Un velo sulla realtà
lunedì 28 novembre 2011 | Alessio Ammannati | 2 commenti
Un “riformista” in difficoltà: così è apparso in TV, una di queste sere, Pietro Ichino. E’ bastata la presenza di un gruppo di ascolto formato, tra gli altri, dal Presidente degli artigiani e da una giovane educatrice precaria, per rendere chiara la fragilità del pensiero cosiddetto “riformista” sul mercato del lavoro. La giovane precaria, con il racconto della propria pluriennale difficoltà sul lavoro, ha smontato in modo semplice le argomentazioni del Professore. Così come il Presidente dei giovani artigiani, pur manifestando simpatie ichiniane, ha affermato che un lavoratore è una risorsa per l’impresa, anzitutto per quella piccola ed artigiana, di cui non si dovrebbe disfarsi con facilità, pensando al difficile percorso di formazione professionale acquisita.
La linea difensiva del senatore democratico, a quel punto, si è disegnata tale quale quella della Roma di Luis Enrique, tanto da produrre un autogol evidente, quando ha dichiarato che le sue proposte non servono ad aumentare l’occupazione, bensì a redistribuire la “flessibilità” su tutti. Quella flessibilità divenuta in questi anni pura precarietà lavorativa ed esistenziale.
Arricchire lo statuto dei lavoratori
Emerge, quindi, con chiarezza come per riformare il mercato del lavoro in senso progressivo non serva abolire lo Statuto dei lavoratori, bensì arricchirlo ed estenderlo. Vorrei circoscrivere pochi elementi, per non scrivere di quelli generalizzati che tutti conoscono.
Il primo. Risulta palese che ogni lavoratore italiano può aver bisogno di un ammortizzatore sociale, che si chiami Cassa integrazione o altro. Perciò, ogni azienda dovrebbe avere come obbligo quello del pagamento per il fondo di solidarietà degli ammortizzatori sociali, permettendo l’estensione a tutti della Cigo/Cigs.
Il secondo. Per i lavoratori delle società sotto i quindici dipendenti, che sono precari a tutti gli effetti, possiamo pensare ad una tutela reale che obblighi il datore di lavoro al reintegro in azienda o a pagare un indennizzo forfettario ben più alto di quello attuale (tipo ventiquattro mesi di stipendio) più il pagamento, a carico aziendale, della formazione per i successivi due anni.
Il terzo. Gli anni che abbiamo alle spalle hanno dimostrato ormai con chiarezza la inefficacia sociale del sistema privatizzato di collocamento, per cui occorre una vera rivalutazione di un servizio pubblico dove incrociare ed orientare in modo valido domanda ed offerta di lavoro, con l’obbligo di una formazione professionale più efficace ed in stretto rapporto con il sistema scolastico.
Il quarto. Una nuova valorizzazione del lavoro manuale, accompagnata dall’adozione di un reddito formativo di cittadinanza in modo da ostacolare la politica perseguita finora di bassi salari. Il reddito di cittadinanza, infatti, può impedire, ad esempio, di dover scegliere il ricatto del lavoro a basso costo, perché fornisce un reddito ed una formazione al fine di una buona occupazione.
Se si ha in mente un progetto di redistribuzione sociale, insomma, da qualcosa si dovrà pur iniziare assieme ad una cornice più grande in cui agire, ad esempio quella di un piano del lavoro che inizi a sostituire i criteri della crescita (destinata prima o poi a finire) e della ricchezza con quelli della responsabilità, utilità e benessere sociale.
La responsabilità sociale delle imprese
A fronte di tale esigenza generale, pur in un quadro politico e sociale di grande difficoltà, emergono soluzioni più responsabili, vedi l’esito della vertenza di Termini Imerese, dove la mobilitazione unitaria sindacale e il non avere tra i piedi un personaggio quale l’ex ministro Sacconi dimostrano che qualcosa, oltre la testimonianza, si può davvero fare.
Di certo, non si possono permettere licenziamenti più facili in nome di una flessibilità che è precarietà, e che non aiuta nemmeno una politica di maggiore occupazione. Ichino, tra l’altro, con le sue proposte, obiettivamente, tende a favorire i caratteri speculativi che spesso hanno assunto le imprese in questi ultimi anni, attivando intraprese fragili e temporanee, facendone pagare i costi ai lavoratori.
Sul fronte della stessa cultura di impresa si abbisogna, dunque, di un confronto tenace che riesca a battere le tendenze suddette, che hanno colpito e colpiscono anche coloro che intendono fare buona impresa e sentono una responsabilità sociale nel loro agire imprenditoriale. Del resto la responsabilità sociale delle imprese è, nei fatti, un elemento costitutivo costituzionale, che può essere un capitolo unificante senza dover riprendere fumosi patti dei produttori.
Questa responsabilità sociale, in conclusione, nonostante le solite pretese “riformiste”, è espunta e non sottolineata dai chierici alla Ichino. Ed a fronte di questo quadro problematico della realtà si capiscono, forse, le loro difficoltà: perché questa concretezza dimostra come l’abolizione dell’articolo 18 non serva. E’ pura ideologia, cioè falsa coscienza. Insomma, un velo sulla realtà.
Alessio Ammannati
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