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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Buon "Deepavali". Sincretismo sull’Osservatore Romano?
    di Enrico Maria Romano
    Le ambiguità del cosiddetto ecumenismo post-conciliare sono divenute così evidenti e così note a tutti che pare inutile e vano starle ad elencare ancora una volta. Basti pensare che, contro la Rivelazione, la Tradizione, il Magistero e la migliore teologia (cf. per tutti, S. Tommaso, Summa theologiae, II-II, 5,3) si osa attribuire, in un documento conciliare, ai “fratelli separati”, presi indistintamente, la virtù sovrannaturale della fede (UR 3), totalmente incompatibile in verità con la professione pubblica e reiterata dell’errore e dell’eresia. Oppure quando nel medesimo testo si asserisce che i dissidenti hanno “la Parola di Dio scritta”, mentre giustamente la Costituzione Dei Verbum insegna che chi non possiede né la Tradizione né il Magistero (come è il caso sia dei luterani sia degli ortodossi), non ha neppure la Scrittura, né l’autorità per interpretarla (DV 10).
    In questo campo anche autori noti per la loro prudenza e per la loro moderazione hanno ultimamente alzato la voce contro il confusionismo ecumenico diffusosi a partire dal Concilio in tutti i gangli vitali della Chiesa e della cristianità (cf. Padre Giovanni Cavalcoli, Il problema dell’eresia oggi, ed. VivereIn e mons. Brunero Gherardini, Ecumene tradita, ed. Fede e cultura).
    Ebbene sull’Osservatore del 9 novembre u.s. (p. 8) è stato pubblicato il “Messaggio del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso agli indù per la festa del Deepavali” (?). E’ difficile, se si crede in Cristo, incarnatosi e morto “per la salvezza di tutte le genti” (DV 7), non rimanere sbigottiti dal contenuto del Messaggio, il quale tra l’altro si situa all’opposto di ogni volontà di “nuova evangelizzazione”. La Dichiarazione Dominus Iesus, pubblicata nel 2000 dal cardinal Ratzinger, faceva notare che le altre tradizioni religiose non solo non sono di per sé salvifiche, ma contengono errori, ambiguità e superstizioni che, come tali, allontanano i loro seguaci dalla via della salvezza. I loro membri poi non hanno la “fede” che sola rende accetti a Dio, ma posseggono una semplice “credenza”: il nostro dovere, come membra vive della Chiesa, è quello di proporre loro la verità salvifica di Cristo e della Chiesa. Quest’ultima, ricorda il catechismo “è l’arca di Noè che, sola, salva dal diluvio” (CCC, 845, corsivo mio).
    Come se tutto questo non appartenesse al Sommo Magistero cattolico, il cardinal Tauran si dichiara “lieto” di presentare agli induisti, a nome del suo Dicastero, “cordiali saluti e felicitazioni in occasione delle celebrazioni di Deepavali”, con un incoraggiamento per giunta di tenore laico e mondano: “Possano l’amicizia e la fraternità illuminare sempre più le vostre famiglie e comunità”. Nel corpo del testo il tema centrale è quello della pace, bene certo desiderato da tutti gli uomini di buona volontà, e non solo dai credenti. Noi però come cristiani sappiamo bene che Cristo è il solo portatore della pace, e la vera pace sociale il mondo – e tutte le sue false religioni – non possono procurarla. Si cita quindi Papa Giovanni che nel 35 la Pacem in terris scrisse che i fondamenti della pace sono la verità, la giustizia, l’amore e la libertà (n.), ma poi si omettono i primi due impegnativi termini, per concludere che “è necessario che ad ogni giovane si insegni soprattutto ad agire sinceramente e rettamente nell’amore e nella libertà”. Ma senza la verità e la giustizia, di quale amore e libertà si parla, visto che la vera libertà si fonda sulla verità?
    Si arriva a dire che “in ogni educazione alla pace, le differenze culturali si dovrebbero certamente considerare come una ricchezza, e non come una minaccia o un pericolo”. Ma può godere di una vera pace una società che si fonda sull’indifferenza verso Dio, come insegnano sia l’induismo che il buddismo? E che pace interiore (o sociale) può derivare dalle dottrine orientali dell’apatia, del nirvana e della reincarnazione? Dovremmo accettare queste deviazioni, diametralmente opposte alla pacificante dottrina di Cristo, come “ricchezza” così come ci chiede esplicitamente il Messaggio? È evidente che qui si sta parlando non della pace che Dio volentieri offre a chi lo supplica, ma di quel pacifismo di tipo gandhiano, mondano o sincretistico che è portatore di relativismo etico, indifferentismo religioso, ateismo pratico.
    Buon "Deepavali". Sincretismo sull’Osservatore Romano? ~ CampariedeMaistre

    Un numero della Curia per chiamare l'esorcista: 4 telefonate al giorno
    Sabrina Cottone
    Un call center sul sito della Chiesa di Milano, perché tutti coloro che sentono il bisogno di un sacerdote esorcista possano telefonare per avere le prime informazioni. La segreteria è attiva dal lunedì al venerdì dalle 14 e 30 alle 17 al numero 02 8556457. Il servizio è partito un po' in sordina due settimane fa e in questo breve lasso di tempo sono già arrivate una sessantina di telefonate, soprattutto da Milano città, dove il disagio è più alto e la paura del demonio si fa sentire con maggior forza. A chiamare sono persone di ogni età, maschi e femmine, dei più vari livelli di istruzione.
    Il cardinale Angelo Scola ha appena rinnovato il collegio degli esorcisti, aumentandone il numero da quattro (più due che non operavano più) a dodici e soprattutto rafforzandone la presenza a Milano e dintorni: adesso tra i due in città, tre a Saronno, uno a Monza e due a Varese, il pronto soccorso spirituale è stato potenziato. Per diventare esorcisti serve la licenza del Vescovo, che può essere concessa solo al sacerdote distinto per pietà, scienza, prudenza e integrità di vita. Qualità non facili da trovare, ma indispensabili visto il tema a dir poco complesso.
    Ma che cos'è l'esorcismo secondo la Chiesa? Come la benedizione, è un cosiddetto sacramentale e avviene quando la Chiesa domanda che una persona o un oggetto sia protetto contro l'influenza del Maligno e sottratto al suo dominio. Gesù l'ha praticato ed è da lui che la Chiesa deriva il potere e il compito di esorcizzare. La dottrina della Chiesa parla di «gravi danni di natura spirituale e indirettamente anche di natura fisica per ogni uomo e per la società» che possono arrivare dal demonio.
    Al centralino risponde un addetto della Curia che fa una prima scrematura e indirizza al luogo giusto, «per evitare lunghi viaggi alle persone». Monsignor Mascheroni, responsabile del collegio degli esorcisti, spiega: «Dalle domande che arrivano l'esigenza è anche raddoppiata». Il vescovo ausiliare ricorda che «il ministero fondamentale degli esorcisti è quello dell'ascolto e della consolazione, perché arrivano persone disfatte che maledicono il prossimo». E ancora: «I fenomeni davvero diabolici, secondo la mia esperienza, sono rari».
    In molti casi sono le difficoltà della vita quotidiana che causano problemi psicologici e l'impressione di essere sopraffatti da una forza malefica. I sacerdoti in simili situazioni aiutano, anche indirizzando a psichiatri e psicologi. Una delle emergenze sono maghi e fattucchiere. «Loro si fanno pagare, noi invece dedichiamo tempo, ascolto, benedizioni, tutto gratis» dice Mascheroni. La prima medicina? «La Confessione».
    Un numero della Curia per chiamare l'esorcista: 4 telefonate al giorno - IlGiornale.it



    I lettori de “L’illusione di Dio” di Dawkins? Chi si converte e chi si suicida
    Nel novembre 2008 lo scrittore e giornalista cattolico Antonio Socci ha commentato un’intervista a Richard Dawkins (il noto fondamentalista ateo, come lo ha definito il fondatore di The Independent), al Guardian, ripresa da Il Corriere della Sera, in cui Dawkins annunciava l’inizio del suo pensionamento con queste parole: «ho fallito», vedendo «una maggiore influenza della religione». Aveva scritto un libro, “L’illusione di Dio”, con «lo scopo dichiarato di ‘convertire’ i lettori all’ ateismo», ma il progetto è naufragato. Socci ha commentato: «Qualcuno ritiene addirittura che abbia finito per portare acqua al mulino dei “nemici”».
    Effettivamente così è stato, come ha spiegato recentemente Alister McGrath, pure lui convertito, filosofo e teologo anglicano, tra i più apprezzati al mondo e autore di libri davvero molto interessanti (L’ illusione di Dawkins , il fondamentalismo ateo e la negazione del divino – Galiero 2007; Scienza e fede in dialogo. I fondamenti – Claudiana 2002).
    Parlando del folkloristico movimento dei “new atheist”, ha affermato: «non c’è dubbio che la nascita del nuovo ateismo ha creato un interesse culturale su Dio. Nelle mie conversazioni e dibattiti con questi nuovi atei li ho spesso ringraziati per aver suscitato una nuova curiosità sulle tematiche della religione, di Dio e del senso della vita. D’altra parte attualmente il nuovo ateismo sta perdendo il suo carattere di novità. Si tratta di semplici slogan che oggi vengono visti come semplicisti, e non come asserzioni accurate di sintesi intellettuale». Su questo non avevamo nessun dubbio, più volte anche noi abbiamo denunciato la mancanza di una proposta culturalmente interessante da parte dei vari Sam Harris, Daniel Dennett e Richard Dawkins, i quali fondano la loro presenza attraverso la banale ed effimera derisione del cristianesimo. Alla lunga non può che annoiare.
    La cosa più interessante rivelata da McGrath è stata la sua scoperta che «molti di quelli che una volta pensavano che il nuovo ateismo offrisse delle buone risposte alle grandi domande della vita oggi stanno capendo che esso offre semplici frasi fatte che non soddisfano gli interrogativi profondi. Di recente ho parlato con un collega che mi ha raccontato di un progetto molto interessante di cui si sta occupando: sta studiando il caso di quelle persone che si sono convertite al cristianesimo come risultato della loro lettura dei libri del neoateo Richard Dawkins! Questo collega ha scoperto come ci sia gente che ha letto Dawkins con l’aspettativa di trovarvi sofisticate risposte alle grandi questioni della vita. Invece hanno riscontrato qualcosa di inadeguato e superficiale. Ma hanno mantenuto aperta questa loro sete di domanda e hanno trovato la risposta nel cristianesimo».
    Leggere “L’illusione di Dio” di Dawkins (definito da Odifreddi “il grande manifesto laico di una delle più acute menti scientifiche”) e convertirsi. Certamente un esito migliore di quanti hanno letto i ragionamenti masochisti del sacerdote ateo, lo hanno preso sul serio e coerentemente si sono suicidati. E’ il triste caso di Jesse Kilgore, ventiduenne di New York. Il suo professore lo ha invitato a leggere questo libro, dove la fede viene definita come “un delirio”, una malattia contagiosa. Jess si è suicidato pochi mesi dopo. Dopo la sua morte, il padre Keith ha appreso della cessione del libro da due amici del figlio, lo ha cercato nella sua stanza trovandolo sotto il materasso con il segnalibro inserito nell’ultima pagina.
    Un amico del figlio gli ha poi confidato che Jesse «era in lacrime ed era molto turbato da questo libro», lo aveva sentito un’ora prima del suicidio e Jess aveva raccontato «la sua perdita di fiducia in tutto. Era molto più che un ateo, senza alcuna credenza nell’esistenza di Dio (in qualsiasi forma) o una vita dopo la morte o anche nel concetto di giusto o sbagliato». Jesse aveva «menzionato il libro di Dawkins che stava leggendo». Se si prende davvero sul serio il violento nichilismo di Dawkins, il suicidio non sembra poi così irragionevole: a quale scopo infatti prolungare l’agonia e “l’accanimento terapeutico” restando in vita in questa inutile, sadica e ingiusta “valle di lacrime”? Fortunatamente tante altre persone, come ha spiegato McGrath, lo hanno talmente preso sul serio che si sono avvicinate alla risposta cristiana.

    Il Papa: 'Credo quia absurdum' (credo perché è assurdo) non è una formula che interpreti la fede cattolica
    Papa/ Dio non è assurdo ma misterioso, fede non è irrazionale
    A udienza generale in Vaticano prosegue ciclo catechesi su fede
    Città delVaticano, 21 nov. (TMNews)
    "La tradizione cattolica ha sin dall'inizio rigettato il fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione. 'Credo quia absurdum' (credo perché è assurdo) non è una formula che interpreti la fede cattolica".
    Lo ha detto il Papa all'udienza generale in aula Paolo VI in Vaticano. "Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero", ha proseguito Ratzinger. "Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n'è troppa. Così come quando gli occhi dell'uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso?; anzi, è la fonte della luce".
    "E' falso - ha detto ancora il Papa all'udienza generale, proseguendo un ciclo di catechesi sulla fede - il pregiudizio di certi pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. E' vero esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato", ha affermato Benedetto XVI citando, in particolare, Sant'Agostino.

    Il premio Nobel Philips: «Sono uno scienziato serio che crede seriamente in Dio»
    Oggi è il 64° compleanno di William Daniel Phillips, fisico statunitense e vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1997, per «lo sviluppo di metodi per raffreddare e catturare gli atomi tramite laser».



    E’ stato a lungo membro del MIT, del National Institute of Standards and Technology, docente persso l’University of Maryland e uno dei fondatori dell’International Society for Science & Religion. Sul sito della Templeton Foundation, intorno al 2004, ha lasciato una testimonianza sulla sua visione sull’esistenza di Dio e sul connubio tra scienza e fede.
    Egli introduce dicendo: «molti credono che la scienza, offrendo spiegazioni, si opponga alla comprensione che l’universo è una creazione amorevole di Dio», ritengono che «la scienza e la religione siano nemici inconciliabili. Ma non è così». Ne spiega il motivo attraverso la sua esperienza: «Io sono un fisico. Faccio ricerca tradizionale, pubblico in riviste peer-reviewed, presento le mie ricerche in riunioni professionali, formo studenti e ricercatori post-dottorato, cerco di imparare come funziona la natura. In altre parole, io sono uno scienziato ordinario. Sono anche una persona di fede religiosa. Frequento la chiesa, canto nel coro, di domenica vado al catechismo, prego regolarmente, cerco di “fare giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con Dio”. In altre parole, io sono una persona comune di fede».
    Dopo questa rarissima espressione di umiltà, prosegue: «Per molte persone, questo mi rende in contraddizione: uno scienziato serio che crede seriamente in Dio. Ma per molte più persone, io sono una persona come loro. Mentre la maggior parte dell’attenzione dei media va agli atei stridenti, che affermano che la religione è una sciocca superstizione, e ai creazionisti altrettanto integralisti che negano l’evidenza chiara dell’evoluzione cosmica e biologica, la maggioranza delle persone che conosco non ha alcuna difficoltà ad accettare la conoscenza scientifica e mantenere la fede religiosa».
    Prosegue il Premio Nobel: «Come fisico sperimentale, ho bisogno di prove concrete, esperimenti riproducibili, e la logica rigorosa per supportare qualsiasi ipotesi scientifica. Come può una tale persona basarsi così sulla fede?». Ed ecco che si pone due domande: “Come posso credere in Dio?” e “Perché io credo in Dio?”. Risponde alla prima: «uno scienziato può credere in Dio perché tale convinzione non è una questione scientifica. Una dichiarazioni scientifica deve essere “falsificabile”, cioè ci deve essere qualche risultato che almeno in linea di principio potrebbe dimostrare che l’affermazione è falsa [....]. Al contrario, le affermazioni religiose non sono necessariamente falsificabili [...]. Non è necessario che ogni dichiarazione sia un’affermazione scientifica, né sono non-scientifiche, inutili o irrazionali dichiarazioni che semplicemente non sono scientifiche. “Canta magnificamente”, “E’ un uomo buono”, “Ti amo”: queste sono tutte affermazioni non-scientifiche che possono essere di grande valore. La scienza non è l’unico modo utile per guardare alla vita».
    Alla seconda domanda, cioè “Perché io credo in Dio?”, risponde: «Come fisico, guardo la natura da una prospettiva particolare. Vedo un universo fondamentalmente ordinato, bellissimo, in cui quasi tutti i fenomeni fisici possono essere compresi da poche semplici equazioni matematiche. Vedo un universo che, se fosse stato costruito in modo leggermente diverso, non avrebbe mai dato vita a stelle e pianeti. E non vi è alcuna buona ragione scientifica per cui l’universo non avrebbe dovuto essere diverso. Molti buoni scienziati hanno concluso da queste osservazioni che un Dio intelligente deve avere scelto di creare l’universo con questa bella, semplice e vivificante proprietà. Altri scienziati sono tuttavia atei. Entrambe le conclusioni sono posizioni di fede. Recentemente, il filosofo e per lungo tempo ateo Anthony Flew ha cambiato idea e ha deciso che, sulla base di tali elementi di prova, bisogna credere in Dio. Trovo questi argomenti suggestivi e di sostegno alla fede in Dio, ma non sono conclusivi. Io credo in Dio perché sento la presenza di Dio nella mia vita, perché riesco a vedere le prove della bontà di Dio nel mondo, perché credo nell’Amore e perché credo che Dio è Amore».


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Brubeck sognò, e credette
    Dave Brubeck il genio del jazz che ha suonato per otto presidenti degli Usa, da John Kennedy a Clinton, divenne cattolico nel 1980, in un modo che merita di essere raccontato
    MARCO TOSATTI
    Dave Brubeck il genio del jazz che ha suonato per otto presidenti degli Usa, da John Kennedy a Clinton, divenne cattolico nel 1980, in un modo che merita di essere raccontato. La fonte è il St. Anthony Messenger del 2009. Il primo incontro di Brubeck con la Messa cattolica e romana fu “To Hope. Una celebrazione”, scritta quando Brubeck non apparteneva a nessuna fede o comunità. E’ stata commissionata dal direttore di “Our Sunday Visitor”, Ed Murray, che desiderava non una messa pop o jazz, ma un pezzo di musica seria che riflettesse l’esperienza cattolica americana.
    Poco prima che nel 1980 l’opera uscisse in pubblico, un prete chiese perché non ci fosse una sezione con il Padre Nostro. Brubeck ricorda di aver chiesto: “Che cos’è il Padre Nostro?” (che lui conosceva come la Preghiera del Signore), e rispose: “Non mi hanno chiesto di farlo”. Decise di non fare nessuna aggiunta, perché questo avrebbe sconvolto la composizione come l’aveva creata. Rispose al prete: “No, sto andando in vacanza, ho trascurato mia moglie e i miei figli, voglio stare con loro e non pensare alla musica”. “Ma la prima notte che eravamo nei Caraibi, ho sognato il Padre Nostro”, ha raccontato Brubeck. Saltò giù dal letto per scrivere quello che si ricordava del sogno. E in quel momento decise di aggiungere quel pezzo alla composizione, e divenne cattolico. Per anni è stato adamantino nel non definirsi un “convertito”. Diceva che per essere un convertito, uno deve essere qualche cosa, prima. E si è sempre definito un “nulla” da un punto di vista religioso prima di entrare nella Chiesa cattolica.
    Brubeck sognò, e credette



    Benedetto XVI e von Hayek, liberare la ragione dal "bunker"
    Paolo Camillini
    Nella recente intervista a Benedetto XVI in occasione del film Bells of Europe, l’intervistatore pone una grande questione: “Santità, Lei ha più volte ribadito che l’Europa ha avuto e ha tuttora un influsso culturale su tutto il genere umano e non può fare a meno di sentirsi particolarmente responsabile, non solo del proprio futuro, ma anche di quello dell’umanità intera”. E domanda come i cristiani possono “cercare vie nuove per affrontare le grandi sfide comuni che contrassegnano l’epoca post-moderna e multiculturale?”.
    Il Santo Padre, riconoscendo la gravità della questione, premette che “l’Europa deve [...] trovare ancora la sua piena identità per poter parlare e agire secondo la sua responsabilità”. E il primo problema su cui focalizzarsi è che “in Europa oggi abbiamo due anime: un’anima è una ragione astratta, anti-storica, che intende dominare tutto perché si sente sopra tutte le culture. Una ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità. [...] Ma così non si può vivere”.
    Questa prima osservazione riporta alla mente lo storico discorso di Hayek in occasione dell’accettazione del premio Nobel per l’economia. In quella occasione egli sentì l’urgenza di mettere in guardia i suoi uditori da un problema più ampio dell’ambito strettamente economico e parlò della “pretesa della conoscenza”. Era il 1974 ma, quando una cosa è vera, più passa il tempo e più diventa attuale. Hayek denunciò come, negli economisti, vi fosse “la tendenza a imitare quanto più strettamente possibile le procedure delle scienze fisiche – un tentativo che, nel nostro campo, può condurre ad un errore molto grave”.
    È un approccio “scientistico” che è “decisamente non scientifico, nel senso vero della parola, poiché prevede un’applicazione meccanica e non critica di abiti mentali a campi differenti da quelli in cui sono stati formati”. Infatti, “mentre nelle scienze fisiche si assume generalmente, e probabilmente a buona ragione, che ogni fattore importante che determina gli eventi osservati sia esso stesso direttamente osservabile e misurabile, nello studio di fenomeni complessi come il mercato, che dipendono dalle azioni di molti individui, difficilmente tutte le circostanze che determineranno il risultato di un processo potranno mai essere completamente conosciute o misurabili”. Succede così che, mentre nelle scienze fisiche il ricercatore va a misurare ciò che, sulla base di una ipotesi, ritiene importante, negli altri campi di ricerca si ritiene importante solo ciò che è misurabile. Si arriva al paradosso che i fattori misurabili diventano gli unici rilevanti a spiegare i fenomeni.Ora, invece, la realtà ha a che fare con una complessità “essenziale” rispetto alla quale dobbiamo riconoscere una nostra “ignoranza” di comprensione nella sua totalità, come gli stessi fondatori dell’applicazione della matematica all’economia
    riconoscevano. A questo proposito è interessante la citazione di “quei notevoli precursori dell’economia moderna, gli scolastici spagnoli del XVI secolo, che enfatizzarono ciò che denominarono pretium mathematicum, il prezzo matematico, dipendente da così tante circostanze particolari da non poter mai essere conosciuto dall’uomo ma soltanto da Dio. A volte vorrei che i nostri economisti matematici prendessero a cuore tale affermazione”.
    Ad una “presunzione di conoscenza esatta, ma probabilmente falsa”, Hayek preferisce “una conoscenza vera, anche se imperfetta”. “L’accettazione acritica di asserzioni che hanno l’apparenza di essere scientifiche” è pericolosa: “nelle scienze umane, quella che appare superficialmente come la procedura più scientifica è spesso la meno scientifica. [...] Affidare alla scienza qualcosa di più di ciò che il metodo scientifico è in grado di realizzare, può avere effetti deplorevoli [...]. Resisteranno a una tale idea specialmente tutti quelli che speravano che il nostro crescente potere di previsione e controllo, generalmente considerato il risultato caratteristico del progresso scientifico, applicato ai processi della società, ci avrebbe presto permesso di modellare l’intera società umana a nostro piacere”.
    Ma se una conoscenza “esatta” non è possibile, occorre allora rinunciare alla conoscenza? No. Infatti, se l’uomo non può acquisire la conoscenza completa che permetterebbe la padronanza degli eventi, “dovrà utilizzare la conoscenza che potrà conseguire, non per modellare gli eventi come l’artigiano modella i suoi manufatti, ma piuttosto per coltivare lo sviluppo favorendo le condizioni ambientali adatte, così come fa il giardiniere per le sue piante (Peguy fa un esempio ed esprime un concetto molto simile in “Cartesio e Bergson”, nda). C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato, che tenta l’uomo, “ubriaco di successo”, a cercare di assogettare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale, ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve effettivamente insegnare allo studioso della società umana una lezione di umiltà che dovrebbe impedirgli di diventare un complice nel fatale tentativo degli uomini di controllare la società – un tentativo che lo rende non solo un tiranno dei suoi simili, ma che può renderlo il distruttore di una civiltà che nessun cervello ha progettato, ma che è nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.
    Tornando al ragionamento del Papa sull’identità europea divisa su due anime, egli continua affermando: “L’altra anima è quella che possiamo chiamare cristiana, che si apre a tutto quello che è ragionevole, che ha essa stessa creato l’audacia della ragione e la libertà di una ragione critica, ma rimane ancorata alle radici che hanno dato origine a questa Europa, che l’hanno costruita nei grandi valori, nelle grandi intuizioni, nella visione della fede cristiana”.
    Appunto: o il “bunker positivista” in cui l’uomo, solo con la sua razionalità, pretende di manipolare la realtà, oppure “giardinieri” di un ambiente che ci è dato, cioè co-operatori di una storia, una cultura, un creato. Impressiona come sulla concezione di “ragione” si gioca la partita di una incipiente distruzione dell’umano o, come dice il Papa, di “un nuovo umanesimo, che − aggiunge − deve essere il nostro scopo”.
    PS. Nella parte economica del discorso di Hayek troveremmo la spiegazione della nostra attuale crisi.
    LETTURE/ Benedetto XVI e von Hayek, liberare la ragione dal "bunker" | pagina 2



    I veri Lumi sono quelli (cristiani) dei «secoli bui»
    Rino Cammilleri
    L'insigne medievista Warren Hollister, morto nel '97, disse nel discorso d'apertura, come presidente, della Pacific Historical Association: «A mio giudizio, chiunque creda che l'epoca che vide la costruzione della cattedrale di Chartres, l'invenzione del parlamento, e la creazione delle università sia stata “buia”, deve essere mentalmente ritardato o, nel migliore dei casi, molto, molto ignorante». Ce l'aveva, anche se non lo disse, pure con Voltaire, Gibbon e Bertrand Russell.
    La citazione è la chiave del libro dello statunitense Rodney Stark, Il trionfo del cristianesimo. Come la religione di Gesù ha cambiato la storia dell'uomo ed è diventata la più diffusa al mondo (Lindau, pagg. 650, euro 32). Stark è forse il sociologo delle religioni più importante, che la necessità ha costretto a occuparsi di storia. Infatti, i suoi studi lo hanno condotto a pubblicare una serie di volumi la cui cifra è riassumibile così: tutto ciò che abbiamo imparato a scuola sulla nostra religione è falso perché, dall'era della nascita delle ideologie in poi, è condizionato dal pensiero politically correct di volta in volta dominante. Per esempio, sedotti dal mito di Roma antica (dal Rinascimento a oggi), non ci siamo accorti che «il fattore maggiormente benefico nell'ascesa della civiltà occidentale è stato la caduta di Roma!», un impero, come tutti quelli pre-cristiani, fondato sulla schiavitù, nel quale «se le classi privilegiate si appropriano di tutta la produzione al di sopra del minimo richiesto per sopravvivere, la gente non ha alcuna motivazione a produrre di più».
    Senza schiavi (vietati dal cristianesimo) e senza oppressione fiscale, senza sterminati eserciti (da mantenere), con le proprietà monastiche divenute aziende, la tecnologia accelerò di colpo, sorsero il libero mercato e le banche, i diritti individuali. I teologi cristiani (non quelli islamici) tolsero ogni vincolo morale agli affari e nacque il capitalismo. L'Europa si ripopolò presto, le arti (basti pensare alla musica) fecero un grande balzo in avanti e la civiltà occidentale si pose alla guida del pianeta, una guida che non ha più lasciato. «In breve: per troppo tempo troppi storici sono stati ingenui come turisti, restando a bocca aperta davanti ai monumenti, ai palazzi e al consumo ostentatorio di Roma antica». E si sono lasciati fuorviare da miti ideologici (tutti antireligiosi) nati in epoche di contestazione alla Chiesa.



    Avviso di restauri nel "Cortile dei gentili"
    Un inatteso messaggio di Benedetto XVI riporta l'iniziativa alla sua finalità originaria: quella di evangelizzare i non credenti, e non solo di ascoltarli. Il cardinale Ravasi atteso alla prova dei fatti
    di Sandro Magister
    ROMA, 30 novembre 2012 – Quando alla vigilia di Natale del 2009 Benedetto XVI lanciò l'idea del "Cortile dei gentili", ne disse subito la finalità: tener desta la ricerca di Dio tra agnostici o atei, come "primo passo" della loro evangelizzazione. Ma il papa non ne stabilì le modalità d'esecuzione. Affidò la messa in opera dell'idea al presidente del pontificio consiglio della cultura, l'arcivescovo e poi cardinale Gianfranco Ravasi, valente e sperimentato creatore di eventi culturali.
    Ravasi esordì a Parigi il 24 e 25 marzo 2010, organizzando un incontro che ebbe un notevole impatto. Lo stesso Benedetto XVI vi prese parte con un videomessaggio rivolto ai giovani riuniti sul sagrato di Notre Dame. Nei successivi appuntamenti, però, il papa rimase in silenzio. Il "Cortile dei gentili" proseguì con una sequenza serrata di incontri, in diversi paesi. Con un crescendo culminato il 5 e 6 ottobre di quest'anno ad Assisi, con un cast di partecipanti record, a cominciare dal presidente della repubblica italiana, Giorgio Napolitano, agnostico di formazione marxista. A questo crescendo è corrisposto, però, un calo di interesse generale e di risonanza nei media.
    Un calo comprensibile. Il fatto che dei non credenti prendessero la parola in un incontro promosso dalla Santa Sede non era più una notizia. E non era una notizia nemmeno il fatto che ciascuno vi esponesse la rispettiva visione del mondo, peraltro già risaputa, alla pari con gli altri, in una sorta di "quadri di un'esposizione". A dispetto della suggestione di ciascun evento e dell'ammirazione che esso riscuoteva tra i partecipanti, il "Cortile dei gentili" rischiava di non produrre più nulla di nuovo e di significativo, sul versante dell'evangelizzazione.
    Se una novità infatti c'è stata, nell'ultimo suo incontro tenuto 1l 16 e 17 novembre in Portogallo essa è venuta da fuori e dall'alto. Per la prima volta nella storia del "Cortile dei gentili" – a parte il caso particolare di Parigi –, Benedetto XVI ha inviato ai partecipanti un proprio messaggio. Un messaggio nel quale egli ha voluto riportare l'iniziativa alla sua finalità originaria: quella di parlare di Dio a chi ne è lontano, risvegliando le domande che avvicinino a Dio. Nel messaggio, chiaramente scritto di suo pugno, Benedetto XVI ha preso avvio dal tema principale del "Cortile dei gentili" portoghese: "l'aspirazione comune di affermare il valore della vita umana". Ma subito ha argomentato che la vita di ogni persona, tanto più se amata, non può non "chiamare in causa Dio".
    E ha proseguito:
    "Il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere almeno 'come se Dio esistesse'. Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita".
    "Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri".
    E ha aggiunto lapidariamente: "Questi sono lo spirito e la ragion d’essere del Cortile dei gentili".
    L'indubbia rettifica impressa al "Cortile dei gentili" da Benedetto XVI con questo messaggio non è stata rimarcata dai media, nemmeno da quelli cattolici e più attenti. Ma il cardinale Ravasi l'ha sicuramente registrata e sottoscritta. Lo si è capito anche da questo passaggio del bilancio del "Cortile" portoghese pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 23 novembre:
    "A Guimarães, il pubblico ha sollevato una questione: la sacralità della vita presuppone qualcosa che ci trascende. Come possiamo conoscere Dio? È stato cioè toccato l’obiettivo per il quale il 'Cortile dei gentili' è stato pensato: esprimere l’inquietudine riguardo a Dio. Tema vasto e complesso sul quale, ha detto il cardinale Ravasi, il 'Cortile dei gentili' tornerà in maniera più approfondita nei prossimi incontri".


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Consacrazione della città di Rovereto a Cristo Re
    di Sergio Guidotto
    Al Direttore del settimanale diocesano Vita Trentina (che ha rifiutato di pubblicarla)
    Oggetto: “Consacrazione della Città di Rovereto a Cristo Re”
    Le scrivo in quanto rappresentante di quei cattolici meritevoli di pubblico disprezzo, che Lei ha cosi ben descritti nel suo articolo: “…hanno improvvisamente destato dal tepore un gruppo di fedeli, recalcitranti, che hanno dato vita ad una fantomatica associazione per il recupero delle radici cristiane di Rovereto”. E’ ormai visibile a tutti che all’interno della Chiesa cattolica sta avanzando un fenomeno sconcertante dalle dimensioni finora mai esistite in tutta la Sua storia che utilizza la denigrazione dello stesso cattolicesimo e che sta sfigurando orribilmente il volto della Sposa di Cristo.
    E’ accaduto che, confidando nella sostanziale distrazione del popolo di Dio roveretano, il decano Don Sergio Nicolli



    pur non avendone titolo e con mezzi dispotici, ha proceduto, con l’appoggio dello stesso episcopato, a depennare l’Atto di consacrazione della Città di Rovereto a Cristo Re, calpestando la volontà del popolo cittadino il quale, nel secolo scorso, si è impegnato a cercare il regno di Dio con libero e solenne “Atto di Consacrazione della Città a Cristo Re”.
    Il disegno del decano non si è compiuto come si doveva. Un gruppo di cattolici non si è lasciato irretire da questa doppiezza poco cristiana, opponendosi con la raccolta di varie centinaia di firme. Solo ed esclusivamente per questa ragione si è visto costretto a mantenere l’atto di Consacrazione riducendone peraltro forma e preghiera. Ciò che colpisce è che in questo caso non sono le istituzioni pubbliche o gruppi di laicisti militanti che chiedono la cancellazione delle radici cristiane di Rovereto, ma le istituzioni ecclesiastiche stesse. Significa che nella Chiesa cattolica ormai si vanno spegnendo le radici popolari della fede e delle devozioni che traggono origine da eventi storici, e alcuni suoi rappresentanti procedono alacremente per la loro autodissoluzione. Inoltre, in occasione di pubbliche interviste, don Nicolli ha gravemente ridicolizzato le espressioni contenute nell’Atto di Consacrazione dei nostri padri.
    Cosa dire di fronte a queste sconcertanti affermazioni, se non che esse denotano la mancanza non solo di una teologia cattolica della storia, ma anche di un vero spirito di fede? I nemici della Chiesa vorrebbero ridurci al silenzio con la solita nauseante tiritera nichilista: “La Chiesa è in ritardo sui tempi, occorre che adegui il suo linguaggio, i suoi insegnamenti e le sue pratiche religiose al mondo, rispetto a cui è in ritardo di almeno due secoli”. Insomma, la Chiesa dovrebbe correre incontro al mondo assecondandone le debolezze.
    E’ stupefacente che tale arroganza affiori dalla labbra di esponenti del clero i quali fanno di tutto per presentare i cattolici “non adulti” sotto un aspetto odioso, isolandoli, diffamandoli, screditandoli. Nessuno si faccia illusioni. Agli occhi dei semplici, il tentativo di colpire l’Atto di Consacrazione a Cristo Re, appare solo ed esclusivamente come il rifiuto di essere figli di Dio.
    Vede Direttore, quei recalcitranti e fantomatici fedeli destati dal tepore, sono uomini e donne che si lasciano abbracciare da lei (la Chiesa) e che oggi si sentono anche perplessi, perfino delusi e che tuttavia rinnovano la loro adesione, affetto e obbedienza incondizionati al Papa Benedetto XVI, il Dolce Cristo in terra, lottano e si battono per difendere i principi non negoziabili, respingono con nettezza la dittatura del relativismo. L’inganno e l’impostura incarnato da certo clericalismo ciarliero finge di non accorgersi che non è il mondo che avanza, mentre è la Chiesa che progredisce nelle tempeste, sempre combattuta dall’esterno e tradita all’interno, ma mai sconfitta, sempre vittoriosa. La Chiesa è il mistero del popolo di Dio nato dal mistero di Cristo morto e risorto e dall’effusione dello Spirito, quindi c’è una Chiesa sola. Se la Chiesa non reagisce adeguatamente a fronte di iniziative eterodosse tese a corrompere la nostra tradizione, allora necessariamente possono intervenire in maniera protagonistica gente o gruppi che nella Chiesa non hanno a cuore soltanto la difesa della Chiesa, bensì l’espressione legittima delle loro convinzioni. Se non saranno i Pastori a ricordarlo al loro gregge, saranno i semplici battezzati a gridarlo, con tutte le loro forze, confidando nella risorsa della Divina Provvidenza che non inganna e non abbandona, perché Essa è di Dio. E Dio non abbandona mai la sua Chiesa.
    Questo solo ci basta.
    http://www.libertaepersona.org/wordp...e/#more-119815

    La Chiesa, la ricchezza e la fame nel mondo…, ecco un’ottima risposta
    Quante volte si legge la frase: “Perché la chiesa ostenta tanta ricchezza e oro quando con quella ricchezza che possiede potrebbe sfamare milioni di persone?”. Ecco, per rispondere alle solite banalità anticlericali, di cui sono rimasti vittime anche tanti cattolici, ci serviamo questa volta di un’ottima replica di padre Angelo Bellon apparsa sull’interessante sito web “Amici Domenicani”. Per chi volesse approfondire ulteriormente l’argomento, rimandiamo anche a quest’altra risposta.
    Ecco la “classica” domanda di una lettrice, Francesca:
    «Buon giorno padre, di recente sono stata in vacanza e ad una cattedrale famosa dovevi pagare €4,50 per sederti e sentire la messa, dovevi, se volevi fare l’offerta per accendere una candela, mettere almeno € 70 centesimi (ma Gesù quando predicava chiedeva soldi alle persone che volevano ascoltarlo? non credo). Perché la chiesa ostenta tanta ricchezza e oro quando con quella ricchezza che possiede potrebbe aiutare, sfamare tante persone? (Gesù vestiva di stracci e non indossava oro né viveva in una casa lussuosa). Perché quando ci si sposa bisogna pagare chi suona l’organo, pagare il coro, si devono lasciare i fiori in chiesa e non si possono portare via in quanto il prete ti obbliga a fare così. Se ti vuoi sposare in un’ altra chiesa devi pagare (se Gesù in persona fosse lì presente non penso ci imporrebbe queste cose, ci inviterebbe semmai a fare beneficenza con quei soldi ne si imporrebbe per dei fiori… credo..). Se vuoi che il prete durante la messa dica il nome di un tuo parente defunto devi pagare. Buh. Sottolineo che ci sono delle eccezioni, ad esempio il parroco delle chiesa vicino casa mia ha fatto tante migliorie e lavori alla chiesa con i soldi delle offerte che io sappia mai imposte, non mi sembra conduca una vita lussuoso, o che abbia una grande macchina, e durante l’omelia è un piacere ascoltarlo, sa sempre cosa dire e dice le cose giuste in modo che anche se si dilungasse non ti stancheresti di ascoltarlo. Però anche per lui vale il discorso dei matrimonio o della preghiera in suffragio delle persone defunte»
    Padre Angelo ha risposto pazientemente in nove punti chiave:
    «Cara Francesca, ho voluto pubblicare questa email anche se è zeppa dei soliti luoghi comuni, in considerazione della tua giovane età e anche perché sei mossa da vero amore per il Signore e per la Chiesa.
    1. Ti faccio alcune domande: ma se ad un matrimonio vuoi l’organo, chi lo paga l’organista? E se accendi una candela in Chiesa, chi la compera quella candela? Per un matrimonio viene chiesta o si lascia un’offerta per la chiesa: ti pare una cosa strana? Tu non hai mai chiesto un servizio a diverse persone? E poi: quanto costa un matrimonio per pagare il pranzo agli invitati, per le bomboniere, per mille altre cose superflue solo per allietare la festa? Alla Chiesa, che celebra il matrimonio, talvolta a conti fatti si dà l’un per cento di tutte le spese fatte, e si ha da ridire? Non dico che si debba pagare la benedizione e la grazia santificante che viene data perché sarebbe simonia, ma quanto viene dato attraverso il sacramento è impagabile.
    Il popolo che ha fede sa che questo è il momento più grande, più prezioso, più benefico che con quelle nozze si inaugura.
    Come vedi, certi discorsi manifestano che di fede non ce n’è!

    2. E poi i fiori per chi si portano? Per onorare il Signore, l’immagine di Maria o per portarseli dietro? Ma sono convinto che se uno se li vuole portare via, il sacerdote non ha nessuna difficoltà, anzi… Puoi chiedere alle donne che si dedicano volentieri alle pulizie delle chiese parrocchiali se non ne farebbero volentieri a meno. Sono loro che poi ogni giorno cambiano l’acqua perché non marciscano in fretta, non mandino cattivo odore, che ad un certo punto li fanno su e li portano via. E stai sicura: fanno tutto gratis.

    3. Ci sono cattedrali enormi con opere d’arte, hanno bisogno di luce, di custodi, di gente che pulisca, che a suo tempo hanno bisogno del rifacimento dei tetti o di altre prestazioni. Tanti visitatori pagano andando in museo. Così non trovo eccessivamente strano che si paghi per entrare in una determinata Chiesa, dove pure ci sono delle persone che puliscono, che tengono in ordine…Tuttavia stai pur certa che dappertutto, quando c’è la Messa, non si paga, a meno che uno non entri per fare il turista. In ogni caso, ai parrocchiani, non si fa mai pagare per entrare in Chiesa a pregare o per andare a Messa.

    4. Inoltre se la Chiesa vendesse tutte le opere d’arte, che sono segno della fede e della pietà dei nostri padri, una volta sfamata la gente per qualche giorno avresti risolto il problema? Credi proprio che per risolvere i problemi della povertà del mondo sia necessario spogliare le Chiese? Tra l’altro, sarebbe giusto vendere le opere d’arte? E la sovrintendenza permetterebbe che venissero asportate dalle chiese? Ma poi: queste opere d’arte non sono state fatte per edificare la pietà dei fedeli?

    5. Infine, non si chiede affatto l’elemosina per dire il nome del defunto, piuttosto si tratta di celebrare la Messa in suo suffragio e in segno di questo si dice il nome. Ma il nome si potrebbe anche non dire perché ciò che conta è il suffragio, il sacrificio di Cristo che viene applicato per la sua anima per liberarlo dal purgatorio.

    6. Il problema non è la ricchezza della Chiesa, ma la fede che manca. Quando si pensa che si debba pagare per dire il nome del defunto durante la Messa, vuol dire che non si sa neanche che cosa sia la Messa? Se uno va in Chiesa solo per sentire il nome del defunto stiamo freschi! Non penso che un giovane rinunci a tutto e si faccia sacerdote semplicemente per dire il nome del defunto!

    7. Infine hai la testimonianza del tuo parroco. Credi che sia un’eccezione? Vedi, bisognerebbe lasciar perdere tanti luoghi comuni ed essere più realisti. E poi per risolvere la fame nel mondo: non dico di spogliare le case, ma quante spese superflue si fanno settimanalmente da parte dei più e su queste si sta zitti! San Francesco non ha chiesto agli altri di diventare poveri, ma ha voluto lui farsi povero. Questa è la predica più credibile. Gesù non chiedeva soldi, ma accettava quello che gente gli donava, per questo aveva incaricato Giuda di tenere la cassa. Inoltre in nessuna pagina evangelica è scritto che Gesù vestiva di stracci. Anzi si dice che la sua tunica era senza cuciture, tutta d’un pezzo. Sua madre non l’ha vestito di stracci, ma ha fatto senza dubbio del suo meglio. Guardo nel mio convento e mi domando: dov’è la ricchezza e il lusso ostentato? Nelle famiglie più comuni hanno quello che nel nostro convento non c’è.

    8. Inoltre, proprio san Francesco per il culto di Dio, per la celebrazione di sacrificio di Cristo sui nostri altari, per contenere il Corpo e il Sangue del Signore voleva che ci fosse il materiale più prezioso. Che cosa c’è di più prezioso per noi del Corpo del Signore che si offre a Dio come vittima di propiziazione per noi sull’altare?

    9. Voglio dire un’ultima cosa: penso alla gente che viene in Chiesa anche tutti i giorni. Nessuno dice: vendiamo questo, vendiamo quell’altro. Anzi vedono le necessità della Chiesa: ci sono gli oratori, le scuole materne, le attività caritative, i campi scuola, i poveri e i mendicanti cui ogni giorno si provvede… Questa gente generosamente dà, non chiede di vendere!
    E si attira la benedizione di Dio, il quale non si lascia mai vincere in generosità. Solo quelli che non danno mai niente e che hanno paura di mettere nelle mani di Dio qualcosa dei loro beni sollevano obiezioni e si fanno paladini della povertà evangelica. Ripeto: San Francesco non ha fatto così.
    Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
    Padre Angelo»
    http://www.uccronline.it/2012/11/11/...tima-risposta/

    IL CASO
    Scout, giù le mani dalla parola «Dio»
    Antonio Maria Mira
    «Nessun uomo è buono se non crede in Dio e non obbedisce alle sue leggi. Per questo tutti gli Scout devono avere una religione». Frase perentoria, forse, ma da sola può rispondere al dibattito aperto dopo la proposta, avanzata dalla Scout Association britannica, di togliere il riferimento a Dio nella "Promessa scout".
    Quell’impegno che i giovani col fazzolettone prendono iniziando il loro "cammino" e che recita (versione italiana), «Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio: per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese; per aiutare gli altri in ogni circostanza; per osservare la Legge scout». Un testo che sostanzialmente non è cambiato da quello scritto, ai primi del ’900, dal fondatore dello scoutismo lord Robert Baden-Powell. Ed è proprio di B.P., come tutti gli scout lo chiamano, la citazione con cui abbiamo aperto. E ne aggiungiamo subito un’altra, legata alla Promessa. «La fedeltà più alta è verso Dio e la possiamo dimostrare mantenendo la Promessa scout. La nostra fedeltà più alta è verso Dio. Possiamo dimostrarla compiendo i nostri doveri verso la religione e mantenendo la nostra Promessa scout». Tutta la sua vita è stata impegnata in questo senso religioso che ha voluto anche nello scoutismo, dove non ha mai acconsentito a «dare un posto facoltativo al Creatore».
    Ma oggi? «Non c’è scoutismo senza credo religioso. È uno dei punti su cui teniamo duro, contro il tentativo di semplificare e relativizzare che non ha casa nello scoutismo». Parole altrettanto chiare di Mario Sica, maggior storico dello scoutismo italiano e membro del Comitato delle Costituzioni dello Scoutismo mondiale, una sorta di "Corte costituzionale" del movimento, organizzazione di giuristi col fazzolettone che deve esaminare i vari documenti/norma nazionali che, spiega, «devono sempre ispirarsi al testo di B.P.». Insomma, taglia corto, «abbiamo sempre detto di no a tentativi di togliere Dio. Proprio perché in B.P. c’è la condanna della negazione di Dio: l’ateo non può essere scout».
    Ragionamenti analoghi da padre Alessandro Salucci, assistente ecclesiastico generale dell’Agesci. «Uno scoutismo senza Dio non è concepibile. La deriva laicista distrugge la sua identità. Altrimenti facciamo un altro scoutismo e non è più quello di B.P.». Il fondatore, ricorda padre Alessandro, «pensò lo scoutismo proprio secondo il dettato biblico e su questo fonda la sua dimensione morale. Una religiosità molto concreta. La vera felicità, diceva, è fare la felicità degli altri».
    Dunque «la parola Dio nella Promessa garantisce i valori etici che poi B.P. esprime attraverso la Proposta educativa e i dieci articoli della Legge scout. Valori che vanno oltre l’etica umana».
    Scout e Dio, un legame strettissimo. Come ha ricordato Benedetto XVI in una lettera scritta nel 2007 in occasione del centesimo anniversario del primo campo scout organizzato da Baden-Powell sull’isola di Brownsea, in Inghilterra. «Lo scoutismo – affermava il Papa – non è solo un luogo di crescita umana vera, ma anche il luogo di una proposta cristiana forte e di una vera e propria maturazione spirituale e morale, così come un autentico cammino di santità».
    E torniamo alle parole di B.P.: «Fare il proprio dovere verso Dio significa non dimenticare mai Dio, ma ricordarLo in ogni cosa si faccia. Se non Lo dimenticherete mai, non farete mai alcuna cosa che sia male. Se, quando state facendo qualche cosa di male, pensate a Dio, vi fermerete immediatamente».
    È un ritorno continuo il riferimento a Dio, in modo molto concreto. «La Promessa che uno scout o una guida fa entrando nel Movimento ha come suo primo punto: "Compiere il mio dovere verso Dio".
    Si noti che non dice "Essere fedele a Dio" perché questo sarebbe solo un atteggiamento mentale, ma invece impegna il ragazzo o la ragazza a fare qualcosa: un atteggiamento cioè positivo, attivo». Insomma, aggiungeva, «significa non solo affidarsi alla Sua bontà, ma fare la Sua volontà praticando l’amore del prossimo». Dall’inizio alla fine. Così il "papà" degli scout si rivolge ai suoi ragazzi. «Chi abbia fatto del proprio meglio ritorna senza paura al Creatore. Egli può in piena verità dire a Dio: "Ho cercato di fare il mio dovere; ho fatto del mio meglio", e nessuno può fare più di questo».
    Come scrive nel suo ultimo messaggio prima di morire l’8 gennaio 1941. «Procurate di lasciare questo mondo un po’ migliore di quanto non l’avete trovato e, quando suonerà la vostra ora di morire, potrete morire felici nella coscienza di non aver sprecato il vostro tempo, ma di avere "fatto del vostro meglio". "Siate preparati" così, a vivere felici e a morire felici: mantenete la vostra Promessa di Esploratori, anche quando non sarete più ragazzi, e Dio vi aiuti in questo». Ancora una volta "quella" Promessa.





    Il Natale degli imbucati
    Pubblicato da Berlicche
    Niente da fare, non riesco a abituarmi.
    Ci si saluta. Io faccio gli auguri di buon Natale. La gente mi guarda un po’ stupita e perplessa. Mi si risponde con buone feste, buone vacanze, divértiti. Si è insomma smarrito il senso, la ragione, il nome stesso di quello che si sta facendo.
    In una certa maniera è come imbucarsi ad una festa che non ci appartiene. Vediamo che c’è gente allegra, che ci si diverte, e quindi entriamo pure noi anche se non capiamo bene quello che accade.
    Sarà un matrimonio? Sarà un compleanno? Così ci manteniamo sul generico, non ci sbilanciamo, per non fare cattiva figura.
    Ma non facciamoci illusioni. Colui che dà la festa sa benissimo che ci siamo anche noi. Prima o poi verrà a trovarci e ci chiederà: “Cosa fai qui?”.
    Noi ammutoliremo, perché in fondo non è che lo conosciamo così bene. Forse tenteremo con un “Auguri!”, ma la finzione non reggerà.
    Perché lui invece ci conosce benissimo.
    http://berlicche.wordpress.com/





    L’altra festa
    Pubblicato da Berlicche
    Mi raccontano di alcuni che a festeggiare il Capodanno non sono arrivati. Prima di mezzanotte erano già così partiti che non si sarebbero accorti di niente neanche se i Maya avessero avuto ragione.
    Nell’ospedale della cittadina vicino alla mia il pronto soccorso era zeppo di drogati ubriachi che vomitavano. Nei pressi c’era un rave party. I feriti più seri e le partorienti hanno dovuto fare posto.
    Mi hanno narrato di cenoni all’insegna di quella che una volta si chiamava trasgressione e che ora è in una certa maniera la patetica normalità. Quando l’eccezionale diventa banale, come fare a combattere la noia?
    Non devo fare un grande sforzo di memoria per ricordare le mie feste di capodanno di quando ero più giovane. Alla ricerca di qualcosa che, trovata o non trovata, lasciava in bocca il sapore acido e sgradevole del nulla.
    Se si vuole vedere cosa potrebbe essere il Natale senza Cristo basta vedere il Capodanno. La festa di una divinità innominata, ma che esige i suoi sacrifici.
    I suoi morti, i suoi feriti, tanti o pochi; i feriti dentro, molti di più.
    Cosa si cerca, a Capodanno, realmente?
    http://berlicche.wordpress.com/2013/01/03/laltra-festa/



    Russia: rinascita religiosa, l’88% di credenti
    Michele Silvi
    Vatican Insider la chiama la “primavera ortodossa”, al di fuori di ogni metafora non è altro che il ritorno (di cui abbiamo già parlato altre volte) della religiosità e della fede (soprattutto di confessione Ortodossa) in quelle terre che furono succubi del comunismo sovietico e del conseguente ateismo di stato.
    Stando all’articolo dell’Insider (che riporta anche la ricostruzione storica delle controversie della religiosità russa, che consiglieremmo di leggere), la percentuale di credenti in Russia è ora superiore a quella nel periodo precedente la rivoluzione bolscevica: si professa credente l’88% della popolazione ed il 79% fa parte della Chiesa Ortodossa (il restante 9% è composto da cattolici, protestanti musulmani, ebrei). Comparando questi dati con quelli appena successivi alla caduta del regime risulta che più di un russo su due, negli ultimi vent’anni, avrebbe riscoperto la fede.
    Si tratta dell’ennesima, chiara dimostrazione del fallimento dei progetti sovietici: si era tentato infatti di sostituire la fede con il culto dello Stato; di cancellare la cultura cristiana (come qualsiasi cultura anti-sovietica) mettendo al bando testi sacri e non o esponendo manifesti secondo cui “la splendente luce della scienza ha provato che non c’è alcun Dio”; di stabilire le ideologie del regime e l’”ateismo scientifico” come religione di Stato.
    Come ebbe modo di dichiarare Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, l’orribile repressione staliniana, che non è riuscita a cancellare Dio dal cuore dell’uomo come avrebbe voluto, ebbe come conseguenza collaterale la presa di coscienza, di chi perseverò, del fatto che “nelle epoche di prosperità della Chiesa non si vive tanto intensamente questa gioia della fede, questa forza vivificante della fede”. Come è evidente, l’opera di ricostruzione e di recupero è iniziata: se è vero che le idee del regime si lasciano dietro “fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi”, è anche vero che c’è la volontà di riparare a tali delitti, i numeri lo confermano.
    http://www.uccronline.it/2012/11/02/...8-di-credenti/



    PREGHIERA
    di Camillo Langone
    Se io fossi vicino al Papa lo ringrazierei per “L’infanzia di Gesù” (Rizzoli), libro che chi ne ha scritto non ha letto e chi lo ha letto non ne ha scritto. In particolare lo ringrazierei per il seguente passaggio antispiritualista: “La nascita dalla Vergine e la risurrezione dal sepolcro. Questi due punti sono uno scandalo per lo spirito moderno. A Dio viene concesso di operare sulle idee e sui pensieri, nella sfera spirituale, ma non sulla materia. Ciò disturba. Lì non è il suo posto”.
    Essendo un premoderno, o un post, della sfera spirituale pochissimo mi cale e di tutto l'ambaradan religioso mi interessa quasi soltanto la risurrezione della carne. Ogni volta che viene evocata mi sento meglio, e per questo vorrei ringraziare il Papa.
    http://www.ilfoglio.it/preghiera/748


  4. #54
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    Predefinito Re: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Il percorso religioso dei Beatles: quattro piccole “conversioni”
    Qualcuno non conosce i Beatles? E come è possibile? Chi scrive nasce oltre vent’anni dopo la loro comparsa pubblica, tuttavia la melodia di moltissimi loro brani è più familiare di tantissimi pezzi mandati in onda oggi dalle stazioni radiofoniche.
    John Lennon, il leader del gruppo, è stato velocemente etichettato come “non cristiano” quando ha scritto la famosissima canzone “Imagine”, in cui si dice: «Immagina non ci sia il Paradiso, prova, è facile. Nessun inferno sotto i piedi. Sopra di noi solo il Cielo [..]. Niente per cui uccidere e morire e nessuna religione». Preso dall’euforia del successo un giorno disse che la sua band era diventata «più popolare di Gesù».
    Benissimo, attenzione però -come ha scritto Ray Comfort nel suo nuovo libro “The Beatles, God & the Bible” - a non cadere nella «tentazione di abbracciare i Beatles come campioni di anti-cristianesimo, sarebbe un po’ troppo zelante e tradirebbe i percorsi personali di fede dei membri della band». Ha quindi proseguito: «E’ vero che nel loro periodo di massimo splendore, nel 1964 o ’65, qualcuno chiese loro se credevano in Dio e John Lennon rispose negativamente, ma il loro pensiero è poi maturato ed ogni componente dei Beatles ha riconosciuto l’esistenza di Dio in un suo modo particolare». In particolare fu Paul Mccarthy a sostenere: «probabilmente sembriamo anti-religiosi per il fatto che nessuno di noi crede in Dio … siamo tutti agnostici».
    Durante gli anni del successo, John Lennon invitava alla rivoluzione sessuale, all’amore disinibito e libertino, e il figlio Julian oggi dice: «Fu un cattivo padre. Ed io non riesco a diventarlo per colpa sua. Mio padre cantava d’amore, parlava d’amore, ma non ne ha mai dato, almeno a me che ero suo figlio». Nel 1980, in una intervista per Playboy -qualche mese prima di venire ucciso- Lennon ha rivelato la sua conversione: «La gente ha sempre avuto l’immagine che io fossi un anti-Cristo o un antireligioso. Ma io non lo sono. Oggi sono un uomo religioso. Sono cresciuto cristiano e solo ora capisco alcune delle cose che Cristo diceva attraverso le parabole».
    Il chitarrista dei Beatles, George Harrison, ha composto nel 1969 la bellissima canzone-preghiera “My Sweet Lord“, mentre in una lettera a sua madre ha scritto: «Voglio trovare Dio. Io non sono interessato a cose materiali, questo mondo, la fama…voglio raggiungere il vero obiettivo». Harrison venne affascinato particolarmente dal misticismo indiano, dopo la sua morte nel 2001 la famiglia ha lasciato un comunicato in cui c’era scritto: «Ha lasciato questo mondo come lo ha vissuto, consapevole di Dio, senza paura della morte e in pace».
    Anche Paul McCartney ha cambiato la sua posizione, pregando per la moglie quando ha avuto problemi nel dare alla luce la loro figlia. Ha aggiunto: «Dio non ci avrebbe dato le lacrime se Egli non avesse voluto che piangessimo». McCartney ha fatto riferimento Dio anche in una canzone dal titolo “Freedom”, in onore delle vittime del 9/11, dicendo: «Questo è il mio diritto, un diritto dato da Dio. Per vivere una vita libera, per vivere in libertà»
    Il batterista Ringo Starr nel 2010 ha affermato di aver trovato Dio, ha riconosciuto di aver perso la strada quando -sia da giovane che da membro dei Beatles- ha fatto uso di marijuana e l’LSD e poi, verso la fine del 1970, ha sofferto problemi di alcol e cocaina. Oggi il musicista è diventato astemio e al Grammy Museum di Los Angeles ha detto che la religione ha un ruolo importante nella sua vita: «Adesso, Dio è nella mia vita. Non vi nascondo questo. Penso che la ricerca sia iniziata dal 1960. Ho fatto un passo fuori dal sentiero per molti anni, e poi ho ritrovato la strada, grazie a Dio».



    Se l’ostentazione d’umiltà, rasenta il “lei non sa chi sono io!”. Prendi mons.Crociata
    È l’una di notte, sono stanco e sto cecando dal sonno: ma questa voglio raccontarvela ugualmente. Ero sin poco fa a cena in una trattoria del mio quartiere, con un amico prete (di quelli ortodossi eh!, mica ‘na sola come il prete medio alla romana) e un seminarista straniero. Ne ho sentite di cotte e di crude, e tutte quante vergognose, sugli arcipreti delle principali basiliche romane, ma fin qui nulla di nuovo.
    Quello che mi ha fatto crepare è ciò che è capitato a questo sacerdote, incrociando quel pover’uomo del vescovo siciliano Mariano Crociata, per grazia di chissà chi segretario della CEI… dove certo non fa sfigurare, al confronto, tutti gli altri compagni periodicamente riuniti in fitta schiera a esternare ovvietà prelatizie. Per tacere della sua teologia pigmea, della quale in Sicilia, non si sa bene a che titolo, ne è il padrone come fosse vapore, e che all’atto pratico sembra più una ricetta per fare cannoli alla siciliana che non per formare sacerdoti e intellettuali cattolici.
    Il prete mio commensale, invece, è di quelli che han studiato. Colto, perché ha frequentato anzitutto università laiche, prima di cedere al cazzeggio nelle pontificie… che equivalgono all’incirca a quattro ininterrotti anni sabbatici frammisti ad agnosticismo all’amatriciana; cattolico, perché non ha mai messo piede in un seminario; intelligente, perché si è tenuto alla larga dal cretinismo amorale di certo ambiente clericale. È proprio perché non si è formato in università pontificie, non è mai stato in seminario, non ha frequentato scampagnate clericali, per tutte queste ragioni, indossa sempre un impeccabile clergy nella vita civile, la talare nello svolgimento degli uffici sacri.
    Un prete così, incrociando mons. Crociata non poteva che fare scintille. Essendo prete bene educato, per le succitate ragioni, quando è ricevuto da un vescovo s’inchina a baciare l’anello. Così fa con Crociata. L’avesse mai fatto!
    Mentre il prete devotamente sta eseguendo tutto questo, il vescovo, con fare spocchioso perfettamente proporzionale alla dubbia superiore umiltà che voleva ostentare, praticamente lo scansa sventagliandoli le nocche delle dita sulla faccia, bofonchiando persino l’arcaismo “non usa, non usa!”. A quel punto il prete, irritatissimo, si erge dritto in piedi, e siccome Crociata è un po’ nano, lo sovrasta fisicamente e impettito così fulmina l’episcopo: “Eccellenza reverendissima, io non mi sarei mai sognato di baciare la mano a un cretino come lei: baciavo l’anello che simboleggia la pienezza del sacerdozio regale che lei rappresenta!”.
    Personalmente me so’ crepato…
    La cuccia del Mastino | Il mondo visto da un "cane"? fedele. Appunti di Antonio Margheriti Mastino

    Don Confalonieri, il missionario amato dagli aborigeni australiani
    di Rolando Pizzini
    E’ da poco uscito il romanzo Nel Tempo del Sogno (ed. La Fontana di Siloe 2012), che narra la storia del primo bianco che, da solo, decise di vivere con e per gli aborigeni australiani. Si tratta del missionario don Angelo Confalonieri il quale, a metà Ottocento, segnò una pagina di storia importante per quanto riguarda i contatti fra europei e aborigeni australiani e, più in generale, fra missionari cattolici e popoli Indigeni.
    La ricerca, della quale sono stato ideatore e responsabile, si è rivelata difficile sia per la disseminazione delle fonti in Italia, Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda, sia per raggiungere e visitare i luoghi ove Confalonieri operò, ossia la penisola di Cobourg, un territorio praticamente disabitato nell’estremo nord dell’Australia.
    A queste difficoltà ho in buona parte ovviato creando un team di altissimo livello formato dai professori universitari australiani Bruce Birch e Stefano Girola, e da due studiosi italiani Elena Franchi e Maurizio Dalla Serra. Ma per portare in piena luce tutta la storia ho dovuto pure chiedere aiuto a persone impegnate in istituti, università, ma anche a volenterosi emigrati italiani in Australia che con entusiasmo hanno dato il loro supporto laddove la situazione lo richiedeva.
    Tutta questa fatica ha alla fine fatto emergere la vicenda di un uomo eccezionale che seppe inserirsi nel popolo aborigeno come nessuno mai fece prima di lui. Basti pensare che il suo arrivo fu preceduto da decenni di intolleranza nei confronti dei nativi, che hanno subito episodi di inaudita ferocia da parte dei bianchi, in quanto erano considerati, più volte, esseri biologicamente inferiori. Don Angelo Confalonieri, invece, visse con loro, li aiutò, ne conciliò le differenze tribali e ne adottò il loro stile di vita nomade.
    In breve tempo giunse persino a scrivere due frasari inglese-aborigeno. E tutto questo lo seppe fare attraverso il rispetto, l’ascolto ed il dialogo. Su Confalonieri ho pura curato il saggio “Nagoyo” edito dalla Fondazione Museo storico del Trentino, ora in uscita anche in lingua inglese.
    Nel 1939, William Cooper, uno dei primi attivisti politici aborigeni dichiarò ad un giornale di Melbourne: «Questa Lega [The Australian Aborigines’ League] e la stragrande maggioranza dei nativi si rendono conto che i missionari sono stati i nostri migliori amici, e se non fosse stato per le missioni e il lavoro e l’interessamento dei missionari, pochissimi Aborigeni sarebbero sopravvissuti. Noi ci leviamo il cappello davanti ai missionari che hanno lasciato le comodità della civiltà per esporsi al caldo, alle mosche, alla polvere, alle cattive condizioni climatiche e agli altri disagi della vita missionaria. Considerando i sacrifici fatti dai missionari, è del tutto inappropriata l’ingratitudine espressa da chi dovrebbe ringraziare i missionari per tutto ciò che di valore ha ricevuto nella vita. I Nativi conoscono i loro veri amici e apprezzano profondamente il loro splendido lavoro».
    Don Confalonieri, il missionario amato dagli aborigeni australiani | UCCR



    PREGHIERA
    di Camillo Langone
    Preti, fratelli preti, non ho mai capito quando scrivete le omelie che pronunciate la domenica. Se le scrivete oggi, ma anche se le scrivete domani, ricordatevi della signora con l’ombrello, colei che domenica scorsa in piazza San Pietro ha preso a ombrellate una svergognata di Femen gridando: “Sei il diavolo! Sei il diavolo!”. C’è voluta (non dev’essere un caso) una persona comune, una laica, per comprendere la reale natura dell’evento, legato alla profezia di Gesù sulle porte dell’inferno che premeranno ma non prevarranno. Chi non crede nell’esistenza del demonio, disse Paolo VI, è fuori dalla dottrina della chiesa. Augurandomi che voi ci crediate, vi chiedo: dove mai dovrebbe trovarsi se non laddove si insulta il Santo Padre?
    Domenica, cari preti, lasciate perdere le solite citazioni stanche, i soliti esempi polverosi, e portate a esempio quella signora ispirata. Se lo faceste tutti sarebbero 100.000 sante ombrellate, il più grande vade retro Satana che la storia ricordi.
    Preghiera del 18 gennaio 2013 - [ Il Foglio.it › Preghiera ]

    Pellicciari, Angela - Martin Lutero
    Autore: Costa, Luca Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
    Fonte: CulturaCattolica.it
    Cantagalli, € 12.00
    Chi era Martin Lutero? Dopo cinquecento anni è ancora fitta la nebbia che avvolge il teologo di Eisleben. La storiografia prevalente (specialmente quella di matrice marxista) lo presenta come un liberatore, un padre della modernità. Per poter esprimere un giudizio su una materia complessa come il protestantesimo, occorre conoscerne i punti fondamentali. Uno strumento utile in questo senso è fornito dall’ultimo lavoro di Angela Pellicciari: Martin Lutero, edito da Cantagalli (2012, pp.174). Un libro che approfondisce le cause, la natura e le conseguenze della rivoluzione di Wittenberg.
    Dallo studio della Pellicciari emerge come Lutero, in realtà, non fu un vero e proprio riformatore, bensì colui che determinò la traumatica e violenta rottura dell’unità religiosa europea. La protesta non ebbe come obiettivo un rinnovamento o un ritorno alle origini del cristianesimo, ma fu una guerra all’autorità del Papa e della Chiesa.
    Nel suo Appello alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, Lutero invitò i principi suoi sostenitori a sottrarre al Papa ogni influenza sulla Chiesa tedesca, e ad assumerne direttamente il controllo: non più Chiesa Cattolica, universale, quindi, ma nazionale. Come scrive Mons. Luigi Negri in Controstoria (San Paolo, 2000): “lo Stato protestante si impone come guida morale, educativa, economica e culturale”, e si appropria di tutte le dimensioni dell’esistenza, anche di quella religiosa poiché la Chiesa è ridotta ad un ramo, ubbidiente, della struttura burocratica e amministrativa.
    I Prìncipi tedeschi, cui Lutero si rivolse apertamente, intuirono immediatamente quale formidabile arma era messa a loro disposizione: demolita l’unità della Chiesa ed espropriati i suoi beni, cioè un terzo delle ricchezze della Germania, avevano ora in mano la quintessenza del potere: quello religioso, cuius regio, eius et religio, la fede del popolo sarà quella di chi comanda. In poche parole, Lutero progettò l’autostrada verso assolutismo moderno. A ruota il re d’Inghilterra li seguirà e così la Scandinavia e poi l’Olanda. L’Europa sarà devastata da feroci guerre di religione per cento anni.
    La lente d’ingrandimento della Pellicciari fa luce su diversi nervi scoperti del pensiero luterano, mostrando con rigore quanto poco in comune esso condivida con la tradizione cattolica, forse resta solo il riferimento a Gesù Cristo.
    Lutero giunse addirittura a negare l’esistenza del libero arbitrio. Egli divise l’umanità in predestinati, che vengono salvati da Dio, e in “pre-dannati”, che sono irrimediabilmente al guinzaglio del demonio. Un arbitrarismo divino che il singolo deve subire passivamente, sforzandosi sì di avere la massima fede, ma senza poter però fare nulla con la sua libertà, ormai svuotata di significato.
    Se la salvezza passa solo attraverso la fede o la predestinazione, non è affatto semplice intuire cosa rimane del cristianesimo nella filosofia luterana, dove non trovano cittadinanza né un Cristo da seguire né un prossimo da amare.
    Martin Lutero, di Angela Pellicciari, un libro senza dubbio da leggere, tenendo ben presente l’attualità del suo protagonista e delle questioni aperte dal protestantesimo: libertà religiosa e rapporto tra Chiesa e Stato, poiché come afferma anche Gianfranco Amato nel suo ottimo saggio I nuovi Unni, tutto cominciò a Wittenberg...
    Pellicciari, Angela - Martin Lutero



    TE DEUM E PROTESTANTIZZAZIONE DELLA CHIESA
    - di Giovanni Lugaresi
    L’ultimo giorno di dicembre, siamo stati fra quelli che hanno partecipato al “Te Deum di ringraziamento” del Papa in San Pietro attraverso la televisione. Un “momento” molto importante per ringraziare, appunto, Dio dell’anno che si chiude, un inno che ci cantava (non siamo aggiornati) pure nella Cappella Sistina ad avvenuta elezione del nuovo pontefice e a conclusione di un Concilio. Naturalmente, il canto del “Te Deum” successivo alla celebrazione della messa, e prima dell’esposizione del Santissimo e della benedizione solenne, avviene nelle principali chiese della cristianità. Famoso è il “Te Deum” del 31 dicembre nella basilica padovana dedicata a Sant’Antonio, con sempre oltre un migliaio di fedeli, e che viene celebrato nel rispetto della tradizione. Una tradizione che si fa risalire a San Cipriano da Cartagine (III secolo), ma secondo una leggenda dell’Ottavo secolo, il “Te Deum laudamus” sarebbe stato scritto da due grandi santi: Ambrogio e Agostino, nel 386, in occasione del battesimo del padre della Chiesa di Ippona. Infine, recenti studi attribuiscono le parole al vescovo Niceta (IV secolo).
    Non pochi compositori poi hanno musicato l’inno (di solito cantato secondo il “Gregoriano”). Si pensi a Haendel, a Mozart, Verdi, Bruckner. Si pensi ancora al finale del primo atto dell’opera di Puccini, dove, sulle note del “Te Deum”, per così dire, Scarpia esclama: “Tosca, tu mi fai dimenticare Iddio!”…
    Ma non è questo il discorso che vogliamo fare.
    Avendo seguito il rito papale in San Pietro attraverso la tv, non poteva sfuggirci come dopo il canto e l’esposizione dell’Ostia consacrata sull’altare, Benedetto XVI, in ginocchio, abbia incensato l’Ostensorio, poi, abbia pronunciato l’Oremus, quindi, impartito la benedizione solenne, senza lo zucchetto (in testa), altrimenti chiamato “solideo”, perché “soli Deo tollitur”, cioè lo si toglie soltanto davanti a Dio!.
    Ebbene, ci è stato segnalato da un testimone oculare che in una chiesa cattedrale di una importante diocesi dell’Italia settentrionale, monsignor vescovo non solo non si sia inginocchiato davanti all’ostensorio con l’Ostia consacrata, non solo abbia incensato stando in piedi, ma ha addirittura tenuto il violaceo zucchetto sul reverendo capo. Che dire? Come commentare?
    Diverse volte abbiamo sottolineato, proprio su queste pagine, come nella Chiesa cattolica sia in atto una latente (e magari inconsapevole) “protestantizzazione”.
    I protestanti infatti negano la presenza reale di Gesù Cristo nell’ostia consacrata, avendo negato, in precedenza per così dire, la transustanziazione, ergo… che senso avrebbe inginocchiarsi in adorazione davanti all’ostensorio?
    Se Messa, e altri riti possono essere considerarti da loro semplici ricordi, rievocazioni, buon per loro – si fa per dire! Ma per noi cattolici, a che pro’ perdere il senso di questa Presenza Reale di Nostro Signore Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità nel santissimo sacramento dell’altare? E perdere, di conseguenza, il senso dell’adorazione? Che si esprime compiutamente nell’inginocchiarsi, a meno che un vescovo, o un prete non siano affetti da mali, acciacchi vari, nel quale caso ci può stare un inchino, ma per presbiteri in buona salute (come ci risulta fossero quelli di quella tal cattedrale di cui abbiamo detto), non dovrebbe costare molto, piegare le ginocchia davanti alla Presenza Reale! Scriviamo al plurale, “presbiteri”, perché oltre al monsignor vescovo di quella diocesi, anche gli altri sacerdoti accanto a lui si sono ben guardati dall’inginocchiarsi…
    Quanto al “Te Deum”, sempre la fonte testimoniale degna di assoluta credibilità, è inorridita nel sentire il canto in italiano, ma con la musica gregoriana: un pasticcio sgradevole, in tutti i sensi. Non ci pare sia questo il modo migliore di rendere grazie a Dio, di lodarlo, benedirlo, adorarlo, almeno il 31 dicembre di ogni anno.


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Quei “cinguettii” su Twitter tra Asia Argento e i preti
    Tra i suoi followers l’attrice vanta tre sacerdoti: lei chiede preghiere per i figli e loro l’accontentano
    MAURO PIANTA
    ROMA
    La dark lady del cinema italiano “cinguetta” con i preti su Twitter. Asia Argento, attrice e regista che non ha mai nascosto le sue inclinazioni “noir”, (è la figlia di Dario, maestro dell’horror all’italiana), ha beneficiato delle preghiere per lei e per i suoi figli twittate da tre sacerdoti suoi fedelissimi followers. Tre autentiche “tonache” digitali. Se n’è accorto il blog del vaticanista Fabio Marchesi Ragona.
    L’attrice ha chiesto una prima preghiera a don Tommaso Scicchitano, sacerdote di Cosenza: «Me la faresti una benedizione? O una preghiera? – scrive Asia – Che il nostro Padre mi dia la forza di continuare a mandare avanti la baracca e una protezione speciale per i miei figli. Grazie». Prontissima la risposta di don Tommaso che assicura: «Sai che hai un altro prete fan? Si aggiunge anche lui alle preghiere».
    Già, un prete sostenitore che ne approfitta subito e butta lì con ironia: «Non sono un fan, son proprio devoto!». Firmato don Dino Pirri, direttore dell’ufficio catechistico regionale e diocesano di San Benedetto del Tronto. Asia Argento sembra non credere ai suoi occhi e twitta: «Ma è fantastico! Me la fai una preghiera anche tu? Protezione per la mia fermezza ed i miei due bambini. Grazie don Dino». Il sacerdote non si tira indietro: «Aggiungo anche per la vostra felicità. Però anche tu ogni tanto, prega per me». L’attrice: «Io prego ogni sera. Pregherò anche per te».
    Qui entra in gioco il terzo confratello, @dondindan, un sacerdote che su Twitter preferisce rimanere anonimo. Il don richiama scherzosamente all’ordine i due: «Che state combinando con Asia Argento?» L’attrice lo retwitta e anche lui cede: «Mi ha RT, mi sa che ora mi tocca unirmi al coro di preghiere per lei». Il commento di Asia? «Oggi è il mio giorno fortunato!».
    La stessa sera, don Dino mantiene la promessa e twitta una preghiera: «Caro Gesù, oggi ti prego per chi mi ha chiesto il dono della “fermezza”. In tempo di mobilità frenetica, ci vuole. Veglia sui suoi bimbi».
    Quei ?cinguettii? su Twitter tra Asia Argento e i preti - Vatican Insider



    La castità che conviene
    di Giuliano Guzzo
    Non sperimentare subito il piacere sessuale non penalizza, ma rafforza la coppia. La rende più solida, appagata, comunicativa e quindi in grado di superare meglio le difficoltà di tutti i giorni. Ad affermarlo non è qualche attempato moralista ma l'esito di una recente ricerca pubblicata sul «Journal of Sex Research», condotta su un campione di 10.932 persone e ripresa anche da diversi portali italiani, che ha messo in luce come le coppie che si sono astenute dall'avere rapporti (alcune anche dopo un anno) si siano rivelate più soddisfatte di quelle i cui partner, al contrario, si sono concessi subito o comunque nel corso dei primi appuntamenti.
    Ricerca bizzarra o poco attendibile? Non si direbbe. Anche perché risulta suffragata, nei suoi contenuti, da altri studi pubblicati sempre quest'anno. Pensiamo ad un lavoro effettuato monitorando ben 600 coppie dal quale è emerso come la precocità dei rapporti sessuali sia associata negativamente alla qualità di vita coniugale (Cfr. «Journal of Marriage and Family» 2012; 74(4): 708-725); oppure ad una ricerca, pubblicata su una rivista decisamente quotata, che - considerando un campione di 1.659 di fratelli dello stesso sesso seguiti dall'adolescenza all'età adulta - ha rilevato come le coppie che hanno atteso a fare sesso abbiano evidenziato minore insoddisfazione nella vita relazionale (Cfr. «Psychological Science» 2012; 23(11):1324-36).
    In aggiunta a quanto sin qui esposto, possiamo ricordare le risultanze di un altro studio, curato dai ricercatori della Brigham Young University's School of Family Life, i quali, esaminando un campione di 2.035 soggetti sposati, hanno riscontrato come la castità prematrimoniale renda la coppia più stabile, favorendo un miglioramento della qualità della vita dei partner (Cfr. «Journal of Family Psychology» 2010; 24(6):766-74). Questo grazie ad un elemento fondamentale, la comunicazione all'interno della coppia, che è risultata positivamente correlata all'astinenza sessuale. Le coppie che hanno atteso il matrimonio per esplorare il piacere, infatti, sono risultate più concentrate delle altre nella dimensione del dialogo.
    A questo punto potremmo procedere ulteriormente con la rassegna di letteratura e di ricerche se una domanda, a ben vedere, non sorgesse già spontanea: come mai tutto questo? Come si spiega? Com'è possibile che fior di ricerche internazionali, fra l'altro molto recenti, vadano in questa direzione, che non è solo imprevista ma esattamente opposta rispetto a quella della mentalità dominante che, com'è noto, vede nella raggiunta intesa sessuale la premessa alla costruzione di qualsivoglia rapporto che aspiri a dirsi appagante? Si tratta di domande che vale francamente la pena di porsi perché interessano da vicino la prospettiva educativa, dunque i modelli che meritano di essere offerti in alternativa a quelli - oggettivamente deludenti - propagandati dai mass media.
    Un'ipotesi che spieghi la sorprendente convergenza degli studi citati poc'anzi può derivare da considerazioni circa la natura dell'uomo e, in definitiva, di ciascuno di noi: non siamo fatti per il nomadismo affettivo, ma per la stabilità; la collezione di esperienze sentimentali non ci aiuta dal momento che è di una soltanto, in fondo, che abbisogniamo per realizzare le nostre comuni aspirazioni di paternità e maternità. E in tutto questo la castità prematrimoniale - così irrisa nel corso degli ultimi decenni - oltre che un valore ed un principio rappresenta una straordinaria opportunità per conoscere il proprio compagno o la propria compagnia. Nel rimandare l'esperienza del piacere sessuale c'è quindi una precisa volontà di costruire dalle fondamenta un rapporto; di vivere il fidanzamento come conoscenza lucida, reale ed approfondita.
    Certo, questo può essere la causa di critiche e comporta inevitabili sacrifici. Ma se sono finalizzati alla costruzione di qualcosa di grande, di una vita matrimoniale appagante e matura, sono senz'altro sforzi che vale la pena di affrontare. Senza dimenticare come la castità, oggi più che mai, rappresenti la più alta trasgressione perché ci mette nelle condizioni di testimoniare il pudore, che - come si spiega negli Orientamenti pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia ad opera della Commissione Episcopale per la famiglia e per la vita - non è una prigione ma un mezzo, una via che «custodisce e tutela i valori intimi e profondi della persona; non limita la sessualità, ma la protegge e l'accompagna verso un amore integrale e autenticamente umano» (p. 8).
    La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - La castità che conviene

    Intervista a Giovanni Zenone, professore di religione, "licenziato" dal Vescovo di Verona mons. Zenti.
    di Carlo di Pietro
    L’estromissione dall’insegnamento della Religione Cattolica del Prof. Giovanni Zenone da parte della Curia di Verona ha lasciato stupefatti e "indignati" moltissimi cattolici che da tutta Italia hanno mandato a noi, a Corrispondenza Romana e al Professore stesso innumerevoli attestati di stima e di sostegno contro un atto che appare come iniquo e ideologico. Sotto le fredde motivazioni ufficiali addotte dalla Curia veronese di “carenze didattico pedagogiche” abbiamo, tutti, subito intuito si celasse ben altro. Una diocesi – infatti – che nel suo settimanale diocesano di questa settimana dedica un’intera pagina celebrativa al fu card. Martini, di dubbia dottrina su fede e morale, tra i primi fogli del giornale e un esiguo trafiletto fra gli ultimi al nuovo libro di Papa Ratzinger “L’infanzia di Gesù”, la dice lunga su quale sia l’opzione teologica fondamentale delle sue gerarchie. Abbiamo perciò intervistato il Prof. Giovanni Zenone, direttore della Casa editrice Fede & Cultura, per capire meglio cosa sia successo.
    D. Cosa è successo effettivamente?
    R. È successo che tra luglio e agosto 2010 con un procedimento affrettato, mentre ero in ferie sia io che il mio avvocato Abbondio Dal Bon, la Curia di Verona, senza lasciarmi un reale diritto alla difesa, in base ad accuse generiche, non circostanziate, non definite, non dimostrate, sulla base di delazioni e atti amministrativi che appaiono come gravemente illeciti, mi ha tolto l’insegnamento. Non a norma di diritto e carità, ma abusando di un cavillo della CEI. Infatti si può rimuovere un docente di religione Cattolica o per eresia o per vita pubblica immorale, a norma del Diritto Canonico o, secondo quanto afferma una nota della CEI, per gravi carenze didattico pedagogiche. Ebbene, i primi due casi non c’erano, e quest’ultimo non sussiste perché l’unica istituzione abilitata a dichiararmi carente e inadatto alla docenza è il Ministero della Pubblica Istruzione dopo un procedimento lungo e nel quale ogni docente ha un reale diritto alla difesa. E un tale procedimento non è mai stato avviato nei miei confronti!

    D. Ma allora perché il caso salta fuori solo ora, e perché la Curia di Verona sembra aver commesso quello che appare come un abuso di potere?
    R. Dopo due anni e mezzo di dolore, di grosse perdite economiche a causa di questa esecuzione, di frustrazione, umiliazioni continue e di rischio per la fede dei miei figli che sanno che il Vescovo ha marchiato d’infamia loro padre, due fatti mi hanno indotto a far venire alla luce questi episodi. Prima ho incontrato il Vescovo chiedendogli perdono per il risentimento che avevo provato, e gli ho poi fatto una evangelica correzione fraterna dicendogli: “La gente sa che Lei ha rimosso un docente cattolico di chiara fama e lo ha sostituito con uno che insegna che la Chiesa avrebbe sbagliato tutto sul tema dell’omosessualità, delle crociate, ecc...; veda che la questione non torni di scandalo per la fede e quindi per la salvezza eterna del Suo gregge. Anche perché questo va di pari passo con il mantenimento nella docenza di professori concubini, apertamente comunisti, che insegnano a viso aperto dottrine contrarie a quella cattolica”. Il Vescovo mi ha limpidamente risposto di aver agito “in coscienza”. Ho capito che non c’era niente da fare. Quando poi ho saputo che a tu per tu con mia madre, rinomata docente di Storia del Monachesimo che gli chiedeva conto della mia estromissione, egli ha risposto: “Non c’è più nessun problema, abbiamo sistemato tutto!”, ho deciso di far scoppiare il bubbone che la Curia stessa aveva creato.

    D. Non esprimiamo giudizi sul Vescovo, ma “Abbiamo sistemato tutto” non appare certo espressione da Vescovo e pastore cattolico! Ricorda vagamente il gergo di Luca Brasi nel film Il Padrino parte 1?
    R. Certo, non mi sento di esprimere giudizi contro il mio Vescovo cui ho ribadito la mia cristiana obbedienza per Chi rappresenta, sebbene disapprovi del tutto parecchi suoi atti di governo.

    D. Ma quali sono state le motivazioni reali, a suo parere?
    R. Un preside chiese la mia rimozione perché avevo chiesto congedo parentale per occuparmi della mia quinta figlia! Già questo è un atto illecito legalmente, ma il peggio è che la Curia invece che rispedire al mittente questo abuso lo ha fatto proprio. Mentre la Chiesa dice di difendere la famiglia la Curia di Verona mi estromette anche perché mi sono occupato dei miei figli. Lo stesso preside tornò poi alla carica perché una madre si era lamentata che avessi fatto usare alla classe di suo figlio il Catechismo di san Pio X. E anche in questo caso, nella battaglia per la diffusione della Fede, invece che avere un “fuoco di copertura” dalla retroguardia, mi hanno impallinato alle spalle con “fuoco amico”. È paradossale che un colonnello nella Battaglia per la Fede invece che sostenere le sue forze d’assalto le faccia colpire alle spalle, apparendo così come complice del nemico.

    D. Ma cosa ha fatto di male contro Mons. Zenti?
    R. Tra me e Mons. Zenti non c’è mai stata alcuna ruggine, anzi! Il problema è che sembra che di questa esecuzione il mandante sia qualcun altro che preferisce restare nell’ombra, anche se almeno un nome lo potrei dire, ma per ora taccio. L’allora vicario generale, poi subito promosso Vescovo di Pordenone, Mons. Giuseppe Pellegrini, il direttore dell’Ufficio Scuola della Curia don Domenico Consolini e lo stesso Vescovo, ho sempre avuto l’impressione che eseguissero un compito sgradevole che veniva però da altri, e non certamente da chi ama la Chiesa e ci tiene alla salvezza delle anime. Si ripete la storia che 150 anni fa l’allora Vescovo di Verona fece quando cacciò il Beato Rosmini per timore del potere civile. Si compie quello che l’intimo amico di Rosmini, Alessandro Manzoni, racconta nei Promessi Sposi con don Abbondio di fronte a don Rodrigo. Si tocca qui uno dei problemi più seri della Chiesa di oggi: la presenza di molti don Abbondio al governo delle Chiese e di pochissimi san Carlo Borromeo.

    D. Nessuno le è stato accanto e l’ha difesa in questa storia?
    R. Molti miei studenti e genitori hanno scritto in Curia per sostenermi, ma la sentenza era scritta prima ancora che il processo cominciasse. Mi hanno addirittura fatto una colpa anche di questo! Fra le motivazioni - messe da loro nero su bianco per la mia rimozione - c’è addirittura la mia attività editoriale (per Fede & Cultura) e il mio impegno come autore con libri e articoli sul mio blog personale e altri! Ho preferito tenere la cosa nascosta per oltre due anni, ma la degradazione quasi a livello di bidello che ho subito – con ogni probabilità per una “parolina” di qualche funzionario curiale cui dispiaceva che dapprincipio io fossi stato messo in biblioteca con orario di docente, quindi con un vantaggio orario – le parole del Vescovo e la difficoltà economica mia e di Fede & Cultura a causa di questa situazione, mi hanno fatto capire che era giusto che si sapessero le malefatte anche di alcuni uomini della Chiesa veronese. Tante ne avrei da dire, ma per il momento taccio nella speranza che siano messe a posto. Se sarò costretto scoperchierò i sepolcri imbiancati. Sto ricevendo moltissime attestazioni di stima e di sostegno da parte di centinaia di buoni cattolici e sacerdoti. Addirittura lo stesso Card. Bagnasco, allora, chiamò al telefono il Vescovo Zenti per chiedergli conto del mio caso, ma quest’ultimo non se ne diede per inteso… Obbediva forse a poteri più forti e temibili del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana?

    D. E ora cosa intende fare?
    R. Sto ultimando una causa ecclesiastica contro la Curia di Verona e una civile. Ho subito troppi danni morali ed economici che né la mia famiglia (ho sei figli) né Fede & Cultura può più sostenere. Ho l’impressione fondata che da parte di qualche burattinaio che resta nell’ombra ci sia la volontà di affondare Fede & Cultura colpendo personalmente me. Abbiamo bisogno quindi di tutto il sostegno che le decine di migliaia di estimatori di Fede & Cultura, fra i quali i Papa, e che questo avvenga attraverso i mezzi che preferiscono, non ultimo l’acquisto e la diffusione dei nostri libri che infastidiscono tanto i fautori clericali del compromesso col mondo.
    MiL - Messainlatino.it: Caso docente di Verona: intervista al professore "licenziato" dal Vescovo per "carenze didattiche"



    Fede&Cultura

    Inquisizione. Mieli: leggenda nera è un falso. Fu meno violenta della giustizia di molti Stati moderni
    Per l’ex direttore del Corriere della Sera, che cita degli studi britannici, «nonostante il lato oscuro», fu l’origine della «migliore giustizia criminale possibile» per la modernità
    In occasione del Giubileo del 2000, papa Giovanni Paolo II domandò perdono per tutte le forme «di antitestimonianza e di scandalo» che i figli della Chiesa cattolica diedero nel corso della sua lunga storia. Fra queste, compresi anche i crimini addebitabili al Santo Uffizio, l’Inquisizione romana. Prima di farlo, però, volle una documentazione storica certa, che fu raccolta nel tomo L’Inquisizione, atti del Simposio Internazionale (Biblioteca Apostolica Vaticana). Oggi, Paolo Mieli ribadisce sul Corriere della Sera quanto già emerse da quegli studi. Che la tesi degli storici anticlericali è un falso: l’Inquisizione romana non compì processi sommari, non sterminò migliaia di persone, e non può essere relegata alla definizione di «tribunale sanguinario».
    QUALE TORTURA? Con la Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura. (Carrocci), Christopher Black «documenta meticolosamente» come il tribunale religioso fosse in realtà molto avanzato rispetto all’epoca. La tortura, sulla quale qualche Stato di diritto contemporaneo legifera a favore, fu usata più blandamente rispetto a molti regimi moderni, democrazie comprese: «Era più selettiva, fisicamente meno aggressiva e meno raccapricciante e fantasiosa». Non ha nulla a che fare, dunque, con le raffigurazioni propagandistiche delle stampe protestanti che, ancora oggi, vengono accompagnate ai testi di molti libri scolastici.
    GIUSTIZIA MODERNA. «John Tedeschi, in il giudice e l’eretico. Studi sull’Inqusizione romana (Vita e Pensiero), ha efficacemente raccontato come l’Inquisizione romana sia stata tutt’altro che “una caricatura di tribunale”, o un “tunnel dell’orrore”». La storica Anne Shutte spiega come l’Inquisizione, in realtà, abbia «offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna». «Ci furono Papi», spiega Mieli, come Paolo III e Pio IV, i quali assunsero «un approccio “morbido”», introducendo per la prima volta, la possibilità per l’accusato di ricorrere al “patteggiamento”, per esempio.
    LA RIFORMA. Mieli è d’accordo con Black quando afferma di non credere «che il fallimento di una Riforma protestante italiana sia stato disastroso per lo sviluppo e la modernizzazione dell’Italia», e che «l’inquisizione romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata una forza creativa ed educativa». Inoltre, il protestantesimo in Italia non attecchì mai. «Fu un “non fatto”, un “fenomeno marginale”». Nelle città più vicine al protestantesimo, i simpatizzanti non superavano il 2 per cento.
    Inquisizione. Mieli: meno violenta della giustizia moderna | Tempi.it

    Cattolici e astronauti: Michael T. Good e Michel Massimino
    «Dicono che non ci sono atei in trincea, ma probabilmente non ve ne sono nemmeno nelle navicelle spaziali», ha ironizzato l’astronauta statunitense Michael Timothy Good. Good è stato selezionato dalla NASA assieme a Michel Massimino, quest’ultimo è stato nello spazio nel 2002 con la missione dello Space Shuttle Columbia STS-109 e nel 2009 con la missione delloSpace Shuttle Atlantis STS-125.
    Entrambi cattolici hanno portato la loro fede nello spazio interstellare, guardando da esso la meraviglia della Creazione. Good è stato per due volte nello spazio con l’Atlantis e ha più volte spiegato come la sua fede sia stata pesantemente fortificata da questo, da quel che ha potuto osservare dalla stazione spaziale. Massimino ha invece rivelato, durante un’intervista, che la preghiera è molto comune tra gli astronauti: «Ho pregato molto e questo mi ha fatto sentire più vicino a Dio», ricordando che nel suo viaggio ha portato con sé la bandiera della Città del Vaticano e uno foto di Benedetto XVI.
    Entrambi gli astronauti spiegano che la fede cristiana è stata una forza trainante nella storia della NASA, come ha confermato il portavoce del Johnson Space Center: «la NASA non fornisce risorse spirituali, ma oggetti religiosi come croci, bibbie, icone e preghiere sono tra gli elementi personali più comuni portati nello spazio». Padre Brendan Cahill, vicerettore del Seminario di Santa María a Houston, ha invece sottolineato: «la Chiesa è molto aperta alle scoperte scientifiche, e la Bibbia ci dà una guida per interpretare ciò che la scienza scopre».
    Cattolici e astronauti: Michael T. Good e Michel Massimino | UCCR



    Cattolici “Sine Timore”: quando l'essere cattolici passa dagli abiti che indossiamo
    di Giulia Tanel
    «L’abito non fa il monaco», cita un celeberrimo detto.
    Personalmente condivido solo in parte il significato sotteso a tale frase: da un lato è infatti innegabile che per essere dei veri servi del Signore il mero gesto di indossare il saio non sia assolutamente sufficiente; dall'altra, tuttavia, è altresì innegabile che un monaco che non indossi l’abito del proprio ordine perda in credibilità.
    Naturalmente, un discorso simile lo si potrebbe fare anche per i sacerdoti. Don Giuseppe Pace (1911-2000), alias Walter Martin, nel suo accattivante romanzo “Habemus Papam – Il fumo di Satana e l’uomo di Dio” (Fede&Cultura 2011, pp. 483, 24 euro), riguardo l’abito talare scrive: «Non è l’abito che fa il monaco! Dice il proverbio. Ebbene, io sono qui a dirvi che è proprio l’abito che fa il monaco. L’abito infatti per colui che lo porta, per quanti lo vedono con quell’abito, è il segno e il simbolo permanente della sua segregazione, il segno e il simbolo che il religioso non è più un uomo tra gli uomini. L’abito è per lui una forza, la forza che lo tiene sequestrato e mancipio di un padrone che in tal modo non lascia fuggire il suo schiavo. Noi vagoliamo nel mondo dei sogni, allorquando ci illudiamo di potergli strappare quella preda, fino a quando detta preda è vestita di quell'abito. Tutto cambierà non appena il religioso avrà deposto l’uniforme della milizia nella quale si è arruolato. Necessariamente ritroverà anche la libertà di appartenere solo a se stesso» (pp. 273-4).
    Ma veniamo ora a parlare dei fedeli laici, i quali, seppur non siano chiamati ad indossare una particolare “divisa”, hanno anch’essi il compito di diffondere il Verbo di Dio nel mondo.
    Quanti sono i cristiani che oggigiorno hanno il coraggio di manifestare al mondo la propria fede in Dio, il Salvatore? Ed è proprio facendo leva su questo richiamo all'evangelizzazione, che tre ragazzi di Verona – Giovanni, Francesco e Alberto – hanno dato vita a Sine Timore, con lo scopo di produrre e commercializzare maglie e altri indumenti di matrice cattolica.
    «Indossando le nostre maglie – si legge sul sito Sine Timore - Rivestiamoci delle nostre Radici – perseguiamo il duplice intento di mostrarci fieri della nostra fede e di generare occasioni di confronto con le persone che ci passano accanto ogni giorno nei luoghi della nostra vita, certi che testimoniare e trasmettere la Fede in Gesù Cristo sia il più grande tesoro che si possa offrire. Sine Timore vuol quindi essere un semplice strumento per poter trasmettere la ‘gioiosa fierezza’ di essere cattolici. Una piccola cellula viva e vitale della nuova evangelizzazione, uno stimolo per poter approfondire le ragioni di chi crede, difendersi da chi contesta e deride la morale e la storia della Chiesa, che in realtà ha bisogno solamente di essere conosciuta e presentata al mondo. Con questa attività ci proponiamo quindi di rendere testimonianza a Cristo e alla Chiesa, proprio come ci suggerisce il Cantico di Zaccaria: “ut SINE TIMORE, de manu inimicorum liberati, serviamus illi in sanctitate et iustitia coram ipso omnibus diebus nostris” – “liberati dalle mani dei nemici, di servirlo SENZA TIMORE in santità e giustizia al suo cospetto per tutti i nostri giorni”».
    In questo tempo di crisi, cominciare un’attività di questo tipo è assai rischioso, tuttavia ai tre giovani veronesi di Sine Timore il coraggio pare non mancare, a giudicare dai primi tre soggetti che hanno stampato sulle loro magliette.
    Nella prima, esplicitamente ancorata alla Tradizione della Chiesa, campeggia la scritta “Sancte Michael Arcangele, defende nos in proelio”, cui fa da cornice un’immagine di questo importantissimo santo.







    La seconda maglietta, invece, è un omaggio a Jacques Cathelinau, famoso generale francese dell’armata vandeana, che fu soprannominato “il santo di Anjou”. Essa riporta una lettera scritta dallo stesso alla moglie, nel marzo del 1793: «Mia cara Louise, alleva i figli nel timor di Dio. Ripeti loro spesso che il loro padre, prendendo le armi, cercava solamente di salvare la religione cattolica nella quale sono stati battezzati. Offro la mia vita perché possano essere dei buoni cristiani nella pace religiosa».







    La terza, e per ora ultima, produzione di Sine Timore è una maglia dedicata alla Marcia per la Vita italiana, la cui prossima edizione avrà luogo a Roma il 13 maggio.
    Tutte e tre le versioni sono disponibili in diversi colori e taglie, sia nella versione maschile, sia in quella femminile, sia in quella per i bambini e il prezzo di ogni singola maglietta è di tredici euro.
    Per ulteriori informazioni e per vedere le magliette, consigliamo di visitare il sito Sine Timore - Rivestiamoci delle nostre Radici.
    «L’abito non fa il monaco», si diceva in apertura. I ragazzi di Sine Timore hanno però modificato questa frase in: «L’abito non fa il monaco… e un monaco senza abito non si riconosce».
    Cattolici ?Sine Timore?: quando l'essere cattolici passa dagli abiti che indossiamo ~ CampariedeMaistre

    I paesi “più felici” del mondo? Quelli cattolici
    di Giuliano Guzzo
    Che la pratica religiosa sia un elemento fondamentale per la vita non solo spirituale ma anche fisica di ogni persona è cosa nota ed anche largamente riscontrata: dalla letteratura scientifica sappiamo infatti che esiste una correlazione fra religione e maggior salute mentale e fisica, meno depressione e addirittura minori tassi di criminalità. Con buona pace di quanti ancora credono, con Karl Marx, che la religione sia l’«oppio dei popoli», dobbiamo quindi constatare come questa – da intendersi quale «vincolo che riannoda l’uomo ad una realtà superiore, dalla quale l’uomo crede di dipendere esistenzialmente, e il rapporto culturale che, in conseguenza di ciò, l’uomo stabilisce con la realtà» – rappresenti a tutti gli effetti una importante risorsa.
    Chiarito quindi come, oltre ad avere risvolti sociali e conseguentemente anche «politici non secondari», la pratica religiosa sia all’origine di tutta una serie di implicazioni positive nella vita delle persone, ora la domanda sorge spontanea: quale religione rende più felici? Ve n’è una in particolare oppure no? Premesso che una risposta che, su questo possa mettere d’accordo tutti, tanto più fra gli studiosi, è pressoché impossibile, ci è comunque possibile tentare una risposta approfondendo una notizia recente e – strano ma vero – accuratamente censurata; o meglio, raccontata a metà. La notizia riguarda gli esiti di un vastissimo sondaggio internazionale effettuato dalla Gallup sull’ottimismo internazionale, e dalla quale è emerso come il Paese al mondo più ottimista sia il Panama.
    «E’ il Panama, la piccola repubblica dell’istmo – riferisce Sette, il Magazine del Corriere della Sera – il Paese al mondo dove l’ottimismo e i sentimenti positivi sono più diffusi». Bene, ma c’è dell’altro. E questo altro si può appurare riportando l’elenco completo dei 10 Paesi in vetta a questa interessante classifica planetaria dell’ottimismo; si tratta di Panama, Paraguay, El Salvador, Venezuela, Trinidad e Tobago, Thailandia, Guatemala, Filippine, Equador e Costa Rica. Ebbene, non notate qualcosa di piuttosto singolare? Qual è la caratteristica che, fra tutte, più accomuna questi dieci Paesi? Se curiosate in rete potete trovare, nei siti dove si parla della ricerca in questione, svariate ipotesi.
    Principalmente troverete la constatazione secondo cui – posto che nessuna delle nazioni è particolarmente ricca - ben 7 dei 10 popoli più felici risultano latino-americani, con la conseguenza che sarebbe detta cultura ad essere più propensa a sentimenti positivi. D’accordo, ma c’è un’altra la caratteristica che più accomuna questi Paesi: ben 9 su 10, cioè praticamente tutti ad eccezione della Thailandia, sono Paesi a larghissima maggioranza cattolica: Panama ha l’80% dei suoi cittadini cattolici, il Paraguay l’ 89,6%, l’Equador il 92,5% e il Venezuela addirittura il 92,7 %. Il solo Paese fra questi 9 dove la maggioranza cattolica non è soverchiante è Trinidad e Tobago, dove si conta una forte componente induista (23%); eppure anche lì – seguiti da protestanti (18,8%) e anglicani (10,9%) – i cattolici, col loro 29,4%, sono la maggioranza.
    La prova del nove, per così dire, della validità di questa costatazione ci deriva considerando gli ultimi tre posti della classifica dell’ottimismo stilata da Gallup, occupati da Singapore, Armenia e Iraq, vale a dire tre Paesi dove la percentuale della popolazione cattolica è assai più contenuta; nel primo non arrivano al 5%, mentre nel secondo e nel terzo non arrivano al 10%.
    Un caso? Difficile. E quindi, anche se fra il dichiararsi cattolici e l’esserlo vi è verosimilmente qualche discrepanza, ed anche se le percentuali di presenza religiosa che abbiamo sopra riportato possono risultare in parte differenti da altre, non c’è dubbio che la principale caratteristica dei paesi oggi più ottimisti e felici al mondo – unitamente ad altri interessanti dati, per esempio l’alto tasso di natalità (il più basso, con 13 nascite ogni 1000 persone è quello del solo Paese non cattolico, la Thailandia) – sia la larga diffusione del cattolicesimo. Peccato che nessuno lo dica.
    I paesi ?più felici? del mondo? Quelli cattolici « Libertà e Persona

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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    EVOLUZIONE
    Rino Cammilleri
    Mia cognata mi ha portato un ritaglio del «Venerdì di Repubblica» del 16 novembre 2012. E’ la rubrica di Corrado Augias sui libri. Tocca a «La sacra causa di Darwin» di A. Desmond e J. Moore, prefazioni di Giulio Giorello e Telmo Pievani (e te pareva…). Così conclude Augias la sua recensione: «La teoria dell’evoluzione ha liberato gli esseri umani dalle catene del creazionismo rendendoli finalmente uguali tra di loro e affini a tutti gli altri esseri viventi. Se c’è una causa davvero “sacra” è questa». Bum. Come diceva Einstein, è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio. Dove abbia letto, nella Bibbia (creazionista), che gli uomini sono stati creati disuguali e non affini a tutti gli altri esseri viventi lo sa solo Augias. E solo lui non sa che è proprio l’evoluzionismo darwiniano ad aver fondato “scientificamente” il razzismo (certi “rami” si sono evoluti, altri no o meno). Ma certuni ci tengono proprio tanto a discendere dalle scimmie. Gli fa schifo discendere da Dio. Come quel tizio che si evirò pur di fare un dispetto alla moglie…
    Antidoti contro i veleni della cultura contemporanea » EVOLUZIONE

    Robert Bork o dell'irriducibile fedeltà al vero
    di Marco Respinti
    Robert Bork è morto il 19 dicembre all’età di 85 anni ad Arlington, in Virginia, ma alla memoria di chi ha amore per la verità non mancherà mai.
    Robert Heron Bork era nato il 1° marzo 1927 a Pittsburgh, in Pennsylvania, è stato giudice combattivo ed eminente giusperito, e i suoi nemici lo hanno odiato al punto di coniare per lui un neologismo, il verbo “to be borked”, ovvero vedersi precludere incarichi di prestigio per via mediatico-democratica. Candidato a diventare giudice della Corte Suprema, Bork fu infatti travolto dall’uragano di contumelie scatenatogli addosso dalla magistratura politicizzata di sinistra, dalla Sinistra politica e della stampa “progresssita” e “illuminata”. Per carità, avvenne tutto secondo le regole democratiche, ma è proprio in casi come questi che le regole da sole mostrano di non essere affatto sufficienti e la democrazia senza orientamenti morali sbanda.
    Bork aveva infatti un grande, enorme difetto. Credeva in maniera tetragona nel diritto alla vita, nella famiglia monogamica eterosessuale e nella Bibbia piuttosto che a Charles Darwin, e non perdeva occasione per dirlo; ovvero, da uomo di legge e di cultura qual era, per mettere in guardia gli americani dai guasti che il relativismo sempre più imperante produce. Orbene, tutto ciò negli Stati Uniti fa di una persona sia un conservatore sia il bersaglio preferito dei cosiddetti progressisti.
    Tutto iniziò il 1° luglio 1987, quando l’allora presidente Ronald Reagan annunciò la decisione di proporre Bork alla suprema magistratura giuridica del Paese. All’epoca Bork era (sempre per nomina reaganiana) giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia, dopo essere stato a lungo e onoratamente docente di Diritto nell’Università Yale, specializzato in norme antitrust, e avere avuto come studenti una pletora di nomi famosi, fra cui Bill e Hillary Clinton.
    Reagan aveva però già commesso due “delitti” imperdonabili agli occhi dei progressisti: nel 1986 aveva proposto William Rehnquist come presidente della Corte Suprema e il giudice Antonin Scalia come nuovo membro della stessa assise. Rehnquist era colui che nel 1973 aveva firmato il parere di minoranza contro la sentenza che, a chiusura del famoso, e famigerato, e basato su una frottola, caso “Roe v. Wade”, ribaltò improvvisamente, con un vero e proprio colpo di mano, le leggi a favore della vita umana nascente allora vigenti in numerosi Stati dell’Unione americana legalizzando l’aborto ovunque. Scalia era un altro noto campione del conservatorismo culturale e sociale, e per di più un cattolico integerrimo. Per la Commissione sulla Giustizia del Senato federale di Washington, l’organismo incaricato di vagliare le qualità professionali dei giudici indicati dalla Casa Bianca, permettere a Reagan d’inserire in quella formidabile squadra pure Bork fu troppo. E l’inferno si scatenò.
    Fu Ted Kennedy ad appiccare il fuoco. Erano infatti trascorsi solo una manciata di minuti dall’annuncio della decisione di Reagan che il senatore Democratico del Massachussetts Ted Kennedy pronunciò un discorso inverecondo e strabiliante in cui affermò che con Bork alla Corte Suprema le donne statunitensi sarebbero state costrette ad abortire clandestinamente nei vicoli bui, che per le persone di colore si sarebbe riaperta la stagione della segregazione razziale, che i cittadini avrebbero dovuto guardarsi le spalle dagli agenti della “gendarmeria morale” e che tutti quanti avrebbero dovuto combattere quotidianamente contro una pervicace censura del “libero pensiero”.
    Il discorso di Kennedy suonò la sveglia, e tanto i media quanto gli avversari politici di Bork scesero immediatamente in campo. La Commissione Giustizia del Senato fu subito lo strumento opportuno per fare la guerra a Bork, ma soprattutto a ciò che Bork (come Reagan) rappresentava in termini culturali e giuridici. La lotta fu senza quartiere e senza precedenti. Già non si poteva tollerare che qualcuno nutrisse la fede nei “princìpi non negoziabili” che animava graniticamente Bork, ma che poi questo qualcuno diventasse pure membro dell’organismo preposto a vegliare sulla costituzionalità delle leggi americane, e per giunta con la benedizione palese di un presidente “reazionario” e connivente, era, per un certo mondo, inconcepibile.
    La maggioranza dei componenti di quella Commissione Giustizia erano del resto Democratici, esponenti tra l’altro dell’ala più liberal del partito, e il loro capo era nientemeno che il senatore del Delaware Joe Biden, l’attuale vicepresidente che siede accanto a Barack Obama. Dopo avere bocciato Bork, la “sua” Commissione Giustizia cercò pure di far fuori il giudice Clarence Thomas, conservatore e cattolico, proposto alla Corte Suprema nel 1991 dal presidente George W.H. Bush padre. “Cattolico” Biden (mi si perdoneranno le virgolette), e “cattolico” anche il piromane Kennedy.
    Alla fine Bork soccombette. Quando? Il giorno in cui saltò finalmente fuori, davanti a tutti, in sede istituzionale, quindi subito in pubblico, che il giudice Bork riteneva che la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America non prevedesse affatto, né nella lettera né nello spirito, quel fantomatico “diritto alla privacy” mediante il quale la Corte Suprema aveva nel 1973 legalizzato l’aborto e attraverso il quale pure da più parti si è cercato dopo, e si cerca ancora oggi, di legalizzare l’eutanasia in America. Ciò è bastato a fare di Bork, in pratica letteralmente, uno spostato.
    Bork era stata allevato dai genitori nella fede protestante, per l’esattezza presbiteriana. Poi aveva attraversato una lunga stagione d’indifferentismo. Alla fine, il 21 luglio 2003, venne battezzato nella Chiesa Cattolica. Gli strumenti principali di questa sua conversione (sofferta e difficile) sono stati soprattutto due. Anzitutto don C. John McCloskey III, sacerdote della prelatura dell’Opus Dei, l’uomo che sembra avere fatto della conversione al cattolicesimo dei conservatori protestanti o agnostici la propria missione di vita. Poi Mary Ellen Pohl, sua moglie.
    Robert ed Ellen si sposarono nel 1982. A leggere certe biografie, succinte come degli sms e pertanto pericolosissime, si rimane sconvolti. Robert – si apprende – contrasse ben due matrimoni, e la seconda volta con una ex suora. Solo che il giudice Bork era rimasto vedovo due anni prima e Mary Ellen, suora del Sacro Cuore per quindici anni, pronunciava voti rinnovabili periodicamente.
    Fu lei che, da moglie, cominciò a portare ogni domenica a Messa quel marito dapprima assai riluttante. Dio poi, come sempre, fece tutto il resto. A quel punto, come simpaticamente diceva don Richard John Neuhaus (un altro convertito dal protestantesimo al cattolicesimo), gli angeli poterono riposarsi dalle insistenze di Mary Ellen.
    Del resto, quando nel 1996 Bork pubblicò il libro Slouching Toward Gomorrah: Modern Liberalism and America Decline (ReganBooks, New York) la sua conversione culturale al cattolicesimo era già perfettamente compiuta. Mancava “solo” il sacramento del battesimo, che a tempo debito sarebbe giunto puntuale. Decisivo per la maturazione di Borkè stata del resto la lettura di The Beliefs of Catholics (1927), del sacerdote inglese Ronald Knox, consigliatogli da don McCloskey. Knox fu per Bork un faro illuminante. Come sarebbe stato in seguito lo stesso Bork (ma lui non lo sospettava affatto), Knox fu uno dei grandi convertiti anglofoni dal protestantesimo (nel suo caso l’anglicanesimo) al cattolicesimo.
    Il modo migliore per onorare un “martire bianco” della verità delle cose come il giudice Bork è ora non dissiparne l’eredità culturale, affidata a diversi libri, talora grossi così, e a saggi intramontabili, di cui almeno uno tradotto in italiano, Il giudice sovrano. Coercing Virtue (a cura di Serena Sileoni, Liberilibri, Macerata 2006)
    Bork (e come lui Rehnquist, Thomas, Scalia, e dal canto proprio anche Reagan) era convinto che la Costituzione degli Stati Uniti non fosse un documento destinato alla continua libera interpretazione, ma un grande pro memoria riguardanti questioni istituzionali assai concrete la cui ragion d’essere sta in princìpi sempiterni e intangibili che stanno a monte di ogni documento di legge positiva. In America li chiamano “originalisti”, e sono tra i pochi in grado di offrire un’alternativa vera alla decadenza.
    La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Robert Bork o dell'irriducibile fedeltà al vero





    "It’s trendy to be a traditionalist"
    Avanza l'avanguardia tradizionalista nella Chiesa Cattolica.
    Dall'Economist del 15/12/2012
    Dal 1962, quando iniziò il Concilio Vaticano II in poi, la Chiesa cattolica si è sforzata di adattarsi al mondo moderno. Ma in occidente, dove molti speravano che un messaggio aggiornato al mondo contemporaneo sarebbe stato bene accolto, i credenti se ne sono andati in massa. La frequenza alla Messa domenicale in Inghilterra e Galles si è ridotta della metà rispetto al 1960; l'età media dei praticanti è salita dai 37 anni nel 1980 ai 52 di oggi. Negli Stati Uniti la frequenza è diminuita di oltre un terzo dal 1960 ad oggi. Eppure, mentre la massa dei cattolici è in fase calante, la schiera tradizionalista è in fase crescente.
    Prendete, ad esempio, la Messa in latino, abbandonata dal Concilio nel 1962 per liturgie in lingue vernacolari. Nella sua forma più tradizionale, il sacerdote consacra il pane e il vino con voce sommessa, volgendo le spalle all'assemblea. Ma Padre John Zuhlsdorf, un prete americano e blogger, afferma di dialogare con i fedeli, a differenza del comodo progressismo delle liturgie moderne: "non siamo a scuola", dice.
    Altri condividono il suo entusiasmo. La Società della Messa in latino dell'Inghilterra e Galles, iniziata nel 1965, ha ora più di 5.000 membri. Il numero di Messe celebrate in latino sono passate dalle 26 ogni settimana nel 2007 alle 157 ogni settimana di oggi. Negli Stati Uniti si è saliti dalle 60 nel 1991 alle 420 di oggi. All'Oratorio di Brompton, principale ritrovo del tradizionalismo londinese, 440 fedeli si riuniscono per la Messa grande in latino la domenica. Le donne indossano in testa veli ricamati, gli uomini vestono in tweed.
    Non siamo di fronte però a un'assemblea di vecchi parrucconi: siamo di fronte a persone giovani ed internazionali. Il cattolicesimo tradizionale attrae persone che non erano nemmeno nate quando il Concilio Vaticano II tentò di ringiovanire la Chiesa. I gruppi tradizionalisti si estendono in 34 Paesi, tra cui Hong Kong, Sud Africa e Bielorussia. "Juventutem", un movimento di giovani cattolici amanti dell'antico, vantano molti attivisti in 12 Paesi. I tradizionalisti usano blog, siti web e media sociali per diffondere il loro pensiero e per attirare l'attenzione di diocesi recalcitranti che da sempre guardano ai latinisti come ad una minoranza decadente, anacronostica e affettata. In Colombia, 500 persone che volevano una Messa tradizionale, erano costretti a riunirsi in un centro sociale (dopo un po’ di tempo trovarono una chiesa).
    Un grosso cambiamento ci fu nel 2007, quando Papa Benedetto XVI formalmente approvò l'uso della Messa in rito antico. Fino ad allora, se un sacerdote fosse stato simpatizzante della liturgia tradizionale, avrebbe potuto vedere la sua carriera rovinata. La causa ha ricevuto nuovo vigore dall'Ordinariato, un raggruppamento sostenuto dalla Santa Sede per ex-anglicani. Dozzine di preti anglicani hanno "attraversato il Tevere" dall'ala della Chiesa Alta fortemente ritualistica "smells and bells" - di incenso e scampanii - trovando un caldo benvenuto fra i tradizionalisti cattolici.
    Il ritorno del vecchio rito causa una silenziosa costernazione tra i cattolici modernisti. Timothy Radcliffe, ex Padre Generale dei Frati Domenicani in Gran Bretagna, vi vede "una sorta di nostalgia del 'Ritorno a Brideshead'" (N.d.T.: titolo di un libro dello scrittore cattolico Evelyn Waugh in cui si rimpiange un passato di nobiltà, un'epoca migliore). La rinascita tradizionalista, secondo lui, rappresenta una reazione contro il "progressismo di moda" della sua generazione. Alcune oscillazioni del pendolo sono inevitabili. Ma per una gerarchia ecclesiastica, nei Paesi dell'occidente, scossa dagli scandali e dal declino, il sorgere di un'avanguardia tradizionalista è destabilizzante. Si tratta semplicemente di una manifestazione di eccentricità, o di qualcos'altro?



    PREGHIERA
    di Camillo Langone
    Aveva ragione il Braghettone. Aveva ragione lui, Daniele da Volterra, che nel 1565 ricoprì con panni e foglie di fico le più oscene nudità del Giudizio Universale, su giudiziosa deliberazione del concilio di Trento. Lo dimostra il turbamento causato in una città giapponese da una copia del David posta nel parco pubblico: i cittadini protestano, dicono che la statua spaventa i bambini e reca disagio a tutti. Certo non condizionati dalla presunta sessuofobia cattolica sono arrivate alla stessa conclusione degli antichi padri conciliari: le braghette. La protezione dell’intimità risulta quindi esigenza percepita in ogni luogo, dentro ogni cultura che non confonda pericolosamente sé stessa con la natura. Si rivalutino dunque la figura del pittore volterrano e le sue braghe: che il soprannome Braghettone da insulto diventi complimento.



    LA MODERNA OSSESSIONE PER IL SESSO DIMOSTRA CHE L’ANIMA ESISTE
    Antonio Socci
    Dopo “Cinquanta sfumature di grigio”, l’industria editoriale sforna i prodotti letterari che sulle ali dell’eros ambiscono a volare fino alla vetta della classifica dei best-seller. Ultimo della serie “La sposa nuda” di Nikki Gemmell. Il sesso parlato, immaginato, guardato, venduto, comprato, praticato, modulato in mille varianti – diventato ossessione di massa e, con la rete, prodotto di vasto consumo – sembra sia l’unica rivoluzione vera scaturita dal ’68 “desiderante”.
    DEREGULATION
    Antonio Scurati – in un recente articolo sulla “Stampa” – afferma che la marxistissima generazione del ’68 ha dato un decisivo contributo alla più capitalistica e borghese delle rivoluzioni, erigendo il desiderio a pretesa assoluta e così spianando la strada a un’industria della sessualità e del suo immaginario che rende merce i rapporti affettivi e pure i corpi.
    E’ la felicità promessa? A leggere oggi i commenti (e già quelli di ieri, Pasolini, Foucault) pare semmai infelicità. La famosa e celebrata liberazione sessuale del Novecento si è risolta in realtà in una nuova alienazione, in una servitù volontaria di massa e in una pratica di controllo dei corpi e delle menti fra le più pervasive.
    LA DISFATTA
    Anche Scurati, a cui non manca l’acutezza dello sguardo, osserva: “di tutte le rivoluzioni mancate – o fallite – dalla sinistra sedicente rivoluzionaria, la rivoluzione sessuale è stata la più fallimentare. Sul terreno ha lasciato quasi solo rovine”, in particolare “la mastodontica mole sociale della frustrazione sessuale” che “è vasta come un’intera città ipogea…”.
    Un nuovo saggio di Zygmunt Bauman, “Gli usi postmoderni del sesso” (Il Mulino) cerca di tirare le somme anche teoriche di un “discorso sul sesso” che ha accompagnato, giustificato e orientato questa rivoluzione postmoderna. E le parole filosofiche di questa rivoluzione (un po’ come i prodotti derivati, nel mercato finanziario) sono innumerevoli, tanti i pensatori, da Lyotard a Sartre, a Bataille, dall’“erotismo aristocratico e noiosissimo di Sade, al Marcuse di ‘Eros e civiltà’”, che, secondo un pungente Maurizio Ferraris, avrebbe fornito la teorizzazione di ciò che un suo antico maestro “si era limitato a praticare con le studentesse”.
    Dunque tiriamo le somme di questa rivoluzione sessuale. Curiosamente la letteratura che riflette sul fenomeno, celebra la distruzione nell’ignominia della vecchia morale sessuale giudaico-cristiana, considerata repressiva, sessuofoba e arretrata. Ma al tempo stesso lamenta che così si è prodotta una devastazione dell’umano, definitivamente mercificato fra i prodotti di rapido consumo. Quasi coatto. Com’è peraltro il comandamento della “forma fisica”, requisito dovuto per “stare sul mercato” dei corpi. Culto estetico alla cui bisogna provvede un’ulteriore colossale industria.
    Con intelligenza (e amarezza) Scurati scrive: “ci siamo spinti troppo oltre. Abbiamo eretto ovunque templi votivi alle divinità acefale del sesso… In società non si parla d’altro… L’aspettativa è enorme, il culto fervente, la pratica ovunque. Dalla copula tra i corpi degli amanti ci attendiamo rivelazioni sconvolgenti, dalla compenetrazione tra gli organi sessuali ci attendiamo l’illuminazione riguardo al senso delle nostre vite. C’è bisogno di aggiungere che rimarremo delusi?”.
    RIVELAZIONI
    Ma se invece questo groviglio di carni ci folgorasse proprio con una rivelazione su di noi? Se addirittura, queste povere membra esauste di consumo reciproco, ci parlassero delle anime che dentro i corpi straripano alla ricerca di Dio, sbattendo in ogni modo le carni per il desiderio di qualcosa che esse non possono dare, cioè colui che Dante chiamava “il Sommo Piacere”?
    C’è una “cultura del piagnisteo” che dopo aver giustificato la rivoluzione sessuale, ne lamenta gli esiti. E anche nei suoi rappresentanti più lucidi come Bauman sembra non vederne la teologia. Io che professo tutti gli insegnamenti morali della Chiesa cattolica, che li ritengo anzi liberanti e pieni di sapienza, e che sento come una violenza psicologica e spirituale, soprattutto per i più giovani, questa sessuomania dilagante, questa aggressione pornografica onnipresente, voglio dire che anche la cosiddetta rivoluzione sessuale ci parla dell’inestirpabile desiderio di Dio. E della sua mancanza. Del doloroso vuoto di Lui che ci risucchia nel suo gorgo, anche attraverso la carne.
    CARNE MISTICA
    Lo mostra luminosamente Fabrice Hadjadj, un giovane filosofo francese, ebreo d’origine, un intellettuale che fu ateo anarchico e che ha abbracciato il cattolicesimo: ha scritto in proposito pagine rivelatrici, in “Mistica della carne. La profondità dei sessi” (Medusa). E’ uno sguardo cattolico il solo capace di dare una lettura più profonda (e misericordiosa) del pover’uomo postmoderno “malato” di sesso.
    Mi è capitato di scrivere, in un mio libro recente, che il moralista che c’è in tutti è portato a qualificare come “bestiali” le moderne ossessioni sessuali. Del resto nel linguaggio comune è alle metafore animali che si ricorre (il porco, il maiale…). Eppure è vero il contrario. Solo gli esseri umani hanno l’ossessione del sesso. Gli animali no. Perché tale ossessione non viene dalla natura biologica, ma dalla mente. Non è un desiderio dei corpi, ma delle anime. E’ l’anima che ha un desiderio infinito e straripa dentro un corpo limitatissimo e incapace di soddisfarla.
    Questa pornomania di massa è la prova dell’esistenza dell’anima. Non sono i desideri della carne che esplodono nell’ossessione sessuale planetaria, ma il desiderio dell’anima a cui il corpo non riesce a star dietro, anche se l’immaginazione s’inventa mille varianti e mille avventure (che inevitabilmente risultano presto noiose e ripetitive). I desideri dei corpi, per loro natura, sono sempre limitati ed effimeri, come insegna l’osservazione degli animali. Sono istinti che, appena soddisfatti, finiscono. Il sesso moderno invece è sempre inappagato. Perché abbiamo dimenticato di essere fatti per l’estasi, e non c’è cosa in terra che soddisfi questo desiderio. I padri della Chiesa la chiamano “divinizzazione”, Dante scrive che siamo nati “per indiarci”.
    Così, mancando l’estasi, ci ubriachiamo con il suo surrogato, l’ebbrezza. Della carne, ma anche di altro (potere, alcol o magari cocaina). Tutte cose che creano dipendenza (e quindi possono produrre grandi affari). In fondo aveva già detto tutto Baudelaire. Il quale ebbe potente la nostalgia dell’estasi, della “visio Dei”. E non solo lui.
    ON THE ROAD
    Quando chiesero a Jack Kerouac cosa stava cercando la “beat generation”, egli rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. In un appunto del 1949 scriveva: “la vita non è abbastanza, qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare”.
    Un giorno tornò nella chiesa della sua infanzia, a Lowell, e, commosso, in quella bellezza, “ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘Beat’… significava beato…”.
    Questo simbolo della rivolta generazionale del dopoguerra esprimeva così “il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo… ‘in alto’, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero…”.
    Per questo nell’ultima intervista al New York Times fu lapidario: “I’m not a beatnik. I’m a Catholic”.
    LA MODERNA OSSESSIONE PER IL SESSO DIMOSTRA CHE L?ANIMA ESISTE ? lo Straniero


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Ipotesi sul Papa. E sulla Chiesa che verrà
    di VITTORIO MESSORI
    Dicono che non sia stato in Sicilia, bensì a Torbole, sul lago di Garda, che a Goethe eruppero dall'anima i versi famosi: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni (...) dove una mite brezza spira dal cielo luminoso?». Il mattino di lunedì 11 febbraio, pensavo un po' ironico a Goethe - e a qualche talebano del «riscaldamento globale» -, guardando dalla finestra del mio studio, nella millenaria abbazia benedettina, la neve che scendeva sugli olivi, i cipressi, gli allori. Quello non era - per la Chiesa intera, tanto meno per me - un giorno come gli altri: la liturgia ricordava la prima apparizione della Vergine Immacolata, a Lourdes, a una piccola, miserabile analfabeta, figlia di un mugnaio fallito che aveva conosciuto anche la prigione. Il Dio del Vangelo frequenta volentieri i poveri, gli ignoranti, i disprezzati. Pregustavo la giornata tenuta sgombra da ogni impegno esterno, mi godevo la prospettiva della solitudine, fasciata per giunta dal silenzio del manto nevoso ormai alto. Contavo, infatti, di continuare - guarda caso - la stesura di un secondo libro su Lourdes, dopo quello su Bernadette pubblicato pochi mesi fa. Quale giornata più propizia di un 11 febbraio?
    A un tratto, ecco il telefono portatile, il solo legame con il mondo che abbia ammesso nell'abbazia. Era mia moglie, sconcertata: «Sullo schermo tv è apparsa una scritta, dice che il Papa ha annunciato le dimissioni!». Lo confesso: sulle prime pensai alla goliardata di hacker che si fossero inseriti sulle frequenze televisive. Non ero solo nel dubitare: in quegli stessi momenti, nei cinque continenti, 117 cardinali, compresi i più vicini a Benedetto XVI, erano increduli davanti alla prospettiva di dover presto partecipare a un Conclave. Chiusi la chiamata, chiedendo ovviamente di informarmi in caso di improbabile conferma. Ma non ne ebbi bisogno: il cellulare cominciò a suonare e non cessò per un paio di giorni e di notti; quando (con fatica, la neve continuava a cadere) raggiunsi la casa, al trillo del portatile si aggiunse lo squillo incessante della linea fissa e il computer cominciò a scaricare senza sosta messaggi dal mondo intero che chiedevano interviste, interventi, articoli al cronista di cui era nota la lunga vicinanza a Joseph Ratzinger e la conoscenza, solidale, del suo pensiero.
    Perché raccontare questo? Perché un cedimento alla testimonianza personale? Ma perché io stesso fui colpito dall'immediato, travolgente, planetario tsunami mediatico provocato da poche parole in latino lette a sorpresa, a voce bassa, quasi fossero di routine, da un vecchio, circondato da altri vecchi, in una ancor più vecchia e inaccessibile Sala vaticana. Un ciclone che raggiunse all'istante tutti; e me pure, isolato tra la neve in un angolo di provincia, sconvolgendomi ogni programma. Cliccando, nell'elenco dei «preferiti», sul sito delle maggiori testate del mondo, constatavo lo straordinario rilievo dato al Pope resigning from his charge , modulato in ogni lingua. È in casi come questi che si manifesta un paradosso singolare: alla diminuzione progressiva, in atto da decenni, del numero dei praticanti cattolici (ma solo in Occidente) e della influenza sociale, morale, politica della Chiesa romana, sembra corrispondere un aumento dell'interesse per essa, per le sue vicende, per il suo Pontefice. Alla pari dei grandi media internazionali, anche le nuove testate nate sul web non rinunciano a un «vaticanista» o, almeno, a qualche esperto non tanto in questioni religiose ma, specificamente, cattoliche. Avrebbero avuto il successo che sappiamo i romanzetti di Dan Brown e dei suoi ormai infiniti imitatori se non avessero come sfondo la Chiesa, proprio quella che ha il suo centro in Vaticano? Una Chiesa, per giunta, non come residuato archeologico, come pittoresco set storico, sul tipo dell'abbazia di Umberto Eco, ma ben viva, presente, intrigante. Magari imbrogliona o, addirittura, assassina: ma, anche per questo, pericolosa perché ancora potente. L'immagine, anche se così spesso deformata, della Catholica et Apostolica affascina o inquieta l'immaginario dell'umanità. E il suo Capo in veste bianca è la sola autorità morale ascoltata ovunque e comunque: per accettare o per rifiutare, per amare o per detestare.
    Ipotesi sul Papa. E sulla Chiesa che verrà - Corriere.it

    Con la sua rinuncia il Papa costringe il mondo a fare i conti con un Mistero irriducibile
    Intervista al filosofo Fabrice Hadjadj. «Non parlate di “dimissioni”, ma di rinuncia, termine virile. La sua modestia, questo uscire di scena, è una lezione divina per il nostro tempo»
    Rodolfo Casadei
    Nemmeno ventiquattr’ore dopo l’annuncio, sulle pagine dei principali quotidiani e nelle parole dei commentatori abituali, lo shock era già riassorbito. Troppo impegnativo stare di fronte al mistero di una rinuncia decisa nel faccia a faccia fra Dio e il suo Vicario, cioè nell’appartatezza della preghiera. Il Papa certamente parlerà ancora prima del 28 febbraio e approfondirà, ma la domanda sull’accaduto comunque sia resta aperta, sia per chi non vuole capire nulla come per chi si è aperto alla comprensione, e per chi esprime perplessità in buona fede. Come documenta anche l’intervista che segue al filosofo Fabrice Hadjadj, noto in Italia per i suoi libri Mistica della carne. La profondità dei sessi, La fede dei dèmoni e Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, e dall’estate scorsa direttore dell’Istituto europeo di studi antropologici Philanthropos di Friburgo (Svizzera), fondato nel 2004 da un gruppo di universitari e responsabili cattolici francofoni in risposta all’esortazione di Giovanni Paolo II Ecclesia in Europa. Hadjadj, di cui è apparso in traduzione italiana poche settimane fa Il Paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda (Lindau), ha risposto da Friburgo alle nostre domande.
    Professor Hadjadj, cosa pensa dell’atto di dimissioni di papa Benedetto XVI, un atto così raro nella storia della Chiesa?
    Bisogna essere precisi coi termini. Il Codice di Diritto canonico non parla di dimissioni, ma di rinuncia. La dimissione può assumere un significato peggiorativo, può mostrare connotati di debolezza, di vigliaccheria e anche di rifiuto della missione che Dio dà. La rinuncia, al contrario, ha degli accenti virili. Essa si fonda nella forza di un’abdicazione che è ancora esemplare, che è ancora un atto pontificale, un atto del Vicario di Cristo: essa è imitazione di Gesù che si ritira quando lo vogliono fare re nell’ordine temporale. Altra differenza radicale: il Papa non consegna una lettera di dimissioni a un superiore, al cardinale camerlengo o a un membro superiore della curia. Non c’è nessuno al di sopra di lui, tranne Cristo. Dunque è un atto che ha il suo fondamento nella preghiera, in un faccia a faccia col Mistero. Pretendere di giudicarlo dall’esterno pertanto corrisponde a uno sfiguramento e a un’usurpazione. Ma i giornalisti non esitano a credersi Dio.
    Alcuni osservatori criticano l’atto del Papa, dicono che non aveva il diritto di rinunciare alla Croce, o che un Padre non può dimettersi dal suo ruolo di padre. Hanno ragione o hanno torto?
    Il Papa non è un capo spirituale. Il capo della Chiesa è Cristo, e Benedetto XVI è il suo vicario. Quando recitiamo il Padre Nostro, non ci rivolgiamo al Santo Padre, la cui paternità sulla Chiesa universale è una paternità di supplenza e di visibilità, che può essere facilmente trasmessa a qualcun’altro. Per quanto riguarda la Croce, l’argomento è più valido, e questa è la ragione per cui un atto del genere è molto raro nella Chiesa. Il Sovrano Pontefice non è un potente seduto sul suo trono, egli ha per vocazione di essere identificato con Cristo il crocifisso; ciò significa che il suo trono deve testimoniare la Croce, manifestare questa debolezza di Dio più forte della forza degli uomini, questa follia di Dio più saggia della saggezza degli uomini. Giovanni Paolo II ci ha dato un magnifico esempio: rannicchiato, tremante, la bava alla bocca, dichiarava al mondo i diritti della vulnerabilità, distruggeva il culto del giovanilismo e dell’efficienza. Ma, appunto, abbiamo già questo esempio ed esso è ben presente nella nostra memoria. Benedetto XVI ci svela un’altra cosa, un’altra dimensione della Croce: quella del ritirarsi, dell’oscurità, dello sprofondamento nel silenzio. Secondo il Codice di Diritto canonico la rinuncia esige una ritirata assoluta. Egli ha scelto questa umiltà profonda di assistere all’elezione di un altro papa, di vederlo governare dal basso, dalla platea dove ci troviamo tutti, e di applaudirlo come un semplice fedele. Questa modestia, questo uscire di scena, è una lezione divina per il nostro tempo. È anche ciò che permette, per contrasto, di non interpretare il fatto di morire nella carne di san Pietro, nei papi precedenti, come un intestardimento, una maniera ostinata di aggrapparsi a un potere.
    Con la sua rinuncia il Papa costringe il mondo a fare i conti con un Mistero irriducibile | Tempi.it

    ATTENTI A CHI FOMENTA LE DIVISIONI
    Antonio Socci
    Perché una corazzata come il “Corriere della sera” sta così amplificando il presunto smarrimento della Chiesa in seguito alle dimissioni del Papa?
    Ieri l’apertura della prima pagina strillava: “Tutte le insidie di un interregno. Ansia e timori tra i cardinali ‘Ora va fermato il contagio’”.
    Non si capisce a che tipo di contagio ci si riferisca. C’è forse un’epidemia di peste in Vaticano? O di gotta? O di lebbra?
    O forse al “Corriere” temono che a cascata vi sia una sequela di dimissioni? Magari. Del resto le dimissioni del Pontefice azzerano automaticamente tutte le cariche. E’ forse questo il problema?
    Spero che la scelta “interventista” del “Corriere” non sia una replica – in grande – dell’ “operazione Todi” con cui il quotidiano di via Solferino teleguidò dove voleva le organizzazioni cattoliche nell’autunno 2011. Fu un successone per il giornale di De Bortoli. Ma una catastrofe per i cattolici.
    Torniamo a ieri. Non so chi sia l’anonimo ecclesiastico che avrebbe dichiarato a Massimo Franco: “Queste dimissioni di Benedetto XVI sono un vulnus; una ferita istituzionale, giuridica di immagine. Sono un disastro”. Franco sostiene che l’anonimo monsignore sarebbe “uno degli uomini più in vista della Curia”. Io ho i miei dubbi. Comunque se davvero un monsignore importante di Curia attacca così il papa (e sui giornali, sotto anonimato, cioè tirando il sasso – al Pontefice a cui dovrebbe lealtà – e nascondendo la mano) si capisce perché Benedetto XVI ha dovuto soffrire tanto in questi anni. E si capisce perché si è dimesso per aprire la strada a un papa forte, energico, che metta in riga tanti bei soggettini del genere. Che sono braccia rubate all’agricoltura e andrebbero mandati a faticare raccogliendo pomodori. Anche perché non si vede come si possa definire “vulnus, ferita istituzionale e giuridica”, una possibilità come le dimissioni perfettamente prevista dal Codice di diritto canonico. Si ha piuttosto l’impressione che i monsignori anonimi che attaccano il Papa siano quelli che temono di perdere peso. E che la buttano in caciara per salvare qualche cadrega.
    Il “Corriere” titolava l’articolo di Franco con questa assurda formula: “La Chiesa teme la ‘ferita’ al ruolo del Pontefice”. Sposando così le fantasiose teorie di Scalfari su “Repubblica”. Ma non c’è nessun uomo di Chiesa serio e ferrato nella dottrina che può affermare una tale baggianata. Perché la sacralità, o meglio l’essere “Vicario di Cristo” e l’“infallibilità” sono prerogative del ministero petrino, non della persona momentaneamente incaricata. E il gesto di umiltà di Benedetto XVI – così raro in un mondo dove ci si sbrana per conquistare potere – ha proprio lo scopo di esaltare il ministero e mettere in secondo piano se stesso, ovvero la persona che si trova a portare questa responsabilità. Per lo stesso motivo il grande don Bosco correggeva i suoi ragazzi che gridavano “Viva Pio IX” dicendo loro: “bisogna dire: Viva il Papa!”. E si badi bene che lui era un convinto ammiratore di Pio IX.
    E’ evidente che non può capire uno come Joseph Ratzinger che mette l’amore di Dio e della Chiesa sopra a tutto e si fa liberamente da parte, rinunciando al pontificato per il bene della Chiesa. Ma il ragionamento dell’anonimo fa acqua anche da un punto di vista pratico. Perché Ratzinger ha semplicemente usato una possibilità già riconosciuta dal Codice di diritto canonico, non impone niente a nessuno dei suoi successori. Tanto meno a chi non ha una perfetta efficienza fisica. Così come la decisione di Giovanni Paolo II di restare papa anche durante la grave malattia (per testimoniare il valore della sofferenza) non è stata affatto vincolante per il successore. Entrambi hanno deciso con lo stesso cuore: l’amore per la Chiesa.
    L’anonimo del “Corriere” che lancia un apocalittico allarme per il “precedente” creato dalle dimissioni, dovute alla stanchezza dell’età, sembra non sia a conoscenza di una regola stabilita da Paolo VI e, questa sì, “dagli effetti devastanti” (per usare il suo linguaggio), perché obbligatoria, non facoltativa: il limite di età. Sia quello dei vescovi (75 anni) sia quello per i cardinali, che dopo gli 80 anni non possono più entrare in Conclave. E a prescindere dalla loro efficienza fisica (potrebbero anche essere in perfetta salute a 82 anni, ma non entrano). Questa è la regola già esistente. Invece Benedetto XVI non stabilisce nessuna nuova regola e nessun vincolo per nessuno. Che senso ha dunque – da parte del “Corriere” – alimentare tanto allarmismo e su dichiarazioni così assurde?
    Oltretutto il senso che a queste dimissioni è stato dato da “Corriere” e “Repubblica” è totalmente smentito perfino dai precedenti storici. Tanto per fare un esempio: Pio XII. Era il 1954. Il Pontefice era gravemente malato. La fidata assistente suor Pascalina Lehnert, nel suo libro di memorie, “Pio XII. Il privilegio di servirlo” (Rusconi), alla pagina 199, riferisce quello che accadde: “ ‘Mi dica la verità: crede veramente che potrò guarire e adempiere interamente la mia missione?’, chiese il Santo Padre al dottor Niehans. ‘Altrimenti – aggiunse, come inciso – mi ritiro senza esitazioni. Ho appunto terminato di completare il Sacro Collegio; i cardinali non si troveranno in imbarazzo nell’eleggere un nuovo papa, perché di questi tempi può essere papa solo qualcuno in grado di impegnarsi a fondo’”. Sembra lo stesso identico ragionamento di Benedetto XVI. In quel caso Pio XII guarì e dunque non ebbe bisogno di dimettersi, ma – come si vede dalle sue parole – era decisissimo a farlo. E senza alcun dramma. Anche Pacelli dunque “relativizzava” o “laicizzava” il papato, come scrivono oggi certi giornali? Al contrario, voleva proteggerlo.
    Dunque niente allarmismo per il gesto del Papa. Casomai l’allarme va suonato per il fatto stesso che esistono ecclesiastici importanti in Curia che possono attaccare il papa sui giornali e sotto anonimato. Questo sì che è un problema: la (mancata) fedeltà al Papa. E “il carrierismo”, come Benedetto XVI ha denunciato a più riprese. Da questo punto di vista la lezione più bella e dirompente – quanto a libertà dal potere e dalle tentazioni mondane – il Pontefice l’ha data, a tutta la Chiesa, proprio con le sue dimissioni.
    Come ha scritto don Julian Carron: “Con questo gesto, tanto imponente quanto imprevisto, il Papa ci testimonia una tale pienezza nel rapporto con Cristo da sorprenderci per una mossa di libertà senza precedenti… Il gesto del Papa è un richiamo potente a rinunciare a ogni sicurezza umana, confidando esclusivamente nella forza dello Spirito Santo”. Don Carron lancia anche un’esortazione importante ai cattolici: “accogliamo anche noi con libertà e pieni di stupore questo estremo gesto di paternità, compiuto per amore dei suoi figli, affidando la sua persona alla Madonna affinché continui a esserci padre dando la vita per l’opera di un Altro, cioè per l’edificazione della Chiesa di Dio. Con tutti i fratelli, insieme a Benedetto XVI, domandiamo allo Spirito di Cristo di assistere la Chiesa nella scelta di un padre che possa guidarla in un momento storico così delicato e decisivo”.
    Il monsignore anonimo (“uno degli uomini più in vista della Curia”) avrebbe fatto meglio a pregare così per il Papa e la Chiesa piuttosto che parlare – sotto anonimato – con i giornalisti per attaccare e screditare il Pontefice.
    ATTENTI A CHI FOMENTA LE DIVISIONI ? lo Straniero

    Ha visto Satana in Chiesa e così ha deciso di abdicare
    Maurizio Caverzan
    Il professor Franco Cardini, illustre medievista e studioso delle religioni, sta rientrando in Italia da Parigi. «Anche qui c'è grande trepidazione, grande smarrimento», risponde al Giornale.
    «Le Point e l'Express hanno dedicato la storia di copertina al gesto del Papa».
    Cominciamo da qui: come chiamarlo?
    «Il successore di Pietro è il Sommo Pontefice. Un sovrano assoluto, e come tale non si dimette, ma abdica. Alcuni, in punta di diritto canonico, parlano di rinuncia. Sicuramente, non userei il termine dimissioni, più adatto ad una carica politica».
    Lei professore ha superato lo smarrimento?
    «Sì, l'ho superato. In un primo momento ci siamo tutti chiesti che cosa stesse accadendo. Si è parlato di una grave malattia. Ma in quel caso risulterebbe strano un annuncio alla fine del Concistoro. Tanto più che nessuno sapeva nulla tranne, a quanto sembra, il fratello Georg e il segretario personale, monsignor Georg Gänswein. Non era l'annuncio di persona malata».
    Qual è la sua ipotesi?
    «Se durante il Concistoro Benedetto XVI ha toccato con mano le divisioni tra i cardinali, questo può aver accelerato una sua predisposizione».
    Un'accelerazione repentina?
    «Una decisione più ponderata non sarebbe stata annunziata in chiusura di un'assemblea riunita per una ragione diversa. Se la rinuncia fosse stata decisa da tempo ci sarebbe stata una convocazione specifica dei collaboratori più stretti e dei mezzi di comunicazione. Invece, tutti sono stati colti di sorpresa».
    La decisione di Ratzinger colpisce perché appare diametralmente opposta a quella di Giovanni Paolo II di fronte al suo decadimento.
    «Non so se si può dire diametralmente opposta. Giovanni Paolo II ha accettato di soffrire fino in fondo. Ratzinger, che è un eccelso teologo, ha scelto un altro modello. Perfino Gesù di fronte alla passione chiese di essere esentato».
    È stata l'espressione di una fede realista.
    «Giovanni Paolo II, che è il mio Papa prediletto, ha regnato ma non governato. Si è dedicato alla sua missione viaggiando in tutto il mondo. Ma l'esercizio concreto del potere l'ha lasciato a Ratzinger, il suo uomo di fiducia in Vaticano. Tanto che non l'ha mai lasciato tornare in Germania per dedicarsi solo agli studi».
    Quanto ci vorrà, secondo lei, per metabolizzare un fatto come questo?
    «È difficile a dirsi. Questo ritiro ha l'aria di avere una regia molto chiara. Molto dipenderà dal prossimo Conclave. Intanto, Benedetto XVI ha stabilito nuove regole per la sua successione. Dopo il Motu proprio del 2007, per eleggere il nuovo Papa è necessaria la maggioranza dei due terzi, senza poter arrivare al ballottaggio a maggioranza semplice».
    Che cosa significa?
    «C'è la preoccupazione di avere una guida forte, suffragata da un'unità profonda nel Conclave. Credo che Benedetto XVI abbia voluto accelerare l'inizio di una nuova stagione nella Chiesa. Una stagione che, sulla soglia dei novant'anni e dopo tanti problemi di salute, non è in grado di condurre. Non si tratta solo di ricomporre le due anime della Chiesa, una che attacca il Concilio Vaticano II e l'altra che lo difende. Se non si è riusciti ad attuarlo in questi cinquant'anni è improbabile che, d'improvviso, si ritrovi la concordia per farlo».
    Il vero motivo dell'abdicazione del Pontefice è la divisione nella Chiesa?
    «Non è un parere personale. In passato il Papa aveva citato Paolo VI e il “fumo di Satana” infiltrato nella Chiesa. Qualche giorno fa ha parlato di divisioni che “deturpano”. È più che mai urgente superarle per mettere la Chiesa nella condizione di testimoniare la fede in Cristo in un momento di profonda crisi mondiale».
    Perché gli osservatori laici sono più catastrofisti di quelli credenti?
    «Perché non hanno la fede. Non credono nell'infinita capacità della Chiesa di superare le crisi. C'è una novella del fiorentino Franco Sacchetti molto significativa in proposito. Narra di un ebreo spagnolo che nel 1300 si reca a Roma e quando torna in Spagna si converte. I suoi correligionari lo interrogano e accusano. “Che ti è successo a Roma che ti ha portato a rinunciare alla tua religione?” “Ho visto la corruzione dei preti, l'arbitrio, la discordia che affligge la Chiesa. E ho pensato che, se con questo carico di vizi e peccati la Chiesa sopravvive, significa che è toccata da una grazia particolare”».
    "Ha visto Satana in Chiesa e così ha deciso di abdicare" - IlGiornale.it

    Il Gran Refuso
    BY ROBERTO MANFREDINI
    Nel paragonare Benedetto XVI a Celestino V, tutti i giornali hanno ricordato la condanna di Dante Alighieri nel III canto dell’Inferno:

    Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
    vidi e conobbi l’ombra di colui
    che fece per viltade il gran rifiuto

    L’unico ad avanzare dubbi sul rimando è stato Franco Cardini (“Non ci fu soltanto Celestino V”, Avvenire, 12/2/2013):
    «In un caso come questo il primo nome che viene in mente è quello di Celestino V, il Papa del “gran rifiuto”, anche se il versetto non è fra i più simpatici di Dante e nei fatti non sappiamo con certezza se il poeta si riferisse proprio a Pietro da Morrone».
    Appunto: allora perché sparare titoloni sul dissing di Dante? Qualcuno ha letto nella Divina Commedia versi come “Celestino fuck you” (che dovrebbe essere un senario)?
    Sarebbe bastato prendere il volume del liceo per leggere in nota che l’interpretazione non è affatto certa: chi crede che quell’ignavo sia Esaù, chi Pilato o Giuliano l’Apostata, chi addirittura ad un rappresentante collettivo del peccato capitale.
    In realtà l’ipotesi più convincente è che quel vile fu proprio il prefetto della Giudea citato nel Credo: l’articolo determinativo usato da Dante lascia intendere un evento unico della storia, che l’ha cambiata radicalmente. Difficile pensare che, solo per aver lasciato il posto a Bonifacio VII, Celestino venga condannato alla pena eterna. Inoltre Pietro da Morrone era già stato canonizzato ai tempi in cui Dante scriveva, quindi per collocarlo all’Inferno dovremmo ipotizzare nel Poeta una incredibile mancanza di pietà (intesa anche nel suo senso etimologico, derivato da pius).
    Probabilmente i giornalisti hanno confuso l’Alighieri con un Dario Fo o un Roberto Benigni qualunque, così “impietosi” quando si tratta di insultare il potente che non li ha appoggiati e finanziati, ma ubbidienti e riguardosi verso i “loro”, di potenti.
    Lasciamo quindi in pace San Celestino V, che non fu né indegno né codardo: egli venne dal cielo (ancora in accordo con l’etimo) e al cielo è tornato.
    Il Gran Refuso



    DIMISSIONI
    Rino Cammilleri
    Poiché non pochi di voi mi hanno chiesto un parere sulla vicenda della dimissioni del papa, ecco qua: il precedente di Celestino V insegna e va preso praticamente alla lettera. Quel papa ottantenne (età veramente eccessiva nel XIII secolo) comprese subito di non essere la persona adatta per l’immane compito in quei tempi. Infatti, la Chiesa era pressata gravemente, sia da dentro che da fuori.
    Ci voleva non un eremita tutto cella e preghiera ma una personalità più giovane, energica e con gli attributi. Infatti, gli subentrò Bonifacio VIII, che di attributi ne aveva quattro. Anche se non gli bastarono a evitare i settant’anni della Cattività Avignonese e la dissoluzione dei Templari.
    Dante stimava Celestino il santo e odiava Bonifacio, il politico, ma Dante, com’è noto, di politica non capiva niente (v. le sue personali disavventure). Ratzinger, come Pietro da Morrone, cede il passo non per viltà ma per umiltà.
    Antidoti contro i veleni della cultura contemporanea



    Il vecchierel canuto et biancho
    BY ROBERTO MANFREDINI
    Migliaia di commenti sull’abdicazione di Ratzinger rimbalzando da una parte all’altra del mondo mediatico. Sul Foglio (diventato, per l’occasione, Il Soglio) Giuliano Ferrara dice che già lo aveva previsto. Lo stesso fa Antonio Socci su Libero (con un ottimo articolo). Poi ancora Ferrara sul Giornale conferma le sue doti divinatorie. Insomma, pare che le “dimissioni” non siano state proprio un fulmine a ciel sereno. Voci di corridoio e congetture avevano già dato adito a qualche scoop. Tuttavia le rivelazioni più importanti, attualmente, resta quelle del generale Pietro Laporta nel suo articolo “Il calvario di BXVI – Non prevalebunt” (12 febbraio 2013):
    «Le profezie sulle sue dimissioni, circolate nel 2012, anche in ambienti ebraici favorevoli a Benedetto XVI hanno una spiegazione. Quando nel 2009 pellegrinò in Terra Santa, i servizi israeliani rubarono un po’ delle sue urine (lo fanno sovente coi visitatori illustri). Analizzatele, pronosticarono “quattro anni di vita” per il Pontefice. Era maggio del 2009: i quattro anni della prognosi israeliana sfumano fra meno di tre mesi. Il Papa ha una grave e dolorosa cardiomiopatia ipertrofica degenerativa. […] BXVI, consapevole delle sue condizioni, abdicando ha evitato due pericoli che incombevano: offrire il destro alle speculazioni sulla sua scomparsa e, cosa peggiore, finire sotto controllo altrui, quando le sue facoltà intellettive fossero attaccate dalla malattia.
    […] Il disegno fu chiaro dietro il paravento della lettera che annunciava l’attentato al Papa: di qualunque malanno fosse morto BXVI, il suo decesso sarebbe stato attribuito ad una mano assassina interna al Vaticano e, in tal modo, si sarebbe rimesso in moto il ventilatore col letame contro le Sacre Mura, per screditarne ancor più gli inquilini».
    Questo confermerebbe una ipotesi che sto considerando in queste ore, ovvero che il progetto fosse stato preparato da tempo e che qualche nemico interno abbia fatto trapelare alcune informazioni per offrire ai media, in vista dell’evento, la possibilità di influenzare l’opinione pubblica con una “narrazione adatta”, ovvero il Papa debole e stanco che abbandona i fedeli per incapacità e rinuncia, dopo il potere temporale, anche a quello spirituale. Forse anche Habemus Papam, il film di Nanni Moretti, venne girato (a insaputa del regista?) per generare nella collettività le suggestioni adatte: il Papa non può più essere la guida per milioni di persone, c’è bisogno di una Perestrojka vaticana, un governo collegiale che gestisca la Chiesa come un’organizzazione democratica.
    Così come la notizia che qualcuno avrebbe voluto avvelenare Ratzinger, fu messa in giro per propiziare la lettura “complottista” degli eventi: ecco il Regno del Male, la cupola ecclesiastica, che per difendere la propria corruzione uccide i suoi uomini migliori.
    Leggo molti commentatori che parlano della scelta di Benedetto XVI come di un suicidio. E se il gesto si rivelasse eroico? È da ingenui pensare che un Papa faccia ogni cosa per il bene della Chiesa?
    Io credo che il Pontefice con questa decisione (sicuramente sofferta) abbia pensato di risolvere il problema del pontificato indebolito e menomato dal Concilio Vaticano II: prima ha piantato i semi delle riforme per ridare forza alla Chiesa, poi ha azzerato la curia (dopo aver scoperto che molti gli remavano contro e che avrebbero approfittato della sua malattia per disfare ciò che lui ha faticosamente costruito in questi anni) e infine ha indirizzato i cardinali elettori (67 su 117 nominati direttamente da lui) per un degno successore che possa portare certe riforme (“reazionarie” secondo i media) a compimento.
    Io, quindi, prego per un Pio XIII e per un Gregorio XVII… o almeno per un Benedetto XVII. Non prevalebunt.
    Il vecchierel canuto et biancho

    Il Cavaliere dell'Apocalisse
    di don Alfredo M. Morselli
    Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora. (Ap. 6, 2)
    L’amico Massimo Introvigne ha scritto un bellissimo articolo [1] – cosa del resto non rara – commentando, a caldo, le dimissioni del Santo Padre Benedetto XVI.
    L’idea di fondo è che il gesto di Benedetto XVI sia un fatto da ultimi tempi; non intesi questi come una data ben precisa, sullo stile delle credenze di varie sette, ma come categoria.
    C’è poco da fare: il mistero di iniquità è già in atto [2], e man mano che si avvicina la fine del mondo, i tempi si faranno sempre più difficili (i giorni sono cattivi [3]), finché non arriveranno i tempi difficilissimi dell’anticristo [4].
    Ma torniamo ai nostri giorni: la virulenza del mistero dell’iniquità è oggi tale per cui, per il bene della Chiesa, un Augusto Vegliardo, fortissimo nello spirito, si è reso conto che le sue forze fisiche vengono meno; esse non sono più sufficienti a sostenerlo e non gli permettono più di svolgere il ministero petrino, nel contesto storico attuale.
    Benedetto XVI è stato vicino al Beato Giovanni Paolo II, negli ultimi tempi del pontificato di questi, e si è reso benissimo conto che un Papa in quelle condizioni è giocoforza in balia di altri; preferisce dunque che la Chiesa, in questi tempi così drammatici, sia governata da un Papa, piuttosto che dai suoi - ancorché fidati (?) – collaboratori più stretti.
    Non dobbiamo dunque pensare che il Papa subisca questi tempi apocalittici. Non dobbiamo pensare cioè né ad una resa, né ad una abdicazione, né a una ritirata. Se proprio vogliamo parlare di ritirata, di ritirata strategica si tratta, cioè una di quelle ritirate che, in tante storiche battaglie, hanno poi condotto alla vittoria.
    Che cosa mi fa formulare questi giudizi?
    L’attuale vitalità della Chiesa cattolica sta tutta nella base e nel vertice, e non nei corpi intermedi. Per quanto riguarda la base, pensiamo al popolo di Radio Maria in Italia e nei paesi della nuova Evangelizzazione; pensiamo anche alle masse di convertiti in Africa e in Asia. È soprattutto in quest’ultimo continente che ci sono vocazioni sacerdotali e religiose in aumento: segno questo di grande vitalità di quella chiesa particolare.
    Il vertice buono è costituito dal Papa e da un manipolo di Cardinali, selezionati con cura (ultimo colpo, le sei recenti nomine). È invece drammaticamente deficitario il corpo intermedio, ovvero l’Episcopato e, in molte regioni del mondo, quel clero santo che ci vorrebbe e che invece non c’è.
    Allora è meglio che la successione sia preparata fin da ora dal Vertice sano (il Papa e suoi collaboratori), facilmente riconosciuto dalla base come sua guida propria: le buone pecore riconoscono la voce del Pastore [5].
    In altre parole il Papa è andato all’attacco: «Il dopo Razinger lo preparo e lo organizzo io».
    I pensieri ora esposti mi fanno paragonare il Santo Padre al Cavaliere dell’Apocalisse, descritto vincitore, armato di arco, mentre cavalca un cavallo bianco:
    “Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora”[6].
    Secondo il senso letterale della Scrittura, questo cavaliere è senz’altro Gesù Cristo; ma, allegoricamente, può benissimo rappresentare il suo Vicario; Infatti Nostro Signore continua – in un certo modo – la sua presenza nella storia mediante il Romano Pontefice.
    E il cavallo bianco chi è? Il grande teologo francescano Alessandro di Hales (1183 – 1245), maestro di San Tommaso e di San Bonaventura, insegna che questo cavallo rappresenta gli apostoli del Salvatore; il cavallo infatti ha tutte le caratteristiche di un buon evangelizzatore: fiero nel combattimento, veloce nella corsa, conducibile nel suo movimento [7].
    Questo è il nostro compito nell’ora presente, essere un buona cavalcatura bianca al servizio del Papa: coraggiosi nel combattimento, docili al comando e veloci nella corsa, anche quella intellettuale; dobbiamo avere riflessi pronti nel comprendere, cor unum et anima una col Papa, cosa sta succedendo… [8]
    Se saremo una buona cavalcatura per il Pontefice, permetteremo a Lui, che – secondo la III parte del segreto di Fatima – è colpito dalle frecce dei traditori, di scoccare a sua volta le frecce del suo Magistero di vita eterna.
    Il Papa non solo può essere colpito da frecce, ma le può anche scagliare lui stesso, proprio come il cavaliere vittorioso dell’Apocalisse. E a sua volta il Papa è cavaliere e calcagno di quella Regina, che oggi come duemila anni fa, dice ai servi: “Fate ciò che Egli vi dirà”.
    Scrive San Lugi M. Grignion de Montfort:
    “…l'umile Maria riporterà sempre vittoria su quel superbo [il demonio], e vittoria così grande, che riuscirà perfino a schiacciargli il capo, dove si annida il suo orgoglio. Ne svelerà sempre la malizia serpentina, ne sventerà le trame infernali, ne manderà in fumo i diabolici disegni e difenderà sino alla fine dei tempi i suoi servi fedeli da quelle unghie spietate. Ma il potere di Maria su tutti i demoni risplenderà in modo particolare negli ultimi tempi, quando Satana insidierà il suo calcagno, cioè i suoi umili figli che lei susciterà per muovergli guerra. Questi saranno piccoli secondo il mondo, infimi davanti a tutti come il calcagno, calpestati e maltrattati come il calcagno lo è in confronto alle altre membra del corpo. In cambio saranno ricchi di grazia divina, che Maria comunicherà loro in abbondanza, grandi ed elevati in santità davanti a Dio, superiori ad ogni creatura per lo zelo coraggioso, e così fortemente sostenuti dall'aiuto di Dio, che con l'umiltà del loro calcagno, uniti a Maria, schiacceranno il capo del diavolo e faranno trionfare Gesù Cristo” [9].
    A Lei, che soccorre chiunque stia per cadere ma che anela a risorgere, ricorriamo fiduciosi: facciamo bene il nostro dovere, diciamo bene le nostre corone del Santo Rosario e affidiamoci totalmente e senza riserve all'Immacolata, affinché ci usi come vuole in questa epoca.
    [1] «Dimissioni del papa evento apocalittico».
    [2] 2 Tess, 2,7.
    [3] Ef 5,16.
    [4] CCC 675-677.
    [5] Cf. Gv 10,27.
    [6] Ap 6,2.
    [7] “Equus enim habet ferocitatem conflictus, velocitatem cursus, ductitlitatem motus”; Alessandro di Hales, Commentarium in Apocalypsin B. Johannis Ap.li, ad loc. Ho potuto consultare una copia edita a Parigi, nel 1647, p. 103.
    [8] Con rammarico ho constatato letture dei fatti ambiguamente critiche nei confronti del papa, provenienti da ambienti che si dicono tradizionalisti.
    [9] S. Luigi M. Grgnion de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, § 54.

    Anche questo un tempo di grazia
    Autore: Caius
    Si sprecano in questi giorni i commenti, i retroscena, le domande. Ok, va bene. Il papa ha lasciato per questo, non per quell’altro… Tra i commenti, la stupidità di molti che devono parlare di tutto, e devono portare acqua al loro mulino. Loretta Napoleoni, Beppe Grillo, per fare solo due nomi, spiegano che loro non li freghi…il papa si sarebbe ritirato per lo Ior, o cose simili. Scemenze…
    Benedetto XVI è un sacerdote, un cristiano che conosce il cuore dell’uomo, l’abisso di miseria che può albergare… Un Giuda in camera, lo rattrista, certo… qualche scandalo allo Ior? Brutta cosa, senza dubbio. E allora? Forse qualcuno crede nell’infallibilità umana degli individui, preti o uomini che siano? Il papa no; però è stanco; sa di non farcela a governare; vede che la seconda metà del suo breve pontificato ha perso la spinta iniziale… Vede che uomini che all’inizio teneva ai margini, hanno oggi posizioni di potere, certo, con il suo consenso, ma dietro quali spinte? Vede che la Chiesa è nella tempesta (forse non gli è chiaro neppure del tutto perchè), e il mondo pure, e ha detto: non ce la faccio più…non a pregare, non a sperare…a governare.
    E noi cattolici, uomini di poca fede? C’è chi gioisce, perché dei segni dei tempi comprende poco, e chi si rattrista, perché comprende, in qualche modo, che il momento è grave… Va bene, rattristiamoci… un attimo, un giorno, due, tre…poi basta. Si riparte.
    La Chiesa non è nelle nostre mani, e neppure in quelle di Benedetto XVI. E’ in quelle di Dio. Che permette, sì, permette l’oscurità, il deserto, la tempesta…Che ha permesso persino il rinnegamento di Pietro e l’abbandona nell’orto degli ulivi….lo permette per rendere chiaro ciò che è oscuro…per rafforzare la fede dei suoi discepoli. Lo permette perché lo permette (poi gli chideremo i dettagli)….
    Scrive l’apostolo Marco:
    In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che moriamo?». Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».
    Fede: qui sta il problema. A questo dobbiamo pensare. Rivolgersi eccessivamente alle profezie (“era detto, era detto…”; “questa è La Salette”, “no è Pio X”; “cosa dici? Questo è Malachia, o Fatima o altro…”) assomiglia per certi versi alla mentalità dei pagani, che volevano sempre interrogare il futuro, perché non potevano contare, appunto sulla fiducia in un Dio Padre, che è, comunque e sempre, vicino ai suoi figli.
    Disperarsi ? E’ quello che vuole il demonio. Cerca di farci perdere la fede, e con essa la speranza e la carità.
    Il rischio di chi avverte la difficoltà dei tempi, e non si cela dietro un ottuso ottimismo, sta qui: nel lasciarsi imbrigliare, immobilizzare, dalla paura… dalla disperazione…da pensieri apocalittici.
    Ma fosse anche l’Apocalisse (chi lo può dire? Chi lo può negare?), un uomo che crede, che spera, che ama (o meglio, che cerca di farlo), continua a servire la sua famiglia, a lavorare per la sua anima, e per quella di chi gli sta vicino…
    Non dice mai: tutto è perduto. Perché ogni istante dell’esistenza può essere santificato, reso fruttuoso, riempito di fede, di speranza, di carità…anche fosse l’ultimo istante di una vita che si spegne nella malattia…anche fosse l’ultimo istante di un mondo e di una civiltà che muoiono…
    Perché dopo la morte, c’è la resurrezione, e dove abbonda il peccato, sovrabbonda o sovrabbonderà la grazia… Per questo, anche quello di oggi, è, vogliamo, se crediamo, se ci lasciamo soccorrere, un “tempo di grazia”. Perchè, come canta Chieffo, “c’è Qualcuno con te”:
    Anche questo un tempo di grazia « Libertà e Persona


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Cattivi scolari di don Milani. La catastrofe del Forteto
    Sandro Magister
    Quella che segue è la cronologia di una catastrofe che si è consumata in quel di Firenze, tra i circoli cattolici di sinistra che fanno riferimento a don Lorenzo Milani e alla sua scuola di Barbiana.
    Una catastrofe che opinionisti e media hanno a lungo negato o passato sotto silenzio, per ragioni che si intuiscono dalla semplice ricostruzione dei fatti.
    C’è voluto “Il Covile”, il raffinato blog fiorentino creato e diretto da Stefano Borselli, perché sulla vicenda si alzasse il velo.
    Ed è proprio dal “Covile” che questa cronologia è qui ripresa, nei suoi tratti essenziali.

    1975-77

    In trentatré iniziano l’esperienza della comune del Forteto nell’azienda di Bovecchio, Barberino di Mugello. A rivestire il ruolo di leader è Rodolfo Fiesoli, coadiuvato da Luigi Goffredi, l’ideologo. Il progetto si caratterizza subito per la proposta dell’abolizione della famiglia basata sull’unione stabile tra un uomo e una donna, in nome di un’idea totalizzante di comunità improntata anche sulla pratica omosessuale. Donne e uomini dormono separati in camerate, mentre Fiesoli ha una camera propria.

    1977

    Edoardo Martinelli, sindacalista della CISL ed ex scolaro di Barbiana, in un momento di crisi familiare va a vivere alla comune. Dopo pochi giorni, nottetempo, il Fiesoli penetra nella sua camera proponendogli la “filosofia del Forteto”. Martinelli declina e fa le valigie.

    30 novembre 1978

    Rodolfo Fiesoli viene arrestato su richiesta del giudice Carlo Casini che aveva aperto un procedimento per abusi sessuali nel Forteto.

    1 giugno 1979

    Fiesoli lascia il carcere e torna alla comune. Lo stesso giorno arriva il primo bambino down affidato dal tribunale dei minori. Il presidente del tribunale, Giampaolo Meucci, grande amico di don Milani, non crede all’indagine di Casini e ritiene il Forteto una comunità “accogliente e idonea”.

    1982

    La cooperativa acquista una proprietà di circa cinquecento ettari nel comune di Dicomano e vi si trasferisce. L’azienda continuerà a crescere per diventare oggi “un’azienda con un fatturato da 18–20 milioni di euro all’anno con circa 130 occupati”.

    1985

    Sentenza di condanna per Lugi Goffredi e Rodolfo Fiesoli: quest’ultimo a due anni di reclusione per maltrattamenti a una ragazza a lui affidata, atti di libidine violenta e corruzione di minorenne. La sentenza parla di “istigazione da parte dei responsabili del Forteto alla rottura dei rapporti tra i bambini che erano loro affidati e i genitori biologici”, e di “una pratica diffusa di omosessualità”.

    18 marzo 1986

    Giampaolo Meucci muore, ma la sua politica verso il Forteto gli sopravvive. Gli affidi del tribunale dei minori continuano. Alla fine i ragazzi consegnati saranno in tutto cinquantotto, dei quali molti passeranno dalla camera del Fiesoli.

    1999

    Esce il primo libro sul Forteto stampato dalle prestigiose edizioni del Mulino: “Forme di cultura e salute psichica. Universo simbolico e regole di relazione nel mondo del Forteto”, di Giuseppe Ferroni.

    19 maggio 2002

    Prima marcia di Barbiana. Edoardo Martinelli contesta la decisione di affidare la Fondazione Barbiana al Forteto. Ma il suo tentativo fallisce. Gli altri discepoli di don Milani, a partire da Michele Gesualdi, presidente della provincia di Firenze, riconosceranno sempre il Forteto come parte del movimento. Rodolfo Fiesoli sarà per anni, fino all’ultimo arresto, incontestato consigliere del Centro Documentazione don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana.

    2003

    Esce il secondo testo del Mulino: “La Strada stretta. Storia del Forteto”, di Nicola Casanova.

    18 settembre 2003

    I missionari comboniani di Alex Zanotelli con la Carovana della Pace fanno tappa a Barbiana. Pranzo al Forteto dove, dicono testuale, “più famiglie alla luce del Vangelo vivono controcorrente attraverso il lavoro di diverse cooperative e la comunione dei beni”.

    Dicembre 2003

    Su “Diario”, mensile diretto da Enrico Deaglio, esce un profilo encomiastico di Luigi Goffredi, presidente della Fondazione Il Forteto.

    Novembre-dicembre 2007

    Borgo San Lorenzo, convegno nazionale per il 40.mo di “Lettera a una Professoressa”. Michele Gesualdi guida la visita a Barbiana. Tra i relatori Rodolfo Fiesoli: “Il Forteto”.

    2008

    Ancora un libro del Mulino: “La contraddizione virtuosa. Il problema educativo, don Milani e il Forteto”, di Nicola Casanova e Giuseppe Fornari.

    4 febbraio 2010

    Senato, organizzata dal gruppo PD, presentazione del libro di Rodolfo Fiesoli “Una scuola per l’integrazione”.

    Giugno 2011

    Per le edizioni Falco di Cosenza esce il libro di Rodolfo Fiesoli “Fili e nodi”. La prefazione è di Antonio Di Pietro.

    20 dicembre 2011
    Rodolfo Fiesoli viene arrestato con l’accusa atti di zoofilia e pedofilia commessi all’interno della cooperativa.

    27 dicembre 2011

    Si costituisce il comitato Vittime del Forteto, presidente Sergio Pietracito.

    1 giugno 2012

    La regione Toscana crea una commissione d’inchiesta sul Forteto. Presidente Stefano Mugnai del PDL, vicepresidente Paolo Bambagioni del PD.

    24 ottobre 2012
    Sulle pagine fiorentine del “Corriere della Sera” esce il servizio “Dietro una sentenza ignorata per 30 anni”, di Eugenio Tassini. È l’inizio della fine del silenzio sulla vicenda.

    Articolo di Libero sull’incredibile storia del Forteto
    http://www.mpv.org/mpv/allegati/17661/13012103mpv.pdf

    Bianchi, maestro di doppiezza
    di Riccardo Cascioli
    «Uccidersi per protesta a volte è giusto». Così titolava domenica 16 dicembre La Stampa un lungo articolo a firma di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose



    dedicato al fenomeno delle autoimmolazioni di giovani tibetani. La sintesi operata nel titolo rende pienamente ragione del contenuto dell’articolo che, anzi, in diversi punti ha affermazioni ancora più gravi. Per Bianchi infatti, il monaco tibetano che si dà fuoco è un «martire» che «compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo». «Vale la pena – diceva ancora Bianchi – di lasciarci interrogare da questi monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso», ricordando che i monaci suicidi «con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male».
    Parole pesanti, scritte con la solita arte della doppiezza di cui Bianchi è maestro, ovvero lasciando intendere un messaggio eterodosso ma stando sempre attento a non fare affermazioni che confermino l’impressione. Così ad esempio fa un ritratto dei monaci suicidi che ricorda chiaramente il sacrificio di Gesù, ma negando che voglia «tracciare un parallelo con il servo sofferente di cui parla il libro di Isaia, con l’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi persecutori o con i martiri cristiani».
    Ieri, sempre dalle colonne de La Stampa, intervistati da Andrea Tornielli, hanno replicato a Bianchi sia il cardinale Renato Raffaele Martino, già presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e Osservatore permanente alle Nazioni Unite, che Vittorio Messori. Martino ha spiegato che «per noi cristiani è inconcepibile il suicidio. Anche se questo darsi la morte può avere fini nobili. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna che il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare la propria vita ed è contrario all’amore del Dio vivente. Se è commesso per servire da esempio (cosa sostenuta da Bianchi per dare ancora più valore al gesto, ndr), si carica anche della gravità dello scandalo». Questo dovrebbe almeno chiarire ai cattolici così infatuati del buddhismo al punto da presentarlo – come lascia intendere Bianchi - come la realizzazione del cristianesimo, che si tratta in realtà di un pensiero e di una pratica antitetica a quella cattolica.
    Peraltro, pur con tutta la solidarietà che si può dare al popolo tibetano per le sofferenze inflittegli dal regime comunista cinese, è giusto ricordare – come fa Messori – «che fino al 1950 (anno dell’annessione da parte della Cina, ndr) il Tibet era la più dura delle teocrazie sacrali. Il Dalai Lama aveva i suoi feudatari, che erano i lama: possedevano tutta la terra, avevano potere di vita e di morte. Ogni famiglia era obbligata a mandare almeno un figlio in monastero, con conseguenze a dir poco spiacevoli in caso di disobbedienza. Insomma, il Tibet prima del dominio cinese non era certo un modello per i diritti umani». Il che dovrebbe anche chiarire che l’indipendenza dalla Cina che giustamente il Tibet rivendica, non ha molto a che vedere con la libertà come la intendiamo in Occidente.
    Ma l’uscita di Enzo Bianchi sui monaci tibetani non è un episodio isolato che si possa attribuire magari a una errata comprensione del mondo buddhista. In realtà la passione del priore di Bose per i suicidi – che lui definisce martiri – è decisamente antica: 7 maggio 1998, in Pakistan il vescovo cattolico di Faisalabad, John Joseph, si spara un colpo di pistola alla testa davanti al Tribunale della sua città. Motivo: la condanna di un laico della sua diocesi in applicazione della famigerata Legge sulla blasfemia. Per l’episcopato pachistano e per la Santa Sede è una situazione imbarazzante, un fatto senza precedenti, all’inizio si pensa – e si spera – che sia un omicidio mascherato, poi la realtà non lascia scampo: si è proprio suicidato. L’Osservatore Romano esprime questo imbarazzo dedicando solo un breve necrologio al vescovo, ma sulla prima pagina di Avvenire campeggia un commento di Enzo Bianchi che saluta il nuovo martire e definisce il tragico evento come «una modalità rarissima nel martirio cristiano».
    Dunque, siamo di fronte a una vera e propria affermazione estranea alla dottrina cattolica, che viene spacciata da Bianchi per suprema testimonianza di fede. La questione è che Enzo Bianchi – come del resto già La Bussola Quotidiana ha documentato – continua a portare confusione tra i cattolici, peraltro con l’avallo di numerosi vescovi che lo invitano adoranti nelle loro diocesi a tenere conferenze ed esercizi spirituali. E con il silenzio di chi, in materia di dottrina, dovrebbe pur dire una parola chiara. Bianchi, in fondo, può anche dire quello che vuole, ma se poi tanti cattolici si perdono seguendolo buona parte della responsabilità ce l'ha chi nella Chiesa non esercita l'autorità per indicare la strada giusta.
    La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Bianchi, maestro di doppiezza



    Russia, si fortifica l'alleanza "trono-altare"
    I primi quattro anni di patriarcato di Kirill, la sintonia con Putin e Medvedev. La chiesa ortodossa protagonista con il sostegno dello Stato
    GIACOMO GALEAZZI
    CITTÀ DEL VATICANO
    Kirill festeggia quattro anni da Patriarca e il Cremlino chiede maggiore influenza della Chiesa sulla società. Per l'occasione, Putin incontra il capo della Chiesa russo-ortodosso e invita il Paese a liberarsi da una "primitiva e volgare" concezione della laicità. Medvedev riconosce una "relazione speciale" tra Stato e Chiesa in Russia. Cremlino e Casa Bianca (la sede del governo russo) si sono uniti nel lodare l'operato di Kirill, evidenzia l'agenzia d'informazione del Pime, AsiaNews. Da parte sua il Patriarca ha identificato nella nascita di una "nuova generazione di vescovi" - passati da 200 a 300 - uno dei principali traguardi dei suoi quattro anni di lavoro.
    La crescita è legata alla riforma del sistema diocesano realizzato da Kirill, che ha istituito 30 metropolie e quasi 90 nuove diocesi, ordinando 88 vescovi. Sotto il suo patriarcato si è assistito anche a una significativa spinta all'attività pastorale dentro e fuori la Russia. Il capo della Chiesa ortodossa ha visitato finora oltre 100 diocesi di cui alcune più di una volta. Azerbaijan, Armenia, Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Egitto, Siria, Turchia, Bulgaria, Giappone, Palestina, Giordania e Cipro sono solo alcuni dei Paesi stranieri visitati. Un vero e proprio "patto d'acciaio" tra potere temporale e potere spirituale in occasione del quarto anniversario della sua elezione a Patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Il presidente Vladimir Putin, che il 1 febbraio ha incontrato la gerarchia ecclesiastica al Cremlino, ha sottolineato la necessità che alla Chiesa sia data più voce in capitolo su questioni come il "sostegno alla famiglia e alla maternità", "l'istruzione dei giovani", lo "sviluppo sociale" e "il rafforzamento dello spirito patriottico delle forze armate", sottolinea AsiaNews."Al cuore delle vittorie della Russia e dei suo traguardi - ha ricordato Putin, nell'incontro con Kirill - ci sono patriottismo, fede e forza di spirito".
    Il capo del Cremlino ha poi invitato la società a liberarsi da una concezione "volgare e primitiva" di laicità per dare alla Chiesa, e alle altre religioni tradizionali, maggiore controllo sulle questioni sociali. Lo stesso Kirill, nel suo discorso, ha ammesso che negli ultimi quattro anni il dialogo tra Chiesa e Stato si è rafforzato e "ha contribuito a risolvere molti problemi" presentatisi nella società. La pensa alla stessa maniera il capo del governo, Dmitri Medvedev, il quale ha parlato di "relazione speciale" tra il potere politico, quello spirituale e la società. "Spero che questo rapporto si rafforzi e lavori per il bene della nostra patria", ha auspicato il premier dopo la liturgia officiata da Kirill nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca Dopo il crollo dell'Unione Sovietica e la fine dell'ateismo di Stato, il legame tra potere politico e religioso in Russia è andato rafforzandosi. Nel suo terzo mandato presidenziale, inaugurato con le più vaste proteste anti-governative degli ultimi 13 anni, Putin ha cercato l'appoggio sempre maggiore della Chiesa, ritenuta dalla maggior parte dei russi l'istituzione ancora più affidabile di quelle sopravvissute all'Urss. L'appello al rispetto dei valori morali tradizionali e a una spiritualità, che spesso sconfina nel patriottismo, fanno parte ormai del discorso politico quotidiano. Negli ultimi mesi si sono susseguite iniziative legislative ispirate alle battaglie del Patriarcato, come la bozza di legge per il "rispetto dei sentimento religioso" e quella per vietare "la propaganda gay". In precedenza era arrivata l'investitura da parte del potere religioso allo zar della Russia del terzo millennio, che ha liquidato i cosiddetti nuovi oligarchi, ossia i neo-miliardari che si erano arricchiti con la svendita (voluta dal predecessore Boris Eltsin) delle aziende statali russe e in grado di condizionare fortemente anche la politica. Vladimir Putin, dunque, come uomo forte della Grande Madre Russia. Per molti, ma non per i leader religiosi che lo hanno "benedetto", un gradino sotto la dittatura. La Chiesa russo-ortodossa ha espresso il suo appoggio anche al giro di vite sull’immigrazione in Russia deciso da Putin.
    Russia, si fortifica l'alleanza "trono-altare" - Vatican Insider



    Jammes, Proust e quell’ultima preghiera a san Giuseppe
    di Paola Di Sabatino
    «Caro signore, vi ho conosciuto – voi, il più grande poeta che mi sia stato rivelato – in un periodo in cui la malattia, dopo una brusca curva, imboccava una china sempre più severa e ripida. E benché nelle rarissime sere in cui lascio un amico accostarsi al letto in cui giaccio in continuazione lo incarichi sempre […] di fervidi messaggi della mia crescente ammirazione per voi, ho voluto che dopo essere stato incapace di correggere una bozza, di scrivere una lettera, di parlare, le mie prime parole fossero per voi». Il «grande poeta» destinatario della lettera è Francis Jammes







    le «parole» quelle autorevoli di uno dei più grandi romanzieri del Novecento: Marcel Proust.



    Siamo nella seconda metà del maggio 1922: Jammes, il poeta delle Géorgiques Chrétiennes, aveva da poco pubblicato il suo splendido Livre de Saint Joseph; Proust, sfiancato dalla polmonite che il 18 novembre dello stesso anno lo avrebbe ucciso, stava per mettere la parola «Fine» alla sua monumentale opera, À la recherche du temps perdu. Nella lettera, una delle ultime prima della morte, Proust esprime con «tenero rispetto» la propria «immensa ammirazione» verso quel “poeta rustico” che assai di rado lasciava le amate montagne pirenaiche per recarsi nei raffinati salotti parigini (nei quali invece Proust era di casa).
    Difficile immaginare due autori più diversi. Per rendere immediatamente l’idea si potrebbe forse dire che Proust sta a Jammes come le grandi cattedrali gotiche di Francia (alle quali sono dedicate pagine bellissime nell’opera proustiana) stanno ai piccoli altari di campagna dei Pirenei (assai cari all’immaginario jammiano). Il mondo dell’alta borghesia snob e degli ultimi splendori della nobiltà europea descritto da Proust non ha nulla a che vedere con quello popolato di personaggi modesti, umili, alle prese con le piccole vicende della vita quotidiana che troviamo negli scritti di Jammes; le miserie della natura umana, presentate con estremo realismo e rigore quasi scientifico nella Recherche, in Jammes divengono occasione costante di domanda, di preghiera. Eppure Proust amava moltissimo quel poeta provinciale la cui delicata poesia, fatta di immagini semplici, aveva già incantato Claudel, Gide, Mallarmé e Rilke, ispirato molta poesia italiana del primo Novecento (in particolar modo quella di Gozzano e Onofri) e influenzato l’intero movimento crepuscolare europeo. Peraltro l’autore della Recherche, che talvolta scrivendo giocava a fare il verso ad autori celebri, con Jammes non osa scherzare: «della prima parte dei vostri Mémoires […] mi ero divertito a fare […] dei piccoli pastiches. Però ho rinunciato a pubblicarli. Il pastiche fa sorridere, e sia pure con il più tenero rispetto non si deve sorridere di ciò che si ama».
    Con tutta probabilità, oltre ai Mémoires, l’autore della Recherche dovette leggere anche Le livre de Saint Joseph, un’opera in prosa che alcuni considerano l’autobiografia spirituale di Jammes. Ne Le livre de Saint Joseph il «Glorioso Patriarca» guida il poeta tra le valli dei Pirenei alla scoperta di alcune storie di santi anonimi, sconosciuti, «che il mondo dimentica con troppa leggerezza» ma che al contrario segnano di commozione il volto di Giuseppe; un volto di cui Jammes non può neanche descrivere la bellezza: «Mi è così presente che le parole non tracciano affatto, ma sbiadiscono, i tratti di un volto così vero».
    Di questo bell’omaggio a san Giuseppe dovettero colpire Proust soprattutto le preghiere che Jammes rivolge al santo al termine di ogni capitolo. Infatti, sempre nella lettera, congedandosi, l’autore della Recherche scrive: «nelle vostre preghiere a San Giuseppe chiedetegli di darmi una morte più dolce della mia vita».
    Una richiesta tenera e sorprendente perché Proust, di madre ebrea e padre cattolico, «purtroppo» – così in una lettera del 1908 all’amica Geneviève Straus – non era credente; la sua opera peraltro aveva suscitato più di qualche perplessità in autori cattolici come Claudel e Mauriac, reticenti di fronte alla rappresentazione di un «mondo senza Dio» (Mauriac) fatto di «deboli associazioni votate unicamente alla sensazione immediata» (Claudel). Più tardi anche Albert Camus avrebbe parlato della Recherche come di un mondo in cui l’assenza di Dio era dovuta all’ambizione proustiana di creare «una perfezione conclusa» che desse «all’eternità il volto dell’uomo». Opinioni, quelle appena citate, che nel tempo hanno trovato una larga condivisione; eppure, come scriveva Carlo Bo, «la tentazione […] di sostituirsi a Dio non ha mai sfiorato Proust, e questo va tenuto presente quando si parla della religione o dell’assenza di una fede nella concezione proustiana. Ciò che noi diciamo indifferenza […] in realtà è una misura di rispetto, […] non avendo egli ceduto all’idea di poter offrire una lettura di quanto per lui era di per sé imperscrutabile».
    Un silenzio rispettoso che del resto Proust mantenne non soltanto nell’opera ma anche nella vita. Céleste Albaret, l’affettuosa governante che assistette l’autore della Recherche negli ultimi otto anni di vita, racconta nel suo libro di memorie che Proust non parlava molto di religione: «Credeva dunque o non credeva? Non me l’ha mai confidato. […] L’ho conosciuto troppo bene per non sapere che se non me ne ha mai parlato è perché riteneva che la risposta riguardasse solo lui. L’unico indizio che mi abbia dato è la frase […] sulla possibilità di ritrovarci nella valle di Giosafat, il giorno in cui gli chiesi: “Ci crede, Monsieur, lei che sa tutto?”». C’era però una storia che Céleste non sapeva spiegarsi, un episodio riguardante il rosario proveniente da Gerusalemme che Proust aveva ricevuto in regalo da un’amica: «Mi aveva parlato di quel rosario. “Vede, Céleste, sulla croce c’è inciso ‘Jerusalem’. Come avrei voluto andarci! Ma ho questo rosario a cui sono molto affezionato. E sa, Céleste, un giorno lei mi chiuderà gli occhi […]. E, dopo, desidero che mi avvolga questo rosario intorno alle dita. Me lo prometta, Céleste”[…]. Me l’ha ripetuto non so quante volte, in quegli otto anni».
    Si sa che poi, nella concitazione e nel dolore di quel 18 novembre di novant’anni fa, la domestica dimenticò di esaudire la richiesta del romanziere. Eppure a chi scrive piace pensare che san Giuseppe, Speranza degli infermi e Patrono dei moribondi, non abbia invece dimenticato la povera preghiera di Proust e che, negli ultimi istanti di vita di quel figlio sofferente, il cuore del Carpentiere di Nazareth si sia riempito d’Amore. «Un Amore», scriveva Jammes, «in grado di racchiudere il Cielo e la terra».
    Piccole Note - Jammes, Proust e quell?ultima preghiera a san Giuseppe


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Papa Borgia avvelenato per fiction
    Franco Cardini
    Papa Benedetto XVI ha aperto a Twitter: e tutti ne hanno elogiato la tempestiva lungimiranza. E sai la novità. Fu Pio II a interessarsi a quella diavoleria della stampa ideata da Johann Gutenberg, mentre gli illuminati principi del Rinascimento la ritenevano una schifezza e il duca d’Urbino vietava a quei libracci unti d’inchiostro su carta di stracci l’ingresso nella sua aulica biblioteca tutta oro e pergamena.
    Fu Innocenzo VIII a dar fiducia a quel matto di marinaio genovese che credeva possibile navigare per l’oceano. Fu Leone XIII ad accettare di farsi riprendere da quei bei tipi dei fratelli Lumière per la loro bizzarra invenzione delle forze in movimento. Fu Pio XI ad aprire una Radio Vaticana quando ancora i messaggi via etere erano sperimentali. Ma anche altri protagonisti della storia non hanno scherzato. Prendete il re d’Inghilterra. Enrico VIII, abilissimo nel far credere al mondo con i pamphlets dei suoi «intellettuali organici» di aver introdotto la Riforma nel suo Paese per il bene della Chiesa e non per i suoi interessi politico-economici.
    Sua figlia Elisabetta I fu geniale nell’inventare in un sol colpo due «Leggende nere» destinate a durare nel tempo: quella contro la Spagna cattolica rea di ogni infamia e quella contro il papato eterno nemico di qualunque verità e libertà. I protestanti hanno bruciato molte più streghe dei cattolici ma ancora oggi nelle nostre scuole si continua a insegnare che uniche e responsabili di quei massacri furono la Chiesa e l’Inquisizione. Nel nome del no popery, il «spapizzazione», Cromwell massacrò scozzesi e irlandesi: eppure oggi sono in molti a pensare che quel bieco tiranno fosse solo un innocuo filosofo sensista...
    Sorbiamoci dunque felici il polpettone televisivo ormai nemmeno troppo recente, ma abilmente riciclato, che il piccolo schermo ora ci propone e che entrerà a vele spiegate nelle nostre famiglie domani su La7. Tema: i Borgia. Se n’è occupato anni fa perfino Orson Welles: perché ora non rifilarci una lunga fiction dal sapore di «verità», con tanto di interpretazione di Jeremy Irons? I Borgia: il papa corrotto Alessandro VI, il figlio Cesare tiranno e assassino, la figlia Lucrezia debosciata e avvelenatrice. Sangue e sesso nel XV-XVI secolo: che volete di più? Con i soliti luoghi comuni, in parte puramente calunniosi, in parte spezzoni di verità cronistica montati alla rinfusa e cuciti insieme per squadernarci davanti una storia vista dal buco della serratura, tutta vizio prepotenza e intrighi, in cui non ci si cura affatto di situare quel che si narra nel contesto degli eventi e nel quadro socio culturale del tempo.
    L’aveva già insegnato Voltaire: «Calunniate, calunniate: qualcosa resterà». Accidenti se n’è restato... Fu purtroppo un grande storico dell’Ottocento, Ferdinand Gregorovius, ad impiantare solidamente la «Leggenda nera» della grande famiglia aragonese legittimando l’idea, largamente inesatta, che le sue vicende tra il papato di Alessandro (1492-1503) e la morte di Lucrezia (1519) fossero solo una lunga sequenza di infamie. Scompare, nel polpettone televisivo, qualunque altro aspetto: la lungimiranza teologica e disciplinare del pur non a torto discusso papa Alessandro VI, di recente sottolineata anche da una bella pubblicazione scientifica dell’Istituto storico italiano per il Medioevo presieduto da uno studioso come Massimo Miglio.
    Papa Borgia fu senza dubbio uomo del suo tempo, con tutto il peso morale che ciò può comportare: e peccatore fin che volete. Ma fu anche un papa straordinario: avviò la riforma degli ordini religiosi, mostrando di aver compreso i mali della Chiesa del tempo (quelli che avrebbero condotto alla rivolta di Lutero); sistemò la contesa ispano-portoghese dopo la scoperta del Nuovo Mondo, imponendosi per una versione equilibrata del problema.
    Fu uno statista accorto che, riordinando l’amministrazione, le finanze e l’istituzione dello Stato della Chiesa e ponendo fine a molti abusi, dette da competente un energico impulso agli studi di diritto canonico, necessario per il riordino della gerarchia; fu paziente perfino dinanzi agli attacchi di Gerolamo Savonarola, che infatti fu vittima degli odii delle fazioni fiorentine più e prima che della sua volontà. Ma nella serie tv scompaiono anche (oltre all’abilità e al cinismo) le lucide dosi politiche e diplomatiche di Cesare, il «Principe Valentino»; l’intensa e ricca vita spirituale di Lucrezia nella seconda parte della sua esistenza, quando come duchessa di Ferrara fornì prove di generosità e di autentica pietas religiosa che sono state sottolineate da un’altra studiosa, Gabriella Zarri. Infatti Lucrezia morì nella fede, terziaria francescana e amica dei poveri.
    Niente da fare: tutto viene macinato e sepolto nella valanga di luoghi comuni e calunnie, che per giunta — c’è da giurarci — saranno salutate come oro colato da un branco di teledipendenti. Dal semplice punto di vista storico, la fiction è un colabrodo di errori e di sciocchezze: a proposito del Nuovo Mondo da poco allora scoperto, si parla tranquillamente di «America» (entrato in uso solo a partire dal 1507, in seguito alla pubblicazione della Cosmografiadel geografo Martin Waldseemüller); il povero Gerolamo Savonarola viene arso sul rogo a Roma anziché a Firenze; Jem Sultan, uno sfortunato pretendente al trono ottomano venuto in Europa a cercare aiuto contro il fratello e rivale Bajezit e morto di polmonite nel 1495 a Napoli dove si trovava ospite — ostaggio di Carlo VIII — viene fatto uccidere dal malvagio pontefice, ovviamente col veleno. E mi fermo qui. Ma, a proposito di veleni, in questo brutto pasticciaccio televisivo ce ne sono davvero tanti.
    Papa Borgia avvelenato per fiction | Cultura | www.avvenire.it

    Cristo vs Anticristo: per chi tifa il Corriere
    di Roberto Dal Bosco
    Mercoledì 27 febbraio 2013. Alla vigilia del giorno in cui il soglio pontificio diverrà “sede vacante”, il Corriere manda in stampa, in apertura delle pagine culturali, una corposa recensione di Giorgio Montefoschi rispetto al libro "Il potere che frena" di Massimo Cacciari, in uscita per Adelphi. “La Fede e la grazia, unici rimedi contro le insidie dell’Anticristo” dice il titolo. «il Signore Gesù non verrà prima del compiersi dell’opera del suo Avversario, l’Anticristo». Seguono ampie citazioni sulla realtà dell'Anticristo, in ispecie una presa dalla "Demonstratio de Christo et Antichristo" di Ippolito (170-235):
    «Cristo è Re, ma è Re anche l’Anticristo (...) il Salvatore è apparso in forma di uomo, e l’Anticristo ugualmente si mostrerà in sembianze umane (...) Il Salvatore ha fatto della sua santa carne un tempio; l’Anticristo, allo stesso modo, innalzerà il tempio di Gerusalemme costruito in pietra».
    Ma a prevenire l'arrivo dell'Anticristo, ad arrestare la sua avanzata, c'è un ostacolo, qualcosa che “trattiene” la sua manifestazione completa: in pratica, parliamo di un argine tra la terra e l’inferno. Si tratta di un concetto molto preciso, sul quale il filosofo Veneziano più volte si è speso: «La parola greca usata per definire la forza che “trattiene”, questa forza che “frena” il trionfo dell’avversario - vale a dire l’apostasia, l’abiura della religione cristiana - è la parola Katechon».
    Sorge quindi la domanda: questo *katechon*, «questa diga che si oppone» al dominio dell'Anticristo, chi la rappresenta in realtà? È il potere politico che trattiene il mondo dal cadere tra le fauci dell'Anticristo? Oppure «la stessa Chiesa che, trattenendo gli anticristi confusi al popolo dei credenti, impedisce l’esplosione dell’Anticristo?». Seguono lodi alle pagine «lucide e terrificanti» che Cacciari dedica alla Chiesa, poiché, ci informa il pezzo, potrebbe essere vero che «l’iniquità è già in atto». «L’Anticristo forma una comunità a immagine capovolta della *ekklesia*(...) ma è anche vero che molti anticristi sono usciti dalla Chiesa ma molti vi rimangono (...) la Chiesa “trattiene”, “frena” l’avvento dell’avversario (...) però è pure dimora degli anticristi»: se si voleva trasmettere l’idea di una Chiesa in crisi, non credo ci fosse una immagine più apocalittica. Vengono in mente le prime pagine di un vecchio saggio oramai introvabile, "Gli Adelphi della dissoluzione", di Maurizio Blondet. Ad aprire questo libro, talmente inquietante da essere diventato quasi tabù, era proprio un virgolettato del Cacciari: «Il Papa deve smettere di fare "katechon"», diceva il filosofo lagunare nell'incipit di una intervista che apriva il libro, poi seguivano pagine di vertigine apocalittica, che qui non discuteremo.
    Quello che importa, è che quello che venti anni fa si poteva leggere in libri di oscure nicchie, ora va impudicamente sulle pagine del maggiore quotidiano nazionale. È evidente: c’è un ampio strato dell’establishment di potere italiano - magari quello più impastato di certe idee, diciamo così, “esoteriche” - che sta vedendo il momento della rinuncia di Benedetto XVI come una grande possibilità, ed è eccitato sino a sorprendenti "coming out" eretico-apocalittici. Lo avevamo notato la settimana passata con Severino (“Se gli intellettuali evocano Satana”), ora il Corriere ripropone gli stessi febbrili temi a distanza di pochi giorni.
    «La Chiesa non può fingere eterna durata»: quasi un avvertimento. Poi le bombe teologiche: «la Chiesa non salva. La vera salvezza viene dalla Fede. E dalla Grazia». Scrive Cacciari: «Il tempo si riassoribirà (...) accolto nel Dio-Luce di Giovanni». Non siamo sicuri del fatto che il “Dio-luce” di cui parla Cacciari non sia proprio Lucifero. Nel Vangelo è scritto che egli non prevarrà sulla Chiesa di Cristo (Mt 16, 17-19). Al Corriere - e non solo lì - ora vedono la possibilità di convincerci che le cose stanno diversamente.
    La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Cristo vs Anticristo: per chi tifa il Corriere



    ORA NON POSSONO NON SAPERE - IL RAPPORTO SU VATILEAKS DEI CARDINALI HERRANZ, TOMKO E DE GIORGI NON VERRA’ PUBBLICATO MA ILLUSTRATO PRIMA DEL CONCLAVE - NELLE CARTE RIVELAZIONI DETTAGLIATE SU IOR E NORME ANTIRICICLAGGIO, CORRUZIONE IN CURIA, ISTITUTO TONIOLO, CASO ORLANDI E DISOBBEDIENZA NEI CONFRONTI DEL PAPA - QUALCHE “ELETTORE” SI TROVERA’ IN IMBARAZZO, MA LA “PURIFICAZIONE RATZINGERIANA” VA AVANTI… -
    Giacomo Galeazzi per La Stampa
    Sebbene il rapporto «top secret» su Vatileaks non verrà pubblicato, i tre porporati che hanno svolto le indagini sono liberi di parlarne agli altri porporati prima del Conclave, mettendo probabilmente in imbarazzo qualche elettore. Benedetto XVI ha deciso che il dossier messo a punto dagli inquirenti Herranz, Tomko e De Giorgi restino riservati e siano trasmessi solo al prossimo Pontefice. Ma quell'indagine non esce dalla grande partita del conclave. Anzi diventa il simbolo della «purificazione» ratzingeriana contro scandali sessuali e finanziari in Curia.
    Perché sui suoi contenuti, chiarisce il portavoce padre Federico Lombardi, «le persone responsabili, compresi i tre cardinali del collegio d'inchiesta, sapranno in che misura possono e devono dare a chi li richiede elementi utili per valutare la situazione e scegliere il nuovo Papa».
    Se la commissione cardinalizia su Vatileaks da ieri è formalmente «sciolta», l'esito del suo lavoro potrà essere uno degli elementi a disposizione delle congregazioni generali che inizieranno a riunirsi nei prossimi giorni, in quella fase di preparazione in cui i conclavisti si incontrano, si consigliano, si aiutano a comprendere le situazioni e ad approfondirle.
    Una bussola per orientarsi nella scelta del successore di Ratzinger. Per segnare l'importanza della sua decisione,e il valore di quel documento coperto da segreto pontificio, Benedetto XVI (in uno degli ultimi atti sul Soglio di Pietro) ha voluto ricevere in udienza privata i tre porporati accompagnati dal segretario, il cappuccino Luigi Martignani, per ringraziarli del lavoro svolto ed esprimere soddisfazione per gli esiti dell'inchiesta. Un lavoro da cui escono «limiti e imperfezioni propri della componente umana di ogni istituzione», ma anche «la generosità, rettitudine e dedizione di quanti lavorano nella Santa Sede». Quei limiti e quelle imperfezioni potrebbero ora passare al vaglio degli elettori.
    Di fatto la commissione, annunciata a metà marzo 2012 e in attività dalla fine di aprile, è stata istituita per fare chiarezza sulla fuga dei documenti dalle mura vaticane scattata all'inizio dell'anno scorso e proseguita per mesi. È divenuta un osservatorio sui mali del Vaticano.
    Quelle carte riguardano, a vario titolo, Ior e norme antiriciclaggio, episodi di corruzione in Curia, il controllo dell'Istituto Toniolo, il caso Orlandi e la disobbedienza nei confronti del Papa. I cardinali, guidati da Herranz, giurista dell'Opus Dei, hanno effettuato decine di audizioni, (oltre cento) con un ritmo di quattro, cinque a settimana. Sono stati ascoltati sia ecclesiastici sia laici e «soprattutto officiali dei dicasteri di Curia» ha spiegato lo stesso Herranz.
    Un'indagine parallela a quella di gendarmi e magistrati vaticani. Tra le persone interrogate, anche Paolo Gabriele, l'ex maggiordomo del Papa condannato e poi graziato per il furto dei documenti dall'appartamento pontificio. Per capire il peso di un dossier segreto ai più, ma così importante da rappresentare un'eredità per il futuro Papa, bisogna valutarlo con le categorie della Chiesa e per le implicazioni che può avere nella vita ecclesiastica. Tenendo presente che anche in questo consesso «le divisioni ci sono e ci sono sempre state, così come le violente contrapposizioni di linee ideologiche», per ammissione dello stesso Herranz.
    Queste circostanze, pur non nuove, «hanno un peso». Adesso, per volontà di Benedetto XVI, i tre porporati inquirenti sono liberi di parlare con gli altri cardinali prima del conclave. «Nessuno potrà più dire di non sapere- chiosano Oltretevere-. Ogni conclavista potrà informarsi direttamente dalla fonte più diretta: i commissari. Il Vangelo docet: solo la verità rende liberi. E aiuta anche a scegliere bene nella Sistina».

    La buona battaglia di Benedetto XVI
    Piero Vassallo
    Benedetto XVI ha svolto il suo compito: ha riabilitato la Fraternità San Pio X, ha iniziato la critica dei testi oscuri del Vaticano II (la Gaudium et Spes e la Nostra Aetate), ha sferrato un duro colpo alla lobby pederastica e ha avviato cautamente la controriforma liturgica. La Chiesa era malata, dopo Benedetto XVI è convalescente.
    Nessuno nega l’esistenza di cardinali pigolanti (dove si vorrebbe un ruggito…) e di situazioni paradossali: la fede di molti si rifugia nelle nude opere o nel “meraviglioso”. Non sono pochi i fedeli (ad esempio) che mai hanno letto il Nuovo Testamento ma leggono e rileggono i libri di Maria Valtorta. Segnali di disarmo pastorale non mancano, dunque. Ma il peggio è passato.
    Benedetto XVI ha rinunciato al papato affermando di non possedere più l’energia necessaria al buon esercizio del potere. Ci sono tanti segni della sua incombente inabilità fisica. Di recente i medici sportivi hanno scoperto la malformazione cardiaca che minacciava un campione di nuoto. Nessuno ha parlato di fuga quando il nuotatore ha rinunciato alla pratica sportiva. Ad impossibilia nemo tenetur (se ricordo il latino…).
    La comparazione con Giovanni Paolo II a mio parere mette fuori strada. La sua croce infatti era il morbo di Parkinson, non il governo della Chiesa; oltretutto ci chiediamo se alla fine Giovanni Paolo II governava o stava a guardare consentendo ai topi di curia di ballare allegramente (e i topi ballano, come ben sanno gli animalisti). La Chiesa cattolica è in mezzo alla tempesta della modernità agonizzante.
    Pier Paolo Ottonello, un filosofo (amico di Del Noce) descrive il moderno come sistema di «pantani in forma di bagni turchi in cui si ammollano pallidi cascami del trionfo sadiano e dello spappolamento nietzscheano». Avanzano gli spiriti della decomposizione, versione insinuante e “dolce” delle vecchie e temute ideologie. Benedetto XVI ha capito (e dichiarato) che il Vaticano II non aveva proposto una definizione esatta del mondo moderno. Il suo magistero ha colmato la lacuna. Il suo dovere è stato compiuto. Stabilita la strategia – il mondo d’oggi è il nichilismo – l’azione tocca a un capo giovane e risoluto. A 86 anni un cardiopatico non può agire come un condottiero, come il condottiero di cui adesso c’è bisogno. L’abbaglio stampato nell’allocuzione Gaudium et Spes di Giovanni XXIII è stato archiviato. Nell’infondato ottimismo rimangono vescovi marginali e dolci di sale (mons. Paglia, se devo fare nomi) e professorini sparuti e rampanti (talora l’ossimoro contiene la verità) quali Riccardi e Melloni. La potente armata dei cattolici progressisti è al lumicino bolognese. E allo scandalo del Forteto, un affare che infarina la scuola cattocomunista.
    A mio modesto avviso l’uomo che potrebbe continuare l’opera magnificamente incominciata da Benedetto XVI è il cardinale Mauro Piacenza, uomo saggio, di sicura dottrina, di buon carattere, uomo tanto risoluto quanto rispettoso delle persone e delle forme. Il card. Piacenza si è formato alla scuola del card. Giuseppe Siri, candidato “impossibile” alla fine degli anni settanta. Non impossibile oggi la sua “figura”, perché il mondo cattolico ha visto il crollo degli aquiloni che innamoravano Giovanni XXIII e i conciliaristi: un “Siri”, nella persona del suo migliore e virtuoso discepolo. La prova che la storia a volte gira su se stessa: Benedetto XVI ha preparato la strada (spinosa e contestata) a un successore forte… Adesso speriamo nella saggezza del conclave.
    La buona battaglia di Benedetto XVI (P. Vassallo)

    I sotterranei del Vaticano e la luminosa finestra del papa
    La Chiesa di Roma è dipinta dai media come un museo degli orrori. Nel passato capitò anche di peggio. Ma cinquecento anni fa un papa fece il miracolo, che oggi tutto il mondo ammira. Una lezione per l'imminente conclave
    di Sandro Magister
    ROMA, 25 febbraio 2013 – Alcuni giornali in questi giorni gareggiano nel diffondere un ritratto della Chiesa a tinte fosche. Tutta intrighi, avidità, tradimenti, morbosità sessuali. Benedetto XVI si sarebbe arreso, travolto da questa abiezione. Che avrebbe infettato anche il collegio cardinalizio chiamato a eleggere il successore.
    È una narrazione, questa, che deliberatamente oscura la vera identità del pontificato che sta per finire e la posta in gioco della scelta del nuovo papa. Ci prova, ma non ci riuscirà. Perché in gioco sono il destino della civiltà umana come la vita di ogni singolo uomo. I discorsi di Benedetto XVI a Ratisbona, ai Bernardins, al Bundestag, le sue omelie, il suo magistero hanno aperto un confronto tra la Chiesa e il mondo moderno di portata storica, sulle questioni ultime, fondanti, che è impossibile accantonare.
    Cinquecento anni fa esatti, proprio in questi giorni, moriva Giulio II, il papa che chiamò Michelangelo ad affrescare il soffitto della Sistina, la cappella nella quale i cardinali si chiuderanno tra breve ad eleggere il nuovo papa. Anche allora la Chiesa romana era piena di peccati e di peccatori, era la Babilonia descritta con orrore da Martin Lutero.
    Prima di Giulio II aveva regnato Alessandro VI, al secolo Rodrigo de Borja, il cui figlio Cesare aveva ispirato "Il Principe" a Machiavelli. E lo stesso Giulio II era uomo d'arme, che ancora avanti negli anni, con la spada in pugno, muoveva all'assalto della fortezza della Mirandola.
    Eppure, quando affrontò la morte, il 21 febbraio del 1513, le cronache lo descrissero "con tanta devotione et contrizione che pareva un santo". Eppure, oltre alle campagne militari e alle trame politiche per assicurare alla Chiesa romana autonomia e libertà dalle potenze dell'epoca, papa Giuliano della Rovere fu portatore di una visione teologica e sapienziale grandiosa, di una inaudita sintesi tra la fede cristiana e la civiltà classica, tra "fides" e "ratio", meravigliosamente infusa in capolavori d'arte che oggi il mondo intero ammira stupito. Di papa Giulio II è questo che resta. È questa la sua vera identità, il suo messaggio immortale.
    A questo papa, nel giorno anniversario della morte, il 21 febbraio, "L'Osservatore Romano" ha dedicato un'intera pagina, aperta da un suo avvincente ritratto scritto da Antonio Paolucci, il direttore dei Musei Vaticani.
    Perché anche i Musei Vaticani, nel loro nucleo iniziale, furono geniale invenzione di Giulio II. Con le statue antiche fatte collocare nei giardini del Belvedere dal suo architetto di fiducia, il Bramante. Con le stanze dell'appartamento papale fatte affrescare da Raffaello, con vista sugli stessi giardini.
    Sabato 23 febbraio, nel concludere gli esercizi spirituali, papa Joseph Ratzinger è tornato ancora una volta proprio sul legame a lui carissimo tra la ragione e l'arte, tra la verità e la bellezza, pur contraddette "dal male di questo mondo, dalla sofferenza, dalla corruzione":
    "I teologi medievali traducevano la parola ‘logos’ non solo con ‘verbum’, ma anche con ‘ars’: ‘verbum’ e ‘ars’ sono intercambiabili. Solo con queste due parole insieme appare, per i teologi medievali, tutto il significato della parola ‘logos’. Il ‘logos’ non è solo una ragione matematica; il ‘logos’ ha un cuore: il ‘logos’ è anche amore. La verità è bella e la verità e la bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità".







    Le sentinelle
    Pubblicato da Berlicche
    La mano gentile si appoggiò sulla spalla di Piotr e lo scosse leggermente. Piotr aprì gli occhi.
    La prima cosa che notò fu che era ancora buio. Questo era strano. Il suo turno sarebbe dovuto cominciare al sorgere del sole, e con tutta evidenza all’alba mancava ancora un po’. Il cielo si stava trascolorando appena sopra i monti, un tocco di azzurro, un bisbiglìo di rosa del giorno che sarebbe giunto.
    Poi prese coscienza dell’uomo accanto a lui. Si rizzò a sedere, allarmato.
    “Che succede? Un’emergenza? Arriva il nemico?”
    Benoit scosse la testa, sorridendo come suo solito. I suoi fini capelli bianchi rilucevano quasi, alla luce fioca della luna al tramonto. “Il nemico arriva sempre, ma non è per questo che ti ho svegliato. Su, véstiti.”.
    Tutt’intorno era silenzio, quel silenzio carico dell’attesa che precede l’avvento del nuovo giorno. Scricchiolii di tronchi, e l’acuto doloroso canto degli uccelli notturni lo macchiavano. Ancora non si era levato il vento dell’alba.
    “Che succede allora?” Piotr buttò di lato la coperta e cominciò a infilarsi le scarpe.
    “Vorrei che tu cominciassi il tuo turno un poco prima.” disse Benoit.
    Piotr si fermò, con la scarpa mezza infilata. “Perché? Cosa accade?”
    Benoit sospirò. “Sono stato sveglio tutta la notte, Piotr, e adesso non ce la faccio più.”
    A quelle parole Piotr spalancò gli occhi. Non farcela più? Benoit era il migliore di tutti. Preciso, coscienzioso, tutte le sentinelle gli dovevano la vita o, al minimo, riconoscenza e gratitudine. Gran parte di quello che Piotr sapeva l’aveva imparato da lui. Quante battaglie vinte, quanti assalti sventati per la sua lungimiranza ed esperienza. Veterano di mille notti e mille lotte, era l’affidabilità fatta persona, una dei pochissimi di cui si fidava ciecamente.
    Ma neanche la luce fioca poteva nascondere le occhiaie profonde, il volto invecchiato e segnato, la postura più curva di un tempo. Gli anni erano passati. Il tempo colpisce e non si ferma.
    Tutto questo Piotr lo vide e lo capì con uno sguardo.
    Essere una sentinella vuol dire sapere valutare la situazione. La sentinella è il sottile muro tra il pericolo che arriva dalla notte e coloro che protegge. Un muro fatto di carne e di sangue. Il sangue diventa denso e tardo, la carne si secca e raggrinzisce, si indebolisce. La carne può fallire. La sentinella non può fallire perché ad essa è affidata la vita, l’incolumità, l’esistenza di coloro i quali protegge.
    La sentinella deve vegliare su quanto arriva da fuori e quanto può fallire da dentro. Può, deve, gettare l’allarme anche su di sé. Una fortezza non è più forte degli uomini che la difendono.
    Fu Piotr, adesso, che mise la mano sulla spalla di Benoit. “Va pure a riposare. Il tuo turno è finito,” disse dolcemente “adesso comincia il mio.”
    Finì di infilarsi le scarpe. Già gli occhi saettavano al confine, ai pericoli nascosti dalle scure ombre della notte che lentamente si schiariva.
    Le sentinelle | Berlicche


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    Predefinito Re: Rif: Il Verbo di Dio si è fatto carne

    Lecco avrà un Papa? Die Welt “scommette” sul cardinale Scola
    Lecco - Die Welt ha in tasca il nome del futuro Papa: si tratta del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, lecchese di Malgrate. Secondo l'importante quotidiano tedesco, i cardinali italiani vorrebbero un loro connazionale al soglio pontificio, dopo lo straniero Joseph Ratzinger.
    NIENTE AVVENTURISMI. Die Welt giudica la figura di Scola rassicurante per i fedeli: "Di lui gli italiani si fidano", afferma il giornale. Per la Chiesa cattolica, dunque, si intende escludere il rischio di ogni avventurismo. Il quotidiano tedesco non teme di "bruciare" la candidatura del prelato lecchese, in considerazione del detto per cui chi entra da Papa in conclave esce cardinale. Die Welt fa notare che l'eccezione a questa regola avvenne proprio con Joseph Ratzinger, "fin dall'inizio grande favorito" ed effettivamente diventato il 267° successore dell'apostolo Pietro.
    RIVENDICAZIONE OMOSEX. Di Scola i fedeli lecchesi ricordano la visita alla parrocchia del Caleotto, in festa per la Dedicazione a san Giuseppe. Si era nel pieno della bufera per la rivendicazione omosex di don Mario Bonfanti, coadiutore in una parrocchia della Brianza, poi incorso nella scomunica. In una Curia da lungo tempo assente, il cardinale provò a portare un po' di ordine, almeno tra le coscienze dei fedeli. "Siamo stati creati fin dall'origine o come uomini o come donne", ribadì l'arcivescovo nella sua omelia al Caleotto. "Viviamo - affermò - dentro questa differenza sessuale, questo ci è dato per aprirci all'altro, imparare un amore fecondo che genera la vita e pertanto noi proponiamo a tutta la società la bellezza del matrimonio come unione fedele stabile, unione aperta alla vita tra un uomo e una donna: ecco il modo solido e pacifico di stare dentro la realtà per quanto riguarda gli affetti".
    TERTIUM NON DATUR. Uomo e donna, tertium non datur: questo il comportamento, aggiunse il cardinale, di un "uomo che ha un rapporto serio con Dio, con gli altri e con se stesso". Insomma, nelle parole di Scola, il richiamo alla fede consapevole, qualcosa di cui fidarsi, come sostiene Die Welt. Ma oggi c'è un'altro nome a cui pensano molti cattolici: quello del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, successore di quella eccezionale figura di solerte pastore che fu il cardinale Giacomo Biffi. Come il suo predecessore, Caffarra ha dimostrato energia e saldezza di fede, ammonendo i politici sedicenti cattolici sul piano della coerenza. Chissà che la scelta del prossimo Papa non si giochi proprio tra il Resegone e le Due Torri.
    Lecco avrà un Papa? Die Welt “scommette” sul cardinale Scola - - CHIESA - Il Corriere di Lecco

    HO PERSO LA TESTA PER BERNARDINO
    Antonio Margheriti Mastino
    Non avevo per niente in programma queste righe, del resto qua e là già abbozzate sul mio facebook. Mi sono deciso proprio 5 minuti prima a montarle in un articolo.
    Anzitutto bisogna informarvi che questo sito è affidato al patronato di san Bernardino da Siena. Ma non è solo per questo. È più privata la cosa. Ossia: sono ansioso di comunicarvi che ho non solo un nuovo santo protettore fra i maggiori, ma anche un nuovissimo e caro amico: san Bernardino da Siena appunto, predicatore francescano che fu una celebrità nel ‘400, agli sgoccioli del Medioevo, agli albori del Rinascimento. Grande pratico moralista, occhio di lince a cui nulla sfuggiva dei cliché della gente comune. Fisico curioso assai, invecchiato anzitempo, segaligno, faccia incavata e completamente sdentata… e proprio perciò personaggio di ascendente irresistibile. Lingua prodigiosa, oratore fra i più amati e che da tutti si faceva intendere proprio per questo suo occuparsi del Vangelo applicato alla più minuta quotidianità di ciascuno, con salaci parole comuni, “volgari”; a uso e consumo degli ascoltatori si faceva inventore instancabile di provvidenziali neologismi che servivano a definire in una sola parola popolaresca intere categorie di vizi e virtù. Non a caso le sue sono le prime prediche trascritte e raccolte in volgare e così tramandateci.
    Ma soprattutto era capace sceneggiatore e regista di se stesso, abilissimo nei tripli salti mortali retorici nei quali riusciva d’improvviso a mutare registro, passando dal dramma all’indignazione, all’ironia a veri e propri scoppi voluti di comicità travolgente: apocalittico e tragico quasi mai. Un grande divulgatore, un creatore di storie e di immagini, un vero uomo di sacro spettacolo, se vogliamo. In ogni caso, il primo comunicatore veramente moderno, quasi vorresti dire contemporaneo, della Chiesa… Non fosse che la Chiesa attuale proprio di comunicatori “contemporanei” manca, afflitta com’è da stitichezza intellettualistica e da anacronismo proprio del clericalismo progressista e “aggiornato”. Un Bernardino da Siena oggi, avrebbe fatto, con sola predica comparata, impallidire e sciogliere dalla vergogna tutti i “profeti” cattolici da rotocalco, i vari Martini, Ravasi, Mancuso ed altri clericali vanesi patologici.
    Ma non è che vi voglio raccontare la storia da ammirare e da ridere di Bernardino, no. Volevo solo comunicarvi che me ne sono innamorato: è un vizio ormai, non ne posso fare più a meno. Chi ultimamente viene a trovarmi mi coglie sempre con in mano un qualche libro su Bernardino e ancora più spesso con qualche volume delle sue Prediche in volgare. Su Facebook i miei contatti si sono abituati al mio vezzo ultimo di citare il Bernardino per ogni dove, non appena si presenti una scusa plausibile.
    QUELLA CERTA STRANA ANTIPATIA PER LE “VIDUE”
    Con Bernardino da Siena con fai a no ride’?! In molte cose è davvero un uomo del suo tempo che ha fatto il suo tempo. Così molte sue prediche. Mi crogiolavo adesso, per esempio, nelle sue Prediche inedite. Lingua ispida e terribile, sorniona anche, scorrettissima quasi sempre, senese doc, diciamo, in ogni predica. Ma in quelle sulle vedove esagera: non si capisce perché ce le abbia tanto, se non in antipatia, in sospetto, quelle “allegre” quant’altre mai. Quelle che si risposano peggio.
    Mi crepo quando arrivo al paragrafo delle Prediche inedite che così inizia e poi prosegue:
    “Dopo le vidue (vedove) del dimonio, guardati dalla vecchie rincagnate (intende piuttosto le vecchie paraninfe e ruffiane, canute e incarognite), che vanno a vendere gli paternostri e coralli [...] E se ti viene più (ancora) in casa, come gli è in capo di scala, e tu gli dà la pinta (spinta), e gittala giù per la scala: s’ella ti mette pensiero di pigliare marito di nuovo“.
    Ma si può?! Io so’ morto! Poi dite esagero io: ma leggetevi il mio prediletto Bernardino… e vedrete!
    “DATE TANTA PUZA A’ VOSTRI MARITI, CHE VOI GLI FATE DIVENTARE SODOMITI!”
    Ma attenzione: se per molte cose è uomo del suo tempo, Bernardino per l’altro verso è uomo ben oltre il suo tempo. Molto oltre.
    Quando dice per esempio che il marito non ha diritto a pretendere dalla moglie virtù che egli stesso non ha, concetto curioso assai per l’epoca. O quando afferma che il marito ha il dovere di aiutare nelle faccende la moglie quando questa è già in una fase avanzata da “nutria”, di gravidanza. Quando non si dichiara contrario all’istruzione delle donne, le giovanissime soprattutto. Quando – ed è un pioniere, specialmente se paragonato all’ambito laico – rivendica per la donna il diritto d’essere trattata con gentilezza e cortesia dagli uomini; o a riconoscere solo in casi estremi e circoscritti il sacrosanto diritto del marito a “bastonarla”, pratica d’altronde non solo legale ma persino consigliata dalle leggi suntuarie comunali dell’epoca. Quando addirittura arriva (e qui era stato anticipato da molti, e da secoli, nella stessa Chiesa) a dire che la donna deve avere voce in capitolo, e grande, magari il veto proprio, allorché si tratterà di scegliere un marito per lei (all’epoca erano i genitori a combinare i matrimoni).
    Poi posa il suo occhietto vispo e chirurgico sulle donne di Siena, che passavano giornate sui tetti, sotto il sole a imbiondirsi i capelli. O, peggio – è lui che racconta –, talune altre che per rendere più bianca la pelle, ricorrevano non solo al latte d’asina, ma a lozioni a base di zolfo e di sublimato che spesso e volentieri generavano un odore acre: “A chi puzza la boca per lo lisciare (quante ci so’ di quelle che hanno guasta i denti per lo lisciare?); chi s’insolfa; chi s’imbratta con una cosa e chi con un’altra; e date tanta puza a’ vostri mariti, che voi gli fate diventare sodomiti!”. E qui so’ morto dalle risate.
    Poi va oltre, denotando una concretezza raspante: “Tiene a mente che questa è operazione del diavolo per fare fiaccare il collo a te a lui [il marito], e per aver l’anima dell’uno e dell’altro. Non ti maravigliare se ‘l tuo marito non ti vuole vedere; tu te n’hai colpa”. E passando come sua consuetudine dalla reprimenda all’ironia, e da questa al comico, così conclude circa le vanità deleterie delle donne di Siena e Firenze: “Perché ti poni a imbiondire, a seccarti el capo al sole, immolla e asciuga, immolla e asciuga? Laverassi il capo tre volti la settimana et poi starà tutto il dì a seccare al sole […] Intanto che il tempo se ne fugge…. Il tempo che vi spende… in fare bello il corpo, se ella lo spendesse nell’anima… ella doventerebbe Santa Caterina!”. Etcetera.
    In questo, Bernardino non è solo uomo “moderno”, ma contemporaneo. Ed è un altro miracolo di quella Chiesa cattolica che quando ha voluto essere se stessa sino in fondo, rifiutando cioè di appartenere a un tempo e insieme decidendo di appartenere a tutti i tempi – ossia a prescinderne in ogni caso, restando al di sopra dei tempi, oltre i tempi, verticalmente proiettata verso l’eterno – a rimirarla poi, dopo secoli, oggi per esempio, incanta, lascia a bocca aperta, meraviglia e commuove. Per la sua lungimiranza. Fa innamorare anche.
    QUEL MEDIOEVO COSÌ… PRATICO, COSÌ POLITICAMENTE SCORRETTO. COSÌ UMANO
    Il Medioevo non è stato solo l’era delle grandi architetture teologiche, filosofiche, economiche; dove l’escatologia si era fatta carne e la carne escatologia: è stato anche un periodo molto pratico, pieno di ironia. Praticone proprio, talora.
    Nei miei studi bernardiniani, leggendo (non ne posso fare a meno) le note (ci trovi dentro le cose più curiose del libro) scopro fatti stravaganti assai ma efficaci, in uso all’epoca.
    Prendi questa. Quando un uomo, specie se più anziano e autorevole, voleva che qualcuno memorizzasse una cosa importante per non mai più scordarsene, ingannevolmente lo chiamava a sé con un sorriso generoso. Appena che il designato gli si era avvicinato, di scatto tirava fuori il bastone e lo bastonava de brutto. Dopodiché procedeva a raccontargli, come nulla fosse, la cosa importante da mandare a memoria per il resto della vita. Ed era qui il nucleo del marchingegno: la memoria, ovunque e in ogni tempo, avrebbe ricollegato al ricordo di quelle indimenticabili bastonate le parole che aveva un attimo dopo udito e memorizzato dal bastonatore. Capitò al giovane novizio Bernardino da Siena, ad opera di un anziano frate che a tal proposito lo aveva convocato nella sua cella alla Colombaia, il romitorio francescano sperduta sul selvatico Monte Amiata, presso Siena.
    San Bernardino da Siena era un grande predicatore: una vera star nazional-popolare dell’epoca sua (del resto, non ha fatto altro per 40 anni che andare a piedi su e giù per l’Italia centro-settentrionale, a predicare… incontrando migliaia di persone, venendo ospitato da centinaia di famiglie); fama che si irradia sino ai nostri giorni, stante pure il fatto che le sue prediche furono le prime ad essere trascritte e raccolte in volgare e così pittoresche (quando non comiche) pervenuteci. Ove andava Bernardino a predicare, era un agitarsi di popolo, un grande evento mondano al quale accorrevano tutti, appuntamento ambitissimo da principi e miserabili: quasi un teatro, così come anch’egli era un ironico teatrante (e del resto, dicevamo, ne aveva il fisico e l’ameno viso, oltre all’istinto). Allora Bernardino si inventa il famoso monogramma “YHS” e ne fa il suo onnipresente marchio, presto adottato da molti conventi e dagli stessi comuni che l’affiggevano sulle proprie mura in suo omaggio, per ricambiare l’onore d’aver scelto la loro piazza per un ciclo di prediche e commemorarne così ai posteri il “passaggio”.
    QUELL’AMBIGUA FISSA DI BERNARDINO: FAR LEGGERE LA BIBBIA A TUTTI. DONNE COMPRESE
    Dio solo sa quanto certe volte Bernardino le frantumava in ogni predica allorché tirava fuori la solita storia: “l’ignoranzia”. Scandalizzandosene e brontolando punto e momento della “insipienza” della plebe e delle aristocrazie, del clero e specialmente dei frati. Tutte categorie che per lui dovevano essere necessariamente “istruite, foss’anche per lieggere solo la Bibbia”. Perciò riteneva se non indispensabile almeno utile che anche le donne imparassero a leggere: per edificarsi con la lettura dei testi sacri e devoti.
    Una richiesta parecchio stramba per l’epoca, essendo molto cauta in materia la Chiesa cattolica, rettamente individuando i pericoli (per la fede) della diffusione e volgarizzazione delle Scritture. Ma sai com’è… con l’Umanesimo, con gli Erasmo e le loro classicheggianti traduzioni di Bibbie già tradotta da san Gerolamo, la cosa cominciava ad assumere una certa bellicosa importanza negli ambienti che contavano. Non fu un caso quel che successe circa un trentennio dopo nella Germanie. Quando arrivò Lutero a buttare tutto all’aria e a proclamare che una cosa soltanto contava: il Sola Scriptura, e tutto il resto era niente.
    Si capì solo allora quanto la Chiesa avesse avuto ragione a stare accorta a non incoraggiare troppo certe smanie divulgative e fai da te. Sapeva la Chiesa che ogni volta che nella sua storia qualcuno si era alzato in piedi e impugnando un libro aveva gridato “ritorniamo alla Bibbia”, era perché voleva andarsene, rompere prima con la Chiesa, poi pure dal cristianesimo dopo aver possibilmente anche sfasciato tutto quanto. È successo pure con l’ultimo Concilio: proprio quelli che per primi gridarono, Libro alla mano, “torniamo alla Parola”, sono coloro che dopo aver “demitizzato” ogni singolo fatto della Rivelazione, prima cassarono il Vecchio Testamento, poi cassarono la Dottrina, dopo tutta la Chiesa, infine cassarono pure il Vangelo stesso e chiusero per mai più riaprirlo il Libro: lo sostituirono con i libri sacri delle varie ideologie di moda, passate le quali rimase la loro sola parola, le loro sole scritture (i libri che firmavano), il solo ego, il solo loro “secondo me”, assurto a dogma. Tutte queste cose la Chiesa, nella sua millenaria sapienza, non solo le intuiva ma le sapeva.
    E BERNARDINO (FORSE) LA SPARA GROSSA: “MEGLIO PERDERSI LA MESSA CHE LA PREDICA”
    Detto questo, m’ha fatto sobbalzare – e ha fatto sobbalzare anche la sua biografa, Iris Origo – quando ho letto certe affermazioni di Bernardino, che avresti visto bene in bocca al più vieto spiritato del Concilio. Che suonerebbero incredibili e misteriose, non sapessimo di già questa fissazione ch’egli aveva per la “ignoranzia” che impediva “leggasi la Bibia” e capire ciò che lì dentro “vuolsi favellare”; incomprensibili, se non intuissimo anche in che misura sopravvalutasse, più di quanto fosse lecito, il suo mestiere di predicatore, che poi era la sua vita stessa. Tanto più che riteneva la missione di predicatore così impegnativa e totalizzante da rifiutarsi di confessare e battezzare, o dispensare consigli pratici a chi gliene chiedesse: lo facessero altri, non era quello il suo “mestiere”. Intollerabili, se non sapessimo quanto egli – naturaliter figlio dell’epoca umanistica e va da sé in tante cose precursore del Rinascimento – avesse a cuore l’eloquenza: di quella parola pronunciata, che, precisava, doveva sempre essere un “Dire chiaro… dire brieve… dire bello”. E insiste molto sul “favellare chiarozzo chiarozzo”.
    Ed è così che un giorno arriva a dire, mentre il volontario scrivano annota concitato la predica sulle tavolette a cera (per poi precisare che ha smesso di scrivere “perché ho finito le tavolette”… e menomale!), che se uno ha solo il tempo di ascoltare o la messa o la predica, “tu debbi piuttosto lassare la messa che la predica”. Cosa che ricordava tanto quei preti arroganti e rintronati che alle porte delle loro chiese affiggono l’avviso “vietato circolare in chiesa fino alla conclusione della predica”… dopodiché ognuno faccia che vuole: cos’è la Consacrazione al confronto dei “secondo me” più o meno sediziosi d’un chierico?!
    Ma a questo punto è Bernardino stesso che, spirito pratico com’è, scioglie in parte l’equivoco. Consapevole dell’ignoranza religiosa dilagante, allora come oggi con tutto che siamo istruiti, egli precisa: “Dimmi: che crederesti tu nel santo Sacramento dell’altare, se non fusse stato la santa predicazione che tu hai udito? … Più: che sapresti tu che cosa fusse peccato, se non per mezzo della predicazione?… Tutte le cose che tu sai, vengono dalla parola udita dall’orecchia tua”… S’è salvato in calcio d’angolo! Come dire: se non ci fossero i predicatori non ci sarebbe la comunità cristiana. Diciamo che forse esagerava, diciamo così…
    TANTO ANSIMÒ CHE SI DISONORÒ
    Bernardino da Siena, oratore puro, che voleva sudarsi l’attenzione del suo pubblico, a costo di far svegliare di soprassalto e a malaparole, additando a tutti chi durante le sue minino tre ore di predica s’era assopito, non solo era uno che studiava a fondo l’argomento della predica e se lo preparava giorni prima (il talento non basta per ottenere uno scopo: occorrono le sudate carte, ed è oggi la ragione principale dell’ammorbante quando non traviante, in ogni caso soporifera persino quando dice eresie, omiletica moderna); ma ha avuto sempre in gran dispetto i trucchetti un po’ dozzinali con cui molti predicatori medievali “animavano” le loro prediche forse un po’ mancanti di concretezza.
    Per esempio, ancora all’epoca di Bernardino e poi anche dopo, sino al Concilio Tridentino, molti predicatori professionisti, saliti sul pulpito e parlando magari, che so, delle anime dell’inferno, usavano nascondere sotto l’impalcatura degli “animatori”. Vale a dire gente che lanciava urla, strepitava, sbraitava, imprecava, percuoteva strumenti vari, per simulare la disperazione delle anime perdute e le voci dei demoni e il contesto infernale. Certe volte simulavano pure il paradiso.
    Si narra che quando il padre domenicano Dominici, celebre predicatore medievale un po’ troppo misogino e apocalittico, facendosi prendere la mano, ebbe la balzana idea di far simulare sotto il pulpito, coperti da tendoni, pure gli orrori della concupiscenza… tutti rimasero meravigliati dal realismo sonoro della messinscena. E più che messinscena, quella volta si rasentò proprio il primo pornazzo della storia. E infatti fu, pare, se non una vera e propria ingroppata, certamente qualcosa che di poco la precedette, se è vero come è vero che la simulatrice (ma mica tanto) perse seduta stante l’onore. A furia di rivoltarsi sotto le tende del pulpito, i due provetti amanti s’impigliarono nelle tende: che caddero sotto gli occhi costernati dei fedeli e del padre Dominici, che perse i sensi.
    QUANDO AI TEMPI DI BERNARDINO LE CHIESE ERANO UN CIRCO. PROPRIO COME OGGI
    Ma c’era all’epoca di Bernardino un’altra usanza “strana”, per dire il meno. Vi riporto quanto leggo in una delle sue biografie, la più bella e rigorosa (a mio parere), scritta dalla rimpianta Iris Origo: “Era normale all’epoca di Bernardino considerare le chiese come luoghi anche di divertimento. In esse a volte si giocava ad azzardo e si ballava; nelle chiese qualche volta si recitavano parodie delle sacre rappresentazioni, oppure si svolgeva la festa dei pazzi, residuo dei Saturnali dell’antica Roma; la festa durava dodici giorni, da Natale all’Epifania, e in essa un arcivescovo dei pazzi veniva solennemente consacrato in chiesa e distribuiva false indulgenze ai penitenti, buffoni con maschere grottesche che bruciavano escrementi invece dell’incenso e giocavano a dadi sugli altari”.
    È dimostrato quanto fossero generali questi usi carnevaleschi. Ritenuti “normali” da molti, ma sacrileghi da tanti altri (pare di star a parlare dei nostri giorni, accidenti!). Fra questi ultimi, Bernardino. Che quando anche la città di Perugia li abolisce, le si rivolge con grandi elogi, enumerando e biasimando le tante città, anche toscane, dove non si accennava a farla finita con tale indecenza. Quanto fosse disgustato ed esasperato l’animo di Bernardino, è dimostrato dal fatto che ad un certo punto, si metterà in modo indifferenziato a condannare tutte le sacre rappresentazioni; e giacché c’era, nelle sue prediche latine, cala indignatissimo con la scure su certe specifiche parodie profane delle preghiere della messa, organizzate da studenti.
    Davvero: ogni mondo è paese!
    PERCHÈ I PREDICATORI DOMENICANI MEDIEVALI CI IRRITANO MENTRE QUELLI FRANCESCANI NO?
    Mi spiego facilmente come certe prediche dei domenicani medievali, prendi quelle del padre Giovanni Dominici futuro beato, siano così irritanti (oggi, ma, superati certi limiti, pure allora) e suscitino una certa ripulsa talora, quando non indignazione. Specie se, abbandonando le altissime e stellate volte gotiche della suprema teologia, nella quale eran maestri insuperati, calavano goffamente a inzozzarsi nella bassa cucina delle faccende “domestiche” di tutti i giorni, nella “morale quotidiana” degli individui. Risultando non solo fuoriluogo, ma anacronistici anche per l’epoca.
    Il celebre e misogino predicatore domenicano beato Giovanni Dominici, fra le migliaia di sciocchezze, talora ributtanti, che dice occupandosi di moralità “domestica”, e di donne di casa in particolare, se ne esce con questa: “Che una bambina sia separata dai fratelli maschi sin dall’età di tre anni e che il padre non mostri mai lieto volto alle sue figliole femine, acciò che non s’innamorino della virile faccia…” e prosegue di questo passo, di sciocchezza in sciocchezza, con l’inevitabile sozza malizia di chi gioca troppo d’immaginazione scatenata, a parlare di cose che non conosce e non gli competono, da domenicano qual è.
    Eppure, il suo contemporaneo francescano Bernardino da Siena è sì molto duro, sul doveroso regime quasi monacale di sorveglianza delle fanciulle in casa, ma è duro non in base alla fantasia, ma al suo realismo, al suo occhio da entomologo delle piccole cose della vita al quale nulla sfugge; in virtù del suo spirito empirico che lo fa conoscitore in presa diretta dell’animo umano e delle sue dinamiche. “Ora io dico questo a te, madre, di modo che poi non ti torni in casa la figliuola gravida e tu non sai come è stato”… Scappa un sorriso, ma non è detto non l’avesse messo in conto.
    Ma poi specifica: “Se compito del padre è farsi temere dai figliuoli, compito della madre è consolarli”. Poi fa una lista di virtù che si devono pretendere dai “servizievoli figliuoli” (da tenersi come “degli schiavetti in casa, ma non per nostro beneficio, ma per loro insegnamento”), ma anche una lista dei doveri dei genitori, “ma primo tra tutti l’amore devono dare”.
    Ecco, occuparsi dei singoli, della moralità “casalinga”, fare e insegnare “chiarozzo chiarozzo” pedagogia cristiana a spose e madri, persino economia domestica, invitare severo i mariti ad aver rispetto delle mogli e sostenerne le “fatighe” specialmente “nei travagli delle gravidanze”, tutto questo faceva parte non solo dell’indole di Bernardino, della sua preparazione: parte integrante del carisma del suo stesso Ordine, il Francescano.
    Però qualora si doveva trattare delle supreme cose, toccare le vette dei massimi sistemi, erano i domenicani a volare alto come aquile, i francescani facendo al massimo la figura non dico delle galline ma dei pettirossi sicuramente. E infatti vedi che quando pure i francescani tentavano di volare alto come i domenicani, assai più spesso atterravano in un tonfo da paura: nell’errore e nell’eresia. Nell’utopia e nel populismo. Ma nelle piccole cose erano grandi, i francescani.
    Perché? Appunto per il loro carisma, perché quello era il mestiere dei francescani, distinto assai da quello dei domenicani. Bisogna andare alle origini per capirlo, per non essere ingiusti né con gli uni né con gli altri, e guardare tutto nel suo giusto contesto. Occorre andare con la memoria a quel che il papa Innocenzo IV ordinò a ciascuno di loro nello specifico, come dritta per il loro futuro. A Francesco disse “predicate a tutti la penitenza”. A Domenico disse “combattete l’eresia ed esponete la teologia”.
    Dirà infatti il francescano Bernardino: “O imparato dal nostro padre sancto Francesco, che dice nella nostra regola a’ predicatori: ‘Annunziate a’ popoli virtù e vizi, la gloria e la pena’”. Le piccole cose, in cui si fa grande la vita.
    In questo stava la loro praticità, popolarità, comprensibilità presso i semplici. Era la chiesa domestica, le famiglie, il loro campo di battaglia. Per questo ancora oggi noi ne intendiamo le prediche anche medievali, divertendoci anche; avvertendole in parte moderne, mentre ripropongono i piccoli drammi, le piccole virtù e le piccole viltà degli uomini comuni di ieri. Che fatti bene i conti sono le stesse degli uomini di oggi. I domenicani avevano un altro pubblico e altre priorità: i grandi drammi, la grandi virtù e viltà di quei tempi. Che non sempre corrispondono a quelle dei nostri. Ed è qui forse l’anacronismo di certo loro insegnamento medievale.
    Le piccole cose degli uomini sono sempre le stesse; sono le cose grandi che mutano.
    BERNARDINO. Un incontro | Papalepapale.com







    IL VERO VOLTO DELLA CHIESA NEL SORRISO DI UNA RAGAZZA. CHIARA E IL CONCLAVE
    Antonio Socci
    I mass media continuano a non capire la Chiesa, anche alla vigilia del prossimo Conclave. Per comprenderne il mistero bisognerebbe – per esempio – leggere un libro straordinario, “Solo l’amore resta” (Piemme), dove Chiara Amirante – 45 anni circa – racconta la sua storia. I giornali quasi non sanno chi sia Chiara, ma lo sanno benissimo migliaia di persone che per l’incontro con lei sono usciti dal buio e si sono convertiti (a me ricorda un po’ santa Caterina, un po’ Madre Teresa, ma lei respingerebbe con un sorriso e una battuta ironica il paragone).
    Anche il Papa conosce bene Chiara (l’ha nominata consultrice del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione) e così pure molti importanti cardinali che la stimano davvero (il cardinale Ruini, da Vicario di Roma, ha aiutato e sostenuto la sua opera fin dall’inizio, quando lei era giovanissima). Invece i media no. Non capiscono cosa è la Chiesa, sebbene Benedetto XVI non si stanchi di indicare la presenza viva e misteriosa di Gesù Cristo. Ratzinger fin da cardinale continuava ad affermare che la Chiesa è “semper reformanda” (deve essere sempre rinnovata), ma sottolineando che è sempre stata rinnovata non dai riformatori (che hanno fatto disastri), ma dai santi.
    LA STORIA INSEGNA
    I media non lo capiscono. Se fossero esistiti – per esempio – nel XVI secolo, tv, internet e giornali avrebbero raccontato solo trame, corruttele, nepotismi, prostitute e altre cose simili. E avrebbero diagnosticato che la Chiesa stava morendo. Intervistando ogni giorno Lutero. In effetti nessuna istituzione umana sarebbe mai sopravvissuta a tanta “sporcizia”. Invece la Chiesa uscì da quel secolo con una rinnovata giovinezza, con uno slancio e una bellezza travolgente e attraversa i secoli. Perché non è una istituzione umana, ma letteralmente una “cosa dell’altro mondo”.
    Per capirlo i media nel XVI secolo avrebbero dovuto spostare i riflettori su una quantità immensa di santi che, proprio in quegli anni, il Signore fece sgorgare nel giardino della sua Chiesa. Ne cito solo alcuni (ma ognuno di loro è stato un poema e un ciclone): Carlo Borromeo, Filippo Neri, Francesco di Paola, Luigi Gonzaga, Francesco Saverio, Ignazio di Loyola, Giovanni della Croce, Giovanni d’Avila, Teresa d’Avila, Tommaso Moro, Juan Diego, John Fisher, Paolo Miki, Caterina de’ Ricci, Pietro Canisio, Stanislao Kostka, Edmund Campion. Per questo dico che oggi – per capire qualcosa del futuro della Chiesa – bisognerebbe andare a cercare e a raccontare storie come quella di Chiara Amirante. Il suo libro è un abisso di luce. Eppure racconta, con una prosa semplice, una storia dei nostri anni, di una ragazza che è ancora oggi una giovane donna, del tutto normale.
    CHIARA
    Un flash della sua storia. E’ una notte d’inverno del 1991, verso le tre. Una graziosa venticinquenne in motorino, a Roma, parte dalla stazione Termini e percorre un viale verso l’Appia quando viene avvicinata da un furgone che le taglia la strada per farla fermare. Le intenzioni dell’omaccione non lasciano dubbi e vengono dichiarate alla giovane dal finestrino. Lei, che è – come avrete capito – Chiara, accelera, scappa, cerca di darsi coraggio cantando, dice a se stessa (“ma no, non sono sola, il Signore è con me”). Poi, alla fine, lo guarda negli occhi e gli dice: “hai trovato la persona sbagliata, perché io ho consacrato la mia vita a Dio”. Sembrò che il tipaccio avesse avuto una mazzata in testa. Infatti si ferma più avanti con le mani alzate e – quasi intimorito – le dice: “Perdonami. Ma davvero tu hai consacrato la tua vita a Dio? Come è possibile? Una bella ragazza come te… Non ci posso davvero credere”. Ancor più sconvolto sarebbe stato se avesse saputo da dove veniva Chiara. Perché, così indifesa, o meglio, difesa dagli angeli, stava andando ogni notte nei sottopassaggi della stazione Termini che, in quegli anni, erano davvero gironi infernali, pericolosissimi per chiunque (tanto più per una ragazza sola). Ma come e perché Chiara si era lanciata in quell’avventura? Lo racconta nel suo libro e tutto sembra semplice e normale, ma in realtà i fatti che mette in fila sono sconvolgenti. Provo a enuclearli alla meglio.
    COME DIO CHIAMA
    Fin dall’inizio attorno a lei – anche all’università di Roma – si raccolgono tanti giovani. Poco più che ventenne contrae una malattia gravissima agli occhi – l’uveite – che, oltre a dolori tremendi per quattro anni, secondo la diagnosi di tutti gli specialisti, la porterà presto alla cecità totale. Nonostante questa prova tremenda il cammino spirituale di Chiara si approfondisce. E perfino la sua gioia. Il suo sobrio racconto fa intuire esperienze che – più che sogni – hanno tutto l’aspetto di esperienze soprannaturali. Così, mentre matura in lei la vocazione ad andare da sola a cercare gli ultimi, i più derelitti e disperati (e il “popolo della notte” della Stazione Termini è il luogo che ha nel cuore), d’improvviso – dopo un pellegrinaggio al santuario del Divino Amore – le viene donata una guarigione improvvisa, totale e del tutto inspiegabile per i medici. Una guarigione che lei in fondo non aveva neanche chiesto, ma che interpreta come un segno: deve intraprendere subito la sua strada. E così diventa l’angelo degli inferni metropolitani. Si aggira col suo sorriso in luoghi pericolosissimi e sempre si sente protetta. Finché decide lei stessa di andare a vivere con questa povera gente, tra tossicodipendenti, malati di Aids, ragazze prostitute, derelitti al limite del suicidio, ex carcerati, gente che aveva frequentato sette sataniste, con tutte le conseguenze…
    I fatti che accadono attorno a Chiara sono sconvolgenti. Veramente si rende visibile la potenza dello Spirito Santo. Sono pagine tutte le leggere. Ma Chiara è chiamata ad andare avanti in quel cammino.
    NUOVI ORIZZONTI
    Nasce “Nuovi orizzonti”, l’ideale di una comunità dove si vive con semplicità e integralità il Vangelo. C’è la freschezza di ogni inizio, in tutti i tempi, dai primi amici di Gesù a Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola…. C’è l’abbandono totale al Signore e la scelta radicale, da parte di Chiara e dei suoi amici, dei voti di povertà, castità, obbedienza e – in seguito – di gioia. Questo è solo l’inizio dell’avventura di Chiara, ma è nell’origine che si coglie davvero l’essenza di qualunque cosa. Oggi mettere in file i numeri di ciò che è nato da Chiara fa impressione: 174 centri di accoglienza e di formazione, 152 Equipe di servizio, 5 Cittadelle Cielo in costruzione in diversi continenti, più di 250 mila “Cavalieri della luce” che – come dice Chiara – sono impegnati a portare dovunque, nel mondo, “la rivoluzione dell’amore”.
    Ma tutto questo – che forse è quello che più interesserebbe i media – in realtà è solo un sovrappiù rispetto all’essenziale. Che è l’intima unione spirituale di Chiara con Gesù, la sua toccante umanità, la sua semplicità, la sua gioia contagiosa (pur dentro sofferenze fisiche tuttora molto pesanti). I “segni” che accadono attorno a Chiara poi fanno sperimentare davvero la vicinanza del Signore. Quella “Chiesa gerarchica” che oggi spesso viene messa sulla graticola dai media fin dall’inizio ha accolto Chiara come una figlia amatissima e ha riconosciuto e valorizzato il suo carisma.
    Oggi incontrando Chiara, leggendo la sua storia, guardando il suo volto e i tanti giovani che accanto a lei hanno trovato il senso della vita, viene da concludere che i media non raccontano cosa è davvero la Chiesa. Non la capiscono. Forse non la vogliono capire.
    Già i primi apologeti cristiani, durante le persecuzioni, dicevano: “I cristiani chiedono solo questo, di essere conosciuti prima di essere condannati”. Anche oggi sembra che non si conoscano i cristiani. Che sono “una cosa dell’altro mondo” in questo mondo.
    IL VERO VOLTO DELLA CHIESA NEL SORRISO DI UNA RAGAZZA. CHIARA E IL CONCLAVE ? lo Straniero


 

 
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