Altro che Burqa! Da Teodolinda a Matilde di Canossa, tutte le donne forti del Medioevo occidentale
Chantal Fantuzzi
Nonostante siano molti i media che, alla vista di donne in burqa, commentino candidamente “robe da Medioevo”, non ci risulta che, nel Medioevo, per l’appunto, le donne fossero relegate alla triste ed attuale condizione delle donne islamiche. Tutt’altro.
Nell’alto medioevo era addirittura l’uomo a farsi carico degli oneri matrimoniali e portare la dote alla sposa. O meglio, le faceva due doni, la contro dote e la Morgengabe, ‘dono del mattino’, donatole per l’appunto il giorno dopo il matrimonio. L’usanza della contro dote divenne comunissima in tutto l’Occidente sino al XII secolo. Inoltre le donne potevano possedere proprietà e la loro cultura superava spesso quella dei loro mariti. Nella biografia di una regina Merovingia, Santa Radegonda, leggiamo infatti che ella fu educata alle lettere e ‘’ricevette un’istruzione adeguata al suo ceto”. Le donne dovevano inoltre essere pronte a prendere il posto del marito, se egli fosse stato impedito. Ciò esigeva una buona dote di coraggio, autonomia e forza di carattere, in un’epoca dove i detentori del potere di palazzo erano quasi tutti potentiores armati.
Fu nel XII secolo che il principio rinato della prevalenza dei congiunti in linea maschile, si scontrò con la tradizione della contro dote. Scomparendo i regali nuziali, fu la donna a dover provvedere al mantenimento della futura famiglia portando lei stessa beni nuziali, venendo così esclusa dalla divisione dell’eredità tra i fratelli maschi. Ciò decretò sì una minore autonomia del ruolo femminile ma, dopotutto, non un peggioramento, essendo la donna sempre e comunque l’addetta alla casa. Le donne, inoltre, potevano anche lavorare in proprio e a domicilio.
Il Medioevo ci fornisce uno splendente elenco di grandiosi ritratti femminili, in antitesti, ancora una volta, all’assurda constatazione che vede il Medioevo come epoca che subordina e sottomette la donna al pari delle barbarie (islamiche) odierne.
Teodolinda, regina longobarda e principessa bavara cattolica, fondò molti centri di reliquie e di bellissime basiliche (come Monza) e si attuò per stringere un forte legame tra i Longobardi e la Chiesa di Roma. Alla sua morte fu proclamata beata.
Matilde di Canossa, energica contessa di origini germaniche, padrona di molti feudi in Emilia e in Italia centro-settentrionale, si battè per sanare il dissidio tra papato e impero e non esitò a schierarsi dalla parte di papa Gregorio VII proteggendolo con la sua armata personale, contro l’imperatore Enrico IV (che si umiliò, nel famoso episodio, inginocchiandosi nella neve nel gennaio del 1077 ai piedi della rocca della contessa ove era rinchiuso il pontefice suo avversario) e scese lei stessa, più volte, in campo, indossando l’armatura e imbracciando la spada.
Matilde di Gloucester, principessa d’Inghilterra figlia di re Enrico I, la quale, rimasta orfana, non esitò a scendere in campo e a combattere contro gli usurpatori, in favore del figlio ancora bambino, futuro Enrico II il Plantageneto.
Eleonora d’Aquitania, moglie (ripudiata) da Enrico II d’Inghilterra, letterata e colta, attirò alla propria corte un raffinato circolo di intellettuali tra cui l’insigne poeta Chretien de Troyes, contribuendo alla diffusione della cultura e dei romanzi bretoni.
Maria di Francia, poetessa letterariamente riconosciuta e autrice di numerosi romanzi.
Bianca di Castiglia, regina di Francia e madre del futuro crociato, re e santo Luigi IX, che governò saggiamente e trasmise al figlio fede, forza d’animo e fervente passione.
Costanza d’Altavilla, sposa normanna dell’imperatore Enrico VI, rimasta presto vedova, non si scoraggiò di fronte alla notizia che Otone di Brunswick stesse per usurpare il trono spettante al di lei figlio, futuro Federico II e, con l’aiuto di Innocenzo III riuscì ad ottenere vittoria per la propria causa, riuscendo a vedere l’incoronazione del suo bambino (che aveva solo otto anni) a Re di Sicilia.
Santa Caterina da Siena, che si battè con ardore per il ritorno della corte papale da Avignone a Roma.
Bianca Sforza, contessa di Milano, fu senz’altro una personalità forte e autoritaria, profondamente rispettata dal marito Francesco, con il quale condivideva le posizioni politiche. A diciassette anni fu nominata contessa reggente della Marca dal marito. A ventitré (1448) indossò l’armatura e imbracciò la lancia e combatté a fianco di Francesco durante l’assalto del ponte di Cremona, per riprendersi Pavia, caduta nelle mani dei Veneziani. Vittoriosi, i due sposi rientrarono, a cavallo, a Milano ove, con il consenso popolare, furono nominati duchi reggenti.
Protagoniste politiche, regine, sante, le donne medioevali furono tutt’altro che personaggi deboli ed inconsistenti, quanto piuttosto fiere eredi delle loro altrettanto fiere cause.
E poi, basti pensare alla raggiante tradizione letteraria del nostro medioevo: il dolce stil novo, filone letterario che innalza la figura della donna, sublimandola e venerandola. Guinizzelli, Cavalcanti, Lapo Gianni e Dante Alighieri, che attribuiscono alla figura femminile importanza, venerazione e rilevanza. E lo stesso Dante che, nell’inferno Canto V, mette in scena la più suggestiva scena d’amore, affidando il racconto dei più toccanti versi che permangono tutt’oggi nella memoria collettiva (Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende…/Amor, ch’a nullo amato amar perdona…/Amor condusse noi ad una morte…) a Francesca, una donna, adultera, dannata. Parteggiando per lei, per lei soffrendo e svenendo. Se non è rispetto per la donna questo…
Infine, già nella seconda metà del XII secolo, Andrea Cappellano scrive nel suo trattato ‘De amore’, al punto IX ‘Ubidire in tutto li comandamenti delle donne’. Esigenze poetiche, certo, ma anche la nascita di una concezione modernissima ed estremamente attuale.
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“Gender. L’anello mancante?”
Benedetta Frigerio
Quale visione dell’uomo? È la domanda che accompagna Gender. L’anello mancante? (ed. Studio Domenicano, 152 pagine) di padre Giorgio Carbone, teologo domenicano che descrive l’origine storica, sociologica, filosofica e le conseguenze giuridiche e antropologiche dell’ideologia gender. Per essa, ricorda Carbone, «il sesso genetico e l’identità sessuale sono aspetti da superare», mentre viene «negata la persona sessuata». La conseguenza, però, non è quella sperata di un’emancipazione o una libertà ritrovata, perché l’uomo finisce per essere svilito, «isolato» e «non identificato tanto come persona ma per il suo orientamento».
I FALSI MITI. Carbone smonta i falsi miti usati per sostenere i diritti mancanti delle persone con tendenze omosessuali. Si ricorda, ad esempio, la legge 91 del 1999 che permette alle persone di essere assistite nelle cure in ospedale dai propri conviventi, i quali possono anche dare pareri circa le cure. Ma che rispondere a quanti sostengono che «alla morte del convivente, l’altro avrebbe dovuto abbandonare la casa»? Il domenicano cita «la legge n. 392 del 1978», modificata dalla Corte Costituzionale nel 1998, la quale «prevede che in caso di morte dell’affittuario il convivente gli succede nel contratto di locazione». Infine, anche per la successione ereditaria «è sufficiente il testamento». L’unica cosa da cui si resta esclusi è la pensione di reversibilità, perché «non è un diritto umano fondamentale» e quindi viene elargito solo in caso di una presa di responsabilità stabile che prevede certi doveri.
NUMERI E RICERCHE. Nel libro sono elencati i numeri delle coppie di conviventi che si sono iscritte ai registri delle unioni civili istituiti dal 1996 in otto grandi Comuni italiani: in vent’anni sono meno di 500, segno che alle coppie conviventi non interessa un riconoscimento ufficiale. Ma «allora qual è l’esigenza reale e concreta da tutelare? Pare che non ci sia. Eppure l’appello ai diritti civili continua ad essere presente nel dibattito pubblico, anche con una certa insistenza». Carbone spiega che ciò sta snaturando il diritto, che da sempre si fonda su dati concreti e non su percezioni della mente umana o sui desideri. Una vera rivoluzione dunque, che non sarebbe mai accaduta se prima non fosse stata messa in discussione l’esistenza di una «verità oggettiva» e quindi di un «bene comune». Motivo per cui la convivenza umana, non più ancorata al dato reale che tutti devono rispettare, è diventata un accordo fra chi ha più potere. Così, però, il legame sponsale «sarà stravolto in modo tanto brutale quanto silenzioso» per «consentire l’accesso al matrimonio a una minoranza che non ha titoli per farlo».
Carbone analizza fino alla radice il problema dell’omosessualità e della convivenza in relazioni di per sé innaturali, mostrandone le conseguenze con tassi di suicidio crescenti nei paesi più “tolleranti”, in cui le coppie dello stesso sesso si possono sposare da anni. Per quanto riguarda i bambini cresciuti all’interno di queste unioni, nel libro vengono presentati alcuni studi con una casistica ampia e nel rispetto degli standard di scientificità, come quelli di Sullins e di Regnerus. I risultati vedono questi bambini in netto svantaggio rispetto a tutti gli altri (anche a quelli che soffrono per la mancanza di un genitore o per un divorzio).
NELLE SCUOLE. In questo modo, continua il domenicano, si «generano individui isolati, indistinti, privi di relazioni significative». E «ciò è funzionale ai movimenti totalitari: questi si basano sulla formazione di masse di individui atomi che sono resi fedeli al sistema totalitario». E ovviamente «chiunque dissente» dal pensiero totalitario è come sempre bollato «come reazionario».
Quali rimedi? Secondo il teologo, oltre a «informarsi» e chiedere ai genitori di resistere unendosi alla “colonizzazione gender” nelle scuole, bisogna «prendere coscienza della realtà e non rifiutarla» e «bisogna proporre un atteggiamento di umiltà». Da qui nasce il terzo rimedio: «La contemplazione», per cui «ammiro le cose per il semplice fatto che ci sono e sono belle, senza avere di mira il loro uso e la loro funzione». Solo questa presa di consapevolezza potrà sconfiggere l’ideologia gender e rendere di nuovo possibile «l’amore innanzitutto verso quella realtà speciale che ognuno di noi è».
Libro di Carbone: "Gender. L'anello mancante?" | Tempi.it
Le suore di Napoli sfrattano gli abusivi. Portiamole a Milano per svuotare le case occupate
di BRUNO DETASSIS
La Provvidenza ci vede bene. Ma non porge l’altra guancia. Chissà che penserebbe Papa Francesco, davanti a un pugno di suore ben determinate a far rispettare la proprietà privata a Napoli. La vicenda, ben videoripresa dal Fattoquotidiano, si svolge a Napoli, e vede protagonisti diversi soggetti della città. Per cominciare, gli agenti della questura, che nei giorni scorsi intervengono nell’ex scuola media Belvedere e sgomberano 35 occupanti: si tratta, per la cronaca, di nove famiglie, ci sono cinque minori e sette extracomunitari.
La notizia è nella notizia, perché il locale da sgomberare non è del Comune né di un privato, ma appartiene all’Ordine delle suore del Buon Pastore ed è un immobile frutto di una donazione vincolata a uso sociale. “A me dispiace, ma io non mi metto in mezzo. Roma sa già quello che deve fare”, dice una suora al Fatto, e continua: “Se vogliono, queste famiglie si rivolgano ad un altro ordine religioso”.
Strepitoso. Accoglienza sì, ma non qui. Una lezione di stile e di fermezza, che ogni tanto farebbe bene anche da altre parti del mondo cattolico, quello dall’accoglienza facile e che invoca confini sempre aperti, tanto poi sono altri ad accogliere, non i locali destinati e vincolati ad altri usi sociali. Giusto?
Don Tonino Palmese afferma infatti che “Ci troviamo di fronte ad un paradosso, a me il fatto non piace, ma forse non mi piacerebbe neppure che qualcuno venisse a occuparmi la casa”. Ecco, valga non solo per le case della chiesa ma anche per quella di tutti i cittadini.
Avremmo voluto una reazione pronta e con la stessa veemenza quando mesi fa una prefettura annunciò di essere pronta a prendere tutti gli stabili privati se fosse stato necessario per dare ospitalità agli immigrati sbarcati a Lampedusa. Avete sentito un parroco dire una parola?
L'accoglienza, non per tutti | L'Indipendenza Nuova
Corte Ue: "Giustificato divieto Francia donazione sangue per gay"
(AGI) - Bruxelles, 29 apr. - La Corte di giustizia Ue di Lussemburgo ha stabilito oggi che e' giustificata la legge francese che vieta agli uomini che abbiano avuto rapporti omosessuali di donare il loro sangue, in quanto a rischio di trasmissione di Aids.
Secondo i dati a disposizione delle autorita' francesi, aggiornati al 2008, gli uomini omosessuali sono di gran lunga la categoria piu' colpita dall'Aids in Francia a causa di rapporti sessuali non protetti, si legge in un comunicato stampa della Corte Ue. L'incidenza della malattia tra gli uomini omosessuali e' 200 volte superiore al tasso registrato nel resto della popolazione francese. In virtu' di questi dati, le autorita' francesi impongono un divieto permanente di donare il sangue agli uomini che abbiano rapporti omosessuali. Tale divieto, alla luce di questi dati, e' considerato "giustificato" dai giudici Ue.
https://www.agi.it/estero/notizie/co...sangue-per-gay
Vince l’Azione Cattolica: alle Poste riappendono il crocifisso
Lo scorso ottobre il sindaco di Lendinara Luigi Viaro, insieme ai rappresentanti dell’Azione Cattolica del paese e dei consigli pastorali delle due parrocchie principali del capoluogo, si era mobilitato contro la rimozione del crocifisso dall’ufficio principale delle Poste, in piazzale Kennedy.
Nei giorni scorsi, proprio nel salone principale della sede lendinarese di Poste Italiane, il crocifisso è stato riappeso al muro.
«Siamo felici che sia ritornato al suo posto», ammettono i responsabili locali dell’Azione Cattolica.
Vince l?Azione Cattolica: alle Poste riappendono il crocifisso | Sostenitori delle Forze dell'Ordine
Il menhir e l’olifante: epica e politica in casa Le Pen
Di Mario Cecere
Chi ha avuto modo di seguire le polemiche prodottesi di recente nel principale partito di opposizione in Francia, i cui strascichi vedono da ultimo anche la pupilla del FN, Marion-Maréchal Le Pen, prendere le distanze dal deputato identitario e lepenista di ferro Bruno Gollnisch, fedelissimo sodale di Jean-Marie, comprenderà quanto dall’esito di tale scontro interno possano dipendere gli orientamenti di molte forze politiche che in Europa guardano con simpatia e speranza alla forza patriottica d’Oltralpe.
Lungi dal costituire mere “esternazioni” di un vegliardo con l’occhio rivolto al passato, come malignamente asserito da molti provenienti dai ranghi del suo stesso partito, le dichiarazioni del presidente d’onore del Front National, che rivendica con la franchezza di sempre posizioni già note sulla Seconda guerra mondiale ed espresse già in una famosa tribuna televisiva del 1987, colgono a mio avviso un aspetto fondamentale, se non proprio essenziale, del ‘politico’, vale a dire la libertà che si trova a fondamento di ogni autentica sovranità politica. I fatti sono abbastanza noti e mi limiterò ad un breve riepilogo. Una crisi gravissima si è aperta nel Front National in seguito a due interviste concesse da JMLP rispettivamente ad un’emittente televisiva e ad un periodico nazionalista. Nel corso della prima, il solito giornalista ossessionato tirava in ballo l’antica dichiarazione di Le Pen sulle camere a gas definite “dettaglio della storia”, da comprendere, come precisato dallo stesso intervistato, non come appoggio alle tesi “negazioniste” sulle camere a gas, ma in relazione all’immane bilancio complessivo delle vittime del secondo conflittomondiale. In quella occasione, per quanto scrutato con il tipico cipiglio ammonitore, il menhir, come viene soprannominato Le Pen, si rifiutava di nuovo e gagliardamente di compiere l’atto di penitenza catodico sperato dall’imbonitore di turno, dicendosi tuttora persuaso della sostanziale pertinenza di quella veduta.
Una settimana dopo, nel vespaio di polemiche che già iniziava a sollevarsi minaccioso, JMLP, in un’intervista-fiume concessa al periodico rivoluzionario-conservatore Rivarol, ritornava sulla frase incriminata non per abiurarla ma, di soprammercato, per confessare di non considerare affatto il Maresciallo Petain come un “traditore” e facendo rimarcare piuttosto quanto sia opportuno – richiamandosi addirittura ad una linea di riconciliazione nazionale che fu perfino di Georges Pompidou – operare tutti gli sforzi necessari alla rimarginazione delle ferite sempre sanguinanti prodotte dalla seconda, tragica guerra civile europea – causa, oggi ancora, di dolorose lacerazioni oramai totalmente ingiustificate.
Il senso delle parole di Le Pen era, in sostanza, che occorre poter tornare su quelle dolorose vicende non certo per épater les bourgeois, vale a dire a fini di scandalo, o per piegarle a interessi ideologici unilaterali, come avviene in maniera sempre più ossessiva ai nostri giorni, ma con sguardo il più possibile equanime e pacificato, rendendo innanzi tutto giustizia a quelle figure ingiustamente ricoperte dal fango dei vincitori e dal rancore irrazionale delle plebi.
E questo non tanto per una forma di nobiltà d’animo verso il vinto – attitudine quanto mai incomprensibile e rara presso una civilizzazione fondata sulla forza del numero, sul calcolo utilitario e sulla isteria moralistica di matrice giacobina – quanto perché, parafrasando Heidegger, appare sempre più evidente che dal rapporto istituito con la propria storia, liberato dai tabù che rendono difficoltosa la ricerca e pericolosa la messa in discussione dei dogmi ideologici ufficiali sulla seconda guerra mondiale e gli aberranti complessi di colpa instillati dai vincitori, ne va dell’essere stesso dell’Europa. Gli spazi di discussione e libertà però, e questo caso lo dimostra ampiamente, si restringono ogni giorno di più, accoppiandosi, alla minaccia ideologica da sempre esercitata dal potere, il più sottile e devastante atto di autocensura e ‘sottomissione’ houellebecquiano che va pervadendo gli spiriti di troppi.
Nessun nostalgismo, quindi, nulla di “sulfureo” o scandaloso nelle parole di Le Pen, il quale aggiungeva, nel medesimo spirito, che oggi un raggruppamento di ispirazione nazionale e patriottica come il Fn dovrebbe essere considerato la casa comune di quanti, gollisti, o simpatizzanti di Petain, avessero come minimo comune denominatore la natura di “patrioti”– e cosa potrebbe esservi di più consustanziale allo spirito di un partito ‘nazionale’ come il Front, la cui forza ha finora poggiato solo sull’aura di irriducibilità al sistema criminale della Collaborazione al suicidio della civiltà europea?
Apriti cielo… da SOS Racisme al Crif alla Licra, da sinistra a destra e tra le fila del proprio stesso schieramento − con in testa la figlia e gli altri registi della cosiddetta “dédiabolisation”, che tutto debbono della loro esistenza politica a JMLP − l’intero sistema politico mediatico ha tuonato all’unisono contro il vecchio patriarca, chiedendone la testa, ottenendone l’esclusione dalle prossime elezioni regionali, isolandolo quasi completamente all’interno del suo stesso partito che peraltro gli ha fatto mancare ogni solidarietà e lasciando da ultimo presagire quale sarà la soluzione finale da applicare affinché il Front possa finalmente ritenersi “presentabile”: l’espunzione di idee e uomini legati ad una certa idea di onore, identità, sovranità e libertà non negoziabile e incompatibile, evidentemente, con il Totem del cosmopolitismo democratico laicardo e gender, perennemente inumidito con lacrime e altri umori dalle vestali della memoria unica.
Nel drammatico scenario contemporaneo, che vede la nostra civiltà trascinarsi sull’orlo del baratro occorre in primo luogo − penso alle forze della dissidenza e della resistenza al nuovo ordine mondiale − riconoscere l’importanza del Fn, che ha saputo leggere e denunciare con fermezza e decenni di anticipo (imponendoli all’attenzione di grandi masse) alcuni importanti fenomeni distruttivi in corso che ci minacciano ormai fin troppo da vicino, riuscendo a non farsi liquidare nel perfido clima di intimidazione, demonizzazione e violenza di cui sono raffinati amministratori i “demoni del bene” sedicenti democratici, gli officianti del culto dei “diritti umani” e della libertà di espressione a corrente alternata. Al Fn è riuscito, contro tutto e tutti, di costruire nel tempo una radicata e solida forza di resistenza nazionale, patriottica e popolare altamente rappresentativa, tra l’altro, dei ceti traditi e abbandonati a misera sorte dalla gauche-caviar comunista e immigrazionista.
In molti hanno quindi parlato di ignobile “pugnalata alla schiena” da parte di Marine Le Pen e della sua cerchia di consiglieri filosionisti e gay-friendly quanto mai vogliosi di poter finalmente entrare nel gotha della politica che conta: senza poter parlare, almeno finora, di svendita dell’anima del Fn in senso ‘finiano’, non ci si può nascondere che molte nubi si sono addensate, a causa di questo poco nobile parricidio, sul futuro di questo partito, un movimento che per anni ha denunciato le politiche mondialiste imposte al Paese, dall’immigrazione alle guerre Nato alle politiche UE e pronto a smascherare, contro i propri presunti interessi, perfino la cinica strumentalizzazione dei fatti di Charlie Hebdo ad opera del potere.
Una forza che, sempre animata dagli eroici furori del menhir, ha guadagnato consensi ed è divenuta primo partito di Francia, oltre che grazie alla lotta all’immigrazione, proprio perché ha ostinatamente inteso far risaltare una propria irriducibile differenza e specificità culturale e politica, alternativa alla deriva orwelliana del partito unico UMPS: smarcandosi dalla dittatura del pensiero unico e della repressione del dissenso, del lavaggio del cervello e della perversione etno-masochista impartita, in luogo dell’istruzione, dalla cosiddetta Education National e da analoghe strutture orwelliane della Répubblique massonica; pronunciandosi in difesa della libertà di espressione minacciata dalle oligarchie (anche nel caso patologico della crociata di stato contro il comico Dieudonné) denunciando le previste limitazioni liberticide su internet e invocando una politica estera di intesa con la Russia, di uscita dalla Nato e di non ingerenza nella politica degli stati sovrani di Medio-Oriente e Nord-Africa. Per tali ragioni, che hanno anche premiato in termini elettorali facendone probabilmente il primo partito di Francia, il Fn resta un simbolo importante, un elemento politico di primo piano nell’oscuro panorama contemporaneo.
Nell’infierire maggiormente contro Le Pen padre, dicevamo, si sono distinti soprattutto i quadri dirigenti di recente acquisto del Fn, ceto impiegatizio del tutto privo della fisionomia politica e umana di un partito come il Front. Costoro in massima parte, rassicurati dal nuovo clima, aspirano a cariche di rilievo senza avere in comune con il vecchio Front nessun elemento culturale; soggetti facilmente manipolabili dalle sirene del potere perché privi di orientamenti forti e di quelle affinità elettive che crescono soltanto attraverso le gioie e i dolori di un cammino aspro e per pochi, nella consapevolezza di una lotta che trascende gli interessi individuali per iscriversi in quelli più essenziali della comunità e della storia della patria, nel destino ancora più vasto dell’Europa e della sua civiltà minacciata.
Anche per costoro − paradossalmente e malgrado tutto, per questi ambigui fautori di un partito liquido, rosa e presentabile − risuona, quanto mai solitario e nobile, quasi come il corno di Rolando nelle ultime tragiche battute dell’epica Chanson de geste, il monito disperato ma carico di significati simbolici del menhir, l’ultimo guanto di sfida lanciato contro il sistema da Jean-Marie Le Pen.
Il menhir e l?olifante: epica e politica in casa Le Pen - EreticaMente
"Giusto spaccare tutto" - IlGiornale.it
«È più facile dominare chi non crede in niente»
Luisella Saro
Più delle vetrine sfasciate, delle auto incendiate, delle strade devastate… più dei volti dei milanesi sgomenti di fronte a quelle vie del centro messe a ferro e fuoco dai facinorosi, è l’intervista a questo giovane che mi ha lasciata annichilita.
Lo ascoltavo e il pensiero è volato a sua madre e a suo padre. Dove sono? Cosa penseranno guardando quel loro figlio in tivù esaltarsi di fronte alla marea montante, ai bastoni, i bulloni, i razzi, le bombe carta, le mazze, i martelli, i sanpietrini, le bestemmie, gli sputi, le pisciate sui muri dei palazzi… di fronte al niente.
Più dei black-block, anzi dei delinquenti-senza-se-e-senza-ma che ieri hanno messo sotto assedio il centro di Milano è lui l’esito del nostro nichilismo, del relativismo che pareggia bene e male (sono solo un’opinione: la tua, la mia, secondo me, secondo te…)
Mettere la faccia in tivù, dare la voce a un microfono, fare ascoltare quelle parole all’Italia, al mondo senza vergognarsene, ma così a volto scoperto, senza nemmeno più la consapevolezza della responsabilità di ciò che si dice, delle conseguenze, è il frutto marcio di quel che abbiamo seminato.
«Quando sono in mezzo ai disastri, io sono contento», ha detto.
Si dice che può parlare del deserto chi ne è fuori, chi sa che il deserto (la violenza, la devastazione, il disastro, il nulla) non è il mondo intero, non è l’ultima parola. Ma noi, forse, l’abbiamo scordata, la parola che viene dopo: l’antidoto a questa aridità del cuore, a questa anestesia dell’anima. E così ci siamo arresi anche noi come lui al “prima”: la distruzione, la non-speranza, la morte, il… nulla.
E’ in quel nulla, in quel vuoto, in questa nostra incapacità di edificare che si insinuerà (si è già insinuato?) chi ha ancora proposte forti da farci, da fare a quei giovani che guardano e ascoltano le domande che hanno nel cuore, che sono poi le stesse nostre. Ma sono scomode, fanno male, e dunque noi adulti le abbiamo occultate come la polvere cacciata sotto al tappeto.
Per cosa, per chi spendere la vita?
Non hanno padri e madri, non hanno testimoni questi giovani: maestri che indichino loro la strada, che insegnino per cosa, per chi dare la vita – la propria – senza toglierla agli altri.
Abbiamo abdicato al compito che ci è stato assegnato, noi padri madri insegnanti pastori educatori, e non sappiamo indicare mete alte: la Via, la Verità, la Vita. E allora, nel nostro silenzio, gongolando si insinuano i cattivi maestri di turno. L’antagonismo-a-prescindere, la violenza, l’ISIS, il mors tua vita mea, gli slogan di finta politica… il nulla. Al massimo il soddisfacimento delle voglie, delle fregole, il diritto a fare quel che ci piace quando ci piace, in un surrogato di libertà. Specchietti per allodole, zuccherini per addolcire una vita a cui non sappiamo più dare senso.
Al ribasso anche l’inno di Mameli: zacchete al ritornello, via quel «siam pronti alla morte» così politicamente scorretto. Vuoi mettere l’allegria che mette addosso «siam pronti alla vita»?
Spiacenti. Da che mondo è mondo per un ideale che valga la pena, per la Verità è necessario impegnarsi, anche dare la vita, se occorre (ma la propria, non quella degli altri!). Altrimenti diventa expo delle buone intenzioni, ideologia da salotto, hobby con scadenza incorporata.
Se non testimoniamo come, in nome di Chi si può anche morire non saremo capaci di insegnare come si vive.
«È più facile dominare chi non crede in niente»
Il nemico più pericoloso per la Chiesa? L'ignoranza
di Rino Cammilleri
Qualche giorno fa, in un editoriale sulla Nuova Bussola Ettore Gotti Tedeschi ha ricordato la saggezza che san Josemaría Escrivá de Balaguer usava somministrare, in pillole, in libretti che hanno formato generazioni di cattolici, laici e non. La generazione presente forse non ha mai sentito parlare di Cammino e Forgia (in Italia editi da Ares) nonché Solco da cui Ettore Gotti Tedeschi ha estratto alcuni pensieri. Come questo (il n. 359): «Sono d’accordo con te che vi sono cattolici, praticanti e persino pii agli occhi degli altri, e forse sinceramente convinti, che servono ingenuamente i nemici della Chiesa… Si è infiltrato nella loro stessa casa, con diversi nomi male applicati – ecumenismo, pluralismo, democrazia – l’avversario peggiore: l’ignoranza». Il quale pensiero, poiché a ogni nuova generazione bisogna ripetere da capo tutto, necessita di qualche approfondimento.
Già nel 1852 vi fu chi avvertì che gli –ismi moderni non erano altro che riedizioni in salsa laicista di antiche eresie già condannate dalla Chiesa. Si trattava di Juan Donoso Cortés, pensatore e uomo politico spagnolo, al quale era stato chiesto dal cardinale Raffaele Fornari, per conto di Pio IX, di stilare un elenco degli “errori” contemporanei in vista della preparazione del Sillabo (che poi uscì nel 1864 e suscitò un vespaio). É stato argutamente osservato che le posizioni eretiche sono come quelle erotiche: poche e ripetitive. Ma, malgrado ciò, non cessano di esercitare la loro potente attrattiva. Un’eresia, infatti, non potrebbe affascinare se non contenesse un brandello di verità. È però un pezzo di verità che esclude tutto il resto, e così diventa errore. Lo stesso vale per quelle eresie laiche che sono le ideologie. Il marxismo, per esempio, non si sarebbe diffuso se non avesse propugnato due concetti cristiani, eguaglianza e giustizia sociale. Perciò ha avuto (ed ha) tanta presa sui cristiani e pure su parte del clero.
Lo stesso accade con le ideologie correnti. Ma, anche qui, la loro fascinazione sui cristiani è dovuta, come avvertiva san Josemaría, all’ignoranza di questi ultimi, l’«avversario peggiore». La tentazione di trovare un compromesso con le idee di volta in volta alla moda da parte dei credenti è vecchia come il cucco, ma la Chiesa esiste proprio per questo: dissipare l’ignoranza in chi è tentato. Si faccia caso al modus operandi del Fondatore: Cristo non ha lasciato un Libro, non ha scritto niente. E ha fatto bene. Un Libro avrebbe periodicamente riportato il cristianesimo al fondamentalismo della letteralità, praticamente riazzerandolo. Cristo, invece, si è procurato uno staff gerarchicamente strutturato: 12 Apostoli con un Capo e 72 Discepoli. Li ha istruiti, poi dotati di Spirito Santo per guidarli alla «verità tutta intera» (mentre, lo si ricordi, l’eresia è solo un pezzo di verità). Li ha voluti celibi per evitare che si costituissero in “casta sacerdotale” e/o fossero ricattabili (come lo è chi tiene famiglia) dal Potere. Pastori di uomini, che ripetessero a ogni generazione futura le Istruzioni del Fabbricante per il migliore uso del Prodotto (l’uomo), affinché gli uomini siano contenti Qui e poi felici Lassù.
Ed è quello che la Chiesa ha sempre fatto, mettendo in guardia dalle contraffazioni –sempre apparentemente nuove ma in realtà sempre le stesse- insufflate dal Tentatore. É un inganno, come tutti quelli precedenti, e la Chiesa esiste apposta per svelarlo. Ma ha di fronte una novità: la velocità e la diffusione delle immagini ingannevoli. Gli stessi chierici si sono formati nelle scuole statali, dove hanno imparato una vulgata fatta di luoghi comuni di propaganda politica. La (loro) tentazione è la solita: venire incontro alle “istanze”. Da qui, in alcuni, l’atteggiamento benevolo e le “aperture” nei confronti dei “lontani”, tanto più blanditi quanto più lontani sono. E l’ostilità, che in certi casi arriva fino all’odio, per quelli che trovano questo metodo quanto meno rischioso e, storicamente, perdente. Questi sono accusati di «mancanza di carità» (per restare nel nostro esempio, san Josemaría, reo di quel Solco n. 359, politicamente scorrettissimo, da cui siamo partiti).
Così, si arriva a un’altra novità vecchia come il cucco: la dottrina è una cosa, la prassi un’altra; ortoprassi contro ortodossia. Déjà vu, ma, come si suol dire, a volte ritornano. Blaise Pascal diceva: Bien penser pour bien agir. Ma lui è “superato”. Qualcun altro insiste: se non vivi per come pensi finirai per pensare per come vivi. Qualcuno, infine, avverte che, se la “pastorale” si allontana troppo dalla “dottrina”, è come ammettere che Cristo ha insegnato cose impossibili da mettere in pratica, perciò non si vede che cosa sia venuto a fare sulla Terra. E anche questa è un’eresia. Insomma, il pensiero n. 359 (come tutti gli altri del Santo) ha ragione da vendere. Il nemico peggiore per i cattolici è l’ignoranza, che li divide e crea quinte colonne in casa. Per questo, Cristo ci ha lasciato la Chiesa Maestra, e non un Libro Intoccabile. Per questo, Gesù non è un fondatore di religioni come gli altri, ma è Dio.
Il nemico più pericoloso per la Chiesa? L'ignoranza
"Mia Madre", senza preghiera
di Camillo Langone
Non lasciare che diventi come Nanni Moretti, non farmi perdere la capacità di pregare che per me è come respirare. Di “Mia madre”, film che date le premesse non poteva essere realizzato meglio, mi ha colpito la totale assenza di preghiera e quindi l’assoluta disperazione.
La madre sta morendo, nessuno prega. La madre è morta, nessuno prega. Della preghiera non c’è nemmeno l’ipotesi: non ho visto un crocefisso, un rosario, un prete, una chiesa (e sì che il film è girato a Roma), niente.
Un dramma senza catarsi perché non c’è abbastanza fantasia e c’è troppa realtà, troppa autobiografia del regista-attore e troppa biografia dello spettatore per trarre il sollievo che nasce dalla messa a distanza. Sul soggetto si sono affannati in quattro ma bastava un solo verso di Pavese: “Scenderemo nel gorgo muti”.
Eppure “Mia madre” non è del tutto inutile, per l’ateo non so ma per il religioso lo spavento che il film garantisce è un memento, ricorda la necessità della fede e l’importanza di coltivarla. Esci dal cinema e hai voglia di andare a Messa.
"Mia Madre", senza preghiera