu’il avait embauchés déjà. Il ajourna ses projets, et, délivrés du péril étranger, les patriotes équatoriens purent se consacrer aux nécessités de l’intérieur. Elles dépassaient tout ce qu’on peut voir ou imaginer en Europe; García Moreno, pour les dévoiler, se fit journaliste, et, soit en prose, soit en vers, déversa durant plusieurs années, dans le Fouet, puis dans le Vengeur et enfin dans le Diable, des trésors d’ironie fine ou amère, plus souvent amère, et de vertueuse indignation. Son audace et sa ténacité nous rappellent, à nous, Français, laterrible guerre au couteau par laquelle, vingt ans plus tard, un autre pamphlétaire secoua,ridiculisa et finit par renverser – grâce, il est vrai, au concours de l’invasion étrangère – un pouvoir qui semblait inébranlable. Mais on ne saurait comparer García Moreno à Rochefort, le rire honnête et passionné au dilettantisme satirique, sans foi ni sincérité; pas plus qu’il ne fautcomparer la verve castillane, qui ne se paie pas uniquement de mots, mais veut des raisonnements,à ces feux d’artifice de gauloiserie si bien nommés «fin de siècle», dont le public parisien s’amuse lors même qu’il n’aperçoit rien derrière la pluie d’étincelles fugitives. Pour se reposer des querelles politiques, le jeune polémiste quitta l’Équateur à la fin de 1849 et fit, dans la vieille Europe, une excursion de six mois. Il fut vivement frappé, en France, du retour des esprits vers les idées religieuses, de la terreur qu’inspiraient les menaces du socialisme à de vieux libéraux impénitents, tels que M.Thiers, et de la facilité avec laquelle un homme résolu arrivait à museler la Révolution. Comme tant d’autres, il admira l’esprit de suite et l’intrépiditéfroide dont le jeune président de la république française paraissait donner l’exemple, et il reprit la mer en demandant au Ciel, pour l’Équateur, un chef semblable, mais seulement, pensait-il, un peu moins ambitieux. Une rencontre qu’il fit à son retour lui fut l’occasion de devenir lui-même ce chef. À Panama, au moment de s’embarquer pour Guayaquil, il aperçut un certain nombre de religieux, erranttristement sur le port, et cherchant un navire pour l’Angleterre. Il les aborda. C’étaient des Jésuites que les francs-maçons de la Nouvelle-Grenade venaient d’expulser, sans autre raison que la haine de cette Église catholique dont la Compagnie de Jésus est en tous lieux l’avant-garde. Appelés six ans auparavant par le parti conservateur alors au pouvoir, leur crime était d’avoir fondé plusieurs collèges dans les villes et un centre d’apostolat dans la région encore sauvage du pays. Naturellement les radicaux avaient dénoncé le grand péril que courait la liberté non seulement à Bogota, mais dans toute l’Amérique; et il s’était trouvé un congrès pour chasser ignominieusement les Jésuites, après les avoir couverts de calomnies et d’outrages. À la recherche d’un sol plus hospitalier, ils allaient quitter l’Amérique, quand García Moreno leur fit uneproposition aussi simple qu’inattendue. Se demandant pourquoi l’Équateur ne profiterait pas de lastupidité de ses voisins, il offrit aux exilés un refuge à Quito, où, depuis longtemps nombre de familles désiraient leur confier l’éducation de la jeunesse. Il leur rappela qu’en différentes circonstances, des démarches, restées infructueuses faute du personnel nécessaire à la fondation d’un collège, avaient été faites à cet égard. Or, par l’injustice de leurs persécuteurs, ce personnel,longtemps cherché, était maintenant trouvé et disponible. Habitués de longue date à suivre le précepte du Maître: «Si l’on vous chasse d’une ville, allez dans une autre», les Jésuites se montrèrent tout disposés à s’embarquer pour l’Équateur. Mais leur bienveillant introducteur se chargeait-il de les y faire accepter? Les francs-maçons, tout-puissants à Guayaquil, permettraient-ils seulement qu’ils débarquassent? García Moreno répondit qu’il connaissait personnellement don Diégo Noboa, le nouveau président, esprit débonnaire et disposé par goût à favoriser le catholicisme. Sans doute, ce bon vieillard était à la merci d’Urbina, radicalfort connu, qui l’avait élevé au pouvoir pour gouverner sous son nom et le supplanter à la première occasion; mais, avec un peu d’adresse, on pouvait obtenir le placet du bienveillant Noboa, avant qu’il eût eu le temps de consulter son mauvais génie. C’est ce qui eut lieu. À peine arrivé à Guayaquil, le protecteur des Jésuites s’empressa de débarquer, courut chez Noboa, lui parla chaleureusement de la bonne rencontre qu’il venait de faire, et lui demanda l’autorisation d’installer à Quito les religieux expulsés. Ce serait un acte de sagesse en même temps que d’humanité et de justice. Noboa consentit. Mais un certain général Obando, principal auteur de l’expulsion des Jésuites de la Nouvelle-Grenade et qui les avait suivis pour être plus sûr de leur départ, se présenta à son tour, protestant contre l’hospitalité donnée à des exilés. Noboa répondit qu’il était trop tard, et que, du reste, l’Équateur n’avait pas à s’occuper de ce qui se passait dans l’intérieur de la Nouvelle-Grenade. Dès ce moment, la question des Jésuites fut à l’ordre du jour et passionna tous les esprits.Urbina, auquel Obando n’avait pas eu de peine à communiquer ses haines, accusa formellementNoboa de faiblesse et de trahison. Celui-ci, conseillé par García Moreno, saisit le congrès national. Devait-on considérer les Jésuites comme des citoyens ordinaires soumis au droitcommun, ou confirmer le décret de bannissement porté contre eux par Charles III, roi d’Espagne, au siècle précédent? Il semble que la résolution qui va être prise par le peuple équatorien soit le point culminant etdécisif de sa fortune. Si le vœu législatif se porte à droite, les destinées du pays s’y fixeront dans la vérité et la paix; si le plateau incline à gauche, c’est la Révolution qui reprend la série de ses caprices et de ses chutes et rechutes, jusqu’à épuisement final. La balance pencha du bon côté, parce qu’un homme de bien se rencontra, dont la main intelligente et lourde se posa sur le plateau. García Moreno réclama hautement, par la voix de la presse, une réhabilitation formelle etsolennelle. L’Espagne avait jadis frappé les Jésuites sans motifs, pourquoi ne pas le dire? Un décret tyrannique, en les faisant arrêter tous, partout, le même jour et à la même heure, pour être déportés sans jugement et sans exception, même les malades et les moribonds, n’avait allégué d’autre prétexte que le bon plaisir royal; pourquoi ne pas réparer ce crime d’une monarchie que le nouveau monde avait condamnée depuis et complètement répudiée? La discussion fut ardente, mais enfin la majorité, cédant aux vœux du peuple exprimés par des pétitions nombreuses, vota l’acte solennel de réparation. La foule salua le décret par des applaudissements enthousiastes. On rendit à la Compagnie de Jésus l’église qui lui avait appartenu avant la suppression; le décret portait en outre qu’elle rentrerait en possession de tous ses biens non aliénés. Le jour de la réinstallation des Pères dansl’église du Jésus, après un exil de quatre-vingt-trois ans, fut pour eux un jour de réparation triomphale. Les rues de la capitale étaient tapissées de draperies; la foule se pressait joyeuse sur leur passage. Pour la première fois depuis près d’un siècle, on revoyait à l’autel ces hommes de Dieu dont le dévouement et la science étaient connus de tous, ces héroïques missionnaires qui n’avaient pas craint de s’aventurer dans les déserts et les forêts de l’Amazone, pour y fonder d’admirables réductions, aujourd’hui anéanties. À voir l’émotion et l’enthousiasme de la foule, on eût dit que chaque famille retrouvait des amis et des pères.
    García Moreno ne s’était probablement pas fait une idée exacte de la rage intraitable des sociétés secrètes contre la célèbre compagnie. Il en eut un échantillon lorsqu’il vit le général Urbina, vaincu dans les débats du parlement, faire appel à une puissance étrangère et obtenir que la Nouvelle-Grenade dénonçât comme une injure faite à elle-même et presque comme un casus belli l’hospitalité offerte par l’Équateur à des citoyens qu’elle venait de bannir. Le faible président Noboa, effrayé de se voir traiter de floreano (partisan de Florès) et bientôt de jésuite, faillit céder à cette pression diplomatique; mais le chevaleresque champion de la liberté reprit sa plume vengeresse et publia, sous le titre de Defensa de los Jesuitas, une brochure de soixante pages qui ridiculisa les prétentions de la Nouvelle-Grenade et les fit avorter. En voici la conclusion: «Des invectives lancées de toutes parts contre la Compagnie de Jésus, vous inférez que votre gouvernement a le droit d’exiger de nous le renvoi de ceux qu’il vous a plu de renvoyer. Or nous venons de voir que vos accusations ne sortent jamais du vague de la déclamation et que si,d’aventure, vous hasardez une preuve, c’est un texte falsifié. Votre prétendu droit repose donc sur une fiction, et votre justice sur un mensonge. «Mais eussiez-vous cent fois raison, et les Jésuites fussent-ils cent fois plus criminels que vous ne les faites, de quel droit une nation étrangère vient-elle nous mettre en demeure de les chasser? Qu’on demande l’extradition d’un individu dans les cas prévus par les traités, d’accord; mais exigerl’expulsion de réfugiés parfaitement inoffensifs que nous avons recueillis par un sentiment de généreuse pitié, c’est un attentat contre la souveraineté d’un peuple indépendant. «La Nouvelle-Grenade n’aura garde de réclamer de l’Angleterre ou des États-Unis l’expulsion des Jésuites. Elle sait trop bien qu’une pareille prétention serait regardée comme une injure par les gouvernements de ces deux pays; mais avec l’Équateur on peut tout se permettre. Elle nous outrage parce qu’elle nous croit faibles; elle nous menace parce qu’elle nous croit tout au plus capables de faire des pronunciamientos. En cela, elle se trompe: l’amour de la patrie n’est pas mort dans le cœur des Équatoriens.

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    Au jour du danger, tous les partis s’uniront pour défendre l’indépendance nationale, et le gouvernement s’ensevelira sous les ruines de la république, plutôt que de mettre son honneur à la merci de l’injustice: telle est son inébranlable résolution. «Quant à nous, nous savons que la guerre est déclarée, non pas aux Jésuites, mais au sacerdoce et à la foi catholique. On proscrira les Jésuites, puis le clergé séculier, puis tous les enfants de l’Église. Ainsi sera creusé l’abîme où s’engloutiront et l’Équateur et toutes les républiquescatholiques. Mais non, nous ne pousserons pas la lâcheté jusqu’à nous soumettre aux infernales exigences de la bande rouge; la foi de nos pères ne cessera jamais d’illuminer notre Équateur.Pour la défendre, le clergé ne montrera pas d’apathie, le peuple ne s’endormira point dans une silencieuse résignation. Nous marcherons au combat sous la conduite de l’éternelle Providence. Si nous devons, comme les Hébreux, passer par les flots de la mer Rouge, Dieu ouvrira un chemin à son peuple choisi, et nous entonnerons sur l’autre rive le cantique du triomphe et de la délivrance.» Les radicaux, pour toute réponse, recoururent à leur ressource ordinaire: l’insurrection. Urbina prononça la déchéance du vieux président Noboa, qu’il ne pouvait séduire, se fit proclamer à saplace, envoya arrêter les Jésuites chez eux et, sans même leur laisser le temps d’emporter des vêtements de rechange, les jeta sur un vaisseau qui les remporta à Panama. L’Équateur, dès ce moment, fut traité en pays conquis. Le pillage et l’assassinat, sans parler du sacrilège, furent à l’ordre du jour. Les Tauras, que le dictateur appelait «ses chanoines», se livrèrent à tous les excès. Lorsqu’on osait porter plainte contre eux, Urbina répondait qu’à partirde six heures un honnête homme doit se renfermer dans sa maison, et qu’il ne répondait point de l’ordre après le coucher du soleil. La plupart des citoyens, terrorisés, se le tinrent pour dit, et un silence de mort régna sur toute la république. Mais ce silence, un homme ne tarda pas à le rompre. García Moreno donna une voix à l’indignation publique dans un journal, la Nación, dont le premier numéro se terminait ainsi: «Je sais par cœur les raisons qui m’inviteraient à me taire; je n’ignore point le sort quim’attend, de sombres présages tourbillonnent autour de moi dans mes nuits agitées; mais il fautque quelqu’un se dévoue pour essayer d’arrêter le pays sur la pente de l’état sauvage. Vienne donc la balle d’un scélérat me percer le cœur; si ma patrie est délivrée de l’oppression qui l’étouffe, c’estavec joie que je descendrai an tombeau!» Urbina sentit que la Nación allait devenir contre lui une redoutable machine de guerre. La liberté de la presse ayant été suspendue, il informa García Moreno que s’il osait lancer un second numéro de la Nación, il serait arrêté chez lui et déporté au milieu des Indiens du Napo. «Dites à votre maître, répondit García Moreno au commandant général de Quito, que j’avais prévu cet ukase, et qu’aux nombreux motifs de continuer le journal se joint maintenant celui de ne point medéshonorer en cédant à des menaces.» La république entière, vivement surexcitée, avait les yeux sur ce duel entre deux hommes, dontl’un ne possédait que sa plume et l’autre disposait de toutes les forces administratives et militaires. La Nación parut au jour indiqué, et, «comme elle n’avait que peu de temps à vivre», son deuxième numéro fut encore plus net et plus violent que le premier. Le réquisitoire contre le gouvernementse terminait par cette peinture tracée d’une main d’artiste: «Avez-vous jamais rencontré un homme ivre? Avez-vous observé sa démarche incertaine, sa vue trouble, sa parole balbutiante? Il fait mille détours pour trouver son chemin, se heurte à toutes les bornes et attribue ses vertiges à la hauteur des édifices. Toujours vacillant, il se plaint qu’on le pousse et qu’on lui fait perdre l’équilibre. Il roule des yeux hagards, lève la main pour saisir une ombre tenace, sans se douter qu’elle est produite par son propre corps. Il accuse le soleil, et se plaint qu’il fait nuit en plein midi, parce que ses yeux obscurcis ne distinguent plus les objets. Épouvanté, il affirme que le sol tremble, parce qu’il ne tient plus sur ses jambes, jusqu’à ce qu’enfin, haletant, somnolent, il tombe et s’endorme pour cuver le vin. C’est la parfaite image de notre gouvernement: il prépare sa chute, et sa chute sera celle d’un ivrogne.» Le même jour, 15 mars 1853, deux heures après l’apparition du journal, García Moreno et deux de ses amis étaient décrétés d’arrestation. Averti de l’approche des sbires d’Urbina, l’intrépide journaliste s’arracha des bras de sa jeune femme éplorée et se rendit sur la place la plus fréquentée de Quito. «Je ne puis empêcher mon arrestation, dit-il, mais je ne veux pas non plus en diminuer la honte pour ceux qui l’ont ordonnée, et j’entends être arrêté en plein jour, devant tous mesconcitoyens.» Les gens de la police arrivèrent. Il les pria d’exhiber leur mandat d’arrêt, le lut à haute voix, le leur rendit, puis monta à cheval sans résistance, et s’éloigna avec eux, en saluant la foule consternée et frémissante. Urbina crut ne pas pouvoir mieux faire que de confier les trois déportés aux francs-maçons de la Nouvelle-Grenade. Ceux-ci les incarcérèrent à Pasto, premier poste du territoire grenadin.Mais quelques jours à peine s’étaient écoulés que les trois détenus, trompant la surveillance,s’échappaient à la faveur de la nuit, et rentraient, déguisés, dans leur patrie. Là, Moreno apprit que les conservateurs de Guayaquil venaient de le choisir comme leur représentant au Sénat, pour le Congrès qui devait s’ouvrir au mois de septembre. C’était une condamnation indirecte de l’odieuse politique du président, et même une invalidation du décret d’exil, puisque la Constitution déclarait inviolables tous les membres du Congrès. Urbina ne se laissa point arrêterpar ce texte de loi. Quand le nouveau sénateur se présenta, à l’ouverture des Chambres, pour prendre possession de son siège, il le fit arrêter comme un simple vagabond et traîner sur unvaisseau de guerre qui le jeta sur les côtes du Pérou, à Paita. García Moreno était dans sa trente-troisième année; il venait d’éprouver combien Urbina étaitdétesté, mais aussi combien il était craint, En y réfléchissant dans le calme de l’exil; le peuple ne lui parut pas encore mûr pour briser la tyrannie. Lui-même, pressentant vaguement le rôle qui allait lui échoir, se demanda s’il y était suffisamment préparé. Sa modestie lui fit une réponsenégative. Il résolut donc de laisser Urbina combler la mesure de ses iniquités, et de consacrer à son propre perfectionnement le temps qu’il devait passer encore sur la terre étrangère. Et comme ce désert de Paita ne lui offrait aucune ressource pour observer et s’instruire, il se décida à traverser une seconde fois les mers. Il se sépara donc de ses compagnons d’exil, au mois de décembre 1854, après dix-huit mois passés à Paita, et s’embarqua en laissant pour adieu à ses persécuteurs ces paroles prophétiques qu’osa publier un journal de Quito: «L’excès de la misère finira par tirer le peuple de son engourdissement; l’heure de la justice sonnera, et nous jetterons à la côte la horde des tyrans. Oui, avant peu, quiconque voudra trouver Urbina ira chercher sa tombe dans le champ réservé aux infâmes et aux parricides.» Un mois après, García Moreno arrivait à Paris; il y passa près de trois années. Il y reprit la vie d’étudiant. Nous avons raconté sa passion pour ses livres et l’âpreté en quelque sorte surhumaine qu’il apporta au travail, lorsqu’il étudiait à l’université de Quito. Cette âpreté, il la retrouva dansson petit appartement de la rue de la Vieille-Comédie, loin des foules oisives et bruyantes qu’il coudoyait dans la rue sans daigner les remarquer. Ni bals ni théâtres ne le virent une seule fois. Il écrivait à un de ses amis: «J’étudie seize heures par jour, et si les jours avaient quarante-huit heures, j’en passerais quarante avec mes livres, sans broncher.» Grand fumeur, comme tous les Américains espagnols, il poussa ses économies sur le temps jusqu’à renoncer à l’innocentedistraction du tabac. Parmi les savants, sen professeur de prédilection fut l’illustre M.Boussingault, qui avait jadis visité l’Équateur et étudié ses volcans. Parmi les livres, ce fut l’Histoire universelle de l’Église catholique, de l’abbé Rohrbacher. Il en relut jusqu’à trois fois, intégralement, les vingt-neuf volumes si compacts, nous allons dire à la suite de quelles circonstances. Jusqu’alors García Moreno s’était un peu trop exclusivement adonné aux sciences humaines. «Je suis catholique, écrivait-il dans sa Défense des Jésuites, je suis fier de l’être, bien que je ne puisse compter au nombre des chrétiens fervents.» C’était la vérité exacte. Or, un soir qu’il se promenaitdans les allées du Luxembourg avec quelques compatriotes exilés comme lui, mais encore plus éloignés que lui des pratiques religieuses, on vint à parler d’un malheureux qui avait refusé les sacrements en face de la mort. Un interlocuteur, fanfaron d’impiété, se déclara disposé à faire de même; sur quoi Moreno se récria et, prenant feu subitement, se mit à déplorer le malheur desincrédules, en ce monde et dans l’autre, et à décrire en termes magnifiques le bonheur d’être chrétien. Son contradicteur, embarrassé pour la réplique, crut pouvoir se tirer d’affaire par un argument personnel, ad hominem. «Fort bien péroré, lui dit-il; mais dans la pratique, vous avouez que la religion est par trop difficile et vous faites comme nous. Depuis quand vous êtes-vous confessé?» L’orateur ne s’attendait pas à ce coup droit. Il baissa la tête, garda un moment le silence, puis saisissant avec énergie la main de celui qui venait de jeter dans sa conscience cettevive et subite lueur: «Merci, mon ami, merci!» s’écria-t-il. Et il s’éloigna, laissant les autres ébahis. Rentré dans sa chambre, il pria longtemps, se rappela les jours de ferveur où il avait voulu se consacrer au service dos autels et se promit, avec le secours de la grâce divine, de mettre désormais complètement d’accord ses croyances et ses habitudes. Alors il sortit de nouveau, se confessa au premier prêtre qu’il rencontra à Saint-Sulpice, et le lendemain il recommençait, par une communion fervente, la vie d’intime union avec Dieu qui, dès lors, fut la sienne jusqu’à son dernier jour. La prière étant devenue pour lui la compagne assidue du travail, ses études prirent naturellement une direction plus élevée, presque mystique. L’histoire de ces Jésuites qu’il avait défendus sans bien les connaître, celle des sociétés secrètes pour lesquelles son horreur instinctivese trouvait maintenant amplement justifiée, celle des rapports de l’Église et de l’État et du souverain domaine du Créateur sur sa créature tout entière, c’est-à-dire aussi bien sur la famille etsur la société que sur l’individu isolé: toutes ces questions, qui sont le fond des controverses de notre temps, ne lui offrirent bientôt aucun point obscur. En outre, le calme profond dont jouissait la France, qu’il avait laissée naguère si troublée, la confiance et la joie revenues sur les fronts,l’enthousiasme patriotique universel et l’unité des cœurs reconstitués par la guerre de Crimée,l’opposition politique à peu près disparue, tout lui prouvait que la Révolution n’est rien moins qu’indomptable quand on la regarde de face, et qu’un homme sage et fort peut sauver un peuple malgré lui. Il lui arrivait toutefois de se demander combien dureraient la sagesse et la force du dompteur français, qui ne l’était qu’à demi, dans les faits, non dans les principes, et qui avait reculé devant une restauration franchement chrétienne de la société. S’il connut, comme il estprobable, car il se tenait très au courant des événements politiques et religieux, s’il connut les récentes et inutiles instances du grand évêque de Poitiers auprès de l’Empereur dans le butd’obtenir la proclamation des droits de Dieu au-dessus des droits de l’homme, combien il dut être frappé de la réponse désolée mais prophétique de l’évêque: «Sire, le moment n’est pas venu pour Jésus-Christ de régner? alors le moment n’est pas venu pour les gouvernements de durer! Quant à lui, il se promit bien, s’il pouvait quelque chose un jour pour la restauration de l’ordre dans son propre pays, de ne pas essayer les choses à demi et de mettre d’accord sa politique avec la vérité pure, comme il tâchait de le faire pour sa conduite privée. «Ainsi, dit Louis Veuillot, sur la terre étrangère, seul, inconnu, mais soutenu de sa foi et de son grand cœur, García Moreno s’éleva lui-même pour régner, si telle était la volonté de Dieu. Il apprit ce qu’il devait savoir pour gouverner un peuple autrefois chrétien, mais qui redevenait sauvage et ne pouvait plus être ramené à la civilisation de la croix qu’avec un frein brodé des verroteries de l’Europe. Dans ce but, il avait voulu être savant. Paris, où l’amenait la Providence,était bien l’atelier convenable à cet apprenti. Paris, chrétien aussi, et en même temps barbare etsauvage, offre le spectacle du combat des deux éléments. Il a des écoles de prêtres et de martyrs, il est une vaste fabrique d’antéchrists, d’idoles et de bourreaux. Le futur président et le futur missionnaire de l’Équateur avait là sons les yeux le bien et le mal… Quand il retourna dans son lointain pays, son choix était fait. Il savait où se trouvent la vraie gloire, la vraie force, les vrais ouvriers de Dieu. S’il fallait préciser le seuil d’où il partit, le dernier lieu où il attacha son cœur, nous nommerions sa chère église de Saint-Sulpice, ou peut-être quelque humble chapelle demissionnaires où il avait coutume de venir prier pour sa patrie.» Tandis que le futur restaurateur du droit social se préparait dans le recueillement et la méditation, ceux qui l’avaient exilé faisaient tout ce qu’il fallait pour que son souvenir ne s’effaçâtpoint dans les cœurs des patriotes. L’Équateur était tombé dans la dernière misère tellement que le président Urbina, pour remplir ses coffres, crut pouvoir vendre aux États-Unis, pour trois millions de piastres, les îles Galápagos. L’intervention des autres puissances l’empêcha de tenir ce marché honteux, mais le Pérou jugea l’occasion propice pour réclamer une autre province du territoire national et bloqua Guayaquil. Plus de justice, plus de sécurité, tout se désorganisait à l’intérieur. La pression de l’opinion publique fit rappeler García Moreno. Il reparut à Quito, en 1857, dans des fonctions pacifiques et presque modestes, mais d’une haute importance à ses yeux, celles de recteur de l’Université. Porté ainsi à la tête de l’enseignement public par ses collègues en doctorat, il s’y consacra avec autant d’activité que s’il n’eût dû faire autre chose de sa vie. Lui-même, autant que possible,présidait aux examens, afin de stimuler professeurs et élèves et d’obvier à un décret fâcheux d’Urbina qui rendait les cours facultatifs et non plus obligatoires pour les candidats. La faculté des sciences existait à peine de nom. Elle n’avait ni chaires ni laboratoires. García Moreno la pourvut de professeurs et lui fit don d’un magnifique cabinet de chimie qu’il s’était acheté à Paris sur ses économies; et comme la difficulté la plus grande était de trouver des hommes en état d’utiliser tous ces instruments nouveaux, ou simplement de les expliquer, il n’hésita point à enseigner personnellement cette science qu’il aimait. Il fit des cours publics, montra les applications des récentes découvertes à l’agriculture et à l’industrie, figura devant ses auditeurs les chemins de fer et les modes nouveaux de locomotion, d’éclairage et de transmission lointaine de la pensée. Toutcela était inconnu à Quito la partie instruite de la population en fut émerveillée; à partir de ce moment la jeunesse studieuse subit l’ascendant d’un professeur qui la subjuguait par sa science autant que par l’énergie de son caractère, et les plus précieux dévouements, futurs auxiliaires duréformateur, s’attachèrent à sa fortune. Les élections générales l’arrachèrent aux travaux scientifiques; c’était prévu et d’autant plus inévitable que, pour préparer ces élections, il n’avait pu résister aux séductions de son ancienne carrière de journaliste. Élu sénateur, il ne tarda point à devenir le chef de l’opposition. Lors de la discussion des lois de finances, ses critiques furent si amères que le Journal officiel ne voulut pas reproduire son discours. Mais l’attention populaire se réveillait, les tribunes étaient bondées et les jeunes étudiants colportaient par la ville, avec les grossissements familiers à leur âge, les prouesses oratoires de leur recteur et professeur bien-aimé. L’intervention de García Moreno fut remarquée particulièrement dans trois délibérations importantes: l’instruction publique, l’injuste exploitation des territoires du Napo et la franc-maçonnerie.Sur la première question, il proposa une loi organique générale, fruit de ses observations enFrance et de ses méditations personnelles.

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    Malheureusement, avant de donner la science auxgénérations nouvelles, il fallait donner du pain aux fonctionnaires et aux soldats; les réformes furent donc ajournées à un temps meilleur. En ce qui concernait le Napo, il obtint l’abolition d’un injuste tribut de capitation auquel les Indiens étaient assujettis. La troisième question fut celle qui fit le plus de bruit. García Moreno réclama ouvertement, sans ambages, l’interdiction des sociétés secrètes sur tout le territoire équatorien. Eh quoi! s’écriera peut-être ici plus d’un lecteur élevé, quoique catholique, dans les préjugés de la Révolution française, fermer les loges, employer la compression, n’est-ce pas faire injure à la vérité, et celle-ci, pour triompher, a-t-elle besoin d’autre chose que de la liberté? — J’y consens, répliquait García Moreno, lorsqu’un ami élevait devant lui cette objection, oui, je laisserais l’impiété libre si, de son côté, elle nous rendait la pareille. Mais elle qui prêche laliberté avec emphase, est-il un seul pays catholique où elle nous l’accorde, cette liberté? Voyez-la laïciser, confisquer, proscrire, faire des lois d’exception contre nos religieux, en France, en Espagne, en Italie, ici même, partout où elle est maîtresse. Et ce droit de cité qu’elle a refusé aux jésuites, ne serions-nous pas des niais si nous l’accordons aux francs-maçons? Arrière les hypocrisies, assez de verbiage libéral. La situation, la voici: la vie des nations, comme celle des individus, est un combat. Militia est vita hominis super terram. Le bien et le mal se disputent la terre, et lorsque le généralissime de l’armée du mal invoque la liberté, la tolérance, l’égalité, ceci n’est qu’un masque, un des mille masques du père du mensonge. Soldats de Dieu, ne nous laissons pas duper. Quant à moi, je me borne à crier simplement, comme l’archange saint Michel,ce premier type des chefs de l’armée de Dieu allant à la bataille: «Quis ut Deus? Qui est semblable à Dieu?» Et voici ma devise: «Liberté pour tout, excepté pour le mal.» Satan s’indigne? Satan me fait rire, car cette devise est aussi la sienne, exactement la sienne; il y a seulement cette différence que Satan appelle le mal ce qui est le bien, et cette autre différence encore que mentir est une de ses armes familières, arme inconnue dans le camp du Dieu de vérité. Quoique votée, la dissolution des sociétés secrètes resta lettre morte pour le moment. L’heure n’était pas venue non plus de laisser rentrer les jésuites; l’opinion publique n’était passuffisamment éclairée. La session de 1857 et de 1858 fut excessivement orageuse. García Moreno y joua sa tête plus d’une fois. Les Tauras cherchaient à confisquer ce désagréable tribun; ils épiaient toutes ses sorties; mais la jeunesse des écoles de Quito lui constituait une escorte vigilante qui ne le quittaitpas. Bientôt on apprenait que le Congrès était dissous, l’état de siège proclamé, que l’imprimeur Valentia, arrêté chez lui et exilé au Napo, avait été assassiné en route, que les docteurs Herrera,Mestanza et plusieurs généraux allaient être également déportés sans jugement, que García Moreno n’avait échappé à l’arrestation qu’en se sauvant au Pérou. La mesure se trouva comble. Le 1ermai 1819, une troupe de jeunes gens, armés de vieux fusils et de bâtons, surprirent la caserne de Quito, qui se rendit après un semblant de résistance. Les provinces suivirent l’exemple. Un gouvernement provisoire fut proclamé. Il se composait de García Moreno, Carrión et Gómez de la Torre. Le premier soin de ce triumvirat fut de se compléter effectivement par la présence de son chef tout indiqué. On envoya au Pérou rendre compte à García Moreno de ce qui venait de sepasser et on le supplia d’accourir sans retard. Il obéit, mais au prix de quelles fatigues! Son guide, piqué par une vipère, expira sous ses yeux.Égaré dans les Cordillères, il était depuis deux jours sans manger quand sa mule s’affaissa et périt sur le chemin. Après une troisième journée de marche, il aperçut enfin une cabane de berger; mais vainement il y frappa, elle était vide. Il ouvrit la porte, trouva un peu de farine dans un coin,s’en fit un gâteau et reprit sa route. Quito l’accueillit comme un sauveur. Le publiciste redouté, le savant, l’orateur va changer d’armes; c’est à partir de ce moment qu’il laisse la plume et saisit l’épée; il a tout prévu, il s’est préparé à tout. Le premier combat qu’il livra ne lui fut cependant point favorable, sinon en ce sens qu’il lui enseigna la prudence pour l’avenir. Les troupes restées fidèles au pouvoir déchu se composaient de quinze cents vieux soldats environ. Le gouvernement provisoire disposait d’une force moitié moindre par le nombre et plus inférieure encore par l’armement et l’exercice. Malgré cettedisproportion, García Moreno, pour ne pas laisser l’enthousiasme se refroidir, n’hésita pas à attaquer Urbina. Le 3 juin, à Tumbuco. Sa milice dite nationale lâcha pied au bout de quelques heures: elle n’avait jamais vu le feu. Seul, à pied, car son cheval avait été tué sous lui, le nouveau général errait, le soir de cette fatale journée, craignant à chaque pas de rencontrer des soldats d’Urbina et d’être reconnu. Tout à coup il voit passer devant lui le colonel Veintimilla (depuis président de la république, de 1876 à 1884). Veintimilla fuyait aussi, mais il était monté sur un bon cheval. Reconnaissant García Moreno, il met pied à terre et lui offre généreusement sa monture. García refuse: «Que deviendriez-vous vous-même? dit-il. Peu importe, réplique Veintimilla: vous êtes mon chef. — Oui, parlons-en, de ce chef improvisé; il est bien digne, n’est-ce pas, qu’on se sacrifie pour lui? reprit García riant d’un rire amer. — Mon ami, dit Veintimilla avecconviction, je vous ai vu à l’œuvre, je répète que vous êtes mon chef; nous ne manquerons jamais de Veintimillas pour faire des colonels, mais nous n’avons qu’un García Moreno.» Et, le hissant lui-même sur son cheval, il le força à s’éloigner au galop. Tout semblait perdu pour le gouvernement provisoire. Celui-ci, avec la petite garnison de Quito et les épaves de Tumbuco, se retira à Ibarra. Urbina l’y poursuivit; mais la fortune de la guerre a souvent des retours inattendus. Urbina éprouva un échec, ses troupes se dispersèrent etQuito se souleva derechef, tandis que le général Franco, partisan d’Urbina jusqu’à ce jour, s’emparait de Guayaquil, y organisant une sorte de comédie électorale et se faisait décerner lesouverain pouvoir par 161 voix sur 321. Les autres, c’est-à-dire 160, s’étaient portées sur García Moreno, quoique absent et proscrit. Une semblable élection, à laquelle la majeure partie du pays n’avait pris aucune part, était manifestement entachée de nullité. García Moreno refusa de la reconnaître et reparut à Quito en chef véritable du gouvernement. Le désastre de Tumbuco lui avait appris que la bravoure ne peut rien sans l’armement et la discipline. Il s’occupa donc de créer une armée régulière, rassembla des recrues au camp de Riobamba et convertit en manufacture d’armes, à Chillo, une fabrique de cotonnades. Les vieux canons espagnols, les fusils hors de service, y furent transportés par ses soins et refondus; des boulets et des obus s’y accumulèrent; il dirigea lui-même tous les détails de cette fabricationcompliquée. Le jour, on le voyait partout donnant ses ordres; le soir, il s’endormait de fatigue au milieu des livres, la tête dans ses mains. «Hélas! disait-il avec douleur, je puis tout dominer,même la faim; mais le sommeil, après quarante-huit heures de travail, est plus fort que moi!» Letemps qu’il pouvait dérober à sa manufacture d’armes était consacré au camp. Là sa besogne fut encore plus ingrate, les volontés humaines étant moins faciles à contenir et à diriger que lamatière. Pour empêcher les jeunes soldats incorporés de retourner chez eux, il fit publier dans les casernes que dorénavant tout déserteur serait passé par les armes. On ne prit point cette menace au sérieux. «Bah disait-on, un si brave homme!» La nuit suivante, plusieurs recrues s’échappèrent; mais le «brave homme» montra que la bonté, dans un chef d’État, ne doit point se confondre avec la faiblesse. Trois déserteurs furent repris, jugés sommairement et fusillés devant les rangs. À partir de cette exécution, plus aucune désertion ne fut signalée. Seulement une sourdefermentation ne tarda pas à se manifester. Les vieux soudards de Florès et d’Urbina et quelques Tauras, qu’on avait eu l’imprudence d’accepter dans les nouveaux cadres, ne pouvaient s’habituer à faire l’exercice tout le long du jour, au lieu de rançonner les civils, comme jadis. Une nuit, le 7novembre 1859, des cris tumultueux réveillent subitement le chef suprême. C’est une émeute en règle. Des vétérans marchent en tête, se plaignant d’être mal nourris, mal payés, écrasés de corvées stupides et inutiles, et déclamant avec fureur contre le gouvernement provisoire. Un capitaine, du nom de Palacios, somme García Moreno de donner sa démission. Sur son refus, il l’arrête et le jette en prison, en lui signifiant que, s’il persiste, on le fusillera le lendemain et que sa tête seraenvoyée au président de Guayaquil, Franco. Mais ce drame de Riobamba mérite d’être raconté tout au long. Donnons la parole à l’éloquent historien de García Moreno: «Débarrassés de leur chef, officiers et soldats se répandirent dans les divers quartiers de la ville pour se livrer au pillage, à l’ivrognerie et à la débauche, selon leurs vieilles habitudes. Seules quelques sentinelles de faction à la porte du cachot se désolaient de ne pouvoir prendre part au sac de la cité. Un gardien veillait dans une chambre attenante à celle du prisonnier. La première pensée de García Moreno fut de recommander son âme à Dieu, n’ignorant pas que ces brigands étaient hommes à l’assassiner sans miséricorde; puis, avec un admirable sang-froid, il s’occupa tranquillement des moyens de prolonger une vie qu’il n’estimait pas inutile à la patrie. D’une lucarne donnant sur la rue, on voyait les gardes, l’air assez maussade, suivre de l’œil leurscompagnons plus heureux; d’où le prisonnier conjectura que, l’instinct triomphant de la consigne,ils ne tarderaient pas à déserter le poste pour se gorger avec les autres de liqueurs et de butin. En ce moment, le serviteur d’un de ses amis fidèles ayant obtenu sous un prétexte quelconque la faveur de l’entretenir un instant, lui fit observer qu’il était facile d’escalader le mur de sa prison, après avoir descellé les barreaux d’une fenêtre. Une fois libre, il trouverait à la porte de la ville un cheval tout sellé pour fuir. «Dites à votre maître, répondit le prisonnier, que je sortirai d’ici, non par la fenêtre, mais par où je suis entré.» «Ses prévisions se réalisèrent de point en point. Les gardes disparurent les uns après les autres, abandonnant toute surveillance à la sentinelle de l’intérieur. Après quelques instants de réflexion,García Moreno s’approche de cet unique gardien et lui dit d’un ton de maître, ou plutôt de juge: «À qui donc as-tu fait serment de fidélité? — Au chef de l’État, répond le soldat tremblant. — Le chef légitime de l’État, c’est moi: tu me dois donc obéissance et fidélité; tes officiers sont des rebelles et des parjures. N’as-tu pas honte de leur prêter main-forte et de trahir ainsi ton Dieu et ta patrie?» Le soldat effrayé tombe à genoux et demande grâce: «Je te ferai grâce, si tu veuxm’obéir et accomplir ton devoir.» «Quelques instants plus tard, avec l’aide de ce brave militaire, il avait franchi les portes de la prison. Accompagné d’un fidèle général, il sortait de Riobamba et s’élançait à bride abattue sur la route de Calpi, où il avait donné l’ordre à ses partisans les plus résolus de le rejoindre sans délai. «Après cette étrange aventure, voyant le terrain s’effondrer partout sous ses pas, va-t-ildésespérer du succès et abandonner la partie? Le croire ce serait méconnaître l’homme qui ne connut jamais d’obstacle, parce que jamais il ne recula devant la mort. Une heure après sa sortie de Riobamba, il se trouvait à Calpi (à une quinzaine de kilomètres à l’ouest) avec quatorze braves, accourus pour se mettre à sa disposition et décidés à le suivre partout où il les conduirait. Sans leur laisser le temps de réfléchir, il leur suggère l’étrange idée de reprendre à l’heure même le chemin de Riobamba, pour ressaisir le commandement des troupes mutinées et châtier les principaux rebelles. Tous l’approuvent, et la petite troupe se met en marche, comptant pour l’exécution du projet, sur l’audace bien connue de son chef. À leur entrée dans la ville, au milieu des maisons saccagées, régnait le calme plat qui suit une nuit d’orgie. Plusieurs chefs, chargés debutin, avaient disparu avec leurs compagnies; les autres, parmi lesquels le capitaine Palacios, le grand fauteur de la rébellion, étaient ivres ou endormis. Sans perdre un instant, García Moreno saisit Palacios avec les principaux bandits, et les traîne sur la place où il installe un conseil de guerre composé de ses quatorze compagnons à cheval et armés jusqu’aux dents. Palacios comparaît le premier sans trop se rendre compte, par suite de l’ivresse, de sa terrible position.Condamné à mort, il répond à ses juges par des insolences; mais bientôt la voix sévère de GarcíaMoreno le rappelle à la réalité: «Vous avez une demi-heure pour vous préparer à la mort, s’écria-t-il, pas une minute de plus.» Un prêtre était là pour réconcilier ces coupables avec Dieu, mais Palacios refusa son ministère. À l’heure fixée, le bandit tomba sous les balles du peloton d’exécution.«Un autre officier avait subi le même sort, lorsque comparut devant le conseil de guerre un malheureux capitaine qui protestait de son innocence. On avait cru le reconnaître comme un desprincipaux meneurs de l’insurrection, mais une dame des plus honorables de Riobamba affirma qu’en effet, au lieu d’exciter à la rébellion, cet homme s’était tenu caché dans sa maison aussi longtemps qu’avait duré le sac de la ville. Implacable devant le crime, mais toujours juste, García Moreno s’en remit au témoignage de cette dame et rendit la liberté au condamné. «Ce coup d’audace terrifia cette soldatesque aussi lâche qu’indisciplinée. En voyant tomber ses chefs, elle comprit qu’elle avait un maître et rentra dans l’ordre. Alors, non content d’avoir éteint le foyer de l’incendie, l’infatigable lutteur résolut de poursuivre les fuyards, afin de les châtier et de les assujettir, eux aussi, au joug de la discipline. Au déclin du jour, il partit avec ses quatorze compagnons renforcés de quelques autres braves, pour donner la chasse au gros de la troupe, qui avait pris la direction de Mocha, vers le nord. Arrivés dans cette petite ville à la tombée de la nuit,les brigands s’étaient couchés dans les galeries qui entourent la place, leurs fusils en faisceaux à côté d’eux. Ils dormaient profondément sous la garde des sentinelles placées à toutes les avenues. «L’épée au poing, García Moreno, suivi de ses compagnons, arriva vers minuit à Mocha. Le temps était pluvieux, les ténèbres assez épaisses. À leur approche soudaine, la sentinelle voulutfuir, mais un coup de baïonnette l’étendit par terre. Surpris dans leur sommeil au milieu de l’obscurité, les bandits se crurent enveloppés par une troupe nombreuse et n’essayèrent pas même de résister. Quelques-uns furent blessés dans la bagarre, d’autres réussirent à s’enfuir, quatre-vingts désarmés et garrottés furent expédiés à Riobamba sous la garde de cinq braves, qui reçurentl’ordre de les fusiller tous à la première tentative de fuite ou de rébellion. «García Moreno se croyait maître du terrain, quand tout à coup on lui signale dans les environs une autre troupe de plusieurs centaines d’hommes. Il lance ses compagnons à leur rencontre; on se bat avec fureur dans les ténèbres; plusieurs tombent morts ou blessé. «Rendez-vous, crie Maldonado, au chef de la bande. — Jamais! répond celui-ci percé d’un coup de lance.— Rendez-vous, brigands», crie Moreno, à son tour, frappant de son épée à droite et à gauche.Un soldat reconnaît sa voix, le nom de García Moreno vole de bouche en bouche, et l’on reconnaît avec douleur que de part et d’autre on a été victime d’une fatale méprise. Cette troupe, composée non de pillards mais de soldats fidèles, arrivait d’Ambato pour combattre les insurgés de Riobamba. «Après avoir pleuré la mort du malheureux chef et de ses compagnons, García Moreno, à la tête de ces renforts, continua la poursuite des révoltés, et réussit enfin à en incarcérer trois cents qui, leur peine terminée, furent réincorporés dans l’armée. Les restes insignifiants de ces cohortes prétoriennes, si chères à Urbina et à Robles, se dispersèrent dans les montagnes pour y vivre enbrigands, ce qui n’était pas pour elles changer de métier. «Ainsi se termina cette sombre tragédie qui aurait dû finir par un désastre. Le génie et la valeur d’un seul homme avaient triomphé des traîtres, d’une armée en révolte et de la mauvaise fortune la plus opiniâtre. Brisé de fatigue, mais plus encore de douleur à la pensée de l’anarchie qui désolait son pays, García Moreno revint en toute hâte à Quito, pour activer les préparatifs d’une campagne, désormais inévitable, contre le pseudo-gouvernement de Guayaquil.» Quelques escarmouches, adroitement ménagées, donnèrent aux recrues du gouvernement provisoire hardiesse et confiance. Deux engagements plus importants, à Yagüi et à Sabun,signalèrent le mois de janvier 1860. Ce furent deux victoires. Les troupes de Franco se virent chassées de partout, excepté de la province de Guayaquil. Mais une inspiration désastreuse, véritable trahison nationale, contribua plus encore à ruiner son parti. Le Pérou était en litige, depuis des années, avec l’Équateur, pour une question defrontières. Franco céda, moyennant finances, au général Castilla, président du Pérou, les territoires contestés et même quelques autres, et pour assurer l’exécution du traité, réclama et obtint le secours d’une flotte et d’une armée péruvienne de cinq à six mille hommes, que Castilla conduisit à Guayaquil. García Moreno avait eu, lui aussi, vers la même époque, une idée qui n’était guère plus heureuse. Cherchant par tous les moyens à rendre la paix à l’Équateur, il avait songé à invoquer le protectorat de la France, dont il avait naguère admiré la sécurité profonde et, par malheur, trompeuse. Mais devant les objections que lui firent ses amis dès la première fois qu’il s’en ouvrit à eux, il y renonça sans peine et sans esprit de retour. Franco, au contraire, s’obstina, parce qu’iln’était pas «le véritable pasteur» et qu’il se sentait perdu sans l’appui du Pérou. Des sentiments d’un véritable pasteur et d’un père du peuple, son rival lui avait donné pourtantun mémorable et rare exemple. García Moreno écrivit à Franco: «Comme moyen d’en finir, je propose pour vous et pour moi l’exil volontaire. Éloignons-nous tous les deux; laissons le pays, libre de toute pression étrangère, se constituer suivant sa volonté et recueillir enfin le fruit amer de tant de sang répandu. La province de Guayaquil adhérera, comme celles de l’intérieur, au gouvernement provisoire, et une convention librement élue mettra un terme à nos malheurs. Si vous acceptez cette proposition, qui vous fournit le moyen d’assurer l’intégrité du territoire sans blesser votre honneur, je renonce à l’instant au pouvoir et je quitte le pays J’aurais mauvaise grâce de vous demander un sacrifice, si je n’étais disposé moi-même à vous en offrir autant. En m’imposant pour le salut de la patrie cet exil volontaire, mon ambition sera pleinement satisfaite. Ainsi tomberont les misérables calomnies que vos journaux de Guayaquilentassent tous les jours contre moi.» Franco répondit en jetant en prison le messager de García Moreno. Celui-ci n’en adressa pas moins à tous les agents du corps diplomatique, en sollicitant leur médiation collective, une notedans laquelle il ajoutait que ses collègues du gouvernement provisoire de Quito consentaient às’exiler avec lui. En outre, il demandait formellement que tous les gouvernants actuels renonçassent à toute candidature à la présidence, pour un nombre d’années à déterminer. Une résolution aussi magnanime mit tout le monde, nationaux et étrangers, du côté de celui qui en avait eu l’initiative. Elle eut même un résultat auquel personne ne s’attendait. Le vieuxgénéral Florès, oubliant ses quinze années d’exil, ses ambitions passées et ses ressentiments, écrivit du Pérou à García Moreno: «Castilla, vous le savez, est mon ami, mais pas quand il veutdémembrer l’Équateur; dans les circonstances difficiles où vous vous trouvez, faites-moi savoir si je puis vous être utile, et je suis à vos ordres.» En lisant cette lettre, García Moreno regretta ses anathèmes d’autrefois contre le général Florès: «Venez immédiatement, lui répondit-il, et soyez notre général en chef.» Quelques jours après, les deux anciens adversaires, réconciliés par lepatriotisme, s’embrassaient à la vue de toute l’armée, ivre de joie et d’enthousiasme. Florès prit donc le commandement général. García Moreno ne vit point en lui un rival qui venait lui dérober une partie de sa gloire; il ne songea qu’à le seconder de son mieux, comme sonpremier lieutenant, et à remercier Dieu de ce secours providentiel. Les deux généraux marchèrentsur Guayaquil. Après un mois de combats journaliers, ils vinrent camper en vue de la cité, forcèrent le passage du Rio Estero Salade et prirent Guayaquil d’assaut, sous le feu du vapeur péruvien Tumbez. Franco n’eut que le temps de se jeter sur un vaisseau du général Castilla, qui s’enfuit très mortifié du résultat de son équipée. Vingt-six pièces d’artillerie restèrent au pouvoir du vainqueur. Ce qui était plus précieux encore pour le guerrier philosophe, pour le grand patriote dont l’indomptable énergie venait de terminer si heureusement cette rude campagne, c’était l’espoir qui s’ouvrait devant lui de pouvoir travailler enfin à régénérer sa patrie. Ses méditations solitaires, rectifiées par l’expérience, allaient donc descendre dans le domaine de la pratique. Mais quelleprudence, quelle habileté, quelle persévérance, lui seraient nécessaires. Le courant du monde moderne était partout opposé à ses idées; les libéraux ne respectaient l’Église qu’autant qu’elle se laissait asservir à l’État; les radicaux, les sociétés secrètes ne voyaient, dans cette grande conservatrice des mœurs et de la paix sociale, qu’une ennemie à détruire; les catholiques eux-mêmes étaient, pour la plupart, infestés de libéralisme; l’armée se déshabituerait difficilement des pronunciamientos; les collecteurs et administrateurs de tout grade considéraient les deniers publics comme leur chose personnelle. Sur qui s’appuyer contre tant d’obstacles, tant d’ennemis? Sur Dieu et sur le peuple, se dit le réformateur; Dieu sera avec moi dès aujourd’hui, car il voit lapureté de mes intentions; quant au peuple, il comprendra plus tard. Outre ces deux auxiliaires sacrés, il en invoqua un autre: la patience. Il savait qu’on ne peut pas tout faire à la fois et prit pour devise: «À chaque jour suffit sa peine.»

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    Predefinito Riferimento: Gabriel Garcia Moreno

    Il commença, avant de réunir une nouvelle convention, par réformer la loi électorale, source de toutes les erreurs du passé, et cette réforme, du premier coup, lui mit dans la main une majoritéparlementaire dévouée et solide. Sous la domination espagnole, l’Équateur était divisé en trois grandes provinces: Quito, Guayaquil et Cuença. Par une étrange anomalie, contre laquelle les libéraux et les radicauxn’avaient jamais protesté parce qu’elle leur était éminemment favorable, ces trois provinces nommaient chacune six députés à la convention, si bien que Quito, province très catholique et plus peuplée à elle seule que les deux autres réunies, n’avait pas plus de poids dans lesdélibérations communes que Guayaquil, vrai nid de démocrates. C’est ainsi qu’un peuple religieux et éminemment conservateur se trouvait presque toujours représenté par des révolutionnaires. García Moreno proposa de prendre désormais pour base des élections le chiffre de la population. «Toute fraction de vingt mille habitants nommera un député; l’élection sera directe; sera électeur tout citoyen âgé de vingt et un ans, sachant lire et écrire.» Croirait-on que ce programme de suffrage universel ne passa qu’avec la plus extrême difficulté, que ses opposants furent tous les radicaux, tous les impies du pays, et que son promoteur ut à braver, à son occasion,le fer des assassins? Une fois l’assemblée réunie, García Moreno fut acclamé président de la République, àl’unanimité des suffrages et sans débats. Il refusa d’abord ce témoignage de la gratitude publique, alléguant avec raison l’étroitesse des pouvoirs présidentiels et la presque impossibilité d’assurer le bon ordre et de faire quelque bien, avec une constitution aussi défiante pour le pouvoir exécutifque l’était celle de l’Équateur. Afin de le décider, on l’autorisa, lui, par exception, à prendre l’initiative de la réorganisation de l’armée, des finances et de l’instruction publique, à construire unchemin carrossable de Quito à Guayaquil, enfin à proposer un concordat au souverain Pontife et à le mettre à exécution sans attendre l’approbation du futur congrès. C’étaient là précisément les assises du vaste édifice dont il voulait doter sa patrie. Aucun député peut-être, sans exception de lui-même, ne prévoyait les proportions colossales qu’il allait donner à ce plan. Il obtenait, à tout prendre, une sorte de blanc-seing comme réformateur. Succès assez beau, pour ses débuts. Il se mit donc à l’œuvre et tout d’abord, chose qui ne pouvait être différée, s’adjoignit un personnel administratif intègre et laborieux. Les sinécures dans les ministères furent supprimées rigoureusement; aucun emploi ne fut plus accordé à la faveur, au népotisme, et toute recommandation provenant d’un député ou d’un grand personnage quelconque fut imputée comme mauvaise note aux employés qui en étaient l’objet. Le militarisme était, aux flancs de la République, une plaie toujours ouverte. Élevés au pouvoir, le plus souvent, par des pronunciamientos, et craignant d’en tomber par le même moyen, les prédécesseurs de García Moreno abandonnaient tout à l’armée. Mais lui, il voulut, selon sonexpression pittoresque, mettre l’habit rouge aux ordres de l’habit noir; ce fut la partie de sonprogramme qui exigea de sa part le plus de ténacité; mais il s’était résigné d’avance à avoir pourennemis personnels tous les ennemis du bien public; il s’en faisait même in titre de gloire. Dans les finances il introduisit le système de comptabilité française, qu’il avait étudié à Paris, et créa une cour des comptes pour centraliser tous les contrôles. En cas de fraude, le coupable était immédiatement jugé, condamné à l’amende et destitué. Bien loin de puiser à pleines mains,comme Urbina, dans les caisses publiques, sauf à faire voter ensuite, par une majorité docile, «qu’un président ne peut pas s’abaisser à rendre des comptes,» il poussa le désintéressement jusqu’à ne pas vouloir toucher aux 12000 piastres (60000 francs) affectées au traitement présidentiel. De cette somme il laissait la moitié à l’État et répartissait le reste entre les pauvres et diverses œuvres de charité. L’autorisation qui lui avait été donnée de relier Guayaquil à la capitale par un chemin carrossable était à peine en voie d’exécution qu’il étendit son programme et, d’une main hardie,traça un vaste réseau de viabilité à travers tout le pays. Là où ne s’ouvraient que des sentiersabrupts, à peine praticables aux bêtes de somme, des routes larges et sûres sollicitèrent bientôt le commerce, l’agriculture, l’industrie, qui s’animèrent de toutes parts. Ces travaux gigantesques, vus la hauteur des Cordillères et la configuration du territoire, coûtèrent jusqu’à deux millions de piastres (10 millions de francs). Mais on accepta cette dépense sans trop d’objections, les progrès matériels étant toujours plus faciles à comprendre que les progrès moraux. C’étaient cependant ces derniers qui formaient le grand objectif du réformateur, et à leur tête, l’instruction publique. Il avait souvent médité la grande leçon que nous donne le généralissime de l’armée du mal, quand il travaille de toutes ses forces à laïciser partout, sous prétexte de neutralitéscolaire, universités, collèges et même écoles des campagnes. Neutralité, dans l’espèce, qu’est-ce autre chose que négation? Car, pour que la jeunesse ignore Dieu, il n’est point nécessaire qu’on le nie devant elle; c’est assez qu’on n’en parle pas. Pour faire quelque chose de durable, l’homme de la contre-révolution devait donc christianiser l’enseignement de fond en comble. En sa qualité d’ancien recteur de l’Université, il avait dans ce sens une autorité supérieure à tout autre. Dès l’année 1861, il fit appel au dévouement des congrégations françaises, où l’on trouve toujours, disait-il, des ouvriers et des ouvrières pour travailler à la vigne du Christ. Des colonies de jésuites,de frères des Écoles chrétiennes, de dames du Sacré-Cœur, de sœurs de Charité, établirent dans tous les grands centres des écoles primaires, des pensionnats et des hôpitaux. Mais rien de durable, se disait-il, rien de définitif, si toutes ces œuvres, et l’Église elle-même, demeuraient dépendantes du bon plaisir des rois ou des présidents. Les anciennes colonies espagnoles, en effet, étaient régies par la loi du patronat royal. Les papes avaient consenti jadis à une délégation de leurs pouvoirs; délégation qui s’expliquait, à la rigueur, lorsque les souverainetés civiles s’appelaient Sa Majesté Très Chrétienne (France), Sa Majesté Catholique (Espagne), Sa Majesté Apostolique (Autriche), Sa Majesté Très Fidèle (Portugal), mais délégation bien périlleuse, vue la difficulté de la révoquer, si les successeurs de toutes ces Majestés amies devenaient des ennemis, comme il est arrivé de nos jours. C’est ainsi qu’on voit les chefs de l’Église nommés par des gens qui ont juré de détruire l’Église et qui ne s’en cachent pas, et l’État s’arrogeant le droit de juger la doctrine et de dire aux évêques: «Vous pouvez mettre ceci dans vos catéchismes, mais vous n’y mettrez point cela» Avec un désintéressement et une droiture chrétienne qui rappellent saint Louis etCharlemagne, García Moreno avait résolu de couper court à tous ces conflits en revenant au droit naturel et en rendant à Dieu ce qui appartient à Dieu, sans renoncer pour César à ce qui appartient à César. Il envoya à Rome, auprès de Pie IX, un jeune prêtre en qui il avait toute confiance, Don Ignacio Ordóñez (depuis archevêque de Quito). Il lui donna pour instructions de négocier un concordat nouveau et de réclamer des pouvoirs transitoires, mais indispensables pour opérer une réforme urgente: la régénération du clergé. Pie IX reçut avec des larmes de joie l’envoyé de l’Équateur. On n’eut aucune peine à se mettre d’accord sur le projet suivant: «La religion catholique, apostolique et romaine est la religion de l’État, à l’exclusion de toute autre. Elle y sera conservée perpétuellement dans son intégrité, avec tous ses droits et prérogatives, conformément à l’ordre établi par Dieu et aux prescriptions canoniques. «L’instruction à tous les degrés se modèlera sur les principes de l’Église catholique. Les évêques auront seuls le droit de désigner les livres dont on devra faire usage pour l’enseignement des sciences ecclésiastiques. Ils contrôleront l’enseignement dans toutes les écoles au point de vue de la foi et des mœurs. «Le souverain pontife ayant juridiction dans toute l’Église, évêques et fidèles pourrontcommuniquer librement avec lui, sans que les lettres ou rescrits pontificaux soient soumis àl’exequatur du pouvoir civil. Les évêques jouiront d’une pleine liberté dans l’administration de leurs diocèses, ainsi que dans la tenue des synodes. «L’Église exercera sans entraves son droit de posséder et d’administrer ses biens. Le for ecclésiastique sera rétabli dans son intégrité. Les causes des clercs seront dévolues à l’autorité ecclésiastique sans qu’on puisse en appeler aux tribunaux séculiers. Les appels comme d’abus sont et demeurent supprimés.«L’Église accorde à la république le droit de présentation aux évêchés et aux cures. Les évêques désigneront au président trois candidats, parmi lesquels il devra faire son choix dans un délai de trois mois; passé ce temps, la nomination appartiendra au Saint-Siège.» Don Ordóñez ne rapporta rien concernant la réforme du clergé. García Moreno, convaincuque ce second objet des négociations entreprises n’était pas moins important que le premier, crut devoir insister avec une filiale, mais rigoureuse fermeté. Il renvoya son ministre à Rome, en lui donnant ces seuls mots pour instructions: «Réforme, ou point de concordat.» Pie IX ne s’attendait pas à ce retour si rapide: «Sans doute, s’écria-t-il en revoyant Don Ordóñez, vous venez me dire comme César: Veni, vidi, vici. — Au contraire, je viens annoncer à Votre Sainteté que le président refuse de signer le concordat sans la réforme. — Mais, reprit Pie IX, cette réforme, je la désire autant que lui, seulement je l’attends de la persuasion et de ladouceur. — Saint-Père, répliqua le ministre, si Votre Sainteté connaissait la situation commenous, elle verrait clairement qu’il faut user d’énergie; on ne temporise pas avec la gangrène; le concordat ne tiendra pas deux mois devant l’opposition des libres penseurs unis aux libres viveurs.» En effet, la cohabitation des religieux avec les soldats dans la plupart des couvents convertis en casernes, le mauvais choix, systématique et prolongé, d’évêques, de curés et de supérieurs indifférents ou incapables, bien d’autres circonstances encore, avaient fait dévier une grande partie du clergé. Pie IX consentit donc à envoyer un délégué apostolique, Mgr Tavani, pour appuyer le bon vouloir du président. Les religieux, ramenés à la vie claustrale, eurent à choisir entre observer la règle ou quitter leur congrégation. Les prêtres séculiers furent contraints, par des examens etdivers règlements, à se remettre à l’étude. Il y eut des protestations, des malédictions; elles se brisèrent contre la volonté de fer du président, appuyé de Mgr Tavani. Et, ce qui prouve bien que García Moreno ne s’était point trompé sur l’étendue du mal et l’urgence d’un prompt remède, c’est que la plupart des religieux aimèrent mieux se séparer que se réformer. Quelques-uns émigrèrent au Pérou ou à la Nouvelle-Grenade; d’autres furent incorporés dans le clergé des paroisses. Tout obstacle étant levé, le 22 avril 1863, le président et le délégué apostolique, entourés de toutes les autorités civiles et militaires, procédèrent à l’échange des signatures, et lecture futdonnée au peuple des articles du concordat. Le drapeau de l’Équateur fut arboré avec la bannière pontificale; leurs couleurs, en s’unissant, symbolisèrent l’union si heureusement accomplie entre l’Église et l’État. Mais à mesure que s’accusait plus clairement le vaste plan régénérateur, la réaction se dessinait aussi. Le monde assista alors à un duel gigantesque entre un homme et la coalition de toutes les forces révolutionnaires. L’attaque vint à la fois du dedans et du dehors. À l’intérieur, les francs-maçons rapprochaient habilement la velléité de protectorat français qu’avait eue García Moreno de l’arrivée fréquente de tant de religieux de France, alors qu’on diminuait le nombre des religieux équatoriens, et ils se déclaraient inquiets pour l’intégrité de la patrie non moins que pour l’Église nationale. Beaucoup de catholiques timorés avouaient, d’autre part, qu’on allait trop vite et trop loin. Le vieil archevêque de Quito ne voyait nullement l’utilité de tant de synodes et de tant de règlements; il n’était pas jusqu’aux amis parlementaires de García Moreno, par exemple M. Gómez de la Torre, président du Sénat, qui ne déclarassent prudent de limiter les pouvoirs d’un pareil «casse-cou»; si bien que les deux Chambres, réunies en congrès en 1863, supprimèrent le droit de grâce, exercé jusqu’alors par la présidence, ainsi que le droit de jugement verbal en campagne et d’exécution sommaire des traîtres en cas d’insurrection. Là-dessus eurent lieu presque simultanément, au midi une agression de flibustiers péruviens enrôlés par l’ex-président Urbina; au nord une invasion formidable dirigée par Mosquera,dictateur de la Colombie et l’âme damnée des francs-maçons; au centre une vaste conspiration de partisans de Mosquera. García Moreno fit face de tous côtés. Il déjoua la conspiration et en livrales auteurs au tribunal suprême, repoussa les Péruviens et envoya contre Mosquera le général Florès, qui subit un échec à Cuaspud, une de ses divisions ayant mis la crosse en l’air au momentoù les Colombiens commençaient à se débander. La paix avec Mosquera n’en fut pas moins signée sans aucun dommage pour l’Équateur. Mais la cour suprême acquitta les conspirateurs, sous prétexte que la rébellion n’avait pas été suivie d’effet. Alors García Moreno, désarmé en quelque sorte, se découragea ou feignit le découragement, et donna sa démission. Dans unmessage empreint d’une noble tristesse, il expliqua la défaite de Cuaspud, «causée par la scandaleuse désertion de certains corps que la suppression du jugement verbal avait encouragés à l’indiscipline.» Il ajoutait que maintenir l’ordre dans ces conditions était une tâche au-dessus de ses forces; qu’un autre que lui serait peut-être plus favorisé, parce qu’il aurait moins d’ennemis; que les attaques du dehors étant pour le moment déjouées, il pouvait se retirer. Il demandait des juges, afin de pouvoir se justifier publiquement de tant d’accusations, et terminait en faisant des vœux pour son successeur. Ces instances ne furent pas plus tôt divulguées que le peuple, et surtout la jeunesse de Quito, assiégea de son mécontentement l’assemblée hésitante. On le connaissait maintenant, ce prétendudespote; après la guerre, au lieu d’entretenir une armée de prétoriens, il n’avait gardé que mille hommes sous les armes, et il descendait spontanément du pouvoir, cet ambitieux; il demandaitdes juges, ce contempteur des lois! Mais si on le laissait se retirer réellement, qui donc serait en état de continuer après lui les réformes commencées? Comment s’y prendrait-on pour empêcher le retour des radicaux ? Devant le mécontentement général, le congrès refusa d’accepter la démission et retira les lois malencontreuses de 1863. Raffermi dans son autorité, le président fit grâce à tous les conjurés, même aux officiers, qu’il aurait pu poursuivre encore pour insubordination devant l’ennemi. Le plus connu d’entre eux étaitle général Maldonado, brave soldat mais tête faible, et qui s’était laissé persuader par les sociétés secrètes que c’était à lui que revenait de droit la place occupée par García Moreno. Celui-ci le fitvenir et lui dit: «Vous avez failli perdre la patrie sur le champ de bataille de Cuaspud; vous avezen outre cherché à livrer Guayaquil à Urbina. N’essayez pas de vous justifier, c’est inutile, tout est oublié; mais si je vous reprends à conspirer, tout général que vous êtes, je vous ferai fusiller sur la grande place de Quito.» L’incorrigible Maldonado persista à se croire au-dessus de la justice. Le 23 juin 1864, García Moreno recevait la visite d’un officier qui, bourrelé de remords, venait le supplier de fuir, parceque la caserne de Quito allait se soulever à l’instant même et que, cette fois, les mesures étaient si bien prises qu’il ne pourrait échapper. Sans perdre une minute, le président vole à la caserne, appelle l’officier de garde et lui dit: «Je sais tout; vous allez me révéler sur-le-champ les noms de vos complices; sinon vous serez fusillé comme un traître.» L’officier se troubla, balbutia et finit par tout avouer. À la tête des conjurés se trouvait Maldonado, qui s’échappa. «Le malheureux s’écria García Moreno, qu’il se cache bien; je ferai au rebours de ce qui se pratique d’ordinaire; je ne frapperai aucun des criminels de second ordre; mais malheur au chef! Il faut un exemple.» L’infortuné général ayant été découvert, il le fit amener, chargé de fers, à la prison de Quito, et y descendit lui-même pour lui annoncer qu’il allait mourir. Le coupable n’en voulait rien croire; il répondit, avec un air de hauteur méprisante, que la cour ne le condamnerait certainement pas à mort. «La cour! qu’importe la cour? répliqua le président. Il est, en effet, possible qu’elle n’ose pas vous frapper; mais je vous ai juré un jour, moi, que si je vous reprenais à conspirer, vous seriez fusillé sur la grande place de Quito. Je n’ai qu’une parole: préparez-vous, car demain, à pareille heure, vous aurez paru devant Dieu». Maldonado pâlit, demanda un prêtre, et mit ordre à sa conscience. Le lendemain, quand on vit s’échelonner les troupes sur tout le parcours que devait suivre le condamné, il se produisit dans la ville une très vive émotion. Des députations se formèrent pour intercéder en faveur de Maldonado, mais le président avait consigné sa porte. Il entendait le motde grâce voler de bouche en bouche sous ses fenêtres. Agenouillé dans son oratoire, il priait pourle condamné; il se disait qu’il y a pour les chefs de peuples des moments bien terribles, mais que la justice est souvent le premier de leurs devoirs, et qu’épargner un coupable, c’est quelquefois livrer à la mort des multitudes d’innocents. Lorsqu’il eut entendu le coup de feu fatal, il sortit seul et à pied du palais, traversa la foule, qui revenait silencieuse et terrifiée, donna en passant un coup d’œil au peloton d’exécution, et fit comprendre à tous que l’ère des pronunciamientos était close. Le trait d’audace que nous allons raconter maintenant ressemble à une aventure de roman, mais n’en est pas moins rigoureusement historique. Le 31 mai 1865, dans le port de Guayaquil, une bande déterminée d’urbinistes s’étant emparés d’un navire marchand, le Washington,s’approchèrent silencieusement, durant la nuit, de l’unique vaisseau de guerre de l’Équateur, le Guayas, surprirent le commandant Matos, qui n’avait aucun motif de les soupçonner, le tuèrentavec la plus grande partie de son équipage et, attachant ensemble les deux bâtiments, les conduisirent dans la rade de Jambelí. Là, ils saisirent un troisième vaisseau, le Bernardin0 et ils proclamèrent dictateur Urbina, qui vint les rejoindre avec des renforts. García Moreno souffrait en ce moment d’une maladie de foie. Il venait de s’installer à la campagne pour s’y reposer, lorsqu’un courrier, arrivant à marches forcées, lui apprit cette nouvelle agression elle danger où se trouvait le port de Guayaquil. En une demi-heure sa résolution fut prise. Il rentra à Quito, rédigea en toute hâte plusieurs décrets qu’il remit, sous pli cacheté, au vice-président Carvajal, avec ordre de les insérer le lendemain au journal officiel; ensuite, sans avoir expliqué ses desseins à personne, il partit pour Guayaquil et tomba comme la foudre au milieu de la municipalité de cette ville, qui délibérait déjà sur sa déchéance. La salle du conseil se vida en un instant. La terreur fut plus grande encore lorsque le lendemain on lut sur les murs de la ville un décret qui se terminait ainsi: «Considérant que la paix de la République est sérieusementmenacée par l’attentat du 31 mai, nous proclamons l’état de siège. Tout militaire déserteur sera soumis au jugement verbal. Le président de la République se charge de commander en personne les forces de terre et de mer.» Les forces de mer, n’était-ce pas une puérile jactance? Elles étaient aux mains de l’ennemi.Mais en ce moment arriva un vapeur anglais, le Talca. García Moreno pria le consul anglais de le lui céder, moyennant finances. Le consul demanda cinquante mille livres sterling (1250000 fr.).

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    Predefinito Riferimento: Gabriel Garcia Moreno

    N’ayant pas le temps de marchander, García Moreno signa le marché. Le Talca fut armé de cinqforts canons, et rempli d’armes de toutes espèces. Toutefois l’entreprise, qu’on commençait à comprendre, était tellement aventureuse qu’on ne trouva un machiniste qu’au prix de 100000 fr.Et que le commandant du navire, refusant net d’obéir à García Moreno, donna l’ordre d’expulserouvriers et soldats équatoriens et de reprendre la mer. Le président accourut et somma le capitaine d’arborer le drapeau de l’Équateur. — Jamais! mon drapeau est le drapeau anglais, on me passera sur le corps avant d’y toucher! — Eh bien! répliqua García Moreno, montrant unrenfort de soldats équatoriens qui en ce moment accostaient le navire, si vous y tenez absolument,je vais vous faire fusiller et votre drapeau vous servira de linceul!» Le capitaine se soumit.Il est bon d’ajouter qu’aussitôt après le marché conclu avec le consul, représentant de la compagnie à laquelle appartenait le navire, García Moreno s’était rendu à la caserne. «J’ai besoin, dit-il, d’un certain nombre de braves à trois poils. Que ceux qui ont peur semettent à ma gauche, et à ma droite ceux qui se sentent le courage de me suivre!» En un clin d’œil, tous passèrent à droite, Il en choisit deux cent cinquante avec des officiers solides, les fitmonter sur le vaisseau et leur dit: ‘Je regrette de n’avoir à vous donner pour adversaires que des ennemis indignes de vous, des forbans, des assassins; mais la patrie vous impose cette corvée d’un nouveau coup de balai à donner dans ce tas d’immondices. Appuyez ferme et ce sera le dernier!» Électrisé, le nouvel équipage quitta le port en criant: «Vive García Moreno!» Les conservateurs répondaient du rivage par des cris semblables, pendant que les radicaux échangeaient des regards d’ironique pitié. Ils comptaient bien ne plus revoir leur adversaire détesté, ou ne le revoir que prisonnier ou mort. En outre, ils venaient d’apprendre qu’Urbina avait attaqué et forcé à se rendrela garnison de Santa-Rosa, et renforcé d’une goélette sa flottille, qui comptait ainsi quatre bâtiments. Le 26, au point du jour, le Guayas, le Bernardino et la goélette, qui se trouvaient réunis dans la rade de Jambelí, le Washington étant dans une baie assez éloignée, reconnurent le Talca, qui s’avançait rapidement vers eux, guidé par un autre petit vapeur, le Smyrk. Ils chargèrent leurs pièces et se tinrent prêts à tout événement. Dès qu’on fut à porté de s’entendre, ils demandèrent qui étaient ces nouveaux venus. «Rendez-vous, leur fut-il répondu, García Moreno est à notre bord!» Ils firent feu, tandis que le président rangeait ses deux cent cinquante braves et leur disait: «Une seule décharge! après quoi, le revolver à la main et le poignard aux dents, et à l’abordage!» Cette décharge unique fut si heureusement dirigée qu’elle ouvrit une large brèche dans le flanc du Guayas. Le Talca, meilleur marcheur, le contourne, enfonce sa proue dans la blessure béante; et, suivi avec enthousiasme, García Moreno s’élance sur le pont du Guayas, culbute ou massacre tout ce qui résiste et donne le signal de la retraite seulement lorsque le navire va sombrer. Quarante-cinq soldats ou matelots insurgés survivaient au carnage; on les transfère sur le Talca. LeBernardino et la goélette, à ce spectacle, amènent leur pavillon. Pendant ce temps le Smyrk courait déjà sur le Washington, que montait Urbina, mais qu’on avait eu l’imprudence d’amarrer trop près de la côte, si bien que le reflux l’avait laissé presque à sec. L’immobilité forcée du lourd bâtiment et l’approche du Talca frappèrent d’épouvante Urbina et les siens. Ils se sauvèrent dans les canots ou à la nage, abandonnant la caisse et beaucoup de papiers très compromettants pour les frères et amis de l’intérieur, ainsi que les trois cents prisonniers de Santa-Rosa, qui acclamaient leurs libérateurs. Ceux-ci avaient, de la sorte, reconquis toute la flottille d’Urbina, moins le Guayas, disparu sous les flots. Nous avons dit que quarante-cinq officiers ou matelots survivaient de tout l’équipage de ce navire de l’État. García Moreno les fit comparaître devant lui. Dix-sept avaient été enrôlés malgré eux, au témoignage de leurs compagnons; grâce leur fut accordée sans difficulté. Mais les vingt-huit autres furent impitoyablement exécutés. Un prêtre, que García Moreno avait embarqué par précaution, et qui les confessa tour à tour avant le coup fatal, demanda grâce pour le dernier d’entre eux. Le président avait déjà accédé à sa requête lors qu’il reconnut sur le condamné unfragment de l’uniforme du commandant Matos. — Vous étiez parmi les assassins du commandant du Guayas? lui demanda-t-il en l’observant d’un regard perçant. Le malheureux balbutia. — Pas de grâce, reprit le terrible justicier, pas de grâce pour les assassins! Et justice fut consommée.Il ne se montra pas moins inflexible envers ceux dont la complicité lui fut révélée par les papiers saisis sur le Washington. Rentré à Guayaquil, il se fit amener un certain avocat, le docteur Viola, qui parut le front haut et le sourire aux lèvres devant lui et le conseil de guerre qui l’entourait. «Docteur Viola, en votre qualité d’avocat, vous devez savoir quelle peine mérita un conspirateur qui a négocié avec l’ancien propriétaire du Washington l’achat de ce navire et sa remise à Urbina? — La mort, Monsieur le président; seulement je ne comprends pas — Docteur Viola, vous allez comprendre. Reconnaissez-vous cette lettre? — Oui, elle est de moi; mais je ne savais pas quel usage Urbina voulait… — Et cette autre lettre, donnant des renseignements précissur les moyens de surprendre le Guayas, la reconnaissez-vous? — Je ne puis nier. — Docteur Viola, préparez-vous à mourir, je vous accorde trois heures.» Les intercesseurs ne manquèrent point en faveur de Viola. On dit que la vieille mère de García Moreno fut du nombre, et qu’il lui répondit: «Ma mère, demandez-moi tout ce que vous voudrez, mais pas cela; il faut qu’à tout prix je déshabitue notre malheureux pays de ses incessantes révolutions. Et comme la mère insistait, il lui adressa ce mot profond: «Ma mère,vous songez à sauver les coupables, moi je songe à sauver les innocents!» Qu’on ne trouve pas excessive une rigueur pareille. Elle l’aurait été si elle n’eût pas été absolument indispensable pour le but à atteindre; mais pouvons-nous mieux apprécier sur ce point que García Moreno lui-même? En tout cas, la justice implacable d’un García Moreno paraît bénigne à côté de la faiblesse d’un Louis XVI ne sachant jamais punir: García Moreno a tiré son pays de l’abîme et Louis XVI y a laissé tomber le sien; des milliers et des millions d’honnêtes gens ont payé de leur vie sa cruelle bonté qui l’empêcha de frapper quelques scélérats. Lorsque le héros équatorien accomplit l’étonnante prouesse de Jambelí, la quatrième et dernière année légale de sa présidence était presque achevée. Il venait de se faire nommer unsuccesseur et se disposait à se retirer dans l’hacienda de Guachalá, qu’il voulut exploiter lui-même, afin de refaire sa santé fortement ébranlée par tant de travaux et d’émotions. Sa digne épouse,Rosa Ascásubi, était morte; il épousa en secondes noces Mariana de Alcázar, de la même famille,et en eut un fils et une fille. Celle-ci lui fut presque aussitôt enlevée. Cette perte le brisa momentanément. «On me croit fort, disait-il alors; ah! mes amis, que je suis faible, que je suis faible!» Pour faire diversion à ses chagrins, il accepta bientôt de rentrer dans la vie publique, rebâtit la ville d’Ibarra, dont une moitié avait été ensevelie par un récent tremblement de terre, et représenta l’Équateur à Lima et à Santiago, en des négociations internationales dont il fut l’âme. L’Espagne avait bloqué Valparaiso et paraissait chercher un prétexte pour ressaisir ses anciennes colonies.García Moreno fit conclure une ligue défensive entre tous les États sud-américains du Pacifique; l’Espagne réfléchit et recula. À Lima, il faillit être victime d’une lâche tentative, qui ne saurait être passée sous silence, parce qu’elle couvre de honte les prétendus libéraux. Comme il descendait du train et donnait la main à sa jeune nièce pour l’aider à descendre à son tour, un nommé Viteri, parent d’Urbina et frère d’un des insurgés exécutés sur le Washington, lui tira deux coups de revolver, troua son chapeau, qui tomba à terre, et lui fit deux blessures légères, l’une à la tête, l’autre au bras. García Moreno avait dans sa poche une arme semblable; au lieu de brûler la cervelle au furieux, il se borna à le maintenir en le frappant de la crosse, y réussit grâce à l’aide de son beau-frère, don Ignacio deAlcázar, et, dès qu’il vit le meurtrier arrêté, remit à la police son revolver muni de toutes ses balles. Tel était cet homme vindicatif; sans pitié devant un attentat contre la patrie, il épargnait uncriminel quand sa propre vie était seule en jeu. Mais voici où éclata la complicité des sociétés secrètes. Le tribunal de Lima, composé entièrement d’amis d’Urbina et des loges, trouva moyende différer le jugement de l’assassin jusqu’à ce que l’émotion publique fût calmée, récusa le témoignage de don Ignacio de Alcázar et de sa fille, comme parents de la victime, ne voulutaccorder créance qu’aux complices de l’assassin et finit par juger comme suit: «Il paraît bien qu’il y a eu tentative d’assassinat, mais de la part de qui? Est-ce Viteri qui a voulu tuer García Moreno,ou García Moreno qui a voulu tuer Viteri? Le tribunal n’est pas suffisamment éclairé sur ce point; il renvoie donc tout le monde des fins de l’accusation». On voit qu’il en est partout de même là où les passions politiques sont en jeu, et que les juges du nouveau monde sont au moins aussi retors que ceux de l’ancien. Cependant la faiblesse du président Carrión, successeur de García Moreno, puis celle d’Espinosa après que Carrión eut été forcé de démissionner, avaient trompé l’attente du pays. Ces deux hommes, pleins de bonnes intentions, mais désireux de plaire à tous les partis et de passer pour des esprits larges et libéraux, avaient rendu peu à peu courage aux perturbateurs. Une révolte militaire éclata à Quito; on se battit plusieurs heures et il y eut deux cent cinquante victimes. Les regards se reportèrent tout naturellement sur l’homme providentiel qui, le premier, avait donné à l’Équateur une paix durable. García Moreno fut acclamé président en 1869. Il n’accepta que pour un intérim de quatre mois. Alors on élut son beau-frère, Manuel Ascásubi, et on le nomma lui-même général en chef des armées de terre et de mer. Ascásubi, à son tour, n’accepta que pour quelques semaines, et le congrès national n’eut d’autre ressource que de signifier à García Moreno, au nom de la nation, un commandement formel et souverain devant lequel il s’inclina,mais pas avant d’avoir obtenu que la constitution serait modifiée. La révision eut lieu suivant ses indications. En tête, on grava non pas le dogme de la souveraineté populaire, mais: «Au nom de Dieu un et trine, auteur, conservateur et législateur de l’univers.» Comme lareligion catholique est la seule vraie, et qu’elle était déclarée religion de l’État, fut exclu des fonctions publiques, et même du droit électoral, tout individu appartenant à une société prohibée par l’Église. Afin de restaurer aussi le pouvoir civil, le droit de veto attribué au président devintsérieux et efficace; les projets de loi que le président refusait de sanctionner furent renvoyés non plus à une délibération nouvelle, après deux mois, mais au futur congrès. Les tentatives de rébellion, non suivies d’effet pour un motif indépendant de la volonté de leurs auteurs, encoururent des peines sévères. Enfin, pour atténuer les discordes et l’énervement qui résultent d’élections trop fréquentes, le président fut élu pour six ans au lieu de quatre, les députés également pour six, et les sénateurs pour neuf au lieu de deux. Cette constitution, soumise au peuple, fut approuvée par 14000 voix contre 500. Après dix ans de combats, le président restaitmaître et pouvait se remettre tout entier à son œuvre civilisatrice. Nous avons esquissé l’esprit de cette œuvre en racontant sa première présidence; il ne nousreste qu’à donner quelques chiffres, comme résumé de la seconde. Il créa une vingtaine de collèges, une centaine d’écoles primaires, une école militaire dite «des cadets,» 44 kilomètres de chemins de fer, 300 kilomètres de route carrossable et autant de bons sentiers à piétons et à mulets, jeta quantité de ponts sur les torrents des Cordillères, épura et compléta le code,supprima, pour la réorganiser, l’université de Quito, qui était beaucoup trop arriérée comme sciences et beaucoup trop avancée comme doctrines pseudo-libérales; créa une faculté de médecine, une école des beaux-arts, un observatoire confié aux jésuites de Quito; bâtit pour ces derniers un superbe collège, qu’ils appelèrent par reconnaissance collège Saint-Gabriel; fonda des orphelinats et des hôpitaux; développa les missions du Napo et appela aux bienfaits de la civilisation chrétienne plusieurs dizaines de milliers d’Indiens. Les statistiques établissent que le nombre des enfants fréquentant les écoles primaires, dans tout l’Équateur, était de 8000 avant sa première présidence, de 13000 après, et de 32000 en 1875. Pour réaliser toutes ces améliorations il fallait beaucoup d’argent. Où eu trouvait-il? Dans une stricte économie, dans une surveillance plus rigoureuse des douanes, dans le développementprogressif de l’agriculture et de l’industrie, et aussi dans le maintien de la paix intérieure, qui nefut pas troublée sérieusement pendant les six années de sa deuxième présidence. La répression des agressions d’Urbina, durant la première, avait entraîné l’énorme dépense d’un million de piastres(la piastre vaut 5 francs). García Moreno dépensa six à sept millions de piastres rien que pour les travaux publics; il augmenta d’un tiers les traitements de tous les employés de l’État, sauf à exiger d’eux plus de travail; et cependant il fut le premier qui parvint à équilibrer le budget, bien plus, à rembourser une partie de la dette nationale. Dans son dernier message il disait: «Depuis six ans nous avons consacré un million de piastres par an à l’extinction de notre dette anglo-américaine.J’ai le plaisir de vous annoncer que le grand-livre de la dette inscrite pourra être fermé l’an prochain et que dans un petit nombre d’années nous nous passerons de dette flottante. Un dernierchiffre: le total des recettes de l’État, qui n’avait jamais atteint 1400000 piastres sous Urbina, fut porté, dès 1870, à 2240000 et dépassa 3000000 en 1873. «Le mal du siècle, disait García Moreno à un député, est de ne plus savoir dire non. Vous briguez cet emploi comme une faveur pour un ami, comme une manière de vous acquitter envers un de vos électeurs influents. Je vous réponds: l’homme pour l’emploi, et non l’emploi pour l’homme! Et quant à vos frais électoraux, si vous les payez des deniers de l’État, je vous déclare que vous volez l’État.» Aussi, quel rude travailleur, et comme il donnait l’exemple! Debout dès cinq heures du matin,il se rendait de six à sept heures à l’église pour y entendre la messe, qu’il servait souvent lui-même,et faire sa méditation, comme un moine. À sept heures, courte visite à l’hôpital, ou dans une prison, ou dans une famille pauvre; puis, il travaillait dans son cabinet jusqu’à dix heures, déjeunait et se rendait aussitôt au palais du gouvernement, où l’attendaient les ministres. Il rentrait pour dîner vers quatre heures, après quoi, sous prétexte de récréation, il inspectait les travaux publics ou faisait quelques visites. Rentré à six heures, il passait la soirée en famille.Quand neuf heures sonnaient, alors que sa femme et son jeune fils allaient prendre leur repos, ilpassait encore deux ou trois heures dans son cabinet à lire les journaux ou à faire sa correspondance. Tel était l’ordre du jour dans les moments de calme. Mais si un incident, révolte, inspection ou voyage, l’appelait au dehors, les repas n’avaient plus d’heures, ni la nuit de repos. Alors il se contentait pour toute nourriture de biscuit et de chocolat. Un prêtre lui offrit un jour son lit: «Merci, lui répondit García Moreno, mais mes fonctions ne me permettent point de dorloter mon corps; si je lui accordais un matelas aujourd’hui, demain il trouverait la terre trop dure. Jamais, par dégoût ou lassitude, il ne remit au lendemain une lettre ou une affaire. «Vous ne pouvez vous tuer, lui disait-on quelquefois cette personne attendra. — Dieu peut faire attendre,répondait-il en souriant, moi je n’en ai pas le droit. Quand Dieu voudra que je me repose, il m’enverra la maladie ou la mort.» Un jour cependant, son ministre et intime ami Carvajal, voulant lui procurer quelques heures de délassement, l’entraîna, d’accord avec les autres ministres,dans une hacienda qu’il venait d’acheter. Après une course à cheval de plusieurs lieues, García Moreno inspecta l’établissement. Carvajal offrit à ses hôtes un repas somptueux, puis d’excellentscigares et un jeu de cartes. Quand, vers le soir, le président donna le signal du départ, Carvajal le supplia de prolonger sa visite, ajoutant qu’il se considérerait comme offensé s’il refusait de passer la nuit sous son toit. «Je consens à rester, dit García Moreno, mais vous, messieurs les ministres, êtes-vous capables de passer la nuit et de vous trouver à votre poste demain à onze heures? Ils lui répondirent par une affirmation solennelle, et l’on se remit à jouer. À minuit cependant, on repritle chemin de la ville. Le lendemain, à onze heures, García Moreno arrivait comme de coutume au palais du gouvernement pour se mettre au travail. N’y trouvant personne, il dépêcha une estafette à chacun des ministres pour les informer qu’il les attendait. Ce grand homme, plus grand que l’antique, dut toute sa perfection à sa foi chrétienne. Catholique, et catholique sans épithète, dans sa conduite privée, il voulut l’être encore comme chef de l’État. Parlant de la France qu’il aimait beaucoup, il disait «J’ai importé ici tout ce que j’ai trouvé en elle digne d’être imité; que ne puis-je, en échange, lui offrir le moyen de se guérir de la grande illusion révolutionnaire qui la tue! S’il y avait à sa tête un homme de foi et d’énergie, elle reprendrait bien vite sa place d’honneur dans le monde.» Il faisait beau l’entendre réciter la prière le soir, pour toute sa maison, ou expliquer le catéchisme à son jeune fils, à ses domestiques et parfois à ses aides de camp. Quand revenaient les processions de la Fête-Dieu, il revêtait toutes ses décorations et marchait devant le saint Sacrement, comme le serviteur qui annonce son maître.Les ministres, les officiers, cherchaient un peu d’ombre en longeant les murs, ou en s’abritantderrière le dais dont ils tenaient les cordons: le président tenait bon, gardant le milieu de la rue sans s’inquiéter du soleil. Les libéraux lui reprochaient ces actes de piété extérieure, qu’ils qualifiaient d’hypocrisie. Il répondait avec sa simplicité ordinaire: «L’hypocrisie consiste à agirautrement qu’on ne pense; les hypocrites sont donc ces libéraux qui ont la foi, mais qui, par respect humain ou par calcul de popularité, n’osent pas la suivre, du moins pas dans leur vie publique.» Les journaux de la révolution ne lui ménageaient pas les épithètes désagréables: «Néron théocratique, esclave des jésuites, ennemi personnel du progrès, chauve-souris aveuglée par la contemplation du Syllabus» etc. — L’injure, disait-il alors, c’est mon salaire; ils ont poursuivi le Maître; peuvent-ils épargner les disciples? S’ils me haïssaient à l’occasion d’une faute que j’aurais commise, je les remercierais et tâcherais de m’amender. Mais ils détestent en moi ma fidélité à mon Dieu; je les remercie encore, et tâcherai de toujours mériter leur haine. Lorsque Victor-Emmanuel eut couronné à Rome la série de ses forfaits, García Moreno fut l’unique chef d’État qui eut le courage d’exprimer son indignation tout haut. Il envoya une note qui fut insérée au Journal officiel de l’Équateur. «Le soussigné, ministre des Affaires extérieures de la République de l’Équateur, a l’honneur d’adresser la protestation suivante à Son Excellence le ministre des Affaires étrangères du roi Victor-Emmanuel, à l’occasion des évènements douloureux survenus depuis septembre dernier dans la capitale du monde catholique. «L’existence même du catholicisme étant attaquée dans la personne de son auguste chef, le représentant de l’unité catholique, lequel s’est vu dépouiller de son domaine temporel, unique etnécessaire garantie de sa liberté et de son indépendance dans l’exercice de sa mission divine, Votre Excellence reconnaîtra que tout catholique, et à plus forte raison tout gouvernement qui régit une notable portion de catholiques, a non seulement le droit mais le devoir de protester contre cetodieux et sacrilège attentat. «Cependant, avant d’élever la voix, le gouvernement de l’Équateur attendit la protestation autorisée des États puissants de l’Europe contre l’injuste et violente occupation de Rome, ou, mieux encore, que Sa Majesté le roi Victor-Emmanuel, rendant spontanément hommage à la justice et au caractère sacré du noble Pontife qui gouverne l’Église, restituât au Saint-Siège le territoire dont il l’a dépouillé. «Mais son attente a été vaine: les rois du vieux continent ont jusqu’ici gardé le silence, etRome continue à gémir sous l’oppression du roi Victor-Emmanuel. C’est pourquoi le gouvernement de l’Équateur, malgré sa faiblesse et l’énorme distance qui le sépare du VieuxMonde, accomplit le devoir de protester, comme il proteste, devant Dieu et devant les hommes,au nom de la justice outragée, au nom surtout du peuple catholique de l’Équateur, contre l’iniqueinvasion de Rome et l’esclavage du Pontife romain, nonobstant les promesses insidieuses toujours répétées et toujours violées, nonobstant les garanties dérisoires d’indépendance au moyendesquelles on entend déguiser l’ignominieux asservissement de l’Église. Il proteste enfin contre les conséquences préjudiciables au Saint-Siège et à l’Église catholique, qui ont déjà résulté ourésulteront encore de cet indigne abus de la force. «En vous adressant cette protestation par ordre formel de l’Excellentissime président de cette République, le soussigné veut espérer encore que le roi Victor-Emmanuel réparera noblement les déplorables effets d’un moment de vertige, avant que le trône de ses illustres aïeux ne soit réduiten cendres par le feu vengeur des révolutions.» Ce n’était pas tout. Dépouillé de ses États, le pape se trouvait sans autres ressources, pour subsister, que les secours de ses enfants. Au congrès de 1873, García Moreno dit, après avoir montré la renaissance de l’Équateur sous l’influence du catholicisme et l’état de plus en plus prospère des finances nationales: «Pourquoi ne destinerions-nous pas au Pape spolié le dix pour cent sur la partie de la dîme concédée à l’État? L’offrande sera modeste (10,000 piastres environ); mais puisque nous avons le bonheur d’être catholiques, soyons-le logiquement, ouvertement; soyons-le dans la vie nationale comme dans la vie privée.

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    Predefinito Riferimento: Gabriel Garcia Moreno

    «En tous temps une pareille conduite devait être celle de tout peuple qui tient à garder son honneur; mais aujourd’hui que tant de nations ont apostasié comme nations, aujourd’hui que tout conspire, tout se ligue contre Dieu et son Christ, qu’un torrent de méchanceté et de fureur jaillit du fond de la société bouleversée, comme dans un tremblement de terre, surgissent de profondeurs inconnues des rivières de fange; aujourd’hui, dis-je, cette conduite conséquente etrésolue s’impose à nous, car l’abstention pendant le combat est une trahison.» Il n’est pas besoin de dire avec quelle émotion fut reçue l’offrande de l’Équateur. Pie IX écrivit au président: «S’il faut avant tout louer Dieu, l’auteur de tout bien, sans lequel vous n’auriez pu faire aucune des grandes choses que vous êtes en voie d’accomplir, il convient aussi de louer votre prudence et votre zèle, vous qui avez su conduire de front tant de belles entreprises. Par-dessus tout, Nous vous félicitons de la piété avec laquelle vous rapportez à Dieu tous vos succès, persuadé que sans la moralité, dont l’Église catholique seule enseigne et maintient les préceptes, il ne saurait y avoir pour les peuples de véritables progrès Continuez de vivre dans cette sainte liberté chrétienne, de conformer vos œuvres à votre foi, de respecter les droits de la sainte Église, et Dieu, qui n’oublie point la piété filiale, répandra sur vous, très cher fils, des bénédictions plus abondantes encore que celles dont il vous a comblé jusqu’ici.» Un acte non moins généreux, et même plus hardi dans sa simplicité, fut celui par lequel,s’appuyant d’un côté sur le troisième concile de Quito, de l’autre sur le congrès réuni en 1873, García Moreno consacra sa république au Sacré-Cœur, comme Louis XIII avait consacré sonroyaume à la sainte Vierge. Le royaume recueillit un siècle de grandeur inouïe; puisse la république être récompensée plus amplement encore! Pour couronnement il publia, dans la même année 1873, une amnistie politique générale. Les crimes de droit commun en furent seuls exceptés et déférés non à l’appréciation du gouvernement,mais à celle des tribunaux. Ce dernier acte aurait dû désarmer toutes les oppositions. Il rattacha, en effet, au gouvernement quelques égarés; non pas tous, car lorsque arriva la fin dès six années de présidence, il se trouva encore un catholique libéral, nommé Borrero, pour accepter contre García Moreno une candidature que les francs-maçons n’osaient plus déférer directement à l’un d’entre eux. 23000 électeurs se prononcèrent pour continuer l’administration à García Moreno durantune nouvelle période de six ans; mais les sectes décidèrent de s’y opposer à tout prix. Elles condamnèrent à mort le chef d’État assez téméraire pour avoir relevé le drapeau du Christ et abattu celui de Satan. Afin de préparer l’opinion, ce fut alors, dans l’univers entier, une véritable inondation d’articles de journaux réclamant un libérateur pour les populations enfermées dans «la hideuse jésuitière équatorienne, où la guillotine était dressée en permanence.» Le Monde maçonnique, de Paris, dénonça la trahison de García Moreno, autrefois postulant, selon lui, à la loge de Guayaquil; ce qui était juste aussi exact que le fait de l’initiation de Pie IX dans une loge des États-Unis. EnAmérique, une série de pamphlets provoquèrent à l’assassinat; on chercha des assassins en quelque sorte publiquement dans la ville de Lima, la cité maçonnique par excellence. García Moreno n’ignora rien de ces trames sinistres, ainsi que le prouve la belle lettre ci-après, adressée àPie IX: «J’implore votre bénédiction, Très Saint Père, ayant été réélu pour gouverner, durant six années encore, cette république catholique. La nouvelle période présidentielle ne commence que le 30 août, date à laquelle je dois prêter le nouveau serment constitutionnel, et c’est alors seulement qu’il serait de mon devoir d’en donner officiellement connaissance à Votre Sainteté; mais j’ai voulu le faire dès aujourd’hui, car les loges des pays voisins, excitées par l’Allemagne,vomissant contre moi toutes sortes de calomnies et cherchant le moyen de m’assassiner, j’ai plus que jamais besoin de la protection divine. Quel plus grand bonheur pouvait-il m’arriver, Très Saint Père, que de me voir détesté parce que j’ai aimé notre divin Rédempteur? Mais quel bonheur plus grand encore, si votre bénédiction m’obtenait du ciel la grâce de verser mon sangpour celui qui, étant Dieu, a daigné mourir pour moi le premier?» Le 26 juillet, fête de sainte Anne, patronne de sa femme, celle-ci reçut une carte sur laquelle était écrit: «Bonne fête, mais veillez sur votre mari!» Elle montra cette carte à García Moreno, qui lui répondit en riant: «A la garde de Dieu!» Le 2 août, un religieux écrivit de Lacatunga pour signaler un certain Rayo, destitué au Napo pour malversations, et qui, installé depuis comme sellier à Quito, était certainement au nombre des conjurés. «Rayo? s’écria le président, on lecalomnie, je l’ai vu communier il y a peu de jours.» Ce misérable avait si bien caché son ressentiment que García Moreno lui avait commandé, pour le 10 août, fête de l’Indépendance,une selle d’enfant destinée à son fils Gabriel. Le 4 août il écrivit à un vieil ami de collège, Jean Aguirre: «Les pressentiments que je vous exprimai il y a quelques mois sont sur le point de se réaliser.Je vais être assassiné; trop heureux de mourir pour la foi. Adieu, nous nous reverrons au ciel!» Le 5 août, il reçut de Lima une lettre où on lui disait que l’assassinat prémédité contre lui défrayait toutes les conversations, que même il se trouvait des gens pour affirmer que c’était déjà un fait accompli. Le soir, lorsqu’il mettait tranquillement la dernière main au message qu’il devaitlire le 10, un religieux, entré malgré l’aide de camp de service, lui annonça que ce serait pour lelendemain, si les conjurés trouvaient une occasion. «J’ai reçu déjà bien des avertissements semblables, répondit le président, mais après avoir réfléchi, j’ai vu que la seule mesure à prendre était de me tenir prêt à paraître devant Dieu.» Et il se remit à son travail. On remarqua cependant qu’il passa une partie de la nuit en prières. Mais il vaut mieux citer le récit du P.Berthe. «Le lendemain six août, fête de la Transfiguration de Notre-Seigneur, vers six heures dumatin, il se rendit selon sa coutume à l’église Santo Domingo pour y entendre la messe. C’était le premier vendredi du mois, jour spécialement dédié au Sacré-Cœur. Comme beaucoup d’autres fidèles, le président s’approcha de la sainte Table, et reçut le Dieu de l’Eucharistie, sans doute comme viatique de son dernier voyage, car après tant d’avertissements reçus de tous côtés, il ne pouvait se dissimuler qu’il était en danger de mort; aussi prolongea-t-il son action de grâces jusque vers huit heures.«Les conjurés, dans lesquels nous reconnaîtrons bientôt les hôtes de l’ambassade péruvienne, l’épiaient depuis le matin. Ils l’avaient suivi de loin jusque sur la place Santo Domingo, où ils stationnèrent durant la messe, tantôt par petits groupes, tantôt se rapprochant les uns des autrespour se communiquer leurs observations. On conjectura qu’ils voulaient l’assaillir au sortir de l’église, mais qu’un obstacle imprévu, peut-être le concours assez nombreux des fidèles, lesempêcha d’effectuer leur dessein. Le président rentra tranquillement chez lui, passa quelque temps au milieu de sa famille, puis se retira dans son cabinet pour mettre la dernière main au message dont il voulait, ce même jour, donner communication à ses ministres. «Vers une heure, muni du précieux manuscrit qui devait être son testament, il sortit avec son aide de camp pour se rendre au palais, il s’arrêta en chemin chez les parents de sa femme, dont la demeure touchait à la Plaza Mayor. Ignacio de Alcázar, qui l’aimait beaucoup, lui dit avec tristesse: «Vous ne devriez pas sortir, car vous ne pouvez ignorer que vos ennemis observent tous vos pas. — Il n’arrivera, répondit-il, que ce que Dieu permettra. Je suis dans ses mains en tout et pour tout.» Comme la chaleur était extrême, il prit alors je ne sais quelle boisson qui le mit subitement en transpiration et le força de boutonner sa redingote, circonstance insignifiante mais qu’il importe de relever. Quelques instants après, on le vit se diriger vers le palais du gouvernement, toujours suivi de l’aide de camp Manuel Pallares. «À ce moment, les conjurés se trouvaient réunis dans un café attenant à la place, d’où ils observaient les démarches de leur victime. Dès qu’ils l’aperçurent, ils sortirent les uns après les autres et s’embusquèrent derrière les colonnes du péristyle, chacun au poste assigné par leur chef Polanco, lequel se transporta de l’autre côté de la place pour écarter les obstacles et parer à tout événement. Il y eut alors pour les meurtriers un moment de terrible angoisse. Avant d’entrer au palais, le président voulut adorer le Saint-Sacrement exposé dans la cathédrale. Longtemps il restaagenouillé sur les dalles du temple, absorbé dans un profond recueillement. Comme à l’approche des ténèbres les objets créés disparaissent et la nature se repose dans un calme solennel, Dieu, à ce moment suprême, écartant de l’âme de son serviteur tout souvenir des êtres créés, l’attirait doucement au repos de la céleste union. L’un des conjurés, Rayo, impatienté d’un retard qui pouvait devenir périlleux, fit dire au président par un de ses complices qu’on l’attendait pour une affaire pressante. García Moreno se leva aussitôt, sortit de l’église, gravit les marches du péristyle,et déjà il avait fait sept ou huit pas vers la porte du palais lorsque Rayo qui le suivait, tirant de dessous son manteau un énorme coutelas, lui en asséna un coup terrible sur l’épaule. «Vil assassin!» s’écria le président en se retournant et en faisant d’inutiles efforts pour saisir son revolver dans sa redingote fermée; mais déjà Rayo lui avait fait à la tête une large blessure, pendant que les autres conjurés déchargeaient sur lui leurs revolvers. À ce moment, un jeune homme, qui se trouvait par hasard sur la plate-forme, voulut saisir le bras de Rayo, mais blessé lui-même et à bout de force, il dut lâcher prise. Percé de balles, la tête ensanglantée, l’héroïque président se dirigeait néanmoins, tout en cherchant son arme, vers le côté d’où partaient les balles,lorsque Rayo, d’un double coup de son coutelas, lui taillada le bras gauche et lui coupa la main droite, de manière à la détacher presque entièrement. Une seconde décharge fit chanceler lavictime, qui s’appuya contre la balustrade et tomba sur la place d’une hauteur de quatre à cinqmètres. Étendu sur le sol, le corps tout sanglant, la tête appuyée sur son bras, le moribond était sans mouvement, quand Rayo, plus féroce qu’un tigre, descendit l’escalier du péristyle et se précipita sur lui pour l’achever. «Meurs, bourreau de la liberté! criait-il en lui labourant la têteavec son coutelas.»
    Le héros chrétien murmura un dernier acte de défi, qui était en même temps nu acte de confiance sublime: «Pero Dios no se muere, mais on n’assassine pas Dieu!» Et cette bouche intrépide se ferma pour jamais. «Cependant le bruit des coups de feu attire les curieux aux fenêtres en même temps que la panique envahit tous les cœurs. Fonctionnaires et serviteurs se barricadent dans le palais, croyantqu’une bande d’émeutiers monte pour les égorger. L’aide de camp Pallares court à la caserne chercher du renfort pendant que Polanco, Cornejo, Andrade, et autres meurtriers s’enfuient au plus vite en criant: «Le tyran est mort!» Les femmes se précipitent hors des boutiques établies sous le péristyle et poussent des cris lamentables autour du président couché par terre et baigné dans son sang. La place se remplit de personnes effarées, de soldats cherchant les assassins, de prêtres qui arrivent en toute hâte de la cathédrale pour donner au blessé, s’il respire encore, les derniers secours de la religion. Il ne peut répondre à ceux qui lui parlent ni faire le moindre mouvement, mais son regard trahit un reste de vie et de connaissance. On le transporte à lacathédrale aux pieds de Notre-Dame des Sept-Douleurs, et de là dans la demeure du prêtre sacristain pour panser ses plaies béantes: soins inutiles, on s’aperçoit à ses lèvres décolorées et livides qu’il est sur le point d’expirer. Un prêtre lui demande s’il pardonne à ses meurtriers; son regard mourant répond qu’il pardonne à tous. Sur lui descend alors la grâce de l’absolution; l’extrême-onction lui est administrée au milieu des larmes et des sanglots de l’assistance, et il expire un quart d’heure environ après l’épouvantable tragédie du palais.» Pendant ce quart d’heure d’agonie, les assassins avaient disparu, excepté Rayo, qu’une balledestinée au président avait blessé à la jambe. Il s’éloignait péniblement, espérant voir éclater une révolution radicale, quand il fut entouré d’un peuple en fureur et de soldats qui menaçaient de le mettre en pièces. Son arrogance alors fit place au trouble et à la frayeur; il murmurait des paroles incohérentes: «Que me voulez-vous? je vous ai délivrés!… » Tout à coup un soldat cria à la foule: «Écartez-vous!» La foule obéit et le soldat déchargea son fusil sur le meurtrier, qui, frappéà la tête, tomba raide mort. Son cadavre fut piétiné et traîné ignominieusement au cimetière, où plus tard sa veuve lui fit creuser une tombe. Des chèques sur la banque du Pérou furent trouvés dans ses vêtements… Campuzano parut également espérer un pronunciamiento radical; mais en voyant l’exaspération du peuple il chercha à se cacher… À son air égaré, les soldats devinèrent un des assassins et le jetèrent en prison. On lui promit la vie sauve s’il voulait révéler les noms de ses complices. «C’est inutile, s’écria le malheureux: mes compagnons, eux, ne me feraient pas grâce; j’aime mieux être fusillé que poignardé…» Cornejo se réfugia dans un bois où il fut traqué et pris par la foule, puis livré à un conseil de guerre. Il avoua que l’âme de la conspiration avait été le docteur Polanco, et mourut repentant. Quant à Polanco, qui n’avait pris part que moralement au crime, il en fut quitte pour dix ans de réclusion. Encore s’échappa-t-il de prison, deux ans après, au moment d’une bataille entre conservateurs et radicaux. Se jetant aussitôt dans la mêlée, il vomissait des blasphèmes et commandait aux soldats de tirer sur une bannière du Sacré-Cœur,lorsqu’une balle l’atteignit au front et l’étendit raide mort. Dieu est quelquefois moins patient que les conseils de guerre…Le doyen de la faculté de médecine reconnut officiellement le cadavre du président et en fit l’autopsie. Le martyr avait reçu cinq ou six coups de feu et quatorze coups de l’infâme coutelas, dont l’un avait pénétré jusqu’au cerveau. On compta sept ou huit blessures mortelles. Sur la poitrine du président se trouvaient une relique de la vraie Croix, le scapulaire de la Passion et celui du Sacré-Cœur de Jésus; à son cou pendait un chapelet auquel était attachée une médaille représentant d’un côté le pape Pie IX, et de l’autre le concile du Vatican. L’effigie de Pie IX étaitteinte du sang de García Moreno, comme pour marquer par ce touchant symbolisme que l’amour de l’Église et de la Papauté avait causé la mort du glorieux martyr. On trouva également sur lui unagenda tout noirci de ses notes journalières. Sur la dernière page il avait, ce jour-là même, tracé au crayon trois mots qui suffisent pour peindre l’âme d’un saint «Mon Seigneur Jésus-Christ,donnez-moi l’amour et l’humilité, et faites-moi connaître ce que je dois faire aujourd’hui pour votre service. Le lugubre événement à peine connu, toute la ville se couvrit spontanément de deuil. Les rues se tendirent de noir; il n’y eut pas même un semblant de désordre Durant les trois jours quis’écoulèrent entre la mort et les funérailles, le corps fat exposé dans une chapelle ardente. Assis sur fauteuil, revêtu des insignes de sa charge, entouré de ses gardes, on l’eût dit simplement assoupi.Les assassins avaient criblé son corps de blessures, mais respecté son noble visage, dont chacunpouvait reconnaître la mâle physionomie. En se rendant au congrès, les députés rencontraient des processions interminables d’hommes, de femmes et d’enfants qui avaient prié près du cadavre ets’en retournaient en pleurant à chaudes larmes. «Nous avons perdu notre père, disaient-ils; il a donné son sang pour nous.» Jamais on ne vit spectacle plus navrant. En vertu de la constitution, le vice-président, don Javicr Léon, s’étant déclaré chef du pouvoir exécutif, fit l’ouverture de la session législative et présenta au congrès le message, tout maculé de sang, trouvé sur le cadavre. On écouta la lecture dans un religieux silence; voici quelques passagesde ce testament du grand homme: «Il y a quelques années, disait García Moreno, l’Équateur répétait chaque jour les tristes plaintes que le libérateur Bolívar adressait dans son dernier message au Congrès de 1830: Je rougisde l’avouer: l’indépendance est un bien que nous avons conquis, mais aux dépens de tous les autres.«Depuis que, mettant en Dieu notre espérance, nous nous sommes éloignés du courantd’impiété et d’apostasie qui entraîne le monde en ces jours d’aveuglement et que nous nous sommes réorganisés en 1869 comme nation vraiment catholique, tout va changeant jour par jour pour le bien et la prospérité de notre chère patrie.«J’achève dans quelques jours la période du mandat qui m’a été confié en 1869. La République a joui de six années de repos et durant ces six années elle a marché résolument dans le sentier du progrès, sous la protection visible de la Providence. Bien plus grands eussent été les résultats obtenus, si j’avais possédé pour gouverner les qualités qui me manquent malheureusement, ou si, pour faire le bien, il suffisait de le désirer avec ardeur. «Si j’ai commis des fautes, je vous en demande pardon mille et mille fois, et ce pardon, je le demande avec des larmes très sincères à tous mes compatriotes, les priant de croire que mavolonté n’a jamais cessé de poursuivre leur bien. Si au contraire vous croyez que j’ai réussi en quelque chose, attribuez-en d’abord le mérite à Dieu et à l’Immaculée dispensatrice des trésors de sa miséricorde, puis à vous-mêmes, au peuple, à l’armée et à tous ceux qui, dans les différentes branches du gouvernement, m’ont aidé avec tant d’intelligence et de fidélité à remplir mes difficiles devoirs.» À ce message d’outre-tombe le congrès sut répondre d’une manière digne de celui qu’il pleurait: «Considérant: «Que l’Excellentissime don Gabriel García Moreno, par sa vaste intelligence comme par ses hautes vertus, mérite d’occuper la première place parmi les enfants de l’Équateur; «Qu’il a consacré sa vie et les dons si rares de son esprit et de son cœur à la régénération et à la grandeur de la République, en fondant les institutions sociales sur la base solide des principes catholiques; «Qu’avec la magnanimité des grands hommes, il affronta sans crainte la diffamation, la calomnie, et les sarcasmes impies, donnant ainsi au monde le noble exemple d’une admirablefermeté dans l’accomplissement du devoir; «Qu’il aima la religion et la patrie jusqu’à souffrir pour elles le martyre, et légua de la sorte à lapostérité une mémoire illustrée de l’immortelle auréole dont Dieu couronne les plus héroïques vertus; «Qu’il combla la nation d’immenses et impérissables bienfaits dans l’ordre matériel, intellectuel, moral et religieux; «Et qu’enfin la nation doit honneur, gratitude et respect aux citoyens qui savent l’ennoblir et laservir sous l’inspiration du plus pur et du plus ardent patriotisme; «Le Sénat et la Chambre des députés décrètent: «L’Équateur, par l’entremise de ses représentants, accorde à la mémoire de l’Excellentissime don Gabriel García Moreno l’hommage de son éternelle gratitude, et, pour le glorifier selon ses mérites, lui décerne le titre de Régénérateur de la patrie et de Martyr de la civilisation catholique. «Pour la conservation de ses restes mortels, il sera élevé, au lieu que désignera le pouvoir exécutif, un mausolée digne de ce grand homme.«Afin de recommander son nom glorieux à l’estime et au respect de la postérité, une statue en marbre, érigée en son honneur, portera sur son piédestal l’inscription suivante: À García Moreno, le plus noble des enfants de l’Équateur, mort pour la religion et pour la patrie, la République reconnaissante. «Dans les salles des conseils municipaux et autres assemblées officielles figurera également un buste de García Moreno, avec l’inscription: Au régénérateur de la patrie, au martyr de la civilisation catholique. «La route nationale et le chemin de fer, œuvres principales du président défunt, porteront le nom de García Moreno.» De tels hommages honorent non seulement celui qui les mérita, mais encore la nation qui les lui rendit alors qu’il n’était plus au pouvoir. García Moreno a été, de tous les chefs d’État contemporains, le plus unanimement regretté, et il méritait de l’être. Au début de cette étude, nous l’avons appelé: «l’homme le plus extraordinaire du siècle»; en la terminant, nous n’hésitons pas à ajouter: «et le plus grand.» Il y eut en lui l’étoffe de plusieurs grands hommes; on y trouve à la fois du saint Louis et du Jean Bart, du Louis Veuillot et de l’Alexandre le Grand, et il a fait de son petit pays l’école de l’univers entier.

    Link: http://ddata.over-blog.com/xxxyyy/0/...llefranche.pdf

 

 

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