*
Lettera
Il tralcio di vite sopra
le strie di nubi bussa
da ore alla finestra
La pioggia fili d’argento
appesi
Una falena si alza
e cade si alza e cade
Pensa a me
adesso aprirò
pensa a me con sentimento
Christoph Wilhelm Aigner
*
Lettera
Il tralcio di vite sopra
le strie di nubi bussa
da ore alla finestra
La pioggia fili d’argento
appesi
Una falena si alza
e cade si alza e cade
Pensa a me
adesso aprirò
pensa a me con sentimento
Christoph Wilhelm Aigner
Originariamente Scritto da …:
“Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.
https://forum.termometropolitico.it/...l#post21308108
Nemesis
(H.P.Lovecraft)
Oltre le cupe soglie del sopore
vigilate dai ghoul,
oltre i notturni abissi della luna,
ho vissuto esistenze senza numero,
ho sondato ogni cosa col mio sguardo;
e grido disperato ad ogni aurora perché divento folle dal terrore.
Ruotavo con la Terra al suo mattino,
quando il cielo era un turbine di fiamma;
ho visto il cosmo oscuro spalancarsi
là dove neri mondi vagan senza scopo,
vagano nell’orrore inavvertiti, senza fama né nome né coscienza.
Ho aleggiato su mari sconfinati,
sotto sinistri cieli grigio-piombo
lacerati da folgori improvvise,
fra tuoni come grida di terrore,
con gemiti di dèmoni invisibili emersi dalle acque di smeraldo.
Come un daino ho sostato sotto gli archi
delle grandi foreste primordiali,
ove s’avverte la Presenza Immonda
in luoghi dagli spettri anche evitati,
e alla Cosa che Avvinghia son sfuggito, a Colei che sogghigna dietro i rami.
Sui monti crivellati di caverne
che si levano squallidi dal piano
ho bevuto acque infette dalle rane,
che filtran dagli stagni e dagli scoli;
ed in fonti sulfuree maledette ho visto cose che non oso dire.
Ho visto un gran palazzo cinto d’edera,
nelle sue sale vuote sono entrato,
dove la luna alta sulle valli
proietta strane ombre sulle mura:
apparenze deformi ed intrecciate, il cui ricordo non oso richiamare.
Ho spiato dubbioso nelle case,
da giardini in rovina circondate,
di un villaggio maledetto cinto
da un lugubre terreno sepolcrale:
e dai lunghi filari d’urne bianche ho ascoltato venire voci arcane.
Ho sostato fra tombe di millenni,
ho volato su vette di terrore
là dove infuria l’Erebo fumante,
dove s’ergono picchi desolati;
e in regni dove il sole del deserto consuma ciò che mai può rallegrare.
Ero già vecchio quando i Faraoni
ascesero sul trono presso il Nilo;
ero vecchio nell’epoca lontana
in cui io solo davo corpo al male,
ed innocente aveva sede l’Uomo nell’isola felice dell’Antartide.
Oh, grande fu la colpa del mio spirito,
e atroce è la vendetta del destino.
Né la pietà del Cielo può placarmi,
né il sepolcro può darmi alcun riposo:
da ere interminate per me battono le ali d’un dolore sconfinato.
Oltre le cupe soglie del sopore
vigilate dai ghoul,
oltre i notturni abissi della luna,
ho vissuto esistenze senza numero,
ho sondato ogni cosa col mio sguardo:
e grido disperato ad ogni aurora perché divento folle dal terrore.
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“Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.
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La cipolla
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
Fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.
Wislawa Szymborska
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DEI SEPOLCRI (Ugo Foscolo)
All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l'illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l'armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de' suoi? Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l'amico estinto
e l'estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall'insultar de' nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d'affetti
poca gioia ha dell'urna; e se pur mira
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
fra 'l compianto de' templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d'lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t'appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de' buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d'ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l'ambrosia, indizio del tuo nume,
fra queste piante ov'io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch'or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d'ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d'evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l'ossa
col mozzo capo gl'insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l'úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l'immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d'umane
lodi onorato e d'amoroso pianto. Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
all'etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
ed are a' figli; e uscían quindi i responsi
de' domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d'anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a' templi
fean pavimento; né agl'incensi avvolto
de' cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d'effigïati scheletri: le madri
balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l'amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l'urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell'uom cercan morendo
il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d'aura de' beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de' suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
cne tronca fe' la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d'inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l'opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell'Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l'amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l'esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l'arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
sotto l'etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
- Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe' lavacri
che da' suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell'aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d'oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l'idïoma
désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d'un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;
ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l'itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l'alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t' invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all'Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a' Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
la virtú greca e l'ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea per l'ampia oscurità scintille
balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d'armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all'orror de' notturni
silenzi si spandea lungo ne' campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de' venti,
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l'antenna
oltre l'isole egèe, d'antichi fatti
certo udisti suonar dell'Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l'armi d'Achille
sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all'Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l'onda incitata dagl'inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d'onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de' sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l'armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a' peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: - E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de' fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d'Elettra tua resti la fama. -
Cosí orando moriva. E ne gemea
l'Olimpio: e l'immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe' sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da' lor mariti l'imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dí mortale,
venne; e all'ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l'amoroso
apprendeva lamento a' giovinetti.
E dicea sospirando: - Oh se mai d'Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de' Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l'altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far piú bello l'ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
Due Amori
Sognai di stare su un piccolo colle
e un piano ai miei piedi s’apriva simile
a vasto giardino che a suo talento fioriva
di fiori e boccioli. V’erano stagni sognanti
placidi e cupi, e candidi gigli,
sparuti, e crochi, e violette
purpuree e pallide, fritillarie sinuose,
rade presenze fra l’erba in rigoglio, e tra le verdi maglie
occhi blu di vergognose pervinche brillanti nel sole.
E strani fiori v’erano, mai prima saputi,
tinti dai chiari di luna, che Natura
formò con accorto capriccio, e qui uno
che bevve nei toni sfumanti
d’ un attimo breve al tramonto, steli
d’erba che in centurie di primavere
le stelle nutrirono in guise lente e squisite,
bagnati da odorosa rugiada adunata in coppe
di gigli, che nei raggi di sole hanno visto
solo la gloria di Dio, perché mai un tramonto rovina
l’aria luminosa del cielo. Oltre, inatteso,
un grigio muro di pietra coperto di morbido muschio
s’alzava; e in lunga contemplazione rimasi, affatto stranito
a vedere un luogo sì insolito, dolce, bello,
e mentre io stavo stupito, ecco! Attraverso
il giardino un giovane venne, levò in alto una mano
a schermirsi dal sole, i suoi capelli mossi dal vento
intrecciati di fiori, e nella mano portava
un grappo sanguigno d’uva rigonfia, chiari i suoi occhi
come cristallo, nudo,
bianco come la neve su inaccessibili vette gelate,
rosse le labbra quasi sparse di vino rosso che macchia
suolo di marmo, di calcedonio la fronte.
E venne accanto a me, con labbra socchiuse
e gentili, mi prese la mano e la bocca baciò,
e uva mi diede a mangiare, e disse “Dolce amico,
vieni, ti mostrerò le ombre del mondo
e le immagini della vita. Vedi, da Sud
avanza pallido corteo che non ha mai fine”.
Ed ecco! Nel giardino del mio sogno
due giovani scorsi che camminavano su un piano brillante
di luce dorata. Uno pareva gioioso
e bello e fiorente, e una dolce canzone
moveva dalle sue labbra; cantò di graziose fanciulle
e l’amore gioioso di avvenenti ragazzi e ragazze,
luminosi i suoi occhi, e fra gli steli danzanti
dell’erba dorata i suoi piedi per gioia avanzavano in tremito;
e in mano reggeva un liuto d’avorio
con auree corde come chiome di donna,
e cantava con melodiosa voce di flauto
e attorno al suo collo tre ghirlande di rose.
Ma accanto il suo compagno veniva;
triste e dolce, e gli ampi suoi occhi
erano strani d’ un chiarore mirabile, sbarrati
in contemplazione e molti sospiri mandava
che mi commossero, e le sue gote erano bianche ed esangui
come pallidi gigli, e rosse le labbra
come papaveri, e le mani
continuamente serrava, e il capo
era intrecciato di margherite pallide come labbra di morte.
Un panno purpureo indossava trapunto d’oro
segnato da un grande serpente il cui respiro
era fiamma di fuoco: quando lo vidi,
scoppiai in lacrime e gridai: “Dolce giovane,
dimmi perché, triste ed ansante, tu vaghi
per questi reami di sogno, ti prego il vero di dirmi,
qual è il tuo nome? Rispose: “Amore è il mio nome.”
Poi, subito, il primo a me si rivolse
E gridò: “Mente: il suo nome è Vergogna.
Ma io sono Amore, ed ero solito stare
da solo in questo giardino, sin quando egli venne,
inatteso, la notte; io sono Amore verace e riempio
i cuori a fanciulli e fanciulle di reciproco ardore.”
Poi fra sospiri l’altro mi disse: “Fa’ ciò che vuoi,
io sono l’Amore che non osa dire il suo nome.”
Lord Alfred Douglas
Versi persi fra gli alberi
Non sono questi versi che mi sono venuti
passeggiando nel bosco
senza una penna
e comunque senza niente su cui scrivere.
Se ne sono andati per sempre:
una manciata di monete
lasciate cadere dalla gratta della memoria
insieme alla mnemotecnica astuta
che avevo ideata per fermarli –
tutti andati e dimenticati
prima che arrivassi alla distesa del prato
dietro la nostra casa tranquilla
con i suoi barattoli zeppi di penne,
i quaderni d’appunti e le risme di fogli,
la scrivania e la lampada tenue,
la tavola e la luce dalle finestre.
Così questa la mia elegia per loro,
quelle sei o otto esaltazioni,
la fine intrecciata della sintassi,
il jazz del fraseggio,
e la piccola intuizione finale
scodinzolante come la corta coda
di una spaniel perfettamente obbediente
seduto accanto alla porta.
Questo è il mio commiato a nulla
dove dico Vai, poesiola –
non là fuori nel mondo di occhi estranei,
ma verso qualche limbo arioso,
dimora di epiche perdute,
di nomi dimenticati,
di sogni fuggitivi
come quello che ho fatto la scorsa notte,
che, come una città fantastica a matita,
si è cancellato
nell’aria chiara del mattino
proprio mentre mi svegliavo.
Billy Collins
Originariamente Scritto da …:
“Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.
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Uomini
Non esistono al mondo uomini non interessanti.
I loro destini sono come le storie dei pianeti.
Ognuno ha la sua particolarità
e non ha un pianeta che gli sia simile.
E se uno viveva inosservato
e amava questa sua insignificanza,
proprio per la sua insignificanza
egli era interessante tra gli uomini.
Ognuno ha il suo segreto mondo personale.
In quel mondo c’è l’attimo felice.
C’è in quel mondo l’ora più terribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.
Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,
e il primo bacio e la prima battaglia….
Tutto questo egli porta con sé.
Rimangono certo i libri,
i ponti,
le macchine,
le tele dei pittori.
Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.
E’ la legge d’un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi.
Ricordiamo gli uomini,
terrestri e peccatori,
ma che sapevamo in fondo di loro?
Che sappiamo dei fratelli nostri,
degli amici?
Di colei che sola ci appartiene?
E del nostro stesso padre,
tutto sapendo non sappiamo nulla.
Gli uomini se vanno…. e non tornano più.
Non risorgono i loro mondi segreti.
E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.
Evgenij Evtušenko
Originariamente Scritto da …:
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Utopia
Isola dove tutto si chiarisce.
Qui ci si può fondare su prove.
L'unica strada è quella d'accesso.
Gli arbusti fin si piegano sotto le risposte.
Qui cresce l'albero della Giusta Ipotesi
con rami districati da sempre.
Di abbagliante linearità è l'albero del Senno
presso la fonte detta Ah Dunque E' Così.
Più ti addentri nel bosco, più si allarga
la valle dell'Evidenza.
Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.
L'eco prende la parola senza che la si desti
e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.
A destra una grotta in cui giace il Senso.
A sinistra il lago della Profonda Convinzione.
Dal fondo si stacca la verità e lieve viene a galla.
Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.
Dalla sua cima si spazia sull'Essenza delle Cose.
Malgrado le sue attrattive l'isola è deserta,
e le tenui orme visibili sulle rive
sono tutte dirette verso il mare.
Come se da qui si andasse soltanto via,
immergendosi irrevocabilmente nell'abisso.
Nella vita inconcepibile.
Wislawa Szymborska
Originariamente Scritto da …:
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IN ITINERE
Mare nostrum.
Ipnotica realtà
io ti ascolto e ti guardo, stupita.
Acqua sempre uguale a te stessa
eppure ogni istante mutevole come l'essere femminile!
Mobile qual più malvento
anch'io muto d'accento e di pensiero come le vecchie ave.
Così, semel in anno,
mi chiudo in casa e resto lontana dal mare per quaranta giorni.
Maria Vittoria, Mercoledì Primo di Marzo, MMCCCL Ab Bibliotheca Condita
di necessità virtù