Governo Monti: non è lotta di classe



Il risultato delle politiche di Mario Monti in Italia, dell'Unione Europea e della BCE, coerente col più ampio contesto occidentale, non è quello di rilanciare un capitalismo produttivo novecentesco in cui la società si divide tra proprietari e salariati, privilegiando sempre più i primi e penalizzando i secondi.
E' invece quello di creare una società tanto gerarchica da apparire quasi a caste ma secondo una mescolanza sociale di nuovo tipo, risultato della monetarizzazione dell'economia in cui lo scontro per raggiungere/impedire questo traguardo non è più tra proprietari e salariati ma trasversale all'interno di quasi tutte le categorie.
E' per questo che lo scontro che bisogna accendere nella nostra società italiana ed europea – ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi a posteriori appare l'ennesima finzione mediatica made in Soros – non deve basarsi sulla lotta di classe intesa in modo marxista.
Secondo il concetto del dividi-[rimescola]-comanda i governi attualmente delegati dal sistema delle banche centrali non mettono necessariamente i padroni contro gli operai, ma le classi globaliste contro quelle potenzialmente localiste (dico potenzialmente in quanto al momento pure loro sono legate a un'economia di tipo globale ma potrebbero benissimo ricollocarsi in una società riformata in senso comunitario e localista).
E' per questo che il governo di Mario Monti, pur essendo violentemente ostile ai lavoratori e allo stato sociale, non può essere definito tout-court un governo dei ricchi o degli imprenditori, perché anche una parte confusa di questi ultimi deve essere colpita e trascinata verso il basso.
Si pensi ad esempio ai continui allungamenti dell'età pensionabile, benedetti anche dalla Emma Antinazionale Marcegaglia. Siamo sicuri che piccoli e medi imprneditori siano favorevoli a questi provvedimenti? Difficile crederlo. E' invece verosimile che artigiani e impresari con pochi dipendenti, ma anche imprenditori di più alto livello, preferiscano che i loro operai più anziani a un certo momento se ne vadano in pensione per sostituirli con altri più giovani, produttivi e, cinicamente, sfruttabili in quanto assumibili con contratti atipici (mentre i dipendenti anziani avranno contratti a tempo indeterminato con tutti gli "svantaggi" del caso per un imprenditore).
Ma come si diceva l'obiettivo di Monti, Papademos o dell'Unione Europea non è quello di favorire il capitale contro il lavoro. Semmai è quello di colpire il sistema capitale-lavoro affinché vada a incidere meno sulle spese dello Stato e permettere a questo di "onorare" i propri debiti verso il sistema bancario nazionale (detentore di oltre il 30% del debito pubblico), internazionale (più del 50%) e centrale (titolare dell'emissione monetaria secondo le modalità attuali).
Allo stesso tempo la messa in difficoltà di queste imprese medio piccole viene accentuata con una riduzione del credito che impedisce loro di investire costingendole a chiudere o vendersi ad aziende maggiori che, è lecito pensare, contano nel proprio azionariato anche banche e quindi non solo hanno maggior capacità di spesa ma fanno parte della grande famiglia bancaria globale.

Della "casta" privilegiata di questa nuova società faranno parte appunto i banchieri e il capitale produttivo contaminato da quello bancario, come le multinazionali.

Diventano quindi necessari due sforzi di "anticonformismo" da parte di due categorie sociali.
Tutti quegli imprenditori che vengono coinvolti in questa rovina verso il basso devono prendere atto che il loro vecchio ruolo nella società produttiva è finito. La loro prosperità passata si basava sul traino di un'economia globale non più sostenibile e su un finanziamento che le banche oggi non concedono strategicamente più.
Gli operai devono invece considerare nelle giuste lotte contro il capitale produttivo che una parte del capitale stesso è preso di mira.
Queste realtà devono allearsi per creare un nuovo modello di produzione socializzato, in cui cui l'imprenditore attuale sparisca a vantaggio di una proprietà condivisa delle aziende. Aziende nuove che producano localmente per i bisogni locali e finanziate da un sistema monetario nazionale che nulla abbia a che spartire con quello privato di oggi.

Non si tratta ovviamente di riproporre discorsi veterotestamentari in cui si cerca di scindere tra industria e finanza, buona la prima, cattiva la seconda o viceversa, e nemmeno di rilanciare fallimentari utopie "corporativiste" che nessuno ha mai definito con precisione.
Il punto è prendere posizione: la prosperità illusoria dell'economia globale è finita, ora essa può sopravvivere solo al prezzo di trascinare nel baratro quasi tutti coloro che vi avevano partecipato a vantaggio di pochi.
Su queste basi gli attori antagonisti devono riposizionarsi rivedendo nemici e alleati.