Nella Pa ci si ammala il doppio rispetto al settore privato e soprattutto il lunedì
Secondo l'Osservatorio dell'Inps gli impiegati pubblici si ammalano il doppio rispetto a quelli privati.
Adriano Palazzolo
Lo scorso anno in Italia, tra settore pubblico e privato, si sono persi quasi 109 milioni di giorni di lavoro.
È quanto emerge dall'Osservatorio Inps, secondo il quale nella Pubblica amministrazione ci si ammala il doppio che nel privato: in media 10 giorni e mezzo lo scorso anno, contro gli oltre 5 giorni e mezzo delle aziende private.
Nel settore privato lo scorso anno sono stati fatti in totale 77.195.793 giorni di malattia, mentre nel pubblico il monte malattie è arrivato a quota 31.525.329. Se si considera però il numero dei dipendenti sia pubblici (3 milioni) che privati (13,6 milioni), ne consegue che i giorni di malattia nel pubblico sono stati in media 10,5 mentre nel privato 5,67.
Il numero dei certificati di malattia trasmessi rispetto al 2013, presenta un lieve aumento dell`0,8% per la pubblica amministrazione e una diminuzione del -3,2% per il settore privato.
C'è un dato invece che accomuna i due settori. Indipendentemente dal fatto che si lavori nel pubblico o nel privato, casualità vuole che il giorno in cui ci si ammala più di frequente è il lunedì, subito dopo il weekend.
Nella Pa ci si ammala il doppio rispetto al settore privato e soprattutto il lunedì - IlGiornale.it
I fannulloni? Li crea lo Stato inefficiente
Quando il sistema è inefficace, produce i fannulloni e anche peggio
Pier Luigi del Viscovo
«Licenziare i dipendenti pubblici che falsificano le presenze». Su questa affermazione del ministro Madia è subito partita la discussione.
Nel mondo normale, manco se ne parla di uno che perde il posto perché non va a lavorare e fa timbrare da un altro: tutti e due fuori e fortunati che non vengano denunciati alla Procura. Ma va bene. Però, se discussione dev'essere, che siano invitati pure i 578 lavoratori Michelin di Fossano, che perderanno il posto pur non essendo assenteisti. Magari hanno qualcosa da dire ai colleghi della Pa. Loro, che vivono e lavorano nel mondo normale, perdono il posto se il sistema non ha più bisogno che vadano ogni giorno a produrre, perché il mercato, la domanda, non acquista il frutto del loro lavoro. Piaccia o non piaccia, a grandi linee così funziona il nostro sistema economico. Che funziona. L'altro sistema ha fallito, ricordiamolo, proprio perché aveva eliminato dal lavoro la competizione basata sul risultato.
Dicono: la legge per licenziare c'è, ma non viene applicata. Nel privato, se un capo del personale non licenzia un assenteista, l'amministratore delegato licenzia lui. La domanda al ministro è: perché ne parla ai convegni, invece di agire? È il ministro, mica un opinionista qualsiasi. E non si agisce solo con un'ennesima legge, che sarebbe compito del Parlamento, ma dando pressione ai dirigenti, convocandoli, facendo ispezioni. Insomma, un giro di vite. Questo fa l'esecutivo, fa funzionare la macchina che ha, oggi un po' meglio di ieri, domani ancora meglio di oggi. Nelle aziende private non ti fanno nemmeno respirare, quando le cose vanno meno che benissimo.
Ma non tutti nella Pa sono fannulloni. Ci mancherebbe altro. L'impegno sul lavoro non è una caratteristica genetica, ma un comportamento che il sistema permette e agevola. Anche il più volenteroso stacanovista inserito in un ufficio dove se acceleri ti guardano male, a cominciare dai capi, dopo un po' si adegua: è volenteroso, non stupido.
Allora che fare? Il sistema della Pa non è orientato a produrre un risultato positivo, ma ad applicare norme, procedure e circolari interne. Se poi il «dopo» è peggiore del «prima» non fa niente, perché l'azione è avulsa dal contesto. Dunque il vero snodo è questo: nella Pa mancano gli obiettivi specifici, puntuali e temporizzati, per singolo ufficio e dipendente, verso cui valutare i risultati. Tant'è che poi danno i premi a tutti. E allora si pretende di affidarsi al singolo, sull'idea di fondo (catto-comunista, dunque per me sbagliata), che l'uomo sia per natura buono e tenda al bene. Per corollario, più sta in basso e più sarebbe buono, onesto e laborioso.
La storia insegna che l'uomo, come tutte le creature del pianeta, è egoista e mira al proprio tornaconto. Solo un sistema civico efficace rende conveniente il bene e sconveniente il male – tipo Inferno e Paradiso, però in questa vita. Quando il sistema è inefficace, produce i fannulloni e anche peggio.
I fannulloni? Li crea lo Stato inefficiente - IlGiornale.it
Statali: tanti e vecchi
Impariamo dalla Svizzera
di Robi Ronza
Secondo una ricerca di cui il Corriere della Sera ha dato ieri notizia, fra i tre milioni e duecentomila dipendenti statali italiani sono oggi soltanto 100 mila quelli che hanno meno di trent’anni. Se poi – osserviamo per parte nostra -- si escludessero dal conteggio i militari, la cui età media (37 anni e mezzo) è inevitabilmente bassa, la presenza di giovani nei ranghi dell’amministrazione dello Stato risulterebbe ancora più esigua. Il fenomeno specifico si presta a varie osservazioni, ma in effetti non è la sostanza del problema bensì soltanto una sua conseguenza.
La prima domanda che ci si deve infatti fare è un’altra, ovvero: come mai abbiamo in Italia tre milioni e duecentomila statali? Che cosa mai ce ne facciamo? Si tratta di un esercito (si fa per dire) il cui organico, tanto per fare un paragone, risulta superiore anche a quello, 2.825.000 uomini e donne, che basta alle forze armate americane per far sventolare la bandiera a stelle e strisce, e eventualmente rovesciare bombe in testa a qualcuno, in ogni angolo del globo.
Per definizione gli statali hanno per lo più funzioni amministrative, non produttive né tanto meno commerciali. La stima precisa di quanto siano più numerosi del necessario implica analisi complesse, ma una valutazione in sintesi è alla portata di chiunque fosse già in grado d’intendere e di volere venti - trent’anni fa. Basta fare un confronto fra quanta gente si vedeva allora in qualsiasi ufficio di imprese private allora e quanta se ne vede adesso; e rispettivamente quanta se ne vedeva e se ne vede negli uffici pubblici. Il confronto è lampante dappertutto, ma giunge al culmine nel caso di ministeri romani. Tanto più entrando in quelli principali, storici, come il ministero degli Esteri o quello dell’Istruzione, sembra di entrare in un film degli anni ’50, ma spesso anche degli anni ’30. All’inizio ci si sente piacevolmente ringiovanire, ma poi spesso si ha l’impressione, talvolta preoccupante, di reincarnarsi nel proprio padre se non nel proprio nonno.
Non avendo il coraggio di affrontare il problema sul lato dell’organizzazione del lavoro, e prima ancora sul lato del diritto amministrativo, ormai da diversi decenni il ceto politico tenta di risolverlo prendendo il cane per la coda, ossia con il blocco dei concorsi pubblici e dei contratti. In questo modo all’inefficienza del sistema si aggiunge per soprammercato pure l’invecchiamento del personale. Quando infatti il personale più anziano comincerà ad andare in pensione in massa (nei prossimi dieci anni si tratterà di un milione di persone tra cui circa la metà dei dirigenti e degli alti funzionari), se le cose vanno avanti così ci si troverà con una macchina amministrativa dello Stato non soltanto più che mai obsoleta ma anche sguarnita.
Con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, come diceva quel tale, immaginiamoci che presto si decida di porre mano a una riforma. Se ciò fosse c’è subito un’altra cosa da temere: che ci si affidi ancora all’«accademia» dei baroni del diritto pubblico italiano ossia ai presunti esperti che ci hanno portato dove siamo adesso, e in particolare ai baroni del diritto amministrativo, ovvero ai padri dell’attuale groviglio inestricabile di leggi e regolamenti. Non sarà possibile ignorarli ma occorre imboccare ben altre strade, in primo luogo quella del diritto pubblico di tradizione germanica uno dei cui frutti, la legislazione federale elvetica, è tutta quanta accessibile anche in lingua italiana. E così pure la sua prassi amministrativa sia a livello federale e sia a livello cantonale grazie ai due cantoni in tutto o in parte di lingua italiana.
Statali: tanti e vecchi Impariamo dalla Svizzera
Toh, le pensioni degli statali le pagano i privati
di Matteo Borghi
Un patrimonio di 18,5 miliardi di euro e che, in breve, potrebbe dissolversi lasciando spazio a un debito tre volte più grande. È questa, in pillole, la situazione dei conti dell’Inps. Uno stato pietoso, delineato a chiare lettere da un rapporto della commissione economico-finanziaria dell’istituto e riportato ieri dal Corsera.
Che le casse dell’istituto di previdenza piangano non è certo una novità. È del resto una regola scientifica quella per cui un sistema in disequilibrio non può tornare in equilibrio se non si modificano i problemi che stanno alla base. Fuor di metafora, non può reggersi a lungo sulle proprie gambe un sistema che, per decenni, ha dato a tanti pensioni molto più alte dei contributi realmente versati. La vera notizia è infatti un’altra: i lavoratori del settore privato pagano la pensione a quelli del settore pubblico.
Detta così anche questa sembra una non notizia. È un dato di fatto che i dipendenti pubblici non producono, di per sé, reddito: i loro stipendi, con annessi contributi pensionistici, vengono pagati dal contribuente come ogni altra spesa del bilancio statale. Il punto è un altro: il fondo dei dipendenti pubblici è quello che perde più soldi di tutti, al contrario degli altri, che perdono meno o addirittura avanzano soldi.
Nel dettaglio l’ex Inpdap ha un deficit di 5 miliardi di euro, che saliranno a 20,4 nel 2023: nello stesso periodo l’indebitamento patrimoniale passerà dai sette miliardi attuali a ben 112,8. A confronto le altre due principali casse in rosso perdono molto meno: il deficit del fondo artigiani passerà dai 5 miliardi attuali a 7,6 del 2023, mentre quello dei coltivatori diretti si manterrà sui 4-4,5 miliardi. Fortuna che altri tre fondi – dipendenti privati, parasubordinati, «prestazioni temporanee» (cassa integrazione, maternità, malattia, assegni familiari) – continueranno ad avanzare soldi, tamponando così il bilancio che nel 2023 arriverà a perdere “solo” 12,44 miliardi l’anno. Tutte le cifre sono preoccupanti, sia chiaro: 5 miliardi di perdite l’anno dei coltivatori sono tanti, ma comunque meno degli oltre 20 dei dipendenti pubblici.
Com’è possibile siano così tanti? Anzitutto bisogna ricordare che il fondo dei dipendenti pubblici continua a pagare vergognose baby-pensioni a persone che dal 1973 al 1995 hanno maturato 14 anni 6 mesi e un giorno di lavoro nella pubblica amministrazione (nel caso delle donne con figli, per gli altri i requisiti salivano a 20 anni nel caso degli statali e 25 nel caso dei dipendenti degli enti locali, comunque la metà degli anni richiesti oggi per la pensione). Non solo: secondo i calcoli della Cgia di Mestre dal 2001 al 2009 il costo del lavoro per gli statali è aumentato del 29,5%. Più soldi in stipendio, vogliono dire più in pensioni. In compenso il numero complessivo degli statali è sceso nello stesso periodo di 111mila unità, facendo aumentare il rapporto fra dipendenti e pensionati verso questi ultimi.
Insomma, non solo il settore privato paga per quello pubblico, ma quest’ultimo non riesce neppure a finanziarsi coi propri contributi, indebitandosi e dovendo ricorrere, alla lunga, alla fiscalità generale. A pagare è sempre Pantalone. Ma questo non sorprende per niente.
Toh, le pensioni degli statali le pagano i privati - L'intraprendente | L'intraprendente