Fermo, cade il teorema sull'ultrà: nigeriano non morì per il pugno
L'esame autoptico smonta la versione della vedova di Emmanuel. Il pugno di Amedeo Mancini non fu letale. Il nigeriano morì per aver battuto la testa
Giuseppe De Lorenzo
"Da tali elementi, a riscontro di un apparato dentario indenne da lesione traumatiche, si può dedurre che l'energia" con cui l'Emmanuel è stato colpito al volto "sia stata di grado moderato".
Con queste parole - e altre - il medico legale della procura di Fermo, Alessia Romanelli, mette un punto chiaro sulla vicenda di Emmanuel Chidi Nnamdi, il nigeriano morto a Fermo il 5 luglio scorso dopo la lite con Amedeo Mancini.
L'autopsia sul corpo del nigeriano
L'esame autoptico è stato depositato il 25 ottobre e la notifica è arrivata poco fa alle parti in causa. Quello che ne emerge è chiaro: il pungo inferto da Amedeo Mancini nei confronti di Emmanuel ebbe "una energia di grado moderato", quindi non letale. Il nigeriano, insomma, morì per aver battuto la testa in terra dopo la caduta. Non solo. Nero su bianco il medico legale ha smentito la versione fornita dalla vedova Chinyery, secondo cui suo marito era stato colpito dietro la nuca dall'ultrà con un palo stradale.
"Si ritiene - si legge nella relazione - che il capo di Emmanuel sia stato attinto da due colpi": uno compatibile con il pugno ammesso anche dallo stesso Mancini, e un "colpo a livello occipitale che ha a sua volta provocato il trauma cranico" che "per quanto attiene la produzione, il mezzo può essere identificato in una superficie ampia lineare". Ovvero il marciapiede su cui è franato il nigeriano.
Dunque, secondo il medico legale, appare "maggiormente attendibile la dinamica secondo cui sia caduto a terra impattando il capo in regione occipitale e, per il meccanismo di contraccolpo dell'encefalo, si sia verificato il grave trauma encefalico che lo ha condotto a morte". La botta fatale, insomma, non è stata il pugno di Mancini. Ma la caduta in terra.
Quindi, ad essere smentita totalmente (se non bastavano i testimoni oculari" è "la versione dei fatti (di Chinyery, Ndr) secondo cui il capo sia stato attinto da un corpo contundente come il segnale stradale appare scarsamente compatibile con la lesività riscontrata a livello encefalico. Questa appare suggestiva di un urto del capo in movimento contro un ostacolo fisso durante il quale, per l'energia cinetica del trauma, l'encefalo è stato sottoposto ad una violenta accelerazione seguita da altrettanto brusca decelerazione. Tale da provocare danni celebrali tipicamente da contraccolpo". "Se Emmanuel fosse stato attinto da dietro, il corpo darebbe caduto in avanti" e avrebbe provocato "danni a ginocchia, arti superiori e mani. Ma questi erano indenni da tali lesività". Quindi non è possibile che Mancini abbia colpito Emmanuel con il segnale stradale.
Adesso il pm chiuderà le indagini. Ma intanto l'ultrà resta ai domiciliari.
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Gli immigrati regolari quintuplicati in 18 anni
Nel '98 un milione, oggi 5. Richieste di cittadinanza, boom tra i "seconda generazione"
Francesca Angeli
Aumenta la presenza degli stranieri in Italia, arrivati a oltre 5 milioni.
Crescono anche le richieste di cittadinanza: nel 2015 178.000 persone hanno scelto di diventare cittadini italiani. A segnalare un fenomeno in decisa crescita è il presidente dell'Istat, Giorgio Alleva nel corso di un'audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza.
«La vera novità degli ultimi anni è rappresentata dal crescente numero di giovani immigrati e ragazzi di seconda generazione che diventano italiani - afferma Alleva- coloro che acquisiscono la cittadinanza per trasmissione dai genitori e coloro che, nati nel nostro Paese, al compimento del diciottesimo anno di età scelgono la cittadinanza italiana, sono passati da circa 10.000 nel 2011 a oltre 66.000 nel 2015». Un altro dato significativo è quello che riguarda le richieste d'asilo. Siamo secondi soltanto alla Germania con circa 84.000 domande nel 2015 e oltre 60.000 calcolate fino a luglio nel 2016. Nel secondo trimestre del 2016 hanno fatto richiesta di protezione internazionale in un paese Ue 305.700 persone.
L'Istat ha fornito cifre precise: al 1 gennaio 2016 gli stranieri in Italia erano saliti a 5.026.153, 12.000 in più rispetto al 2014. In totale pesano per l'8,3 sul totale della popolazione e si tratta degli immigrati regolari. Percentuale più alta rispetto alla Francia, 6,6, e poco più bassa di quella tedesca, 9,3. Rispetto alla Francia va però ricordato che la cittadinanza francese si ottiene in modo più veloce e viaggia sul doppio binario dello jus sanguinis e dello jus soli. Di questi oltre 5 milioni quasi 4 sono immigrati che provengono da paesi non comunitari ma che hanno un regolare permesso di soggiorno, sia di lungo sia di breve periodo. I non comunitari rappresentano il 70 per cento della popolazione straniera residente.
Alleva ricorda che nel 1998 la presenza degli stranieri in Italia era ferma al di sotto del milione. Dunque in circa 17 anni gli immigrati sono quintuplicati. E questa crescita è la più marcata in Europa perché in Italia il fenomeno dei migranti è arrivato più tardi rispetto ad altri paesi ma poi è cresciuto in modo più veloce.
Dove scelgono di vivere gli stranieri? Soprattutto al Centro-Nord dove sicuramente trovano più occasioni di lavoro, 84 per cento. Molto meno al Sud, 11 per cento, e nelle isole, 5. Gli stranieri al contrario degli italiani sono soprattutto giovani spiega Alleva: «la quota di ragazzi fino agli 11 anni è superiore a quella dei ragazzi italiani di circa 5 punti percentuali». Sono tanti i bambini che ogni anno nascono da genitori entrambi stranieri, circa 70.000. La composizione per genere della popolazione straniera registra un lieve vantaggio per le donne che rappresentano il 51,4 per cento».
Il presidente della Commissione, Federico Gelli, PD, ha poi segnalato come si siano incrementate le previsioni di spesa del Viminale per l'immigrazione, l'accoglienza e la garanzia dei diritti nella legge di Bilancio. Nel 2017 si sale a 2.093.952.717, con un incremento pari al 59 per cento rispetto alla previsione iniziale. Incremento anche per i gli anni successivi del 32 e del 42 per cento.
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Trump mantiene la promessa: "Via subito 3 milioni di clandestini"
Trump conferma la costruzione della barriera anti immigrati al confine col Messico: "Parti di muro, altre di recinzione"
Sergio Rame
Donald Trump non si tira indietro. Adesso che è stato eletto presidente degli Stati Uniti è pronto a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
A partire dalle espulsioni degli immigrati irregolari. "Quello che faremo - ha spiegato in un'intervista con 60 Minutes di Cbs - è buttare fuori dal Paese o incarcerare le persone che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga". Il provvedimento colpirà "due o tre milioni" di immigrati che risiedono clandestinamente negli Stati Uniti.
Durante la campagna elettorale contro la candidata democratica Hillary Clinton, Trump ha più molte volte promesso la costruzione di un muro alla frontiera messicana per ostacolare l'immigrazione. Adesso è già pronto a passare alle vie di fatto. Nell'intervista con 60 Minutes ha, infatti, confermato l'intenzione di fortificare la barriera anti immigrati. Edificata in prima battuta nel 1994 durante la presidenza di Bill Clinton, la barriera sarà rafforzata con alcune parti in muratura e altre in recinzione. "In alcune aree il muro è più appropriato - ha spiegato il neo inquilino della Casa Bianca - sono molto bravo in questo, vale a dire nelle costruzioni, ci possono essere alcune recinzioni".
E, se da una parte ferma l'ingresso a nuovi immigrati, dall'altra si propone di cacciare tutti i clandestini che oggi si trovano sul suolo americano. Ne espellerà "probabilmente due milioni, possibilmente anche tre milioni".
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Monaco, il muro anti-immigrati più alto di quello di Berlino
Un muro alto 4 metri, più di quello di Berlino. Nella Germania di Angela Merkel i tedeschi tornano a costruire barriere. Questa volta per proteggersi dagli immigrati
Giuseppe De Lorenzo
Ben 27 anni dopo la caduta del muro di Berlino, la Germania torna a costruire barriere. Questa volta contro gli immigrati. E se non bastavano i 3 metri di altezza della fortificazione fatta costruire dalla Germania dell'Est per bloccare le fughe ad Ovest, oggi - al tempo di Angela Merkel - verrà costruito un muro più alto di quello che rinchiuse Berlino Ovest per oltre 20 anni.
Il muro di Monaco anti-immigrati
A Monaco di Baviera, nel municipio di Neuperlach Sud, 55mila anime, l'amministrazione ha autorizzato la costruzione di una barriera anti-immigrati per separare un centro di accoglienza dalle abitazioni dei residenti: 40 metri di sassi per 4 metri di altezza. La decisione risale allo scorso giugno, quando i residenti hanno lamentato il rischio che il centro profughi con 160 minori non accompagnati potesse disturbare la quiete e abbattere il valore della case che distano solo 25 metri dalle casette dei migranti.
Messo a confronto con quello di Berlino, il muro di Monaco misura 40 centimetri in più: 3,6 quello caduto nel 1989 e 4 metri quello odierno. I migranti non potranno usarlo né per giocare a calcio, né arrampicarcisi. L'obiettivo è quello di contenerne il rumore ed evitare che la presenza di ragazzi stranieri turbi la vita di tutti i giorni dei cittadini tedeschi.
Le proteste della politica
Eppure, come denunciato anche dal politico locale Guido Bucholtz, socialdemocratico, la barriera ha comunque due valori simbolici. Anche se i migranti a Neuperlach potranno uscire liberamente, molti lamentano che assomigli troppo da vicino ad un ghetto nello stile di quelli ebraici.
Il fallimento di Angela Merkel
Ma soprattutto, il muro simboleggia la sconfitta della politica dell'accoglienza di Angela Merkel. In Baviera infatti 4 cittadini su 5 non vorrebbero i musulmani e il 73% ha atteggiamenti ostili verso i migranti. Tanto che la Cancelliera a settembre ha dovuto fare uin passo indietro sulla sua politica delle porte aperte. "Se potessi - ha ammesso - tornerei indietro per prepararmi meglio" all'emergenza profughi del 2015. Quel muro è lì a dimostrare che di certo qualcosa è andato storto.
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Giornaloni sottomessi
Dal Corriere che ammette tribunali della sharia in Europa a Repubblica che chiede più diritti per la comunità musulmana discriminata, la stampa è diventata la stampella dell'Invasione coranica
di Gianluca Veneziani
Che sui giornaloni nostrani ci fosse un clima strisciante di sottomissione culturale era cosa ormai risaputa, basti guardare le recenti posizioni sulle questioni integrazione degli immigrati, burqa e burkini e la fiducia incondizionata alle tesi del cosiddetto “islam moderato”. Ma che questa sottomissione si traducesse anche nell’invito a una rivoluzione giuridica in Occidente e all’adozione di norme compatibili con la cultura e la religione islamica ha un che di inquietante.
In un paio di giorni Corriere della Sera e Repubblica hanno calato giù una doppietta, con interventi tutti proni verso l’islamismo à la page (in direzione della Mecca, va da sé) e pieni di un senso di autofustigazione, di condanna dell’Europa e dell’Italia in particolare, incapaci di comprendere e promuovere i diritti della comunità musulmana.
Ha cominciato ieri Luigi Ippolito in un corsivo agghiacciante sul Corsera in cui si chiedeva se non fosse il caso di considerare “i tribunali islamici” come un “male minore” e quindi di accettare, anche in Europa, “un sistema parallelo ispirato ai principi della sharia”, che eviterebbe la contrapposizione frontale col mondo musulmano e trasformerebbe “quello che può sembrare un veicolo di oppressione” in uno “strumento per avviare un percorso di emancipazione” (sic!). In sostanza, non solo dobbiamo accettare i tribunali della sharia, ammettendo una giurisprudenza parallela e incompatibile con la nostra, ma dobbiamo anche considerarli mezzi di emancipazione, con buona pace della discriminazione verso la donna, delle fortissime limitazioni dei diritti civili e religiosi e dell’intromissione della religione nella sfera pubblica sanciti dalla stessa sharia. Siamo al delirio.
Da par suo oggi anche l’illustre costituzionalista Michele Ainis su Repubblica propone di restituire finalmente pari dignità giuridica alla comunità musulmana, finora – a suo dire – discriminata e vittima di apartheid. La religione musulmana, sostiene Ainis, è l’unica a non avere ancora siglato con lo Stato italiano un’intesa che le consenta di godere del pieno diritto di libertà di culto, di beneficiare dell’8 per mille, di fare assistenza spirituale nelle carceri tramite propri ministri del culto ecc… Per cui è finalmente tempo di rimediare con una legge ad hoc. Peccato che Ainis non si capaciti dei motivi per cui ciò non è ancora avvenuto: il primo – che lui cita, ma solo en passant come ragione non sufficiente – è che la comunità islamica sunnita non dispone di una struttura gerarchica e dunque di rappresentanti istituzionali con cui il nostro Stato possa siglare un accordo: dispersa com’è in mille associazioni autonome e priva di una struttura verticistica, fatica a essere rappresentata da un’autorità che parli a nome di tutti. In seconda battuta, c’è un’altra ragione, molto più sostanziale, e cioè il fatto che la comunità musulmana, a differenza di tutte le altre confessioni religiose in Italia, per lo più non riconosce il principio di laicità dello Stato, su cui solo si può fondare un dialogo e un accordo con lo Stato stesso. Se il criterio guida è che le leggi sancite dalla sharia e il dettato del Corano siano superiori alle leggi italiane, e che perciò ci si debba conformare alle prime e non necessariamente alle seconde, viene meno la base di qualsiasi intesa. Bisogna riconoscere l’autorità dell’altra parte, per poter sedersi a un tavolo. Viceversa, si resta due mondi non comunicanti. Senza parlare di quelle frange estremiste che, oltre a disconoscere il principio di laicità a vantaggio di un ideale teocratico, negano la validità stessa dello Stato e anzi lo odiano in quanto simbolo di una civiltà occidentale da combattere e debellare. Lo Stato laico, simbolo della modernità occidentale corrotta, infedele e blasfema…
Ma niente, i giornaloni non vogliono sentirci da quest’orecchio e, a fronte delle minacce incombenti che provengono proprio dal mondo islamico (strano che “sui musulmani aleggia un sentimento di paura, o quantomeno di sospetto, specie dopo l’attentato alle Twin Towers”, vero Ainis?), chiedono più sharia e più diritti per i poveri musulmani discriminati, addirittura suggerendo di creare un confronto con l’Assemblea costituente islamica proposta da Hamza Piccardo, quello che, per intendersi, chiedeva di legalizzare in Italia anche la poligamia, dopo l’istituzione delle unioni civili…
La cosa buffa e al contempo drammatica è che, del percorso di Sottomissione, risulteremo essere non più le Vittime, ma ancora più vigliaccamente i Complici. Con la stampa a fare da stampella all’Invasione coranica.
Giornaloni sottomessi - L'intraprendente | L'intraprendente
Catechismo o morte
di Camillo Langone
Catechismo o morte. Mi racconta una maestra della provincia di Cuneo che molti alunni di origine marocchina (nati in Italia da genitori nati in Marocco), bambini di sette, otto, nove anni, il sabato e la domenica vanno a scuola di arabo e di Corano. Sono bambini le cui madri fanno le badanti e i cui padri fanno i braccianti quando va bene, i disoccupati quando va male, sono bambini che spesso ricevono sussidi pubblici, sono bambini che sempre hanno nomi arabi e anche per questo nonostante siano nati in Italia si sentiranno arabi fino ai novant’anni, ammesso che non muoiano giovani facendosi saltare in aria in mezzo a coloro che pagando le tasse li hanno fatti studiare e spesso mangiare. Se un decimo di loro crederà alla sura della Conversione nel tempo in cui una bottiglia di Barolo raggiunge l’invecchiamento ottimale la provincia di Cuneo diventerà esplosiva come una banlieue parigina. Alcuni piccoli mostri già parlano, a sette, otto, nove anni, di umma, di stato musulmano universale, concetti acquisiti nei giorni in cui i bambini nati in Italia da genitori nati in Italia vengono portati dalle mamme all’outlet di Serravalle, laddove ogni fine settimana si celebrano i saldi dell’Occidente. Catechismo o morte.
Catechismo o morte
Siamo l'unico Paese che regala ai migranti permessi di soggiorno
Giuseppe De Lorenzo
A Renzi piace fare regali. È evidente. Li fa ai migranti, cui il governo elargisce migliaia di permessi di soggiorno «speciali» che non otterrebbero in nessun altro Paese europeo.
E ai Comuni accoglienti, cui ora il Pd vuole dare più capacità di spesa rispetto a chi si rifiuta di ospitare immigrati.
Sembra uno scherzo, ma non lo è. In tre anni sulle coste italiane sono sbarcati più di 454mila immigrati. Una massa di persone non sempre in fuga da guerre. Le Commissioni territoriali dovrebbero decidere chi ha diritto all'accoglienza e chi no, ascoltando le storie dei richiedenti asilo ed emettendo una sentenza: assegnare lo «status di rifugiato»; concedere la «protezione sussidiaria»; oppure rigettare l'istanza, negando il permesso di soggiorno.
Bene. Stando ai dati, il rigetto è il caso più diffuso, ma come in tutte le cose italiane esiste una scappatoia. La legge prevede che le questure possano concedere «protezione umanitaria» a chi non ottiene asilo al primo giro. Si tratta di un permesso di soggiorno di due anni che concede al migrante di lavorare e curarsi negli ospedali italiani. Non male. Le norme stabiliscono che può essere assegnata quando ci sono «gravi motivi di carattere umanitario a carico del richiedente».
Cosa significa? Non è ben chiaro. E infatti dipende dalla discrezionalità dei commissari. Per fare un esempio: un nigeriano otterrà lo status di rifugiato se viene da zone in cui opera Boko Haram; se invece abitava in un'area pacifica del Paese africano e non ha diritto all'asilo, la Commissione può decidere che sarebbe pericoloso rispedirlo a casa. E così fa ricorso alla protezione «umanitaria» per trattenerlo in Italia.
Diverse prefetture in via informale fanno sapere al Giornale che l'Italia fa un uso massiccio di questa forma di protezione, mentre gli altri Paesi europei vi ricorrono solo «in forma residuale». Quindi un migrante che qui ha ottenuto assistenza «umanitaria», oltre confine con ogni probabilità verrebbe dichiarato clandestino. Non stiamo parlando di casi eccezionali, ma della maggioranza assoluta degli immigrati cui l'Italia ha concesso un permesso di soggiorno. A dirlo sono i numeri della commissione parlamentare d'inchiesta. Nel 2014 delle 36.270 domande d'asilo valutate dalle Commissioni, solo 22mila hanno ottenuto una qualche forma di protezione. Di queste, il 45,5% lo ha fatto grazie allo stratagemma «umanitario». E negli anni successivi il dato è andato peggiorando: nel 2015 è schizzato a 53,3%, mentre nel 2016 la percentuale supera il 50%. Ovvero 15mila «protezioni umanitarie» su un totale di 29mila risposte positive. E non sono compresi nel conteggio i minori non accompagnati.
Checché ne dicano quelli secondo cui «scappano tutti dalla guerra», questi dati permettono di dare una lettura diversa del fenomeno migratorio. Sommando le richieste di asilo rigettate in tre anni (circa 100mila) e quelle accolte con l'espediente «umanitario» (41mila), risulta che il 76% degli immigrati sbarcati in Italia non sono tecnicamente profughi. Tantomeno rifugiati. O almeno non lo sarebbero in Germania o in Francia.
L'Italia, invece, non solo regala documenti con escamotage fantasiosi, ma pensa anche a premiare chi accoglie i migranti. Il Pd, infatti, ha inserito nel Dl Fisco un emendamento che dà potere alle Regioni di cedere spazi finanziari ai Comuni che accolgono richiedenti protezione internazionale. Penalizzando così chi si oppone «all'invasione». Tanto a pagare son sempre gli italiani.
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La favela nel centro di Milano: così si uccidono i sudamericani
Piazzale Loreto come una favela di Rio de Janeiro. Prima gli spari alle spalle, poi lo scempio sul cadavere con un coltello. Il tutto davanti agli occhi sconcertati dei passanti
Giovanni Giacalone
Non siamo nella favela della Rocinha o di Villa Cruzeiro a Rio de Janeiro e neanche nella Bajo Flores bonarense, ma in pieno centro a Milano, in piazzale Loreto, a poche centinaia di metri dal commercialissimo corso Buenos Aires e sono le 19 di sabato, orario nel quale si concentrano migliaia di persone dedite allo shopping e in procinto di iniziare la serata.
Purtroppo però ci sono anche i balordi, due in particolare, che arrivano di corsa dalla vicina via Padova, inseguono una persona ed esplodono alcuni colpi di pistola mirando alla schiena. Il ragazzo si accascia a terra ma uno dei due soggetti, non soddisfatto, lo assale al suolo con colpi di arma da taglio. I due delinquenti si danno poi alla fuga verso via Padova e tutto sotto gli occhi delle telecamere di sorveglianza della vicina banca e di numerosi testimoni.
A terra rimane Antonio Rafael Ramirez, dominicano di 37 anni, clandestino, con ferite alle gambe e alla schiena che ha poi avuto un arresto cardiaco ed è stato portato d’urgenza al San Raffaele; l’uomo ha perso molto sangue, gli hanno fatto una trasfusione, è stato operato, ma resta gravissimo.
I medici del 118 pare non abbiano trovato ferite di arma da fuoco sul corpo della vittima, ma le testimonianze che riferiscono di aver visto e sentito l’arma sono numerose: “Abbiamo visto che lo picchiava, poi d’improvviso ha tirato fuori la pistola e ha fatto fuoco dapprima a terra. Poi si è spostato e ha sparato altre due volte”. E ancora: “Mi sono girato di scatto e ho visto quei due che colpivano l’altro, probabilmente con un coltello. Poi un altro colpo di pistola, davanti alla gente che passava, prima di scappare verso via Padova". “Uno ha estratto la pistola e ha sparato, l’altro è caduto e un terzo lo ha quasi travolto per poi accoltellarlo con una raffica di fendenti alla schiena”. “Ho visto tre che litigavano, poi il mio amico è fuggito verso piazzale Loreto. Abbiamo sentito degli spari”.
Le circostanze e le motivazioni dell’agguato non sono ancora del tutto chiare ma alcune testimonianze possono aiutare a ricostruire parzialmente la scena. Vittima e aggressori pare fossero tutti sudamericani e la lite sarebbe partita a pochi metri dal luogo della tragedia, all’inizio di via Padova, nei metri tra il bar civico 3 e il parrucchiere “Studio 54”. La vittima abitava poco lontano da lì e frequentava il bar.
Passanti indicano che in quel punto, così come alla vicina fermata del bus, stazionano spesso sudamericani in stato di ebrezza che lasciano a terra bottiglie di birra e che danno spesso in escandescenza e del resto non è l’unico posto di via Padova dove ciò avviene. Passare giornate intere a bere cartoni di Heineken da 66cl sembra essere il passatempo preferito di alcuni gruppi di latinos della zona.
Non è ancora chiaro se la lite sia partita minuti prima dell’aggressione o se all’origine ci sia un litigio avvenuto la sera prima in un locale della zona.
E’ aperta anche l’ipotesi di un regolamento di conti tra pandillas, le bande sudamericane che per tanto, troppo tempo, hanno insanguinato Milano. A portare verso tale ipotesi ci sono alcuni elementi di non poco conto: in primis l’apparente giovane età e l’abbigliamento degli aggressori che, secondo alcune testimonianze, pare avessero un fazzoletto sul volto, cappellino e cappuccio, abbigliamento che spesso contraddistingue i “mareros”, i membri delle pandillas. Altri elementi di interesse sono i giubbotti bianchi e grigi degli aggressori e il cappellino “NY Yankees della vittima”: non è detto che significhino qualcosa, ma gli esperti che conoscono bene la simbologia delle pandillas possono forse trovarvi utili elementi.
Vi è poi la spavalderia e la non curanza con le quali hanno agito i due delinquenti, sparando e aggredendo con un’arma bianca il malcapitato davanti a tutti, fregandosene totalmente di chi avevano intorno. Senso di impunità? Pensavano di essere i boss del quartiere? Del resto le modalità di aggressione delle bande di latinos sono quelle e basta pensare all’aggressione subita dal capotreno Carlo Napoli nel giugno 2015, quando un gruppo di latinos appartenenti alla pandilla Barrio 18 lo ferirono con un machete e l’uomo rischiò l’amputazione di un braccio, oppure a quella avvenuta all’ex Fnac di corso Torino con armi da taglio nel 2011, in pieno orario di punta.
Anche le modalità dell’attacco in sé, con armi di diversa tipologia e l’accanimento con armi da taglio sulla vittima a terra ricordano precedenti dinamiche di aggressioni messe in atto da membri di pandillas, non solo in Italia ma anche in altri paesi.
Non dimentichiamo inoltre che in via Padova e zona parco Trotter sono da tempo attivi gruppi legati a pandillas come Barrio 18 e MS13 ed è proprio verso via Padova che gli aggressori sono fuggiti, ritenendo forse la zona un luogo sicuro dove potersi nascondere.
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Ecco il fronte anti-profughi
Da Abano Terme fino a Rovigo i comitati per il no ai profughi si uniscono in una Rete che si dice pronta ad "abbattere l’intero sistema di gestione dei richiedenti asilo"
Marco Vassallo
Davanti al gazebo del Primo Roc, l’ex base militare di Abano Terme, quella che il prefetto di Padova voleva trasformare in un centro accoglienza per profughi, si alza la voce di quelli che dicono "no ai profughi".
Su tutte spicca la voce di Maurizio Tentori, che esorta la folla di contestatori, presenti oramai giorno e notte, al presidio: "Stiamo uniti, mi raccomando. E più grande sarà il fronte più in alto arriverà la nostra voce".
Il comitato "Abano dice no" è riuscito nella sua battaglia: evitare che l'ex caserma del paese fosse riepita di migranti. Ma da quel giorno di 5 settimane fa, il presidio non si muove, sono tutti lì, ancora uniti. "All’inizio sono rimasti perché temevano che il dietrofront fosse solo una manovra per convincerli ad allentare la sorveglianza e poter così scaricare nella base i primi migranti" - spiegano su Il Corriere Veneto -. Ma ora tutto è cambiato, la persone sono consepevoli della loro forza. E così, chiariscono: "Non ci si batte solo per impedire l’arrivo dei profughi ad Abano, l’obiettivo adesso è molto più ampio: abbattere l’intero sistema di gestione dei richiedenti asilo".
Ci tiene a precisarlo Alessio Zanon, Presidente di “Forza Veneto” e Presidente Comitato “Progetto per Abano Terme”. "Il problema è che la presenza dei richiedenti asilo viene imposta senza lasciare alcuna scelta alle popolazioni locali, con l’unico risultato di alimentare un enorme business che arricchisce le cooperative". Si amplia così la battaglia contro i profughi. I comitati no-migranti si uniscono per aiutarsi e non limitarsi al proprio comune. "È nata la “Rete dei comitati per il no" spiega Francesca Barbierato, candidata per la lista "Per far rinascere Abano Terme". Una trama di comitati che si estende da Abano a Conetta fino a Monselice, passando dal Trevigiano a Rovigo.
Una chat comune per bloccare i profughi
La Rete dei comitati è connessa con una chat via telefonino. Il motivo? "Se uno organizza una iniziativa di protesta o se c’è da bloccare l’ingresso dei profughi le altre città sono pronte a dare il loro supporto. Faremo un grande fronte comune, in tutto il Veneto", spiega Tentori. Un vero e proprio patto di mutuo aiuto, che permette ai contestatori che arrivano anche da fuori di prendere parte alle manifestazioni.
Ma la Rete del no ai migranti ha le idee chiare e vuole essere trasparente: manifestanti di professione, politici in cerca di voti, cacciatori di visibilità, ed estremisti violenti non sono ben accetti. Dal presidio infatti fanno sapere che "quando capiamo che hanno dei secondi fini li cacciamo a calci. Per questo abbiamo bandito le bandiere di partito e non abbiamo permesso ai politici di salire sul palco delle manifestazioni".
Poche parole e molti fatti, sembra voler dire portavoce Alessandro Rancani, che taglia corto interpellato da Il Corriere del Veneto: "Ci muoviamo quando la popolazione chiama l’unico nostro faro è la tutela dei cittadini". Alla Rete nata ad Abano si è anche unito Nicola Lodi, detto "Naomo", che ha guidato e eretto le barricate di Gorino. Ma non è l'unico pronto a dare il proprio aiuto. Ci sono anche i militanti di Casapound di Ferrara che nel week end hanno eretto uno striscione davanti all’hotel di Ficarolo requisito dal prefetto accogliere dei migranti. Al grido "alzare ogni tipo di barricata pur di fermare questa invasione" c'é anche Forza Nuova, disposta a scendere in strada.
Ecco il fronte anti-profughi: "Lotteremo con gli italiani" - IlGiornale.it
Immigrato spacca la milza a una 60enne per rubarle 10 euro
Una donna di 60 anni è stata aggredita da un immigrato a Roma, nel quartiere Monteverde, non lontano dal centro d'accoglienza della Croce Rossa Italiana
Franco Grande
Le ha spaccato la milza per rubarle 10 euro e le chiavi di casa. La malcapitata vittima di una rapina commessa da un immigrato è una donna di 60 anni che vive nel quartiere romano di Monteverde, non lontano dal centri d’accoglienza per rifugiati via Ramazzini, gestito dalla Croce Rossa Italiana.
La vicenda, raccontata dal Messaggero, è avvenuta martedì 27 settembre verso le 18 nel negozio del marito dove la 60enne è stata aggredita, probabilmente un nordafricano. A dare l’allarme è stata proprio la signora che è stata soccorsa da un assicuratore che ha visto l’immigrato fuggire. La 60enne è stata poi portata all’ospedale San Camillo, dove lavora come impiegata e qui i medici le hanno asportato la milza. Il marito, Giacomo, in preda alla rabbia, aveva affisso fuori dall’erboristeria un cartello con sopra una taglia da 5000 euro per chi avesse contribuito a fare arrestare l’uomo che ha picchiato sua moglie. “Ma poi ci ha ripensato, ha detto che l’importante è che Pina sia viva, che non vuole clamore e ha tolto tutto”, ha raccontato Lilli, un’altra commerciante.
Intanto questo furto aumenta le tensioni tra i profughi e i residenti di Monteverde che lamentano un aumento di furti e aggressioni da quando la Croce Rossa in estate ha aperto una tendopoli che accoglie 400 persone.
La paura tra i residenti e commercianti è tanta. In via Rivaldi la titolare della tintoria si è chiusa a chiave nel negozio e per entrare bisogna suonare. “Sa quanto ci costano quei rifugiati?”, chiede un cliente dell’Ottico che aggiunge: “Due milioni e mezzo di euro. E noi siamo prigionieri in casa”. Ma c’è anche chi se la prende con i parcheggiatori irregolari, nordafricani, ormai da tempo padroni indisturbati di via Ramazzini.
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Il dovere di fare la guerra per Oriana Fallaci
di Camillo Langone
Il dovere della guerra. Soltanto tu, Oriana, potevi esortare alla guerra con una motivazione cosi' convincente e virile: il dovere. Non scrivi più, non telefoni più, non ci pungoli più direttamente ma il tuo sprone lo ritrovo nei tuoi libri, ad esempio nella corrispondenza pubblicata ora da Rizzoli, “La paura è un peccato”: “La prima condizione di libertà e di civiltà è permettere agli altri di pensarla come vogliono: finché, ovvio, permettono a noi di pensarla come vogliamo. Se ce lo impediscono la guerra tra noi e loro scatta come un dovere”.
Io, che sono intellettualmente troppo meno muscolare di te, sento nelle tue parole un giusto rimprovero. Faccio abbastanza per difendere la mia libertà e la nostra civiltà dai coranisti e dai loro collaborazionisti come monsignor Galantino? Non credo. Devo fare di più e comincero' col dire che, mentre accampare diritti è cosa da servi, compiere il proprio dovere è cosa da uomini. Dunque ti prego di farmi avere il tuo elmetto: provero' a esserne degno.
Il dovere di fare la guerra per Oriana Fallaci