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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Nella Pa ci si ammala il doppio rispetto al settore privato e soprattutto il lunedì
    Secondo l'Osservatorio dell'Inps gli impiegati pubblici si ammalano il doppio rispetto a quelli privati.
    Adriano Palazzolo
    Lo scorso anno in Italia, tra settore pubblico e privato, si sono persi quasi 109 milioni di giorni di lavoro.
    È quanto emerge dall'Osservatorio Inps, secondo il quale nella Pubblica amministrazione ci si ammala il doppio che nel privato: in media 10 giorni e mezzo lo scorso anno, contro gli oltre 5 giorni e mezzo delle aziende private.
    Nel settore privato lo scorso anno sono stati fatti in totale 77.195.793 giorni di malattia, mentre nel pubblico il monte malattie è arrivato a quota 31.525.329. Se si considera però il numero dei dipendenti sia pubblici (3 milioni) che privati (13,6 milioni), ne consegue che i giorni di malattia nel pubblico sono stati in media 10,5 mentre nel privato 5,67.
    Il numero dei certificati di malattia trasmessi rispetto al 2013, presenta un lieve aumento dell`0,8% per la pubblica amministrazione e una diminuzione del -3,2% per il settore privato.
    C'è un dato invece che accomuna i due settori. Indipendentemente dal fatto che si lavori nel pubblico o nel privato, casualità vuole che il giorno in cui ci si ammala più di frequente è il lunedì, subito dopo il weekend.
    Nella Pa ci si ammala il doppio rispetto al settore privato e soprattutto il lunedì - IlGiornale.it

    I fannulloni? Li crea lo Stato inefficiente
    Quando il sistema è inefficace, produce i fannulloni e anche peggio
    Pier Luigi del Viscovo
    «Licenziare i dipendenti pubblici che falsificano le presenze». Su questa affermazione del ministro Madia è subito partita la discussione.
    Nel mondo normale, manco se ne parla di uno che perde il posto perché non va a lavorare e fa timbrare da un altro: tutti e due fuori e fortunati che non vengano denunciati alla Procura. Ma va bene. Però, se discussione dev'essere, che siano invitati pure i 578 lavoratori Michelin di Fossano, che perderanno il posto pur non essendo assenteisti. Magari hanno qualcosa da dire ai colleghi della Pa. Loro, che vivono e lavorano nel mondo normale, perdono il posto se il sistema non ha più bisogno che vadano ogni giorno a produrre, perché il mercato, la domanda, non acquista il frutto del loro lavoro. Piaccia o non piaccia, a grandi linee così funziona il nostro sistema economico. Che funziona. L'altro sistema ha fallito, ricordiamolo, proprio perché aveva eliminato dal lavoro la competizione basata sul risultato.
    Dicono: la legge per licenziare c'è, ma non viene applicata. Nel privato, se un capo del personale non licenzia un assenteista, l'amministratore delegato licenzia lui. La domanda al ministro è: perché ne parla ai convegni, invece di agire? È il ministro, mica un opinionista qualsiasi. E non si agisce solo con un'ennesima legge, che sarebbe compito del Parlamento, ma dando pressione ai dirigenti, convocandoli, facendo ispezioni. Insomma, un giro di vite. Questo fa l'esecutivo, fa funzionare la macchina che ha, oggi un po' meglio di ieri, domani ancora meglio di oggi. Nelle aziende private non ti fanno nemmeno respirare, quando le cose vanno meno che benissimo.
    Ma non tutti nella Pa sono fannulloni. Ci mancherebbe altro. L'impegno sul lavoro non è una caratteristica genetica, ma un comportamento che il sistema permette e agevola. Anche il più volenteroso stacanovista inserito in un ufficio dove se acceleri ti guardano male, a cominciare dai capi, dopo un po' si adegua: è volenteroso, non stupido.
    Allora che fare? Il sistema della Pa non è orientato a produrre un risultato positivo, ma ad applicare norme, procedure e circolari interne. Se poi il «dopo» è peggiore del «prima» non fa niente, perché l'azione è avulsa dal contesto. Dunque il vero snodo è questo: nella Pa mancano gli obiettivi specifici, puntuali e temporizzati, per singolo ufficio e dipendente, verso cui valutare i risultati. Tant'è che poi danno i premi a tutti. E allora si pretende di affidarsi al singolo, sull'idea di fondo (catto-comunista, dunque per me sbagliata), che l'uomo sia per natura buono e tenda al bene. Per corollario, più sta in basso e più sarebbe buono, onesto e laborioso.
    La storia insegna che l'uomo, come tutte le creature del pianeta, è egoista e mira al proprio tornaconto. Solo un sistema civico efficace rende conveniente il bene e sconveniente il male – tipo Inferno e Paradiso, però in questa vita. Quando il sistema è inefficace, produce i fannulloni e anche peggio.
    I fannulloni? Li crea lo Stato inefficiente - IlGiornale.it

    Statali: tanti e vecchi
    Impariamo dalla Svizzera
    di Robi Ronza
    Secondo una ricerca di cui il Corriere della Sera ha dato ieri notizia, fra i tre milioni e duecentomila dipendenti statali italiani sono oggi soltanto 100 mila quelli che hanno meno di trent’anni. Se poi – osserviamo per parte nostra -- si escludessero dal conteggio i militari, la cui età media (37 anni e mezzo) è inevitabilmente bassa, la presenza di giovani nei ranghi dell’amministrazione dello Stato risulterebbe ancora più esigua. Il fenomeno specifico si presta a varie osservazioni, ma in effetti non è la sostanza del problema bensì soltanto una sua conseguenza.
    La prima domanda che ci si deve infatti fare è un’altra, ovvero: come mai abbiamo in Italia tre milioni e duecentomila statali? Che cosa mai ce ne facciamo? Si tratta di un esercito (si fa per dire) il cui organico, tanto per fare un paragone, risulta superiore anche a quello, 2.825.000 uomini e donne, che basta alle forze armate americane per far sventolare la bandiera a stelle e strisce, e eventualmente rovesciare bombe in testa a qualcuno, in ogni angolo del globo.
    Per definizione gli statali hanno per lo più funzioni amministrative, non produttive né tanto meno commerciali. La stima precisa di quanto siano più numerosi del necessario implica analisi complesse, ma una valutazione in sintesi è alla portata di chiunque fosse già in grado d’intendere e di volere venti - trent’anni fa. Basta fare un confronto fra quanta gente si vedeva allora in qualsiasi ufficio di imprese private allora e quanta se ne vede adesso; e rispettivamente quanta se ne vedeva e se ne vede negli uffici pubblici. Il confronto è lampante dappertutto, ma giunge al culmine nel caso di ministeri romani. Tanto più entrando in quelli principali, storici, come il ministero degli Esteri o quello dell’Istruzione, sembra di entrare in un film degli anni ’50, ma spesso anche degli anni ’30. All’inizio ci si sente piacevolmente ringiovanire, ma poi spesso si ha l’impressione, talvolta preoccupante, di reincarnarsi nel proprio padre se non nel proprio nonno.
    Non avendo il coraggio di affrontare il problema sul lato dell’organizzazione del lavoro, e prima ancora sul lato del diritto amministrativo, ormai da diversi decenni il ceto politico tenta di risolverlo prendendo il cane per la coda, ossia con il blocco dei concorsi pubblici e dei contratti. In questo modo all’inefficienza del sistema si aggiunge per soprammercato pure l’invecchiamento del personale. Quando infatti il personale più anziano comincerà ad andare in pensione in massa (nei prossimi dieci anni si tratterà di un milione di persone tra cui circa la metà dei dirigenti e degli alti funzionari), se le cose vanno avanti così ci si troverà con una macchina amministrativa dello Stato non soltanto più che mai obsoleta ma anche sguarnita.
    Con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, come diceva quel tale, immaginiamoci che presto si decida di porre mano a una riforma. Se ciò fosse c’è subito un’altra cosa da temere: che ci si affidi ancora all’«accademia» dei baroni del diritto pubblico italiano ossia ai presunti esperti che ci hanno portato dove siamo adesso, e in particolare ai baroni del diritto amministrativo, ovvero ai padri dell’attuale groviglio inestricabile di leggi e regolamenti. Non sarà possibile ignorarli ma occorre imboccare ben altre strade, in primo luogo quella del diritto pubblico di tradizione germanica uno dei cui frutti, la legislazione federale elvetica, è tutta quanta accessibile anche in lingua italiana. E così pure la sua prassi amministrativa sia a livello federale e sia a livello cantonale grazie ai due cantoni in tutto o in parte di lingua italiana.
    Statali: tanti e vecchi Impariamo dalla Svizzera

    Toh, le pensioni degli statali le pagano i privati
    di Matteo Borghi
    Un patrimonio di 18,5 miliardi di euro e che, in breve, potrebbe dissolversi lasciando spazio a un debito tre volte più grande. È questa, in pillole, la situazione dei conti dell’Inps. Uno stato pietoso, delineato a chiare lettere da un rapporto della commissione economico-finanziaria dell’istituto e riportato ieri dal Corsera.
    Che le casse dell’istituto di previdenza piangano non è certo una novità. È del resto una regola scientifica quella per cui un sistema in disequilibrio non può tornare in equilibrio se non si modificano i problemi che stanno alla base. Fuor di metafora, non può reggersi a lungo sulle proprie gambe un sistema che, per decenni, ha dato a tanti pensioni molto più alte dei contributi realmente versati. La vera notizia è infatti un’altra: i lavoratori del settore privato pagano la pensione a quelli del settore pubblico.
    Detta così anche questa sembra una non notizia. È un dato di fatto che i dipendenti pubblici non producono, di per sé, reddito: i loro stipendi, con annessi contributi pensionistici, vengono pagati dal contribuente come ogni altra spesa del bilancio statale. Il punto è un altro: il fondo dei dipendenti pubblici è quello che perde più soldi di tutti, al contrario degli altri, che perdono meno o addirittura avanzano soldi.
    Nel dettaglio l’ex Inpdap ha un deficit di 5 miliardi di euro, che saliranno a 20,4 nel 2023: nello stesso periodo l’indebitamento patrimoniale passerà dai sette miliardi attuali a ben 112,8. A confronto le altre due principali casse in rosso perdono molto meno: il deficit del fondo artigiani passerà dai 5 miliardi attuali a 7,6 del 2023, mentre quello dei coltivatori diretti si manterrà sui 4-4,5 miliardi. Fortuna che altri tre fondi – dipendenti privati, parasubordinati, «prestazioni temporanee» (cassa integrazione, maternità, malattia, assegni familiari) – continueranno ad avanzare soldi, tamponando così il bilancio che nel 2023 arriverà a perdere “solo” 12,44 miliardi l’anno. Tutte le cifre sono preoccupanti, sia chiaro: 5 miliardi di perdite l’anno dei coltivatori sono tanti, ma comunque meno degli oltre 20 dei dipendenti pubblici.
    Com’è possibile siano così tanti? Anzitutto bisogna ricordare che il fondo dei dipendenti pubblici continua a pagare vergognose baby-pensioni a persone che dal 1973 al 1995 hanno maturato 14 anni 6 mesi e un giorno di lavoro nella pubblica amministrazione (nel caso delle donne con figli, per gli altri i requisiti salivano a 20 anni nel caso degli statali e 25 nel caso dei dipendenti degli enti locali, comunque la metà degli anni richiesti oggi per la pensione). Non solo: secondo i calcoli della Cgia di Mestre dal 2001 al 2009 il costo del lavoro per gli statali è aumentato del 29,5%. Più soldi in stipendio, vogliono dire più in pensioni. In compenso il numero complessivo degli statali è sceso nello stesso periodo di 111mila unità, facendo aumentare il rapporto fra dipendenti e pensionati verso questi ultimi.
    Insomma, non solo il settore privato paga per quello pubblico, ma quest’ultimo non riesce neppure a finanziarsi coi propri contributi, indebitandosi e dovendo ricorrere, alla lunga, alla fiscalità generale. A pagare è sempre Pantalone. Ma questo non sorprende per niente.
    Toh, le pensioni degli statali le pagano i privati - L'intraprendente | L'intraprendente

  2. #192
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Altro che evasione fiscale il vero spreco è lo Stato
    La Cgia di Mestre analizza le inefficienze della macchina pubblica. Tra burocrazia, ritardi nei pagamenti e deficit nelle infrastrutture, i costi per le imprese sono insostenibili
    Pier Francesco Borgia
    Il presidente Mattarella lo ha sottolineato con vigore: se l'evasione fiscale non fosse così alta, la pressione fiscale diminuirebbe e l'economia del nostro Paese ripartirebbe di slancio. Il presidente ha anche fornito una cifra (122 miliardi di euro) desunta non dai dati del ministero dell'Economia (che si ferma a circa 90 miliardi) ma da quelli elaborati dall'ultimo studio fatto da Confindustria. Su come far ripartire l'economia e su come tagliare la pressione fiscale, però, le ricette sono molte. E il tema torna ora d'attualità perché la Cgia di Mestre ha pubblicato un dossier attraverso il quale si evince che anche il malfunzionamento della macchina burocratica statale fornisce un pesante alibi allo scartamento ridotto della nostra ripresa economica. Anzi, dice di più. Offre dati e cifre che fanno quasi impallidire i già pessimistici numeri dell'evasione fiscale. Gli effetti economici derivanti dall'inefficienza della pubblica amministrazione, insomma, sono per i ricercatori della Cgia di Mestre, peggiori a quelli dovuti al mancato gettito dell'evasione fiscale.
    La traballante macchina statale continua ad avere «un impatto molto negativo sull'economia del nostro Paese frenandone la ripresa». I dati dell'associazione mestrina sottolineano che i debiti della Pa nei confronti dei fornitori ammontano a 70 miliardi di euro al lordo della quota ceduta dai creditori in pro-soluto alle banche. Il deficit logistico-infrastrutturale penalizza poi il nostro sistema economico per altri 42 miliardi l'anno. Lo studio ricorda inoltre che il peso della burocrazia grava sulle piccole e medie imprese per 31 miliardi l'anno e che sono 24 i miliardi di euro di spesa pubblica in eccesso che non ci consentono di ridurre la nostra pressione fiscale dentro la media dell'Unione europea. Per non parlare poi di quei 23,6 miliardi ricavati dagli sprechi e dalla corruzione nel nostro sistema sanitario. Per finire poi con i 16 miliardi annui che ci costa la lentezza della nostra giustizia civile.
    «Le imprese italiane, essendo prevalentemente di piccola dimensione - commenta il Segretario della Cgia, Renato Mason - hanno bisogno di un servizio pubblico efficiente, dove le decisioni vengano prese senza ritardi e vi sia certezza per quanto riguarda le leggi e la durata delle procedure. Se, invece, la farraginosità della nostra legislazione continuerà a lasciare una grande discrezione interpretativa ai dirigenti e ai funzionari pubblici, è evidente che anche la riforma della Pubblica amministrazione messa in atto dal governo Renzi potrebbe non sortire gli effetti sperati».
    Può anche essere, come spiega il coordinatore della Cgia Paolo Zabeo, che recuperando risorse attraverso la lotta all'evasione fiscale «la nostra macchina statale funzionerebbe meglio e costerebbe meno». Però è altrettanto plausibile ipotizzare che «se si riuscisse a tagliare sensibilmente la spesa pubblica, permettendo così la riduzione di pari importo anche del peso fiscale, molto probabilmente l'evasione sarebbe più contenuta, visto che molti esperti sostengono che la fedeltà fiscale di un Paese è direttamente proporzionale al livello di pressione fiscale a cui sono sottoposti i propri contribuenti».
    Altro che evasione fiscale il vero spreco è lo Stato - IlGiornale.it

    L'odio per i ricchi danneggia chi non ha soldi
    Non c'è nulla di più pericoloso, oggi, che affidarsi alla decrescita. La parola non va più così di moda, come solo pochi anni fa. Ma rischia di aver ormai permeato una certa cultura diffusa
    Nicola Porro
    Non c'è nulla di più pericoloso, oggi, che affidarsi alla decrescita. La parola non va più così di moda, come solo pochi anni fa. Ma rischia di aver ormai permeato una certa cultura diffusa. In fondo le stesse parole di Papa Francesco evocano questo sogno arcadico della decrescita. Supposta felice. La sua enciclica sull'ambiente è figlia di quei principî.
    Basta sfogliare un giornale per vedere diffusi qua e là i germi di un principio pericolosissimo: smettiamola con questa condanna alla crescita economica, accontentiamoci e rispettiamo ciò che ci è stato dato. Come se l'opzione dello sviluppo, economico, ambientale, sociale, sia binario: zero fino a ieri, uno da oggi in poi. Ahimè non è così, lo sviluppo sociale ed economico di un popolo vanno a braccetto e sono figli di conquiste progressive e faticose. L'Italia di Carlo Levi e del suo Cristo si è fermato a Eboli è quella di 70 anni fa.
    Eppure così diversa, così arretrata. Oggi lo sviluppo economico, la tecnologia, la diffusa ricchezza hanno reso l'Italia forse più diseguale (è tutto da vedere), ma meno arretrata. Preferite forse i consigli medici improvvisati dei due «medicucci» di Eboli e le prescrizioni targate multinazionali del farmaco? La teoria della decrescita nasce in Francia all'inizio di questo millennio e ha diffuso contagio in Italia e Spagna. Non si tratta di una crescita economica rallentata, ma di una scelta volontaria e politica di crescere meno. In questo senso essa è figlia di una serie di movimenti di opinione nati invece negli Stati Uniti. È la sintesi dei numerosissimi attivisti anti sviluppo: dai comitati no-auto a quelli anti-spot, dai pasdaran dell'agricoltura biologica ai sacerdoti delle energie rinnovabili. Essi pensano che qualcuno deve decidere per noi, in cosa e come frenare il nostro naturale moto nell'andare avanti. Non dobbiamo usare le auto, non possiamo concimare i campi, dobbiamo razionare l'acqua, siamo obbligati ad usare solo l'energia del sole.
    Ma a che prezzo? Dove fermiamo l'asticella? Posso utilizzare un elicottero per portare all'ospedale un infermo? Certo che sì: ma come lo pago? Chi genera la ricchezza per produrlo e per comprarlo? Dove impieghiamo i centomila dipendenti di Porsche e Ferrari che producono non solo auto, ma lusso a 400 cavalli? E perché produrlo? Dove fermare le ambizioni di un imprenditore che vuole fare sempre di più? Cosa ha di malefico, in sé, la ricchezza se metro del successo?
    Vedete, circola la balzana idea che la decrescita possa mitigare la supposta diseguaglianza che affliggerebbe la nostra società. Si tratta di un mito. La considerazione molto semplice che si deve fare è che una società è più giusta non se tutti sono più uguali, ma se mediamente per tutti cresce il reddito anche a costo di divaricazioni tra i primi e gli ultimi. Altro che decrescita. Lo sviluppo non è una condanna, è un'opportunità per i più deboli di godere di ciò che solo pochi anni fa era considerato un privilegio per pochi. Solo così possiamo sperare che Cristo non si fermi ad Eboli.
    L'odio per i ricchi danneggia chi non ha soldi - IlGiornale.it

    Gli adoratori della povertà che ci mandano in malora
    Dal Papa ai teorici della decrescita, è tutto un elogio del basso profilo. Che impone di piegare la testa
    Camillo Langone
    Il pauperismo, che già qualche danno fece nel Quattrocento sotto forma di Savonarola e nel Novecento sotto forma di comunismo, sembra aver preso pieno possesso della scena religiosa, con Papa Francesco, e della scena politica, con i Cinque Stelle.
    Poco male se il deprimente ismo fosse rimasto relegato nell'ambito dei preti senza tonaca e degli attivisti senza cravatta, della Caritas e degli indignati, delle onlus e delle comunarie, ma complice la crisi infinita certe prediche ormai rimbombano ovunque, anche nel mondo dell'economia, dove eminenti personalità propugnano l'abolizione del contante, che è un modo per farci rimanere davanti alla Agenzia delle Entrate come San Francesco davanti al vescovo di Assisi, ossia perfettamente nudi, e nel mondo della cultura, dove ci si è talmente abituati a fare di necessità virtù che si è persa completamente la capacità di pensare e realizzare in grande, o anche in medio.
    Nulla di ciò che ha reso illustre la civiltà è stato fatto avendo come obiettivo il risparmio. «Senza denari non si canta messa» è un vecchio detto ancora molto esplicativo: senza denari, non esisterebbero il colonnato del Bernini, la Cappella Sistina, la torre di Pisa, la cupola del Brunelleschi, il duomo di Milano... Se nel corso dei secoli la Chiesa avesse pensato esclusivamente alle mense dei poveri l'Italia sarebbe nota nel mondo solo per la curiosa forma a stivale della penisola.
    Ormai Michelangelo l'ha sfangata, quello che è fatto è fatto, il pauperismo odierno non può più stroncarlo mentre sono gli artisti italiani viventi a patire la miniaturizzazione imposta dalla penuria innanzitutto ideologica. Conosco pittrici superlative costrette dalle circostanze a dipingere tele di 30x30 centimetri, in casi estremi anche 20x20. Poi è chiaro che di fronte ai pannelli del giapponese Murakami, roba da 9 metri, ci fanno la figura delle piccole fiammiferaie. Vendendo quadri-francobollo se va bene riempiranno il frigorifero ma non svilupperanno mai il fatturato necessario a pagare cataloghi, monografie, mostre prestigiose. Non cresceranno, resteranno confinate a vita nelle loro camerette, nelle loro soffitte, e se sono di sinistra (quasi sempre lo sono) non potranno nemmeno maledire le tasse perché le tasse secondo la sinistra sono bellissime (lo affermò un ministro del secondo governo Prodi) anche se il braccio armato del pauperismo contemporaneo è proprio il fisco. Ci sono persone che tremano all'idea di comprare un acquerello da 800 euri: e se la Finanza lo venisse a sapere?
    Senza opulenza, senza privilegi, non sarebbe esistito Leopardi e non sarebbe esistito Manzoni. Il conte Giacomo si lamentava del padre tiranno ma se fosse nato in una famiglia di simpatici villici la biblioteca di Monaldo (ventimila volumi, e i libri allora costavano tantissimo) non l'avrebbe vista nemmeno col binocolo. Il conte Alessandro se non fosse stato un ricco possidente non avrebbe potuto dedicare vent'anni ai Promessi sposi. Le attuali ristrettezze, prima mentali che finanziarie, spingono invece a evitare le grandi opere per dedicarsi a libri piccoli nell'ambizione se non nella foliazione, incentrati su ombelicali problemini di cuore o dieta. È dunque il momento di Chiara Gamberale e Fausto Brizzi. «Con mia moglie l'ultima litigata è avvenuta perché ha trovato dello stracchino nel frigo» racconta colui che ha sposato una vegana ed è meglio lasciarlo perdere se si vuole imparare qualcosa su ostriche o beccacce o aragoste: per quelle bisogna leggersi rispettivamente Casanova, Malaparte, Parise, letterati del tempo lussuosista che fu.
    In anni moralistici (il pauperismo è innanzitutto moralismo) il lusso è la vera controcultura, oltre che una speranza per la ripresa dell'occupazione come sa chiunque abbia anche solo sfogliato Mandeville e gli economisti della scuola austriaca. Senza denari non si canta e neppure si suona. Penso ai tanti organi magnifici e silenziosi, non più restaurati perché i parroci anziché dare lavoro all'organaro preferiscono assistere il maomettano appena sbarcato, penso ai musicisti disoccupati perché la musica ormai si fa con i computer e non solo per scelta estetica. Dietro il fenomeno delle band unipersonali, Luci della centrale elettrica, I Cani, eccetera, c'è anche il risparmio su strumenti e strumentisti siccome per dischi e concerti nessuno vuole pagare e però poi nessuno si lamenti se il suono non è quello dei Pink Floyd che avevano batterie lunghe un chilometro, cori nutriti e all'occorrenza intere orchestre, insomma tutto l'apparente superfluo senza il quale The Dark Side of the Moon non si dà. Scrive Stefano Zecchi che il lusso viene «condannato per quel suo desiderio di elevazione e distinzione dalla massa».
    Il pauperista che condanna la ricchezza indirettamente condanna qualunque forma d'arte rifiuti di abbassarsi, di appiattirsi: fosse per lui esisterebbero solo i fotografi di «Scatta per Emergency», i registi di film sui profughi e le iniziative dell'assessorato alla cultura del Comune grillino di Parma tipo l'incontro «Mozzarella delle terre di Don Peppe Diana. Un esempio di economia della legalità che favorisce l'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati». Così i veri soggetti svantaggiati, col pauperismo al potere, sono i veri artisti.
    Gli adoratori della povertà che ci mandano in malora - IlGiornale.it

  3. #193
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Super anagrafe tributaria: il suddito è nudo
    L’effetto reale della super anagrafe tributaria sarà quello di renderci, oltre che sudditi, sudditi nudi davanti a sua Maestà l’erarioFino a ieri, al fisco bastava digitare il codice fiscale di ciascuno di noi per avere accesso a una mole di dati lavorativi, personali e familiari. Dal primo aprile, in virtù di una norma del 2011 divenuta ora efficace, a questi dati si aggiungono tutte le movimentazioni e ogni informazioni di qualsiasi natura finanziaria, compresi i movimenti di conto corrente e gli accessi alle cassette di sicurezza.
    In tal modo, secondo il linguaggio del legislatore, saranno possibili verifiche sui contribuenti a rischio di evasione. Poiché però il nostro sistema tributario è congegnato in maniera tale che, tra presunzioni e inversioni dell’onere della prova e strumenti sintetici di accertamento, siamo tutti essenzialmente potenziali evasori, l’effetto reale della super anagrafe tributaria sarà quello di renderci, oltre che sudditi, sudditi nudi davanti a sua Maestà l’erario.
    E’ un assunto auto-evidente che l’evasione sia una pratica illecita. E’ molto meno evidente, invece, che l’evasione sia la causa dell’eccessiva pressione fiscale.
    Quanto dobbiamo versare alle casse dello Stato non è un debito collettivo. Non c’è nessuna correlazione, se non nella ingannevole retorica politica, tra la somma di quanto lo Stato pretende e quella che riesce a riscuotere, semplicemente perché le tasse non sono un debito indiviso della collettività, ma una scelta libera dell’autorità politica.
    Ne sia una prima, banale dimostrazione che, nonostante ogni anno si esulti per i migliori risultati conseguiti dalla lotta all’evasione, le tasse non diminuiscono e il recupero dell’evasione, a dispetto dell’apposito fondo costituito nel 2011, non riesce ad essere usato per una riduzione della pressione fiscale. Né potrebbe, a ben vedere, esserlo: come si possono abbassare le tasse strutturalmente dal momento che l’evasione e quanto di essa viene recuperato non possono essere variabili fisse?
    Ciò che sembra sfuggire nella cantilena del «paghiamo tutti per pagare meno» è che l’amministrazione pubblica è al tempo stesso controllore e beneficiario del pagamento delle imposte. Essa non ha alcun interesse se non a massimizzare la raccolta delle risorse le quali, prima di costituire la fonte di finanziamento dei servizi pubblici, rappresentano la condizione di esistenza della burocrazia.
    Ciò che, invece, sembra sfuggire nella cantilena del «chi non ha da nascondere non tema» è che non sempre il fisco ha ragione di intromettersi nelle nostre vite. Secondo l’ultimo rapporto annuale disponibile sulla giustizia tributaria (anno 2014), 3 volte su 10 in primo grado e 4 in secondo il contribuente si vede riconoscere pienamente le proprie ragioni. Una parziale vittoria si ha invece circa una volta su dieci. Con la super anagrafe tributaria, vuol dire che quasi nella metà dei casi il fisco non ha motivo di sapere che il mese scorso abbiamo regalato dei soldi a nostro nipote o abbiamo depositato in cassetta di sicurezza un gioiello di famiglia.
    Super anagrafe tributaria: il suddito è nudo

    IL BUONSENSO IN LETARGO
    DARIO MAZZOCCHI
    Dunque l’Agenzia delle entrate potrà controllare direttamente il nostro conto corrente: oltre 500 milioni di dati saranno trasmessi dalle banche, di modo che siano facilmente rintracciabili tutti i movimenti, sia in contante che con bancomat e carte di credito.
    Dicono sia una mossa per combattere l’evasione fiscale o, peggio ancora, per stilare una lista di persone a rischio evasione: pare piuttosto un’operazione di polizia, dove le prove cedono il posto alla presunzione di colpevolezza. I controllori, affidandosi ai loro conteggi, potranno supporre chi muove denaro in nero e ammonirlo, lasciandoli a questo punto l’onere di discolparsi – un ben noto vizio italico.
    Il teorema per cui se non si ha nulla da nascondere, allora non si ha nulla da temere è una boiata: le cronache giudiziarie hanno raccontato molte volte le sorti di innocenti condannati per errore.
    E ancora. Vicende diverse, ma con tratti in comune – d’altronde il destino degli utenti si gioca su internet, dove le regole sono molto labili, specialmente quando si intromettono lo stato e i censori, mossi da uno spirito acritico che genera un metro di giudizio politicamente corretto e sproporzionato -: il comico Luca Bizzarri pubblica su Facebook una foto con un salame in mano come gesto di sostegno a Giuseppe Cruciani, il giornalista di Radio 24 preso di mira (anche fisicamente) dai vegani nei giorni scorsi. Lo scatto è stato censurato dal social network su richiesta della lobby vegana che oramai impazza ovunque: possono permetterselo, sia di far chiasso perché c’è chi presta il fianco, sia di seguire la loro dieta perché non vivono in regioni del mondo dove si muore di fame.
    Per un salame si sono mobilitate le politiche del quieto vivere di Facebook e a questo punto sorge una considerazione: chi è il più demente tra un vegano che chiede di censurare Bizzarri e un amministratore del sito che applica la richiesta senza batter ciglio?
    La presunzione si diffonde a macchia d’olio, il buon senso è confinato in un lungo letargo e non reagisce agli stimoli della primavera alle porte.
    Buonsenso in letargo | RightNation

    L’ennesima mancetta che paghiamo noi
    L'idea di distribuire 80 euro ai titolari di pensioni minime rischia di essere una manovra sfascia-casse pubbliche, alimentata da un aumento della spesa o da un rincaro delle tasse. L'ultima delle tante "renzate"
    di Gianluca Veneziani
    Il giovane Matteo forse riceveva una paghetta da 80 euro al mese, o deve aver letto da ragazzino Il giro del mondo in 80 euro, tanto si è fissato con questa cifra. Dopo aver garantito 80 euro ai dipendenti, promesso 80 euro alle neo-mamme, elargito 80 euro alle forze dell’ordine, ora si è messo in testa di estendere il bonus anche ai titolari di pensioni minime, sotto i 500 euro.
    Colpisce innanzitutto il modo in cui ha avanzato quest’idea: durante una diretta web, mentre rispondeva a tweet e post degli italiani sui suoi profili social, all’improvviso, con un’illuminazione istantanea, ha lanciato questa proposta, folgorato dalla Provvidenza o forse dalla Previdenza. La politica dell’improvvisazione, non basata su riflessioni e pianificazioni né su calcoli e conti ponderati, che non richiede un pensiero preventivo né una prospettiva sulla sostenibilità a lungo termine. Basta il lampo di genio, l’Eureka, la proposta-choc. Quello che qualcuno chiama “la dittatura del presente”.
    A parte queste considerazioni sul metodo, colpisce anche il merito dell’idea renziana, che non pare rispondere ad altre logiche che non siano quelle meramente comunicative o elettorali. C’è chi sostiene che la proposta sia un’arma di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione dall’affaire-Guidi, c’è chi dice che sia una manovra riacchiappa-voti, in un momento in cui il Pd pare mostrare una certa disaffezione nell’elettorato più vecchio anagraficamente e meno entusiasta del nuovo corso renziano.
    Quello che è certo è che si tratta di un’operazione sfascia-casse pubbliche. Venisse davvero adottata la misura renziana, il pagamento di 80 euro mensili a tutti i pensionati sotto la soglia minima di 500 euro costerebbe, nella migliore delle ipotesi, 2,3 miliardi, nella peggiore 3,5 miliardi. Roba da chiedere all’Europa uno 0,2 o uno 0,3 ulteriore (l’ennesimo) di flessibilità sul deficit. O da necessitare, come più probabile, un ennesimo sacrificio ai cittadini italiani, ovviamente in termini di tasse. Così Renzi restituirebbe, come da par suo, con una mano quello che prende con l’altra. L’operazione salva-pensionati non sarebbe altro che l’ennesima missione ammazza-contribuenti: il dono foraggiato da un balzello, l’ennesimo scippo travestito da mancetta. Magari animato da una retorica pauperista, per cui occorre prendere fondi dalle pensioni più alte per destinarle a quelle più basse, come ha teorizzato qualche giorno fa il presidente dell’Inps Tito Boeri, in versione Robin Hood. Una sorta di patrimoniale applicata alle pensioni…
    Mettici pure che gli 80 euro alle pensioni minime non sarebbero neppure una misura meritocratica, in quanto finirebbero per agevolare chi in generale ha versato pochi contributi, con tanti saluti a chi ha sgobbato una vita per mettersi da parte un fondo pensione decente. Hai lavorato poco e versato pochi contributi? Bene, lo Stato ti premia dandoti un migliaio di euro all’anno. Non c’è che dire, un bell’incentivo a lavorare sodo e a lungo…
    L’Elargitore Seriale Matteo crede di poter tirare avanti a governare, promettendo regali e vendendo caramelle, come i più tristi imbonitori. Sarebbe il caso che si compiesse prima o poi la nemesi: che Renzi vada in pensione, lui, da primo ministro. In quel caso saremmo pronti per gratitudine, facendo una colletta, a dargli 80 euro una tantum come buona uscita.
    L'ennesima mancetta che paghiamo noi - L'intraprendente | L'intraprendente



    Oltre Panama, cercasi indignazione per la pressione fiscale
    di L'Intraprendente
    Caso Panama. Ecco il popolo degli indignati, tutti contro questi dannati, sporchi evasori. C’hanno provato pure con Cameron, a paventare l’esigenza di dimissioni, ma lui non s’è nascosto e ha spiegato che le azioni della società incriminata le aveva vendute prima di diventare primo ministro (guadagno pari a 30mila euro e, dice, imposte pagate). Ah, quell’inglese, che stile. Ma al di là della voglia folle di frugare nell’intimo (bancario) di Carlo Verdone, Valentino (lo stilista, stavolta) & Co. rimane la domanda: l’evasore è sempre nel torto? Certo, chi porta i soldi a Panama non è esattamente un barista h24 stremato dal residuo fiscale, tendenzialmente è uno che non ha esattamente difficoltà a sbarcare il lunario e sì, a volte banalmente un furbo. Resta il fatto che la tassazione al 70%, si parla di casa nostra, è barbara.
    Ma d’accordo, facciamo che evadere non sia anche e soprattutto una questione di sopravvivenza. Facciamo che in Italia non si tratti pressoché sempre di evasione legittima e diciamo pure che tutti gli evasori sono egualmente cattivi. Nel dettaglio, per il caso Panama, sentiamoci legittimati all’indignazione pura, quella di pancia, fin alla rabbia. Eccoci. Fatto questo resta quell’irrisolto, quel sospeso, il dubbio: ma perché è facile indignarsi quando un privato evade e non quando lo Stato saccheggia senza pietà? Cosa rende ricevibile la rapina statale, le tasse sempre più alte, i balzelli continui, l’Imu, la tassa sull’ombra per le attività commerciali (sì, si pagano i millimetri di ombra che ombrelloni e insegne “occupano”), il canone Rai? Cosa rende ricevibile il residuo fiscale lombardo-veneto? Nulla, a nostro avviso. Eppure per i capannoni veneti che chiudono lo sdegno è di poche manciate di persone, per il dipendente che in busta paga ha circa la metà di quel che costa al datore di lavoro si chiedono sussidi, non riforme. Ecco, forse servirebbe, a voler vedere, un filo di indignazione generale anche per il residuo fiscale, per i suicidi di Stato, per l’esattore permanente che promessa dopo promessa non ha ancora saldato i debiti della pubblica amministrazione, e che neppure scala le tasse, non paga ma esige di essere pagato dal suo creditore, che spesso intanto fallisce. Follie italiche rese lecite da una nazione dormiente, ancora castrata dall’invidia sociale, quella che l’importante è che stia male pure quell’altro. Mica che si potrebbe star meglio tutti. No, noi ci indigniamo per gli evasori, che lo Stato rubi è praticamente lecito.
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    Magari fossimo a Panama
    Mentre monta lo scandalo delle società offshore centroamericane, si scopre che in Italia la tassazione media ha toccato il 43,5%. Molto meglio i paradisi fiscali che l'inferno fiscale in cui viviamo...
    di Gianluca Veneziani
    Ma ditemi la verità: voi preferireste vivere in Paradiso o all’Inferno? No, perché a leggere i commenti degli indignati di professione oggi sui giornali, sembrano tutti scandalizzati per la storia dei Panama Papers, cioè per quei ricconi, big del mondo, vip, campioni, attori e capi di Stato, che avrebbero occultato i loro soldi, destinandoli a società offshore panamensi ed eludendo così il fisco per decine o centinaia di milioni. “Ladri”, “evasori”, “ricchi” (ché la ricchezza, per alcuni, è già di per sé motivo di insulto), è il grido unanime, rivolto a tutti i grandi che figurerebbero nella lista nera, dal calciatore Messi a Luca Cordero di Montezemolo, dal presidente ucraino Poroshenko al presidente russo Putin (sì, anche il fiero avversario dell’Occidente capitalista, quando può, coglie tutte le opportunità del liberismo. Ma questo è un altro discorso…).
    Ebbene poi capita che lo stesso giorno vengano fuori gli ultimi dati Istat sulla pressione fiscale media in Italia e si scopra che nel 2015 ha toccato la quota quasi record del 43,5%, superando i livelli del 2014 e del 2013 (quando si era attestata rispettivamente al 43,1 e al 43,4), oltre le più rosee stime del governo, che come sempre non ci ha azzeccato. E questo senza considerare il carico fiscale sulle sole imprese, il cosiddetto total tax rate che nel nostro Paese raggiunge la cifra folle del 64,8%, numeri enormi se paragonati a quelli di altri Stati europei, dalla Spagna dove tocca il 58, alla Germania dove sfiora il 50 alla Gran Bretagna, in cui è appena del 34%. In sostanza, nel nostro Paese, due terzi dei guadagni le imprese devono versarli allo Stato. E le aziende, fino ad agosto, lavorano solo per foraggiare la Bestia dell’apparato pubblico, riservandosi di poter pensare al proprio utile (quando e se ci riescono) solo gli ultimi quattro mesi. Be’, in un Paese così, è impossibile non solo vivere ma anche lavorare e pagare le tasse. E da un Paese così viene tanta voglia di fuggire, non solo per cercare lavoro ma soprattutto per cercare un po’ di ossigeno rispetto all’oppressione fiscale. Altro che rientro dei cervelli (e dei portafogli) in fuga…
    E così ti imbatti nel caso-Panama. Che è uno Stato molto ambito per i depositi finanziari di oligarchi, campioni e capi di Stato non solo per le spiagge e il clima, e non solo perché, in un lembo di terra, unisce due sub-continenti e mette in collegamento due oceani. Ma soprattutto perché al suo interno quel mostro chiamato Fisco non ha pressoché alcun peso, perché nel caso peggiore – di grandissimi guadagni – le tasse sul reddito raggiungono il 26%, quelle sulle rendite sono nulle, si può detrarre tutto, dalle tasse universitarie alle spese auto fino alle spese mediche e di farmacia, l’Iva è ferma al 7%, c’è un’esenzione fiscale totale sugli immobili per 20 anni nel caso di nuovo acquisto (altro che abolizione della Tasi sulla prima casa) e non ci sono mai prelievi forzosi sui conti in banca né tanto meno controlli occhiuti da Grande Fratello fiscale…
    Be’, in un posto del genere, viene forte la tentazione di viverci, trasferendo oltre che se stessi anche i propri soldi. Ed è una tentazione che viene a tutti, mica solo ai grandi del mondo; viene anche ai comuni mortali i quali, costretti a vivere tra i dannati tartassati, sperano di godere un giorno della luce dei beati senza fisco.
    E già, se l’Inferno sono le tasse, il girone degli evasori si trova in Paradiso.
    Magari fossimo a Panama - L'intraprendente | L'intraprendente

  4. #194
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Il divieto del pagamento in contanti – la via verso uno Stato-tutela
    La soppressione prevista del denaro in contanti priva i cittadini dei loro diritti
    Non solo negli USA si progetta di sopprimere il denaro in contanti. Anche in Europa il dibattito è rilanciato. Dietro ad un concetto così innocuo come una «vita senza moneta liquida», in realtà si nasconde il tentativo di mettere sotto pressione i cittadini dell’intera Europa. Perfino Orwell ne rimarrebbe scandalizzato.
    Il denaro, concepito inizialmente per sostituire l’oro, rappresenta un mezzo di pagamento facilmente trasportabile. Per un lavoro effettuato o per merce venduta ricevo in contropartita del denaro. In seguito con questo «mio» denaro posso acquistarmi liberamente
    altre cose o servizi. Così per esempio posso comperare il necessario per il mio sostentamento oppure servizi come il dentista o il garagista, o posso anche pagare le imposte o altre tasse.
    Se ora tutte le operazioni di compera e di vendita avvengono tramite «carte di credito» – cioè senza contanti – non ho più in mano un’equivalente quantità, salvo una piccola carta di plastica con un chip elettronico, tra l’altro manipolabile e controllabile in ogni momento. Ora si potrebbe obiettare: ma va bene così, è igienico e non si possono più concludere affari criminali.
    Continuiamo la nostra riflessione. La cosa diventa interessante al momento che non posso più accedere ai miei «risparmi d’emergenza» sotto il cuscino o che non posso più concedere un prestito esente da interessi al mio nipote tramite stretta di mano. I miei soldi ora sono depositati su una carta con chip elettronico, amministrata da una banca o dallo Stato.
    Cosa succede se le Banche centrali come BCE, la FED o la BNS attuano una politica radicale con interessi negativi? I miei risparmi sotto il cuscino ne sarebbero risparmiati. Ma sul conto virtuale ogni mese si deduce un interesse negativo. Così, per evitare che i miei soldi si dissolvano come neve al sole, sono costretto a spenderli. È proprio questo che si augurano molti governi. Così i miei risparmi d’emergenza non ci sono più e il prestito di sostegno per il nipote sulla carta di plastica va dileguandosi senza pietà, anche senza che egli ne abbia fatto uso. Oggi tutti sanno che non si ricevono quasi più interessi bancari e che in Svizzera è già stata introdotta una politica «morbida» degli interessi negativi.
    Ma non è tutto, il peggio può ancora venire. Si potrebbe chiedere ironicamente: non è dannoso per me comperare sigarette o alcolici? Tali acquisti ora si potrebbero bloccare con una carta-chip di plastica. Non è più possibile nessun acquisto!
    Per divertirsi si potrebbero ancora aggiungere molte idee in merito. La decisione su ciò che mi fa bene o male e su cosa faccio con i miei soldi potrebbe essere presa da qualcun altro, non più da me stesso. Così vengono registrati e messi in relazione con me tutti i miei acquisti o le mie vendite.
    Anche per nuove imposte potrebbero crearsi possibilità inattese: l’acquisto di certi prodotti potrebbe essere tassato direttamente. E anche le banche per certi trasferimenti potrebbero introdurre tasse specifiche.
    In un tascabile molto interessante intitolato «Bargeldverbot. Alles was Sie über die kommende Bargeldabschaffung wissen müssen»
    [Divieto del denaro liquido. Tutto ciò che dovreste sapere sull’abolizione del denaro] gli autori Ulrich Horstmann e Gerald Mann descrivono i passi già realizzati e gli scenari possibili che potrebbero condurre all’abolizione a breve scadenza del denaro liquido. È Kennet Rogoff, rinomato professore dell’università di Harward, che ne ha dato l’impulso iniziale in occasione di una conferenza all’università Maximilian Ludwig di Monaco nel novembre del 2014. Egli ha lodato i «vantaggi» del pagamento senza liquido sul retroscena della crisi finanziaria attuale e ha formulato concrete proposte di come procedere per eliminare la moneta in contanti.
    Horstmann e Mann dimostrano che la crisi attuale negli USA e in Europa renderà probabile una politica radicale degli interessi negativi (4-5%). Descrivono anche le riflessioni economiche che vi stanno alla base. Si vogliono costringere i risparmiatori privati a investire i loro averi nel consumo o in prodotti bancari, al fine di rianimare artificialmente l’economia.
    Gli autori descrivono tra l’altro una campagna mediatica in Svezia, che nel 2010 aveva l’obiettivo di abolire il denaro liquido («subito senza cash!»). Il denaro in contanti venne descritto come poco igienico e nello stesso tempo lo si mise in relazione con la mafia e con il commercio di armi. Miratamente si mettono in circolazione immagini che risvegliano associazioni negative nei confronti del denaro liquido. Chiunque paga in contanti è sospettato di illegalità. E chi mai vuole arrischiare un sospetto del genere?
    Alcuni Stati dell’UE come l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Belgio o la Francia negli ultimi anni hanno proibito gli affari con denaro liquido superiore a 1000, rispettivamente 3000 euro. In paesi come la Svizzera, l’Austria o la Germania i pagamenti in contanti invece sono molto apprezzati. Là i piani per l’eliminazione degli stessi incontrano una forte opposizione.
    Alla fine del loro libro Horstmann e Mann non si limitano all’analisi, ma incitano a protestare contro eventuali piani statali di soppressione della moneta liquida come pericolosa limitazione di diritti popolari di libertà. Un passo in favore della resistenza si può già fare continuando a pagare con monete e banconote!
    Anche in Svizzera si lancia il dibattito sulla soppressione del cash. Un impulso è stato dato dalla trasmissione radiofonica «Kriminell und teuer? Bargeld auf der Anklagebank» [Criminale e caro? Il denaro liquido sul banco degli accusati], nella quale il denaro liquido è stato messo sotto accusa durante una rappresentazione teatrale. Questa prima volta con un esito positivo per le moneta …
    http://www.discorso-libero.ch/DL/201...L_04_20153.pdf

    Fisco e incentivi pubblici per i funzionari: due facce della stessa medaglia raccontate attraverso la storia di Mauro Furlan, il primo imprenditore che in Italia ha trascinato in tribunale i funzionari dell'Agenzia delle Entrate chiedendo loro oltre 1 milione di euro di danni per un presunto errato accertato fiscale.

    Il fisco premia i dirigenti che ci massacrano | LA7 - Video e notizie su programmi TV, sport, politica e spettacolo

    Il problema dello Statale con il pensiero logico
    Maurizio Blondet
    Appena si prova toccare l’argomento dei privilegi dei dipendenti pubblici – descrivendoli per quel che sono: una casta parassitaria, inadempiente e che si sente estranea al destino nazionale – subito mi scrivono degli statali raccontando il loro caso personale. Esibiscono le loro piaghe: gli anni di precariato, la fatica del concorso (“erano chiusi da dieci anni”), i trasferimenti ad altra sede, il misero stipendio; mi giurano che loro lavorano onestamente, anzi si esauriscono a sgobbare senza riscuotere la minima soddisfazione dal pubblico, e poi chiedono: “Le sembro un privilegiato, io?”.
    Ora, con tutta la carità possibile, un simile argomento non dimostra, in chi lo usa, se non una cosa: una vera e propria falla dell’intelligenza, una incapacità al pensiero logico ed una allarmante inettitudine a cogliere le idee generali. Un caso personale non inficia un’asserzione generale. Il fatto che “io, statale, andrò in pensione con 1330 euro mensili” non smentisce il fatto che la pensione media dei pubblici dipendenti è di 1770 euro, che è il 72% superiore a quella media dei privati, e che questa è “indebitamente eccessiva”, un regalo esecrabile a danno dei poveri, rispetto alla condizione di bancarotta dell’ente previdenziale , il quale è stato messo a carico dei dipendenti privati – e contribuisce a diminuire le loro pensioni e a rendere “meno competitivo” il costo del lavoro italiano.
    Chiaro? E’come se quel signore che prende la nota mega-pensione Inps pretendesse di smentire che tre milioni di pensionai Inps prendono le “minima, e la prova che la mia ammonta a 90 mila euro mensili!”. Che cosa c’entra? Come esempio di deficienza intellettuale, il caso personale equivale all’altro “argomento” che altrettanto regolarmente mi viene opposto quando parlo delle pensioni grasse degli statali: “Chissà quanto prende lei di pensione, Blondet; perché non ce lo dice?”. Perché ci sono anche questi. Forse qui il basso livello mentale è aggravato dalla bassezza morale: insinuano che “è un privilegiato anche lei, quindi non stia ad accusare i nostri privilegi; perché chissà che altarini possiamo scoprire su di lei, se ci mettiamo a scavare …”. Questa losca e furbesca chiamata di correità, è tipica, temo, di una categoria. La strizzata d’occhio fra privilegiati pubblici, non ci colpiamo tra noi…
    Ed è la causa per cui essa come corpo sociale è non-riformabile: l’insegnante che mi scrive protestando “io sgobbo da mane a sera”, l’impiegato che protesta “sono onesto, io”, “non rubo, e sono competente” sono almeno colpevoli di questo: non hanno mai preso le distanze dai colleghi inadempienti per incapacità, fancazzismo o disonestà; quelli che hanno barato al concuorzo; né dai dirigenti che danno a tutti i loro sottoposti la valutazione di “massima produttività” onde tutti, inadempienti e no, possano avere il truffaldino “aumento di merito” o “di produttività”.
    Anzi: voi capaci, meritevoli, onesti anzi eroici sgobboni, collettivamente avere sempre preso le difese dai colleghi inadempienti, li avete sindacalmente protetti, siete scesi regolarmente in sciopero – in massa come un sol uomo – perché non fossero licenziabili, con un corporativismo ottuso e scandaloso. Fino al caso estremo di Sanremo, dove ciascuno era pronto a timbrare i cartellini dell’altro perché si assentasse rubando lo stipendio – che vi è pagato da gente più povera di voi, come sono la maggioranza di italiani.
    Il fatto che io, personalmente, appartenga ad una categoria (relativamente) privilegiata, i giornalisti, non mi impedisce di vedere, misurare – e denunciare – i privilegi abusivi della casta pubblica a spese dei privati, lavoratori e contribuenti, che li pagano: i loro veri datori di lavoro, che essi trattano come un bestiame da sfruttare senza scrupoli e senza limiti. Ormai siete un problema di oppressione, anche perché siete 3 milioni (i giornalisti sono ottomila) e il vostro costo è una gigantesca palla al piede per la società intera.
    Siete vincitori di una lotta di classe non dichiarata – quelli che i soldi pubblici li prendono contro quelli che i soldi li danno – che sta soffocando la società produttiva. Ed oggi che la società produttiva sta rendendo meno per voi in imposte (pensate che il Comune di Milano ha visto ridurre il gettito dovuto alle miriadi di tasse sull’edilizia da 126 a 44 milioni, perché il settore immobiliare è in agonia), la state letteralmente uccidendo perché vi paghi gli aumenti”, e continui a darvi le vostre pensioni superiori del 72% alle sue. E peggio, perché i peggiori fra voi possano continuare ad estrarre le tangenti e i lucri delle loro malversazioni.
    Che divorano le finanze pubbliche in una percentuale enorme, inaudita. Ho già parlato di come le Fiamme Gialle abbiano denunciato alla Corte dei Conti 4835 funzionari pubblici disonesti-incapaci che, nell’insieme, hanno “bruciato” in sei mesi più di 3 miliardi di euro in malversazioni. C’è di tutto: dalla mala gestione del patrimonio pubblico alle creste sulla Sanità, dagli appalti raddoppiati all’appropriazione dei fondi europei, fino alla mancata percezione di affitti.
    Costo, 3 miliardi in sei mesi. Sono 6 miliardi in un anno. Denaro pubblico fregato e sprecato da un campioncino minimo, meno di 5 mila statali. Poniamo che i disonesti non scoperti siano solo 50 mila – percentuale realistica, su 3 milioni – il vostro costo già è sui 60 miliardi l’anno. Solo il costo degli sprechi e malversazioni. Oltre al vostro mantenimento, ai vostri stipendi superiori a quelli privati, alle vostre pensioni, ai vostri benefit, al costo della vostra sindacalizzazione.
    Per voi sono tre milioni di “casi personali” e di qualche migliaio di “mele marce” (che vi guardate bene dal denunciare, in genere). Per la società italiana, impoverita, arretrata e aggravata, siete il problema sociale primario. Proprio voi, proprio voi in quanto “pubblici”, dovreste rendervene conto e unirvi a chi vuol riformare il sistema, le istituzioni che proprio voi (così vicini ai politici) avete contribuito a deformare a vostro preteso vantaggio.
    Invece negate il problema generale, ne fate un caso personale. Pronti a difendere i vostri privilegi – e quelli di voi che sono meno privilegiati,di fatto proteggono i privilegiati grossi, da cui non prendete le distanze. E’ per questo che qualunque ministro in carica che si proponga di riformare lo spreco pubblico, non può far altro che “tagli lineari”: perché se prova a fare i tagli a ragion veduta, dopo un’analisi minuta degli sprechi e del personale in eccesso, degli enti inutili e della municipalizzate truffaldine, vi ha contro “tutti”, tutte le categorie e sotto-categorie, e gli insegnanti da 1600 euro mensili sono lo scudo di massa che difende, in fondo i pretoriani del Parlamento, 100 mila euro di stipendio medio annuo, 350 mila di paga massima: aumentati da ricche aggiunte che vengono denominate “indennità”: l’«indennità meccanografica», l’«indennità recapito corrispondenza», l’«indennità immissione dati» – cioè prendono un’indennità per svolgere ciascuna delle mansioni che questi ricconi sono tenuti a svolgere per stretto dovere e ragguardevolissimo stipendio. E non c’è da stupire: le poche decine di impiegati parlamentari sono divisi (e potetti) da 11 sigle sindacali. Per questo sono intoccabili, e non tagliabili i loro stipendi – del resto la Corte Costituzionale, ossia la decina di marpioni da 450 mila euro annui, ha sancito che “tagli decisi unilateralmente” dal governo sono incostituzionali: e con questa motivazione ha bocciato il contributo di solidarietà sulle paghe pubbliche superiori a 90 mila euro annui. Perché hanno vinto o’concuorzo, e non siete stati assunti come noi nel privato: ma è logica, questa? E’ la logica del potere e degli sfruttatori.
    Cosa ha da dividere, con questi scandalosi “Ricchi di Stato” lei insegnante di latino e greco di 52 anni che lavora da 3 anni per lo stipendio (non del tutto disprezzabile) di 1600 euro mensili? A parte che lei stesso non riconosce quanti privilegi ammette di godere nella sua lettera: dopo 5 anni di sofferenza “ a 200 chilometri da casa in una città dove il costo della vita è superiore del 15-20 per cento”, ha ottenuto il trasferimento “nella città natale”: già, perché succede questo, che gli insegnanti non sono laddove ci sono più studenti, ma dove conviene stare a voi. Ed avete la forza sindacale di strappare “i trasferimenti” al Sud spopolato dopo pochi anni al Nord dove il costo della vita è alto perché paga 50 miliardi annui alle Regioni meridionali. Che dite? Forse sono gli scolari che devono trasferirsi nel Sud in massa, dove voi potete vivere in famiglia, col costo della vita piacevole e vicino al parentado. Per le sue stesse parole, caro insegnate di greco e latino, lei rivela la mentalità tipica della categoria: che le istituzioni pubbliche non sono fatte per dare servizi al popolo, ma il popolo per servire voi.
    Qualche maligno potrebbe malignare su questa incapacità mentale di distinguere il generale dal particolare, questa inettitudine ad usare il pensiero logico, al fatto che troppi i cervelli, una volta vinto o’ concuorzo, non hanno avuto più bisogno di funzionare e pensare.
    Purtroppo, la verità è ancora peggiore, Fosse solo insufficienza mentale. Avete visto il caso della AAMPS, la municipalizzata di Livorno per la raccolta dei rifiuti? Una azienda in bancarotta. Il nuovo sindaco del Movimento 5 Stelle, Filippo Nogarin, ha fatto quello che dovrebbero fare tutti i sindaci, a cominciare da quello di Roma: portare i libri in Tribunale. L’azienda municipale messa in procedura di fallimento, soluzione legale e geniale: non solo il debito viene praticamente ridotto, e i creditori (che hanno avuto il torto di prestare a dei buchi neri, convinti che comunque l’Erario avrebbe provveduto) sono messi in fila a recuperare il 20 per cento, se possono; il meglio è che i dipendenti “pubblici” sono tutti finalmente nelle condizioni di un’azienda privata che fallisce – sulla strada – poi fra loro una nuova azienda può scegliere i migliori. Per l’ATAC di Roma, sarebbe quella essenziale, il risanamento radicale e perfettamente legale. Le municipalizzate sono infatti “privatizzate”, hanno lo status di società per azioni, anche se il solo azionista è il Comune. Una furberia, che per anni è servita solo a una cosa: a politici a fare assunzioni di amici e clientes senza bando pubblico, acquisti senza pubbliche aste, a sottrarre la contabilità alla Corte dei Conti….
    Contro questo provvedimento, gli spazzini di Livorno (tutti ex imbucati dal PCI, che governa la città dal dopoguerra), coi loro sindacati, hanno fatto di tutto: riempito la città di spazzatura con giorni e giorni di sciopero, per poi accusare il sindaco Nogarin di minacciare la salute pubblica dei cittadini; quando questi ha assunto 33 avventizi per ripulire la rumenta, l’hanno denunciato di comportamento antisindacale, sfruttamento di precari, di essere “contro i lavoratori”.
    Infine, sorprendentemente, il Tribunale fallimentare di Livorno ha deciso, in modo sorprendente: sì, la AAMPS è fallita. Avrà un commissario liquidatore ( “Potrà finalmente aprire quella scatola in cui sospettiamo troverà molte sorprese”, gongola il sindaco, che evidentemente non ci poteva entrare, pur essendone l’unico azionista). E ancor di più, i giudici civili hanno respinto le opposizioni dei “Lavoratori” e dei loro sindacati con questa motivazione: “Non solo non sussiste alcun obbligo da parte dell’ente pubblico di finanziare la società partecipata in perdita – scrive il tribunale – ma anzi l’intervento pubblico teso a ricapitalizzare la società in caso di perdite non è ammesso se non in casi eccezionali, dovendo le società pubbliche essere gestite sulla base di principi di economicità, efficienza e legalità finanziaria”.
    Subito dopo, cosa è successo al sindaco Nogarin? Prima, ha avuto le gomme dalla Passat tagliate; poi, ha subito un furto in casa, con effrazione; infine, la a Passat è stata distrutta da ignoti vandali che l’hanno resa inutilizzabile, rubando, già che c’erano, il pc portatile, il navigatore satellitare e vari documenti.
    Non potete dimostrare che sono stati gli onesti lavoratori e compagni della municipalizzata a farlo. Solo, mi conferma in un vecchio dubbio. Anni fa, da giornalista, provai a fare delle inchieste sul “sistema Emilia”, le coop rosse, le commistioni fra pubblico e privato dove il capo partito passava da una coop al comune, dalla Regione a una coop..e dove non potevi aprire una bancarella senza aver pagato il pedaggio al Partito. “Il sistema è esattamente uguale alla Mafia in Sicilia”, mi confidò sotto anonimato un piccolo albergatore di Rimini (naturalmente iscritto al PCI, o PD che fosse). “Almeno però non sparano”, dissi io, credendo di dire una cosa spiritosa. “Non sparano perché non sono contrastati. Se magistrati, se carabinieri cominciassero il contrasto, vedrà…”. A Livorno forse stiamo cominciando a vederlo: “La Violenza Rossa”, titola Rebuffo su Rischio Calcolato.
    Il problema dello Statale con il pensiero logico - Blondet & Friends

  5. #195
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Contro il Fisco spione
    di Carlo Lottieri
    In un mio libro di qualche anno fa (Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a WikiLeaks, edito da Rubbettino) c’è un passaggio in cui s’afferma che lo Stato contemporaneo si regge sulla “convinzione che l’azione di sottrazione ai privati delle loro risorse sia non soltanto vitale per gli apparati pubblici, ma sia a tal punto nobile da giustificare ogni intrusione nella privacy, anche in assenza di prove effettive a carico del singolo”.
    La recente decisione governativa di lascia mano libera all’Agenzia delle Entrate, autorizzandola a spiare conto e carte di credito con l’anagrafe tributaria, sembra proprio confermare tutto ciò. Non solo il potere statale è sempre esoso, ma è pure sempre meno rispettoso di quella sfera di autonomia che andrebbe invece considerata sacra.
    Quanti reagiscono di fronte al fiscalismo il più delle volte sottolineano, a ragione, come non sia accettabile lavorare fino ad agosto per lo Stato e solo negli ultimi quattro mesi per sé e la propria famiglia. La schiavitù ha solo cambiato forma. Questo è il punto cruciale, certamente.
    Altri critici della situazione presente, caratterizzata da un prelievo impositivo esageratamente alto, rilevano con più di una ragione come anche di là di ogni considerazione morale non ci sia alcun sistema produttivo che, in queste condizioni, possa reggere. In alcuni suoi celebri interventi, il professor Gianfranco Miglio usò l’immagine di un animale aggredito da piccoli parassiti. Tutto questo fa parte della realtà e della natura: non bisogna sorprendersi. È però vero che se il numero dei parassiti supera una determinata soglia, l’organismo muore e anche per i micro-organismi vissuti a sue spese non c’è più possibilità di avere un futuro. In società, succede la stessa cosa.
    Tutto questo è corretto e importante, ma non basta. È anche necessario comprendere che uno Stato tributario ha bisogno di tenere sotto controllo l’intera comunità, dato che solo in tal modo è in grado di “intercettare” le risorse di cui ha bisogno. Se gli Stati vivessero – come i club – di una modesta quota associativa che ogni cittadino paga nella stessa misura, l’apparato pubblico non avrebbe bisogno di spiare cosa fa ognuno di noi.
    Ma nel momento in cui esso moltiplica le imposte, tassa il nostro reddito e per giunta in modo progressivo, colpisce ogni scambio commerciale e via dicendo, è chiaro che esso deve farsi occhiuto e invadente. Lo Stato tributario è una riproduzione del carcere progettato da Jeremy Bentham: è un Panopticon con in cima un’alta torretta che consente, al secondino, di osservare tutto ciò che avviene in ogni cella.
    Un apparato orwelliano quale Serpico (il cosiddetto “Servizio per il contribuente”, ossia il megaserver che segue e monitora ogni nostra decisione, registrando i movimenti dei conti bancari) è esattamente questo. L’idrovora statale esige una quantità crescente di risorse e per questo motivo ha la strutturale necessità di osservarci in ogni momento della nostra vita e di mettere in discussione ogni nostra scelta. Se non fosse tanto invadente, non potrebbe incassare la metà del reddito nazionale.
    Alla fine lo Stato tributario non ci sottrae soltanto i nostri soldi (proprietà), né soltanto ci sottomette a sé (libertà). Esso è costretto anche ad aggredire i nostri comportamenti più privati, a spiare i nostri vizi e a mettere in discussione le nostra virtù, soffocando la nostra esistenza (vita).
    Contro il Fisco spione » Rassegna Stampa Cattolica

    Declassiamo il patrono di Cremona perchè era ricco?
    Paolo Maria Filipazzi
    Partiamo, eccezionalmente, da un piccolo aneddoto autobiografico. Da quand’ero ragazzino, ho un rapporto particolare con tal Sant’Omobono, santo semisconosciuto ai più (al di fuori di Cremona) che, però, pare avere una spiccata simpatia per il sottoscritto. Infatti, non so quante volte, “pescando” il mio santo protettore per l’anno nuovo al termine della Messa il primo gennaio, mi sono ritrovato proprio lui. Essendo cattolico, non sono autorizzato a credere al caso. Tanto più che, anche per il 2016, a proteggermi sarà, per l’ennesima volta, proprio questo vecchio amico. Ancora non so bene cosa voglia dirmi, quindi lascerò parlare lui, con la sua vita.
    Omobono Tucenghi, vissuto nel XII secolo, morto il 13 novembre 1197, patrono di città e diocesi di Cremona, di cui era originario, nonché di mercanti e lanaioli, era, infatti, un santo piuttosto sui generis. Sposato e con almeno due figli, era, per giunta, un uomo ricchissimo. Anzi, deve essere stato un vero e proprio self made man, se è vero che, non venendo da una famiglia di alto lignaggio, riuscì a diventare uno dei più noti uomini d’affari nel campo della lana.
    Ciò che, però, lo rese davvero leggendario, fu l’uso che egli faceva del denaro guadagnato, che egli intendeva anzitutto come mezzo d’intervento per soccorrere i poveri nella loro miseria. Ancora oggi, a Cremona, ad eccessive richieste di denaro, c’è chi risponde esclamando: “Non ho mica la borsa di Sant’Omobono!”. E veramente degna di un Santo fu la sua nascita al cielo, avvenuta nel corso di una Santa Messa, al momento di intonare il canto del “Gloria”. La chiesa esiste ancora e non a caso oggi è intitolata proprio a lui. E li è stato il primo sepolcro del Santo prima che, nel 1202, fosse traslato in una cripta del Duomo di Cremona, ove riposa tutt’ora.
    La storia immediatamente successiva è un crescendo di devozione: alla tomba di mastro Omobono, cittadino amato da tutti, rendono visita centinaia di Cremonesi e ad un certo punto ci si rende conto che si tratta ormai di un vero e proprio pellegrinaggio. Si sparge la voce di miracoli da lui compiuti e numerosi fedeli iniziano a chiedere la sua intercessione. Quattordici mesi dopo, il 13 gennaio 1099, egli viene canonizzato, primo laico nella storia della Chiesa ad accedere agli onori degli altari.
    Però, questo Sant’Omobono, un tipo davvero in gamba! Peccato che la Chiesa oggi lo abbia pressoché dimenticato. Avrebbe molto da dirci, in un periodo in cui la ricchezza sembra diventata la peggior infamia per un cristiano. Sarebbe ora di ricordarsi che anch’essa è un dono di Dio, e che, se ben impiegata, può essere perfino un mezzo per giungere alla santità.
    MiL - Messainlatino.it: Declassiamo il patrono di Cremona perchè era ricco?



    Se gli imprenditori sono diversamente suicidi
    Giornali scatenati sulla tragedia del pensionato travolto dal crollo di Banca Etruria che si è tolto la vita. Partecipazione unanime, sdegno collettivo, una procura che indaga. Mai si è visto niente di simile sui molti imprenditori che da anni ricorrono al gesto estremo perché strozzati da tasse, burocrazia, Stato...
    di Marco Bassani
    Il suicidio è un atto supremo che dovrebbe essere accompagnato solo da pietà e silenzio: nessuno può sapere di preciso che cosa passa nella mente di chi compie tale gesto. Del tutto evidentemente le avversità economiche, sociali e anche personali possono giocare un ruolo, ma non esiste mai una causa ultima del suicidio.
    In ogni caso, si sa, gli organi di stampa e i giornalisti sono i meno adatti a cercare spiegazioni profonde, e si lanciano, come cani che lottano per un osso, tutti dove tira il vento. Per tutta la giornata di ieri la prima notizia in ogni mezzo di informazione era il suicidio di un pensionato che ha perso i suoi risparmi nel crollo della Banca della quale il padre della ministra Boschi, quella più che carina, per intenderci, era vicepresidente. Inutile segnalare quanti intrecci scabrosi vi siano in tutta questa tragedia, che va al cuore di questo gruppo di potere che sta sgovernando l’esistente. Il piccolo gruppetto di amici e parenti per lo più provenienti da due regioni “rosse”, che governa un Paese di sessanta milioni di abitanti (solo grazie alla vittoria nel corso di una “primaria” alla quale non hanno partecipato neanche tre milioni di persone), ne sta combinando di tutti i colori e la Banca Etruria è solo la punta dell’iceberg. Ma ciò che colpisce molto è la cifra di dolore, sdegno, compartecipazione, che accompagna il gesto di Luigino D’Angelo, pensionato di Civitavecchia per il quale la procura ha addirittura aperto un fascicolo per “istigazione al suicidio” e un leader politico nazionale parla addirittura di “suicidio di Stato”.
    In queste ore spunta fuori anche la folle idea che lo Stato – ossia la fiscalità generale, vale a dire lombardi e veneti (e alla fine potremmo fare un bell’elenco con nomi e cognomi di chi le tasse le produce) – dovrebbe risarcire chi ha fatto investimenti sbagliati. Il che vuol dire che nessuno si preoccuperebbe mai più di controllare i propri investimenti o la solidità della proposta finanziaria di un consulente. Adulti che sognano uno Stato che li tratti da bambini, non possono che ottenere uno Stato che li tratta da cretini. In questi lunghi anni di crisi economica, imputabile direttamente alle politiche economiche e fiscali dei governi e alla voracità di una pletora di parassiti che non ha paralleli nella storia, si sono suicidati molti imprenditori in Veneto (soprattutto), ma anche altrove. Costoro erano per lo più vessati dagli sgherri del governo, giacché avevano debiti con il fisco (non di rado a fronte di crediti con lo Stato) e sono stati costretti a chiudere la loro impresa. Si tratta, come accennavamo, di cause presunte, o meglio scatenanti, visto che le avversità in sé non spiegano i suicidi (altrimenti dai lager o dai gulag non si sarebbe salvato nessuno).
    E tuttavia, i sucidi “imprenditoriali”, con il fisco e le politiche governative come presunti “istigatori”, non hanno mai avuto un’eco neanche lontanamente paragonabile a quello del pensionato di Civitavecchia. Viene il dubbio che la morte non sia poi quella “livella” di cui parlava Totò. Anzi, parafrasando Mao, si può dire che il suicidio di un pensionato è più pesante del Monte Tai, mentre quello di un imprenditore è più leggero di una piuma. E siccome questo è il dato, cerchiamo di capire brevemente il perché.
    In primo luogo, la cultura politica di lingua italiana nel corso del Novecento si è data alla più potente sbornia di marxismo-leninismo immaginabile. In Urss lo subivano, qui lo sognavano e vi è una bella differenza. Le tossine che questo marxismo della vulgata ha prodotto sono ancora in circolazione e ci fanno percepire un pensionato quale “vittima” e un imprenditore come “colpevole”.
    In secondo luogo, in una cultura statalista come quella in cui viviamo il percettore di pensione è visto come un uomo assennato che viene ripagato dalla collettività per il lavoro svolto, in un circuito virtuoso e interamente gestito dallo Stato, ossia dall’organo preposto a decidere del e sul “bene pubblico”. L’imprenditore è, al contrario, la figura simbolo di un’“economia che uccide” e che, come ci assicurano dal Papa all’ultimo politico di provincia, non può che costruire ricchezza per un drappello di lestofanti, e miseria, ineguaglianze e distruzione delle risorse del pianeta.
    Ma vi è qualcosa di ancora più profondo nell’indifferenza generale per i sucidi degli imprenditori e nella commozione per il pensionato di Civitavecchia. In quest’ultimo caso vi sono di mezzo le Banche, non il fisco. Gli imprenditori si suicidavano per lo più dopo aver ricevuto cartelle su cartelle di Equitalia, qui il pensionato ha perso i propri risparmi in virtù del pesantissimo intreccio fra potere finanziario e potere politici. Roba da attizzare Paragone da qui all’eternità.
    Quindi ci troviamo di fronte a un caso di pietà perfetta, che solo un Michelangelo dei nostri giorni potrebbe plasticamente raffigurare: da un lato una vittima che più innocente non si può e dall’altra i colpevoli che più colpevoli non riusciamo a immaginare. I tristi casi degli imprenditori vedevano al massimo persone devote alle oscure forze del capitale come vittime collaterali di fronte ai legionari del Bene in lotta contro il male dei nostri tempi: l’evasione fiscale.
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Offrono loro. Coi nostri soldi
    De Magistris e Crocetta vogliono garantire a napoletani e siciliani il reddito di cittadinanza. Che già è una follia illiberale in sé, ma in questo caso assume i contorni della (tragi)commedia, visto che quelle regioni sono già foraggiate dalle risorse prelevate al Nord...
    di Carlo Lottieri
    L’idea di assicurare a chiunque un reddito garantito è figlia di una cultura intrinsecamente parassitaria. Il motivo è ovvio, dato che versare a tutti – lavorino o no, producano o facciano altro – una sorta di salario implica un sistema ampiamente ridistributivo che fatalmente prende a chi lavora e dà a chi non lavora.
    Oltre a ciò, questa visione è intimamente parassitaria per un’altra ragione: è pensabile solo nel quadro di società opulente, che dopo millenni di povertà e grazie al motore del capitalismo sono riuscite a rendere disponibili enormi quantità di beni e servizi di ogni tipo. Le teorie del basic income, per giunta, si sono sviluppate come organismi che sottraggono linfa vitale soltanto grazie alla ricchezza generata dagli scambi e dalla libera impresa. Anche in questo senso, tale socialismo welfarista ha “parassitato” l’opulenza occidentale nella convinzione che essa sia un dato di fatto acquisito, e non già l’esito di iniziative che possono avere luogo solo entro ben definite condizioni istituzionali. Ogni Paese oggi ricco è una potenziale Argentina, se solo adotta quelle politiche di taglio parassitario.
    Ora che l’idea di garantire soldi a tutti è stata proposta – quasi nello stesso momento – dal presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, e dal sindaco della città di Napoli, Luigi de Magistris, è chiaro che il reddito di cittadinanza sembra proprio perdere ogni maschera. È infatti noto che esiste un flusso costante di soldi dalle aree più produttive verso le aree più povere, tra cui compaiono certamente proprio Napoli e la Sicilia. Questi due politici meridionali, allora, stanno dicendo a chiare lettere che sono pronti a garantire ai propri elettori la possibilità di non lavorare dal momento che possono contare sulla ricchezza di alcune tra le regioni più dinamiche d’Europa e, per giunta, di alcune delle economie a minore evasione fiscale. Le imprese venete, lombarde, emiliane, piemontesi ecc. dovranno insomma essere sempre più tosate, solo per garantire a ogni siciliano e partenopeo la possibilità di un reddito anche in assenza di un lavoro o di entrate di altro tipo.
    Sia chiaro: il reddito di cittadinanza è una follia in sé. Non c’era bisogno di aspettare le proposte elettoralistiche di Crocetta e De Magistris perché ne fosse chiaro il carattere demenziale. Ma la decisione di adottarlo a livello locale, e per giunta in aree che sono beneficiate dalla ridistribuzione territoriale, sembra svelarne la natura più di molti discorsi. Non soltanto sono soldi presi a taluni, le vittime, e dati ad altri, i beneficiari, perché nel caso italiano sono anche e soprattutto soldi presi in alcune regioni del Nord e poi elargiti altrove. Nel criticare la proposta ultra-demagogica di De Magistris, l’imprenditore e candidato sindaco Gianni Lettieri si è chiesto dove mai può pensare di trovare i soldi l’attuale primo cittadino per realizzare un programma tanto costoso. Un tentativo di risposta si può trovare, probabilmente, negli innumerevoli interventi “speciali” che, nel corso degli anni, hanno salvato questa come altre amministrazioni particolarmente senza criterio. Stessa cosa per Crocetta, ovviamente, che di sicuro non intende recuperare le risorse di cui ha bisogno da un’imposizione a carico degli elettori siciliani.
    Al riguardo mi piace ricordare quando – qualche anno fa – trovandomi a San Marino mi imbattei nella proposta avanzata da un partito locale di sinistra, che voleva introdurre anche lì il reddito di cittadinanza, però con queste precisazioni. L’idea non era di trovare i soldi necessari colpendo le imprese, già chiamate a fronteggiare la crisi, ma invece riducendo gli stipendi dei dipendenti pubblici (che hanno comunque il vantaggio di avere un posto fisso). Quel partito proponeva insomma ai sammarinesi di scegliere tra lo status quo o un reddito di cittadinanza finanziato da una minore spesa a beneficio degli statali. È facile per tutti capire come in una giurisdizione indipendente di soli 30 mila abitanti, quale è la repubblica di San Marino, per proporre il reddito universale di cittadinanza si debba anche fare presente dove si troveranno i soldi per finanziare la cosa, mentre in una realtà di 60 milioni di abitanti basata sulla cosiddetta “finanza derivata” si può sempre sperare che alla fine pagherà Pantalone.
    Crocetta e De Magistris, infatti, cercano di sfruttare a loro favore i flussi delle risorse prima tolte ai produttori, poi intercettate dal ceto politico, quindi distribuite in larga misura agli amici e, infine, destinate pure ad acquisire il consenso dei “lazzaroni” (o “lazzari”): nel duplice significato del termine.
    Offrono loro. Coi nostri soldi - L'intraprendente | L'intraprendente


    Anche se in mutande, quello dei Parassiti è totalitarismo
    Maurizio Blondet
    Lo sapete già. A San Donà di Piave un insegnante di fisica, Fabio Bianco, si presenta in classe travestito da donna, parrucca bionda, minigonna. “Erano cinque anni che pensavo di farlo”. I media sono dalla sua parte, povero trans su cui una assessora retriva ha invocato provvedimenti disciplinari. Provvedimenti che comunque non arriveranno: né dall’istituto tecnico dove insegna il trans pubblico, né dall’Ufficio scolastico provinciale: dove si proclama, fanno sapere ai giornali, “il della professoressa (è subito “professoressa”, ndr.) di indossare i vestiti che desidera e manifestare la propria identità di genere”.
    Vorrei esaminare la questione da un altro lato: quello del potere. Voi che lavorate nel settore privato, avete questo potere? Voglio dire: un giorno vi viene voglia di esibire la vostra natura di trans e vi presentate di punto in bianco in minigonna e parrucca bionda all’ufficio, che so, nell’officina meccanica dove lavorate ad aggiustare le auto, nella banca dove lavorate allo sportello, alla concessionaria Fiat dove cercate di vendere la nuova Punto…che ne dite, lo fareste? Senza temere conseguenze? Non avreste paura di essere licenziati, messi da parte, boicottati dai colleghi stessi?
    Insomma: credete che nel privato possiate farlo? No. Nel “privato” dove galoppa la disoccupazione perchè c’è la crisi dal 2008, dove bisogna sfiancarsi per salvare voi e l’azienda dal fallimento, dove siete esposti alla competizione globale, non avete questo potere. Non potete vestirvi come cavolo vi salta l’uzzolo. Non volete rischiare di essere messi alla porta o comunque emarginati dai colleghi che si affannano sgobbare perché c’è il rischio che la fabbrica, la ditta, il negozio chiudano come è avvenuto al 25% delle attività economiche private italiane. Che non torneranno più.
    E’ questo il punto: gli statali hanno il potere e lo esercitano senza alcun limite, a loro totale arbitrio, come gli salta; e come al solito, nel più totale ed aperto disprezzo per “gli utenti”, che poi siamo noi che gli paghiamo lo stipendio. Il culattone di San Donà ha sbattuto in faccia il suo gender ad alunni e famiglie senza alcun riguardo, infischiandosene del “servizio educativo” per il quale è pagato, perché come statale può fare quel che vuole. Ha il potere. Anzi adesso due: il potere di cui gode come statale, e quello di cui gode come transessuale,, potente lobby intoccabile – se la toccate urla alla discriminazione, e tutti i media la difendono.
    Statali licenziabili? No, tranquilli.
    Contrariamente a voi, essi hanno il potere.
    Difatti hanno preteso di non essere licenziabili, e l’hanno imposto ai politici tremebondi o complici. Fino al punto che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il mostro sacro dei sindacati, è stato modificato sì in modo da rendere più facili i licenziamenti: ma esclusivamente ai privati. Nel settore pubblico – si sono affrettati ad assicurare i politici – non si applica la “riforma Fornero”. Ora, questa è lesione di un principio basilare del diritto: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
    Gli statali hanno questo potere: di non essere eguali ai miserabili che gli pagano lo stipendio. Se lo sono preso, ce l’hanno e se lo tengono con gli artigli adunchi, protetti dai sindacati e dal governo stesso.
    Adesso è accaduto un fatto. La Cassazione, in una sentenza contro un licenziamento di un fancazzista pubblico (di Agrigento: reintegrato, e ti pareva, per vizio di forma), ha tuttavia ammesso che “è innegabile” che l’articolo 18, che facilita i licenziamenti, si applica anche alla pubblica amministrazione.
    Quale migliore occasione, per un governo che vuole “fare le riforme”, per cominciare davvero a licenziare il buon terzo di fankazzisti che rubano il posto e lo stipendio all’Italia impoverita? Perché nemmeno quelli del comune di Sanremo che timbravano il cartellino per i colleghi, anche in mutande, sono stati licenziati…Invece:
    “No, no, stiano tranquilli!”, s’è precipitata a dichiarare la ministra competente: “No. Riformuleremo la norma in modo che non si applichi ai pubblici dipendenti”.
    Cioè, la lesione del diritto a loro vantaggio deve restare. Questo è potere, signori. E che potere. I politici stessi, che hanno ricevuto istruzioni dall’estero per essere “riformisti” ossia tagliare le inefficienze pubbliche, ne hanno paura: è il potere, tanto da essere temibili..
    Voi siete temibili, nel settore privato? Potete esigere che a voi una legge – che si applica agli altri – non venga applicata? Voi potete far paura ai politici?
    Voi non avete potere. Voi pagate, con le tasse, non solo gli stipendi, ma anche gli sprechi e le corruzioni di cui questi si rimpinzano, e dovete tacere e subire. Loro vi sbattono in faccia il loro potere. Sono la Casta.
    La prova ultima è che tre milioni di dipendenti pubblici “sono in agitazione”: da tre anni senza rinnovo contrattuale! Che scandalo! Poverini!, urla la Cigl-Cisl-Uil! Vogliono gli aumenti!
    “Volemo l’aumento!”
    Dite voi, nel privato, se avete avuto aumenti negli ultimi non dico tre, ma cinque – anzi sette anni.
    Nel privato, ringraziate Dio se dopo tutti questi anni avete ancora un posto. I giornali sono pieni di titoli tipo: “Frena la crescita, frena il lavoro”, la crisi morde. La disoccupazione è altissima – nel privato. Nel pubblico, però, se ne fregano se il paese intero (quello che li paga) scende nella miseria: loro vogliono l’aumento, son già tre anni che non glielo diamo.
    Loro hanno stipendi medi del 15% superiori ai nostri; i loro dirigenti sono pagati come il presidente degli Stati Uniti, anzi di più. Invece, milioni di dipendenti privati l’hanno perso e campano scendendo nella fossa della miseria, mese dopo mese, affossati dalla burocrazia pubblica più costosa, spoliatrice ed ostile del mondo. Ostile, anzitutto, al lavoro onesto; non ci credono che lavorate onestamente – non possono crederci, giudicando da se stessi. Sicuramente state nascondendo dei soldi al Fisco, ossia a loro, che “vonno l’aumento”!
    Senza contropartita. Questo è Potere, ragazzi. Potere assoluto, totale, dispotico. M’è già capitato di riferire che se le ASL delle altre regioni adottassero i costi standard della Lombardia, lo stato avrebbe 80 miliardi di euro in più. Forse che Renzi non vuole avere 80 miliardi extra da spendere in qualche bonus a pioggia? o per rispettare il Patto di Stabilità (e Crescita!) come gli ordinano gli euro-oligarchi? Non gli farebbe comodo? Eccome se gli farebbe comodo. In teoria, basta che ordini per legge o decreto: da domani,, tutte le Regioni adottino gli stessi costi standard della Lombardia – la Lombardia dove si ruba, stiano tranquilli, non si fanno mancare nessun lusso di sardanapali regionali –
    ma almeno mostrano che si può, rubacchiando, offrire un servizio decente ai malati.
    Niente. Impossibile. Le altre Regioni nemmeno hanno preso atto . I loro fancazzisti della locale Sanità continuano a rubare e malversare sugli acquisti delle siringhe e delle lavanderie, come se niente fosse, intascando e dilapidando 80 miliiardi. Ogni anno. E questo solo nella Sanità. Pensate solo quanto rubano negli altri settori, e sono almeno il doppio. Vogliamo azzardare? I fancazzisti come ente collettivo si intascano in malversazioni, sprechi inefficienze, 150 miliardi di euro. E non si può farli smettere.
    Questo è Potere. Potere totalitario. Potere maligno e insieme stupido.
    Perché se fossero in grado, se volessero, se si degnassero di tagliare i costi- diciamo la metà – che sono i costi delle loro inefficienze, disonestà e incompetenze, l’Italia sarebbe una potenza economica. Avrebbe i soldi anche per pagare quei “precari” che aumentano nel settore pubblico, anche nella Sanità e nella scuola – e sono assunti perchè? Per fare il lavoro che i fissi stipendiatissimi non fanno, che lavorano per un boccone di pane e che in certe Regioni nemmeno ricevono lo stipendio – perché tutto il denaro va a pagare gli stipendi ai fancazzisti fissi e privilegiati. Avremmo i soldi per pagare aumenti ed addestramenti ai poliziotti, che sono i più sacrificati nel settore pubblico. Potremmo pagare un’integrazione ai milioni di pensionati con 500 euro mensili, che potrebbero pagare le bollette – potrebbero aumentare i famosi consumi da cui, ormai, dipende la “crescita”…niente, non si può. Il Corpo collettivo dei parassiti inadempienti s’incamera 150 miliardi annui, o li spreca e li malversa, e non ci si può fare niente: invece, il tizio che Renzi ha messo all’INPS sta ingegnandosi e spremendosi per inventare un modo di tagliare le pensioni. Private, ovvio.
    Questo è il potere. Potere Totale.
    Loro chiudono i musei, e vanno a discutere “l’agitazione”. Si presentano agli studenti travestiti da troie. All’ATAC stampano biglietti falsi. A Roma, i tecnici addetti alle concessioni edilizie: “Si presentano e spaventano con ipotesi di abuso”, per farsi pagare mazzette: come quelli della Ndrangheta.- A Sanremo vanno a timbrare in mutande e poi scappano a fare shopping. Vigili urbani, al 60 per cento si dichiarano inabili al servizio in strada, con tanto di certificato medico, e sono pagati per far niente (Napoli): potrebbero morire, hanno contratto malattie tremende. I loro dirigenti comunali inseriscono apposta errori nei bandi di gara, per lucrare e far lucrare con il successivo contenzioso. Fanno quello che vogliono, hanno l’avanzamento automatico, sono del tutto insindacabili, inamovibili, illicenziabili. E si lamentano.
    Sento ad una radio una telefonata: è uno del Corpo Forestale dello Stato. “Ci vogliono militarizzare! E nessuno ci difende!”. Che tragedia, li vogliono trattare come trattano i Carabinieri. E loro soffrono. Si ribellano. Scenderanno in agitazione. Bruceranno i boschi…
    Questo è Potere. Siamo sotto un regime totalitario, malvagio e distruttivo. E stupido. Che ci sta facendo scendere nella fossa.
    Anche se in mutande, quello dei Parassiti è totalitarismo - Blondet & Friends

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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Cosi' la burocrazia stacca la spina alle nostre imprese
    L'azienda senza luce e la burocrazia killer
    La lettera
    Egregio direttore, di recente questa ditta ha deciso di ampliare la capacità di produzione acquisendo un capannone attiguo.
    Abbiamo pertanto richiesto, in data 11 maggio 2016, all'Enel, fornitrice di energia elettrica, un adeguamento di potenza da 14 Kw a 50 Kw. Dopo numerosi solleciti, solo il 22 giugno un tecnico Enel ha eseguito un sopralluogo, riferendoci che non c'erano problemi di disponibilltà di potenza, ma che avremmo dovuto fare installare, a nostra cura e spesa, un nuovo armadio contenitore per il nuovo contatore. Due giorni dopo abbiamo comunicato l'avvenuta disponibilità del nuovo armadio, ma ci è stato riferito che prima di procedere alla installazione del nuovo contatore avremmo dovuto ricevere un preventivo di spesa per la nuova fornitura. Il preventivo (di circa 3.000 Euro) ci è giunto il 30 giugno ed abbiamo provveduto nello stesso giorno al pagamento dandone comunicazione a mezzo e-mail all'Enel. Al 6 luglio, non è stato ancora possibile avere l'adeguamento di potenza, pertanto le nuove macchine sono ancora ferme e non possiamo iniziare la produzione. Un esempio dell'inefficienza dei servizi in questo Paese che fa passare la voglia di investire.
    La ditta Sangiorgi spa, Corsico, Milano
    La risposta del direttore Alessandro Sallusti
    Questa lettera vale più di mille inchieste e discorsi. Da due mesi un imprenditore chiede di produrre di più, è disposto a fare tutto cio' che serve ma un'azienda pubblica, l'Enel, glielo impedisce. Moltiplichiamo questi due mesi persi dalla Sangiorgi (che ha sede alle porte di Milano, non in Aspromonte) per il numero di aziende che si trovano nelle stesse condizioni e calcoliamo quanto tutto cio' vale in perdita di fatturato e di Pil. Lo scorso anno questo conto lo ha fatto Rete Imprese: la burocrazia costa alle piccole e medie imprese italiane 30 miliardi l'anno, il 2% del Pil. Una enormità, impiccati come siamo a una crescita dello zerovirgola. Di questo dovrebbero occuparsi governo e parlamento, altro che riforme costituzionali. Ma ormai il Paese reale interessa solo a noi.
    Così la burocrazia stacca la spina alle nostre imprese - IlGiornale.it

    Promemoria per i giornaloni: le pmi sono massacrate
    di Mariella Baroli
    Imprenditori senza bussola. Scettici e ben poco lungimiranti. Il Corriere della Sera potrà anche nascondersi dietro le «suggestioni da scrittore» di Edoardo Nesi, ma ciò che traspare dall’articolo oggi pubblicato è quasi una condanna verso i troppo – almeno secondo il quotidiano – piccoli imprenditori italiani. Le Pmi, secondo quanto scrive il quotidiano di via Solferino, si troverebbero infatti in un momento di «radicata incomprensione del mondo contemporaneo» che le sta facendo «scivolare in basso». Solo un quarto delle imprese presenti sul territorio sono riuscite ad affrontare la crisi e sfruttarla per riorganizzarsi internamente. Il futuro degli altri tre quarti è incerto, intrappolato in quell’arretratezza che, secondo il giornalone, impedisce al 50% dei settori dell’industria di registrare risultati positivi. Belli e stupidi. Gli imprenditori italiani si sarebbero per troppo tempo fatti vanto di essere i migliori da essere finiti «fuori corso». L’esperienza e la qualità non hanno più importanza. ciò che serve è la capacità di adattarsi e una connessione internet. Le imprese che sono riuscite in questa impresa vengono così elogiate, mentre tutte le altre vengono dimenticate e incolpate del loro insuccesso. Il Corriere della Sera offre anche un’impeccabile giustificazione per le 895 aziende al giorno chiuse lo scorso anno. Questo numero viene però di gran lunga superato dalle nuove aperture e, in ogni caso, le chiusure sono causate da una «staffetta generazionale».
    Non si fa alcun accenno ai reali problemi che i piccoli, medi imprenditori vivono ogni giorno. La pressione fiscale sulle Pmi è pari al 64,8%, rispetto alla media europea del 40,6% e quella mondiale del 40,8%. La percentuale di debito pubblico verso la piccola, media impresa è la più alta d’Europa, pari a 61 miliardi di euro, e i pagamenti avvengono soltanto dopo un lasso di tempo quattro volte superiore alla media (30 giorni). Ancora, l’Unione Europea, con la sua propensione alla burocrazia, ha frenato i livelli di produzione e occupazione non solo in Italia, ma in tutta l’Eurozona. Per pagare le tasse, un imprenditore “spreca” 264 ore e fa 15 versamenti ogni anno. Infine, le Pmi si trovano ostacolate nell’accesso al credito. Le banche sono contrarie a offrire prestiti alle aziende, tanto che questi sono diminuiti di 16 miliardi negli ultimi anni.
    Forse però ha ragione Il Corsera, il problema delle Pmi sta tutto in una «radicata incomprensione del mondo contemporaneo». Qualcuno ha certamente bisogno di un «nuovo copione», forse ad aver bisogno di accettare la contemporaneità dei fatti non sono perògli imprenditori.
    Promemoria per i giornaloni: le pmi sono massacrate - L'intraprendente | L'intraprendente

    Lezione reaganiana al ministro Madia
    Il governo dice di attaccare la burocrazia, addirittura parla di licenziare chi non lavora (!). Ma non ammette che il malato è un intero sistema amministrativo che opera fuori dal mercato.
    di Carlo Lottieri
    Il ministro Marianna Madia sembra essersi lanciata all’attacco dell’inefficienza della burocrazia e ormai si parla addirittura di licenziare chi non lavora. Apparentemente può sembrare di trovarsi dinanzi a una svolta, dopo decenni di lassismo e sindacalismo, ma le cose non stanno così.
    La sensazione, infatti, è che forse dal governo verranno nuove norme contro chi va in mutande a timbrare il cartellino, e poco di più. Quella che è finita nel mirino del ministro è la punta dell’iceberg, l’eccesso, la patologia estrema, perché siamo ben lungi dall’ammettere che è malato il gran corpo di un sistema amministrativo che invade ogni ambito, dà e nega permessi, intralcia le imprese, opera fuori dal mercato e a prescindere dalla propria capacità (o meno) di soddisfare i consumatori. A Roma sarebbe necessario che iniziassero a capire – molto semplicemente – che non esiste un socialismo che funzioni. Individuare qualche corrotto e qualche fannullone, pensando che senza di loro tutto il resto si muoverà nella giusta direzione, significa essere ingenui o in mala fede. La scuola italiana ha certamente al proprio interno qualche caso patologico, ma essa nel suo insieme è un disastro non a causa di ciò: è un disastro perché non risponde a chi la finanzia, non è calata in contesto competitivo, non esprime una pluralità di percorsi educativi e metodologie diverse. E lo stesso vale per ogni altro settore.
    L’operazione annunciata dal ministro Madia rischia allora di essere un semplice lifting sul viso di una novantenne invecchiata male. Non potrà dare risultati di rilievo. E' invece urgente intervenire al più presto e con decisione nei meccanismi istituzionali fondamentali, privatizzando. Bisognerebbe, in altre parole, aprire ogni ambito al pluralismo del mercato e trasformare in aziende private gli apparati oggi statizzati. Le inefficienze patologiche estreme messe in evidenza dal “caso Sanremo”, che comunque è solo l’ultimo episodio di una lunga lista, sono segnali che ci aiutano a comprendere una realtà molto più vasta: fatta da impiegati che arrivano in orario ma che giocano al computer, professori puntuali ma senza stimoli e controlli, medici il cui comportamento è apparentemente insindacabile ma che in verità non si mettono davvero al servizio dei pazienti.
    Nella nostra società il mito dello Stato democratico e quello, strettamente connesso, dell’eguaglianza sono assai difficili da contestare. In fondo, seguendo una tradizione molto italiana, ogni riforma è pensata per cambiare tutto affinché nulla cambi. Il Gattopardo continua ad abitare in mezzo a noi. Chi nutre speranze, quindi, rischia di restare presto assai deluso.
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  8. #198
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Due cose reaganiane ai prof privilegiati che scioperano pure
    di Federica Dato
    Gli insegnati della scuola pubblica sono francamente insopportabili. L’emblema dello statalismo peggiore, manifesto del dipendente pubblico viziato e incosciente di come giri il mondo. E se consideriamo che sono una delle figure fondamentali per la crescita della nostra società la cosa da triste si fa drammatica. Perché mentre nessuno nega che chi maneggia gli adulti del domani (se lo fa bene) meriterebbe stipendi molto più alti, che la sua formazione dovrebbe essere agevolata, che i presidi dovrebbero essere selezionati in maniera molto più accurata e che troppo spesso si trovano a lavorare in condizioni impossibili, è più difficile che si ammettano un paio di verità: i docenti sono sovente impreparati, reagiscono male a corsi di aggiornamento, la loro preparazione dovrebbe essere testata di continuo e il loro stipendio, cosi' come la loro assunzione, determinato dal merito. Non è che se uno fa il concorsone… la meritocrazia, quella dovrebbe valere. Ma in Italia è utopia.
    Oggi parliamo di loro, della categoria più stucchevole degli ultimi anni, giacché hanno manifestato contro i trasferimenti della Buona scuola. Bollettino di guerra, che denunciano con forza a Repubblica (sembra una barzelletta ma qui fan gli scandalizzati davvero): un’insegnante è caduta ed è intervenuta l’ambulanza che l’ha trasportata in ospedale per le cure. Alcuni prof denunciano: “La polizia a un certo punto ha indossato i caschi, come in assetto antisommosa, e ci ha messo le mani addosso”. Prima dei disordini, un’altra insegnante era svenuta per il caldo.
    Loro, che non paghi di desiderare il posto fisso (anacronismo totale), si lamentano perché lo vogliono pure sotto casa. Un po’ come dire che uno vuol raccogliere arance nel centro di Milano, non dove crescono. Il grande corteo composto da duecento “deportati”, si', si definiscono tali, è iniziato alle nove di mattina. Loro, punteggio alto e trasferiti al Nord, urlano contro la scuola renziana. E qui non si tratta della riforma, se questa sia buona davvero o pessima, del fatto che neppure i delegati sindacali hanno avuto la faccia di presentarsi a dare appoggio al gruppo (ché fin per loro forse di fronte a chi non ha lavoro le proteste dei privilegiati suonano come troppo). Si tratta di un concetto basilare, logico, ovvio: il lavoro lo si prende dove c’è. Nel dettaglio dove ci sono gli alunni, le aule, i corridoi da riempire. Se non lo si vuole ci si licenzia o si dice no all’offerta preziosa e si va a fare altro, un “altro” qualsiasi ma non lo stipendiato di Stato inoperoso perché in un luogo in cui il datore di lavoro ha deciso che non occorri.
    Non ci sarebbe discussione, eppure riusciamo a discuterne. Una pantomima pietosa. Offensiva rispetto all’Italia produttiva, a quella che vorrebbe esserlo e a chi ha voglia di lavorare davvero. Ah, come ci manchi Reagan. Ché il presidente americano licenzio' in tronco 11mila controllori di volo che si rifiutavano di lavorare. Per noi sarebbero pochini undicimila dipendenti pubblici in meno in una Nazione dalla spesa pubblica malsana spropositata. Noi che abbiamo in Calabria più forestali del Canada. Ma sarebbe un inizio. E questi signori dovrebbero istruire i nostri figli. Ah, le tragedie italiche.
    Due cose reaganiane ai prof privilegiati che scioperano pure - L'intraprendente | L'intraprendente


    Il reddito di cittadinanza ci renderà schiavi della politica
    E' un’idea che guadagna sostenitori ogni giorno che passa, ma è molto pericolosa: perché disincentiva il merito e la formazione e lega i cittadini a un rapporto malsano e perverso con la politica. Piuttosto, servirebbe un fisco di cittadinanza
    di Lorenzo Castellani
    Nella storia di copertina dell’ultimo numero di Internazionale del 26 agosto, si racconta la necessità del reddito di cittadinanza come misura fondamentale per combattere la povertà: “se ognuno ricevesse dei soldi anche senza lavorare il mondo sarebbe migliore” recita il sottotitolo, in copertina. Mentre il titolo dell'articolo, pubblicato originariamente su De Corrispondent, recita “Reddito d’uguaglianza”. E in effetti uno stipendio minimo per tutti erogato dallo Stato, cioè pagato dalle tasse di altri cittadini, puo' sembrare un'idea suggestiva e progressista. Solo apparenza, purtroppo: perché il reddito di cittadinanza, in realtà, è un esperimento che riduce spazi di libertà e democrazia. Realizzare il reddito di cittadinanza, infatti, costituisce una misura politica profondissima le cui radici non poggiano solo sull'economia, ma sulla concezione etica e morale del sistema politica in cui vogliamo vivere.
    Già, perché il fondamento morale della democrazia poggia sulla partecipazione alla vita pubblica dell'individuo libero. In una società libera, il ruolo dello Stato, quindi della politica, non è quello di creare di sudditi né dei rentiers della cittadinanza. Il potere pubblico, e le regole da esso prodotte, devono alimentare un sistema entro il quale ciascun individuo normodotato è in grado di provvedere a se stesso. La capacità, derivante dalla libertà, di produrre ricchezza è il principio cardine intorno al quale si è sviluppata la civiltà.
    Il conflitto si articola intorno a due ragionamenti, il primo è che ricchezza e benessere non crescono sugli alberi e non si capisce perché dei soggetti abili a fornire un contributo alla loro produzione debbano essere esclusi a priori dal dovere di badare a se stessi e di contribuire allo sviluppo generale della società. Nemmeno la nostra Costituzione, che tanti cedimenti in nome dello Stato sociale ha consentito, si è mai spinta a prevedere un'assistenza indiscriminata per tutti, tanto è vero che ha previsto all’articolo 4 il dovere per ogni cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
    Il secondo è che il reddito di cittadinanza è uno strumento che rende gli individui ancora più dipendenti dalla politica riducendo gli incentivi delle persone, e dei giovani in particolare, ad accumulare titoli di studio, formazione ed esperienza lavorativa. Un individuo sussidiato è incentivato alla pigrizia e alla dipendenza dalla politica. In altre parole, il reddito di cittadinanza non è che l'istituzionalizzazione del clientelismo su scala nazionale. Cosa succederebbe se dopo qualche anno lo Stato fosse costretto a rimuovere il reddito di cittadinanza? Verosimilmente milioni di persone che nel periodo in cui hanno ricevuto il sussidio hanno rinunciato a formarsi, studiare o lavorare proprio perché imboccate dalla politica si ritroverebbero a essere "inoccupabili", cioè a non avere capacità e metodo per inserirsi nel mercato del lavoro. Per tutti la soluzione sarebbe correre dal politico più vicino a chiedere un'altra forma di assistenza. Insomma, si scivolerebbe sempre di più verso quelle forme di compravendita legalizzata del consenso che avvelenano la democrazia, distruggono le istituzioni e massacrano l'economia.
    Cio' che si potrebbe fare, per aiutare davvero i cittadini, è la creazione di un fisco di cittadinanza, semmai. Una proposta in cui non solo siano semplificati i meccanismi di pagamento delle imposte, ma che crei una no tax area in cui le tasse non siano pagate affatto. Per esempio, se si volessero aiutare giovani e redditi bassi, si potrebbe eliminare il prelievo fiscale per redditi inferiori ad una certa cifra, poniamo 15mila euro annui. Un meccanismo che premierebbe coloro che sono al primo impiego e le fasce di lavoratori più deboli a cui lo Stato non chiederebbe alcun contributo. Una misura di libertà e aiuto, senza alimentare gli effetti di "nullafacenza di Stato", disordine della casse pubbliche e arrembaggio clientelare del reddito di cittadinanza.
    Il reddito di cittadinanza ci renderà schiavi della politica - Linkiesta.it


    E' la Svizzera il vero paradiso: un cantone fa il referendum per la «flat tax» al 5 per cento
    Paolo Bracalini
    Mille euro di stipendio? Cinquanta euro di tasse. Per un italiano, abituato ad un total tax rate tra i più voraci al mondo (64.8%, fonte Banca Mondiale), è anche difficile soltanto immaginare una busta paga del genere, una sorta di miraggio, una visione mistica, una creatura mitologica.
    Ma non serve volare in un'isola dei Caraibi, basta un viaggetto in auto da Milano e si arriva in Svizzera, dove i cantoni fanno a gara a chi ha le aliquote fiscali più basse, proprio come in Italia dove invece le Regioni aggiungono al carico fiscale già opprimente le rispettive addizionali regionali. Nel Cantone di Svitto, nella Svizzera tedesca, tra pochi giorni si terrà un referendum che, per un contribuente italiano, ha dell'incredibile: il 25 settembre i 154mila residenti nel cantone svizzero saranno infatti chiamati a decidere se introdurre una flat rax del 5,1%, una tassa fissa sui redditi, uguale per tutti, che equivale a meno di un quarto della più bassa aliquota Irpef italiana (pari al 23% per chi guadagna meno di 15mila euro l'anno).
    Il bello è che, tra le beate valle svizzere di Svitto, è in corso un acceso dibattito se sia giusto o no pagare il 5% di tasse sui redditi. E non perché è troppo poco, ma perché l'aliquota per molti sarà più alta di quello che pagano ora. Ripetiamo perché potrebbe non essere chiaro: questi fortunati svizzeri devono decidere tra qualche giorno, con il referendum, se aumentarsi le tasse fino alla stratosferica pressione fiscale del 5,1% oppure no.
    «Secondo la maggioranza che ha approvato la Flat Rate Tax - racconta infatti il Corriere del Ticino - l'attrattività fiscale del Cantone non viene penalizzata. C'è pero', sul fronte opposto, chi ritiene che il conto dell'operazione sarà fatto pagare alla classe media». E i cittadini meno ricchi? Hanno pensato anche a quello, ci mancherebbe. «Per ammortizzare il maggior carico fiscale, le deduzioni sociali a favore dei single verranno aumentate da 10.000 a 13.200 franchi e per le coppie sposate da 20.000 a 26.400 franchi». E se si guadagna meno di 4680 franchi svizzeri l'anno (circa 4300 euro), le tasse da pagare equivalgono a zero. Un paradiso, non solo fiscale.
    Mica l'unico in Svizzera. In altri cantoni è stata già introdotta la flat tax unica, bassissima. Nel 2007 il 90% dei cittadini del Cantone Obwalden ha detto si' all'introduzione della tassa all'1,8% (eccetto chi guadagna meno di 8.700 euro, quelli non pagano niente), mentre aliquota fiscale sugli utili delle società, che era del 6,6%, è stata abbassata al 6%. Numeri marziani per i contribuenti italiani. Naturale che ci sia la fila alla frontiera per cercare di lavorare in Svizzera, 500 aziende italiane l'hanno ci provano, ha documentato un'inchiesta di un giornale elvetico. L'Iva? In Svizzera è la più bassa d'Europa, al massimo l'8% (in Italia al 22%). Un neoassunto che guadagna 2.500 franchi al mese (circa 2.000 euro) paga il 10 per cento di tasse. Un professionista il 20%. Un'aliquota spaventosa, direbbero gli svizzeri di Svitto.
    È la Svizzera il vero paradiso: un cantone fa il referendum per la «flat tax» al 5 per cento - IlGiornale.it

  9. #199
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    Predefinito Re: Rif: Bisogna affamare la bestia!

    Tutti quelli che non erano Caprotti
    Il patron di Esselunga si è battuto per tutta la vita contro i poteri forti che ingabbiano il nostro Paese: le procure che gli hanno dato la caccia, le Coop che ne hanno limitato la libera impresa, i sindacati contrari alle aperture domenicali. Lui ha resistito da eroe, ma ce n'era abbastanza per soccombere...
    di Stefano Magni
    Bernardo Caprotti muore lasciando in eredità un impero imprenditoriale in piena crescita, un caso più unico che raro nella persistente stagnazione italiana. Oggi la catena di supermercati Esselunga ha circa 8 miliardi di fatturato, dà lavoro a più di 22mila dipendenti in più di 150 punti vendita. Ma nonostante tutto, capitan Caprotti non è riuscito a godersi, come avrebbe meritato, i suoi ultimi anni di vita. È morto combattendo, contro la sua stessa famiglia sulla proprietà della sua Esselunga, ma soprattutto contro il … sistema Paese.
    Il Tribunale di Milano gli ha inflitto una condanna a sei mesi di carcere per diffamazione, appena lo scorso marzo, quando Caprotti aveva già 90 anni e ancora pochi mesi da vivere. La causa era nata da una campagna giornalistica del quotidiano Libero nel 2010, con la pubblicazione di intercettazioni abusive di alcuni dipendenti della Coop. “La Coop ti spia” era il titolo del primo servizio sull’oscura vicenda. La Coop aveva subito sporto denuncia in procura e al Garante della privacy contro la pubblicazione delle intercettazioni (Perché è insolito che un quotidiano pubblichi delle intercettazioni, in Italia…). Dopo sei anni, Caprotti è stato condannato a 6 mesi di carcere per diffamazione, ma assolto dall’accusa di ricettazione. Maurizio Belpietro (allora direttore di Libero) e il giornalista Gianluigi Nuzzi sono invece stati condannati a 10 mesi di carcere.
    Eppure le intercettazioni audio e video, pubblicate nell’inchiesta, esistevano davvero, ed erano agli atti del processo. Il dirigente Coop che le aveva ordinate ha giustificato il tutto con l’esigenza di monitorare le spese telefoniche di una filiale. La condanna è stata spiccata per l’inconsistenza delle accuse che nell’inchiesta di Libero venivano riservate personalmente a due dirigenti delle Coop. “E la cosa straordinaria – diceva Maurizio Belpietro dopo la lettura della sentenza – è che veniamo condannati per avere pubblicato una notizia vera. Le intercettazioni non ce le siamo inventate noi”.
    Quella di Caprotti contro le Coop è una battaglia nota a tutti, ormai. Da un punto di vista commerciale, fino al suo ultimo giorno è riuscito a battere la loro concorrenza. E questo nonostante denunciasse, con prove e circostanze molto dettagliate, numerose pratiche di concorrenza sleale da parte delle cooperative. Su questo aspetto della sua battaglia, aveva pubblicato il celebre Falce e Carrello, dove si raccontano gli ostacoli incontrati da Esselunga in tre città rosse: Bologna, Modena e Livorno. In pratica, Caprotti denunciava una vera e propria cupola, fatta di cooperative, sindacati e giunte rosse, capace di eliminare ogni concorrenza esterna.
    Quel che successe dopo, fu quasi la dimostrazione pratica della sua tesi. Le Coop lo portarono in tribunale e nel 2011 vinsero la causa, con la condanna a Caprotti per concorrenza sleale: una multa di 300mila euro e il libro Falce e Carrello venne inizialmente messo all’indice, nel senso antico del termine (ritiro da tutte le librerie e divieto di ripubblicarlo). La Corte d’Appello di Milano aveva poi sospeso la pena, constatando anche che il ritiro e il divieto di pubblicazione fossero forme di censura, provvedimenti che, anche secondo la legge sulla stampa italiana (che è tutto meno che liberale), possono essere attivati solo in presenza di casi veramente gravi, come stampa oscena, o plagio.
    Caprotti, almeno, è morto pochi mesi dopo aver vinto un’altra lunga battaglia contro i sindacati. Si erano sollevati contro la sua proposta di aprire i suoi supermercati il 25 aprile e anche la domenica. Ma in questo caso, dopo un duro braccio di ferro, il 22 gennaio scorso si è raggiunto l’accordo che prevede in via sperimentale una programmazione trimestrale del lavoro domenicale su base volontaria. Il 26 e 27 febbraio i lavoratori Esselunga sono stati chiamati a esprimersi sull’accordo. Il referendum si è concluso con il 60,3% di voti favorevoli e il 38,5% contrari. Al referendum hanno partecipato 15.190 addetti su 19.732 aventi diritto. A questo punto, sulla base dei risultati ottenuti, il nuovo accordo è entrato in vigore il 2 maggio e rimarrà in vigore fino al prossimo primo maggio.
    Magistratura, Coop e sindacati. Sono questi, alla fine, i veri poteri forti (senza virgolette, né complottismi) in Italia. Le inchieste e le condanne dei magistrati si basano su una legge che non garantisce né piena libertà di espressione, né pieno diritto di proprietà. Le Coop, con il loro rapporto simbiotico con la politica locale e nazionale, sono l’espressione più esplicita del sistema Italia. I sindacati, con la loro opposizione ad ogni forma di pratica competitiva, sono il cane da guardia di questo sistema. Un imprenditore che voglia farsi strada, con le sue sole forze, o ha le spalle larghe come Caprotti, o soccombe. Domandiamoci poi perché, in questo paese, “i privati scarseggiano” e lo Stato “è costretto a subentrare” per sostituirli.
    Tutti quelli che non erano Caprotti - L'intraprendente | L'intraprendente

    Caprotti il caparbio. Uno che aveva il coraggio di giocarsela fino in fondo
    Renato Farina
    La morte di Bernardo Caprotti è accaduta come tutti vorremmo capitasse a noi stessi. A tarda età, ma mentre si vive. Al punto che a Boris pare di avere interrotto il suo discorso con lui un attimo prima. Sui giornali ci era finito ancora pochi giorni fa da protagonista, uno che tiene la frusta sul cavallo, non per colpirlo, ma per far vedere chi comanda, indicandogli una strada. C’è qualcosa in lui di diversissimo dai costumi italici, e di molto russo. Mi accorgo di aver usato l’indicativo presente, perché mi sembra impossibile si possa sotterrare uno così.
    Caprotti è stato l’uomo che ha inventato il supermercato in Italia. In viale Regina Giovanna trasformò una vecchia autorimessa in un grande negozio, con gli scaffali, dove i clienti potevano scegliersi le merci e posarle in un carrello. Era il 27 novembre 1957. Nasceva così Esselunga, un nome derivato dall’insegna Supermarket con la consonante sibilante che si estendeva sul resto della scritta. I bottegai – ne sono consapevole – non l’hanno amato, ma il passaggio a questa nuova dimensione, alla grande distribuzione, era inevitabile per lo sviluppo delle tecnologie. Alcuni negozi di vicinato hanno saputo resistere, tenere accese le vetrine, altri si sono arresi: in fondo l’innovazione punisce sempre chi non sa estrarre talenti dalla tradizione e si siede su di essa, invece che inventare, consorziarsi con amici e concorrenti, provare il nuovo sul suolo antico ma concimato dal proprio sudore e da quello delle nuove generazioni.
    Caprotti è stato grande in due sensi. La caparbietà dell’inventiva, il reggere alla concorrenza straniera. In un capitalismo italiano bravo solo a farsi sovvenzionare dallo Stato e a trovare accordi nei salotti buoni per non rischiare nulla, Caprotti ha avuto il coraggio di giocarsela. Ha puntato su se stesso e i suoi collaboratori (li chiamava così, non impiegati o dipendenti, e sono più di 22 mila), e cioè sul lavoro, invece che sulla finanza. Non ha venduto per godere plusvalenze miliardarie dalla vendita a francesi o americani del suo business. Di certo non avrebbe mai venduto alla Coop.
    Non sopportava il comunismo in teoria, ma soprattutto l’affarismo dei comunisti nella pratica. Nove anni fa scrisse Falce e carrello, dove dimostrò i legami ammorbanti tra le amministrazioni delle Regioni rosse (Emilia-Romagna, Toscana in primis) e la proliferazione di supermercati del medesimo colore. A lui, al suo modo di intendere l’imprenditoria, non si lasciava spazio. La sua denuncia fece sapere all’Italia molte cose. Le sanno benissimo anche gli altri imprenditori delle medesime regioni. Ma per quieto vivere non hanno potuto permettersi lo stesso coraggio.
    In che cosa è stato poco italiano e molto russo, il Caprotti? Non si è lasciato andare al familismo amorale, per cui si passa tutto ai figli, li si innalza alla guida di imperi grandi o piccoli, anche se non se lo meritano. In Guerra e pace si trovano figure così. Ha tre eredi, nati dai suoi lombi, Caprotti. Ha fatto in modo che non mettessero mano alla sua gioiosa macchina commerciale. È stato severo, ma non li ha diseredati. Semplicemente voleva alla fine realizzare con una vendita sonante una plusvalenza micidiale, ma consegnando la sua creatura e i suoi collaboratori in mani capaci. Che si godessero il denaro i figli, ma non tenessero tra le mani aziende da disfare.
    Non ha fatto a tempo a vendere, Caprotti. Ci auguriamo che le liti ereditarie non portino a tagliare in pezzi questo diamante unico. Riposi in pace, cavalier Bernardo. Anzi, venga giù a dare una mano.
    Caprotti il caparbio | Tempi.it

    Esselunga, il testamento di Caprotti: "Non vendete mai alle coop"
    Mr Esselunga, Bernardo Caprotti, lascia scritto nel testamento di evitare che l'azienda finisca in mano ad una cooperativa
    Claudio Cartaldo
    Il messaggio di Bernanrdo Caprotti dopo la sua morte è chiaro: "Non vendete mai Esselunga alle Coop".
    La disposizione contenuta all'interno del testamento aperto martedì scorso nello studio notarile Marchetti a Milano rispecchia l'infinita lotta che ha contrapposto mr Esselunga all'impero delle cooperative (rosse). "La società è privata, italiana, soggetta ad attacchi, può diventare una Coop. Questo non deve succedere".
    Mai Esselunga ad una coop
    Secondo Caprotti quindi è molto meglio guardare ad un compratore straniero, "Ahold sarebbe ideale. Mercadona no". "L'azienda è diventata attrattiva - scrive ancora - Però è a rischio. È troppo pensante condurlo, pesantissimo possederla. Attenzione: privata, italiana, sogetta ad attacchi, può diventare una coop".
    Anche se al momento il processo di vendita è stato bloccato dal cda. Più delicata invece la questione della divisione dei beni tra gli eredi. "Dopo tante incomprensioni e tante, troppe amarezze – si legge nel testamento - ho preso una decisione di fondo per il bene di tutti, in primis le decine di migliaia di persone i cui destini dipendono da noi". La priorità di Caprotti è infatti quella di mantenere il lavoro di circa 22mila dipendenti e i ricavi da 8 miliardi di euro. Un impero solido che anche dopo la morte del fondatore deve riuscire a resistere. Mr Esselunga ha così deciso di dare il 70% di Esselunga e 55% dell’immobiliare a Giuliana Albera e a sua figlia Marina, il restante 30% di Esselunga e il 45% dell'immobiliare verrà invece diviso in parti uguali ai figli di primo letto, Giuseppe e Violetta. "Famiglia non ci sarà – scrive Caprotti - ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili, le aziende non saranno dilaniate". Così Caprotti ha blindato il futuro di Esselunga.
    Esselunga, il testamento di Caprotti: "Non vendete mai alle coop" - IlGiornale.it

    La lezione del Gran Lombardo
    La strepitosa lezione morale di Bernardo Caprotti: i valori nelle sue ultime volontà. Ora fatela studiare a scuola
    Vittorio Macioce
    Sono le diciotto e cinquanta del nove ottobre. Anno 2014. Quasi ventiquattro mesi fa. Bernardo Caprotti sta leggendo con voce non troppo alta, ma ferma, senza declamare, sincera, davanti al notaio Carlo Marchetti tredici fogli battuti a macchina, macchiati da appunti e considerazioni scritte a mano.
    Ogni tanto si ferma, sottolinea, spiega, riflette, apre ricordi, pezzi di vita, strati di dolore. È il suo testamento.
    Ha cercato di mettere a posto tutti i pezzi, con metodo. Sa che il futuro non si può ingabbiare. Non si comanda. Ma puoi cercare di intuire l'imprevedibile, per limitare i danni. È quello che fa da una vita, forse funziona anche dopo la morte. Il resto, oltre i numeri, i beni, le quote e le legittime, è la sua visione del mondo, i valori, lo stile, le idiosincrasie, le paure, quello in cui crede e quello che non si è riuscito a perdonare. Questo atto notarile, in apparenza burocratico, è il monologo di un Gran Lombardo, forse uno degli ultimi. Andrebbe studiato nelle scuole. Perché nelle parole di Caprotti c'è l'orma e l'anima di una schiatta d'uomini sempre più rara, quella che ha rimesso su un'Italia in macerie, testarda, burbera, doverista, intraprendente, che al termine della notte ha immaginato un futuro e se lo è preso, senza alibi, senza sconti, faticando attimo dopo attimo, oltre i limiti, senza arrendersi, come in una maratona, rischiando, con la passione che è un demone ossessivo e di notte ti manda a pezzi il cuore.
    Caprotti che pensa al suo funerale, «che sia al mattino, il più presto possibile, onde non disturbare il prossimo». Caprotti che non vuole necrologi, «sarebbero paginate di fornitori cortigiani». Caprotti sa che non esistono famiglie felici. Non gli tocca a quelli come lui. «Ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili. Le aziende non saranno dilaniate». Caprotti sa, come Enzo Ferrari, che in questa Italia invidiosa e bigotta, ti perdonano tutto tranne il successo. Caprotti mette nero su bianco che Esselunga non dovrà mai finire nelle mani delle Coop. No, non è questione di concorrenza, ma di etica. Non teme la vendetta dei nemici sul suo cadavere. Non accetta semplicemente l'ipocrisia e i vantaggi di fare affari sotto la maschera dell'ideologia. È quello che racconta in Falce e carrello. È coerenza. È orgoglio. Caprotti che non si offende se lo chiamano droghiere, perché sa che dietro quella parola c'è una cultura antica e il commercio è fatto di coraggio e di esperienza e di saperi e di studi e di libri e di bellezza. E se lasci in eredità un De Chirico o un olio su tela di Zandomeneghi non è per quanto vale, ma perché lì dentro ci sei tu, ti ci specchi, ti ci riconosci.
    E la casa non sono solo quattro mura e neppure una costellazione di ville, ma quello che c'è dentro, come la biblioteca del bisnonno Giuseppe, quattromila volumi, e l'archivio di famiglia. «Il corpo di tutto questo costituisce il centro delle nostre origini, la nostra tradizione, quello che siamo. Questo ho tramandato a mio figlio Giuseppe, in questo conto ho tenuto questo mio figlio». Caprotti ti dice che dietro ogni impresa c'è molto di più di quello che appare. Per questo ogni volta che scompare un marchio, un negozio, un'officina se ne va un pezzo di universo.
    La lezione del Gran Lombardo - IlGiornale.it


 

 
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