La visione dell'arte nello sguardo del destino

Intervista a Emanuele Severino

di Alessandra Fagioli


Secondo quanto va dicendo nei suoi scritti, tutta la storia dell’Occidente è sempre stata governata dalla fede nel divenire delle cose, che implica non solo che qualcosa diventi qualcos’altro (dunque non sia se stessa ma altro da sé), ma anche che un ente sia nulla, ovvero che possa uscire dal nulla e al nulla possa ritornare, per cui c’è un tempo in cui esso è niente. La follia di credere che l’essente sia e non sia è sottesa dunque sia alla tradizione occidentale, che ha cercato di superare l’angoscia del nulla in un’episteme fondata sull’essere eterno e sulla verità assoluta, sia alla filosofia contemporanea che, proclamando l’impossibilità degli eterni e degli assoluti, ha cercato di salvarsi dal nulla attraverso il potenziamento infinito della tecnica. Ma come l’episteme è stata superata dal nichilismo, così questo è destinato a tramontare nella presa di coscienza della non-follia, che indica appunto l’impossibilità che l’essente sia nulla e la necessità che esso sia eterno, nel suo comparire e scomparire rispetto al cerchio del destino.
Nell’ambito delle diverse fedi, scienze e ideologie che credono “follemente” nell’evidenza del divenire, lei dunque annovera anche l’arte, quanto mai sottesa all’oscillazione tra essere e nulla, dal momento che essa stessa rappresenta opere per eccellenza “creative” dell’uomo, ma per questo anche “arbitrarie”, nel senso che non necessariamente obbediscono a criteri di utilità, propri invece dei prodotti della tecnica. Se dunque quest’ultima, nella sua conversione da mezzo a scopo, può diventare oltre che costruttiva anche distruttiva, non si può dire altrettanto dell’arte che, pur essendo produzione (poìesis), non mira tanto a manipolare le cose, quanto a rappresentarle, assolvendo piuttosto a una funzione di sublimazione (l’arte sacra) oppure di consolazione (come la intende Leopardi). Eppure l’arte non potrebbe fare a meno del concetto di nulla, sia in senso epistemico che in senso nichilista, dal momento che tutto ciò che scaturisce dal nulla (angoscia, dolore, paura, ma anche creatività e volontà di potenza) è stato da sempre la fonte di ispirazione di tantissime opere d’arte. Come si può dunque immaginare un’arte libera dal senso del nulla, soprattutto all’interno di quello sguardo del destino che vanifica l’illusione del divenire?

Innanzi tutto, in quello che vado scrivendo, è sottolineato l’aspetto costruttivo della tecnica, in quanto essa ha di per sé lo scopo di incrementare all’infinito la capacità di realizzare scopi. È chiaro che ogni atto creativo è anche distruttivo, poiché se costruisco una casa distruggo il prato o lo spazio vuoto che già esiste, però la tecnica è la forma di produttività che possiede un proprio scopo indipendentemente dallo scopo delle forze che intendono servirsi di essa per eventuali propri scopi: vedi il capitalismo, il cristianesimo e tutte le ideologie che si fondano sul divenire. Restando dunque all’interno della logica dell’Occidente la tecnica è sommamente costruttiva, mentre la dimensione distruttiva è dovuta a quelle forme inadeguate della tecnica che sono ancora concepite all’interno di certe ideologie. Ad esempio il potenziale atomico si è rivelato distruttivo non in quanto tecnologicamente organizzato, ma in quanto una particolare ideologia gestiva l’organizzazione tecnologica del potenziale atomico. Nei miei scritti dunque c’è sempre l’accentuazione della positività della tecnica, nel senso che essa è la forma più coerente della follia del divenire. Solo nell’ultimo capitolo del mio ultimo libro, Oltrepassare, parlo della necessità che la stessa civiltà della tecnica, intesa come volontà di potenza, abbia a tramontare, ma questo è un discorso estremamente complesso.

Per quanto riguarda l’arte, in quanto azione è anche distruzione, poiché distrugge la situazione che precede l’azione, e in questo non è diversa dalla tecnica come da qualsiasi altra azione che nel suo processo esprime una componente distruttiva. In merito ai contenuti, anche l’arte preoccidentale descrive la caducità delle cose, ma solo con l’ontologia greca essa assume un’identità del tutto diversa da quella che aveva prima che si pensasse alla differenza tra essere e nulla. Perché altro è descrivere una distruzione in cui non si sa alcunché del nulla, altro è evocare una distruzione nel contesto della convinzione che il distrutto è annullato.

Se consideriamo dunque l’arte all’interno della storia dell’Occidente, essa segue l’evoluzione del pensiero filosofico, per cui — fermo restando che la distruttività compete a ogni agire, e per quanto riguarda l’arte questa si esprime sia nel processo del suo farsi, che nelle forme che essa rappresenta — fintanto che la tradizione filosofica evoca la dimensione del divino come rimedio al pericolo del nulla, allora anche l’arte ha una forma di distruttività, per quanto riguarda la rappresentazione, che però è protetta dalla dimensione del sacro che la “salva” dal senso del nulla. Quando invece nella filosofia contemporanea il “puntello” epistemico-teologico-metafisico crolla con la comparsa del pensiero nichilista, allora anche la distruttività dell’arte cambia senso e configurazione; infatti nell’arte degli ultimi due secoli, in cui il pericolo non è più sovrastato da un rimedio, non mi risulta che appaia alcuna forma artistica, in campo musicale, pittorico, poetico in senso specifico, che si possa avvicinare alla felicità, intesa non come stato psicologico che può essere motivato da situazioni occasionali, ma come sentimento determinato dal sentirsi alleati con la potenza suprema di dio. Nell’arte tradizionale certamente la gioia compare, ma in quella contemporanea la tristezza, l’angoscia, l’incubo sono sovrani, proprio perché rispecchiano quell’idea di nulla da cui non è più possibile salvarsi.

In merito a ciò lei giustamente ha richiamato Leopardi, ed è proprio lui che risponde riguardo il destino dell’arte e della tecnica nell’ambito della storia dell’Occidente. Nella lettura che faccio de La Ginestra metto in risalto come Pompei distrutta dall’eruzione del vulcano rappresenti la civiltà che ormai non riesce a tenersi in piedi, non riesce a sopravvivere al pericolo del nulla. A questo punto è proprio l’arte, secondo Leopardi, che riesce a vedere la nullità delle cose, quella nullità che invece la tecnica tende a emarginare il più possibile per quella produttività di cui parlavo prima, in quanto il suo scopo non è quello di distruggere, semmai la distruzione è un suo sottoprodotto. Ma ne La Ginestra l’organizzazione tecnologica del mondo si è già prodotta ma si è già anche distrutta, in quanto il divenire finisce col travolgere anche questa forma di rimedio tecnologico, mentre l’ultima forma di rimedio consiste nella potenza con cui il “genio” guarda l’annientarsi delle cose. In questo senso Leopardi, la cui posizione è la più rigorosa nell’ambito dello sviluppo occidentale, sostiene che l’arte rappresenta quasi un ultimo rifugio della natura, che anch’esso attende tuttavia di essere distrutto dal fuoco del vulcano.

Bene, in questo quadro è chiara la posizione dell’arte nell’ambito dell’evoluzione del pensiero filosofico, che, come si è detto, ne influenza modalità e contenuti. Ciò che invece rimane in sospeso è quello che accade all’arte, come anche ad altre fedi o ideologie, quando si esce dalla storia dell’Occidente e ci si ritrova all’interno di quel destino della necessità che lei sostiene esserci sempre stato, in quanto “stare dello stante”, in cui tutti gli essenti che compaiono e scompaiono sono eterni — non solo il dio supremo e la verità assoluta come era nell’episteme — e dunque “sempre salvi”. Ma tra gli eterni che appaiono nel cerchio del destino ci sono naturalmente tutti quegli essenti scaturiti dall’illusione del divenire: ovvero la follia, l’errore, la morte, l’angoscia, il dolore, la volontà di potenza, lo stesso senso del nulla senza il quale non si potrebbe parlare di nichilismo.
A questo punto però come si possono concepire questi essenti, sempre eterni, non più nell’ottica della follia, ma in quella della non-follia? Cosa si può concepire in un’eternità che libera dall’illusione del divenire, pur comprendendo tutte le forme che da esso sono scaturite? Quale scienza o religione o arte è possibile senza l’idea di nulla?

Per rispondere a cosa ne è di qualche ideologia o forma di pensiero legata al divenire all’interno dello sguardo del destino uso ricorrere a una metafora. Se prendiamo l’arte collocata nella storia del nichilismo — ma si potrebbe considerare anche la bella natura o l’amore o lo stesso cristianesimo — essa appare come una casa circondata dalla nebbia, ovvero dalle categorie del nichilismo di cui è impregnata. Questa casa è la convinzione di essere qualcosa che ha come contenuto il nulla. L’errare è dunque la convinzione di vedere un mondo il cui contenuto è il nulla. Ma quando la nebbia dirada, ovvero quando cadono le categorie del nichilismo per cui le case sono case, che ne è delle case che credevamo essere in mezzo alla nebbia?

Se consideriamo ad esempio il cristianesimo e da esso tiriamo via il concetto di azione, di amore, di perdono, di sacrificio, di creazione, di dio come demiurgo, di uomo salvato da dio, che cosa rimane di esso? La mia risposta è che, per quanto ne so del cristianesimo nella sua configurazione storica, non rimane nulla, e se la stessa domanda la rivolgo all’arte, una volta che questa sia stata liberata dalle categorie del nichilismo che ne fanno la rappresentazione della distruttività, non posso che dare una risposta analoga. Rimanendo nella metafora, per quanto attualmente se ne sa della casa, svanendo la nebbia non rimane nemmeno la casa.

Naturalmente resta il problema di sapere se, quando la nebbia dirada, ovvero quando certi contenuti appaiono al di fuori del nichilismo, rimane comunque qualcosa, ma questo è un problema che credo darà da pensare alle generazioni future. Perché quando dico che non rimane più la casa che si credeva essere in mezzo alla nebbia, intendo dire che svanisce l’illusione che essa fosse qualcosa, ma non che svanisce nel senso che si annulla, poiché questo è impossibile. In realtà, come spiego nei miei ultimi due libri La gloria e Oltrepassare, noi siamo destinati al diradarsi di tutte le nebbie e all’apparire di ciò che in verità è là nella nebbia. Attualmente non lo sappiamo ma siamo destinati a doverlo sapere.

Credo che proprio in questa necessità della destinazione ci sia uno degli snodi più importanti del suo pensiero che vorrei approfondire. In quello che lei chiama il destino della necessità esiste un apparire trascendentale composto dal cerchio totale dell’apparire che permane da sempre, e un apparire empirico composto dagli essenti e dalle loro apparizioni che variano, entrando e uscendo rispetto al cerchio dell’apparire. Tuttavia possono esistere degli essenti, sempre eterni, che non sono mai apparsi e mai appariranno, in quanto nessuno ci dice che tutto ciò che appare è ciò che esiste. Inoltre non si può sapere nulla di ciò che non appare, e anche di ciò che non è ancora apparso e di ciò che non appare più. Per fare a meno dell’idea del nulla occorre dunque immaginare degli essenti che pur non apparendo esistono in ogni caso e degli essenti che pur non apparendo ancora o non apparendo più continuano a essere eterni?

In primo luogo occorre considerare che il cerchio del destino è come la punta di un cono in cui si verifica un progressivo allargarsi della dimensione manifesta degli eterni. Quello che chiamo il mio esser-io è ciò che all’interno del cerchio finito dell’apparire appare come me stesso, o meglio come il mio creder di esser me stesso, ma il cerchio finito delle cose implica necessariamente l’apparire infinito della totalità degli essenti. Naturalmente è impossibile che l’apparire infinito entri totalmente nell’apparire finito, sì che l’apparire finito è un aprirsi all’infinito verso questa totalità assoluta che non potrà mai diventare contenuto del cerchio finito. Per questo non è possibile che tutti gli essenti appaiano nel cerchio finito, anche se la totalità del già apparso e del totalmente dimenticato è destinata a riapparire definitivamente.

Inoltre l’apparire attuale del destino, che è appunto un apparire finito, è destinato al tramonto della terra isolata, che è la condizione per cui possa apparire qualcosa come la storia del mortale, la storia del preoccidente, la storia dell’occidente, fino ad arrivare alla civiltà della tecnica. L’apparire infinito, verso cui l’apparire finito tende, è dunque il toglimento di tutte le contraddizioni presenti nella terra isolata. Un toglimento che però significa oltrepassamento, non annullamento o dimenticanza. Le contraddizioni vengono superate, pur rimanendo tutti gli errori che le hanno generate. Nell’apparire infinito del destino tutto viene conservato, pur nella risoluzione della totalità delle contraddizioni, in cui gli essenti sono essenti e non più nulla.

Un punto per me fondamentale è che nella situazione attuale del destino, l’esser uomo è il contrasto tra il già da sempre essere apparso da parte del destino e la convinzione che le cose vere e proprie non sono la storia del destino, ma questa stanza, il mio corpo, gli oggetti e via dicendo. Ora questo contrasto dell’esser uomo comincia a essere intaccato dal linguaggio che testimonia il destino e quindi lo fa apparire alla coscienza. Il linguaggio comincia a indicare ciò che da sempre appare, ma che finora è stato contrastato dall’isolamento della terra. Per cui, come dicevo, il cerchio finito del destino è caratterizzato da questa progressiva irruzione degli eterni nell’apparire che lo costituisce, secondo un sopraggiungere che tende all’infinito lungo quel cono che avevo richiamato, la cui progressiva espansione è costituita dalla gloria.

Questa visione dell’apparire del destino sembra però avere qualche affinità con la teoria dell’espansione dell’universo. Non a caso si è voluto scorgere una convergenza tra la manifestazione dell’eternità di tutti gli essenti nella storia del destino e la teoria della relatività di Einstein, in cui si sostiene che il mondo è un cronotopo immutabile ed eterno e il divenire è un’illusione della nostra coscienza. Salvo che poi lei ha giustamente rilevato che la teoria della relatività, in quanto teoria scientifica, si muove all’interno di una logica ipotetica, mentre la non-follia che scorge l’impossibilità del divenire si fonda su una necessità incontrovertibile. Eppure questo espandersi all’infinito degli eterni, che esprime appunto l’idea della gioia, non potrebbe assomigliare, metaforicamente, all’espandersi progressivo dell’energia nell’universo?

Posto che nella teoria cosmologica, in sede fisico-teorica, è un nucleo oggettivo che si espande, qui l’espansione è totalmente avvenuta ed è l’infinito che è lì, ovvero quella che chiamo pianura della verità. Ciò che si espande è la luce che illumina a partire da quei luoghi della pianura che sono i cerchi finiti, in quanto la pianura è avvolta dall’apparire infinito che è la luce totale. La pianura che è sempre stata lì è inoltre ricchissima, più ricca di ogni ricchezza che si possa ottenere lavorando, guadagnando, pensando o dandosi da fare. È tutta la ricchezza ottenibile che è già stata ottenuta, poiché non c’è un impoverimento rispetto alla ricchezza che si potrebbe ottenere dandosi da fare, in senso marxista, tecnologico, umanistico, ecc.

Per comprendere la configurazione del destino si può ricorrere a una figura geometrica costituita da un cerchio iscritto e un cerchio iscrivente. La totalità dell’errare umano è conservata all’interno di una dimensione che non è l’errare ma è la verità. In questo modo viene mantenuto tutto ciò che in noi sarà manifestato lungo la vicenda della storia dell’uomo. Non solo, ma rimarranno anche tutte le possibilità dell’esser uomo, perché altrimenti ci sarebbe l’essere possibile che rimane niente, e questo è il nichilismo. Quindi tutto il possibile è, non c’è un’eccedenza del possibile sull’effettuale, e non solo è conservato ciò che siamo, ma anche tutto ciò che ha la possibilità di esser noi.

Attualmente viviamo in quell’abbaglio che è la terra isolata, che vuol dire credere che il mondo così come per lo più appare sia il tutto che appare, e che non ci sia “altro”, o ci siano quegli “altri” che sono gli dei, il sacro, l’inconscio, ecc. Come dicevo, tutto questo è destinato a tramontare nello sguardo del destino, nel momento in cui diraderà la nebbia del nichilismo e si vedrà se rimane qualcosa, oppure se era una nostra illusione credere che lì ci fosse qualcosa. Questo non vuol dire però che tutti gli errori, le ideologie, le fedi, e dunque anche l’arte, si annientino, ma al contrario riappariranno definitivamente nel cerchio infinito del destino.

Alessandra Fagioli - Intervista a Emanuele Severino