Il coltello alla gola | Fabio Calabrese
Il coltello alla gola
3 gennaio 2012 (12:45) | Autore: Fabio Calabrese

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Dell'Usura, incisione su legno attribuita ad Albrecht Dürer, da Stultifera Navis di Brant.

La crisi economica che stiamo vivendo ha radici lontane, ma per riuscire a capirlo come per prevederne le conseguenze, è necessaria una premessa di ordine metodologico.

Nel suo celebre saggio Congetture e confutazioni, il filosofo Karl Popper individua tre pseudo-scienze al disotto dei requisiti minimi di scientificità: l’astrologia, la psicanalisi, il marxismo inteso come (presunto) metodo di analisi storico-sociologica. A mio parere, a questo elenco andrebbe aggiunta anche una quarta pseudo-scienza, l’economia, la “scienza economica” come viene comunemente intesa. Essa si fonda su due premesse assolutamente erronee che il più delle volte sono sottintese guardandosi bene dall’enunciarle apertamente, esse sono:

1. L’oggetto dell’economia è qualcosa di oggettivo, esterno alle comunità umane, un po’ come l’oggetto della meteorologia.

2. Esiste qualcosa che si può definire come l’interesse complessivo della/delle società. Quest’ultimo è il vecchio dogma del liberismo, mai dimostrato e tuttavia pecorescamente accettato come una verità di fede, della “mano invisibile” fantasticata (o delirata) da Adam Smith, che armonizzerebbe gli interessi individuali in un bene collettivo.

E’ necessario ribadire che:

1. L’economia è sempre il prodotto dei comportamenti umani.

2. Gli interessi umani (dei singoli e dei gruppi) possono essere, e il più delle volte sono, in conflitto. Può succedere ad esempio che una ristretta élite oligarchica danneggi l’intera società in vista del proprio potere e interesse personali e/o di ceto.

Le fumosità e il linguaggio criptico, finto-tecnico degli pseudo-scienziati economisti servono precisamente a nascondere queste due verità che una volta enunciate con chiarezza si rivelano semplici e ovvie.

La crisi economica che stiamo attraversando viene da lontano, da molto più lontano di quanto penseremmo, e il fatto che sia esplosa negli ultimi anni non è per nulla casuale: è stata voluta, provocata, pianificata a tavolino con un’accurata scelta dei tempi, e le misure prese “per farvi fronte” produrranno risultati molto diversi da quelli che si proclama di voler ottenere.

Vediamo in prima battuta quale è stato l’innesco della crisi, tenendo presente che l’esplosivo da far detonare è stato accumulato e piazzato molto, molto tempo prima, una vicenda che, se considerata isolatamente, appare assurda e paradossale, ma che una volta collocata nel giusto contesto rivela una logica molto precisa.

Tutto sembra essere cominciato nel 2008 con lo scoppio della “bolla speculativa” dei mutui subprime negli Stati Uniti. In poche parole, questo termine indica i mutui concessi con larghezza dalle banche statunitensi a clienti che non offrivano sufficienti garanzie (e in questo si differenziavano dai mutui prime concessi a clienti solvibili), questi ultimi sono diventati ben presto crediti inesigibili o, come si dice nel linguaggio finanziario-bancario, sofferenze, che a questo punto le banche americane hanno trasformato in prodotti finanziari, i cosiddetti derivati, più tardi riconosciuti come prodotti tossici che le banche americane hanno venduto a quelle europee che a loro volta le hanno girate ai propri clienti presentandoli come forme d’investimento, con un certo margine di rischio ma con rendimenti interessanti.

In realtà si trattava di scatole vuote scambiate con denaro contante e sonante. Molti, moltissimi risparmiatori (e perlopiù non si è trattato di grossi investitori, ma di piccoli risparmiatori, gente che si fida della banca perché non ha accesso ad altre forme d’informazione sull’andamento dei mercati finanziari) hanno visto svanire di colpo nel nulla i risparmi di una vita. In pratica, negli ultimi quindici-venti anni gli statunitensi hanno perlopiù vissuto al di sopra dei loro mezzi e della loro capacità produttiva. Ora, con un’abile partita di giro-presa in giro, il conto del loro scialacquio è stato presentato anche (e soprattutto) agli europei.

Le conseguenze maggiori, però, non si sarebbero viste subito, ma da lì a tre-quattro anni, cioè adesso. Come era prevedibile, infatti, la crisi di liquidità ha avuto ricadute sull’economia reale. La mancanza di liquidità, quindi della possibilità per le imprese di compiere investimenti, ha portato alla contrazione delle attività produttive e dei posti di lavoro, cioè in pratica si è innescata una spirale recessiva, per l’ovvio motivo che una contrazione della domanda dovuta al fatto che quando si va incontro a una riduzione dei propri introiti o addirittura alla perdita del posto di lavoro, si cerca di ridurre i consumi, e in questo modo il mercato tende sempre più a restringersi. Questa spirale recessiva è stata favorita, guarda caso, dall’introduzione dell’euro, cioè dalla rinuncia degli stati nazionali europei a esercitare un controllo sulla moneta.

A questo punto occorre fare, come in ogni storia poliziesca che si rispetti, un passo indietro. Possibile che le banche europee non fossero consapevoli, acquistando e rivendendo i derivati USA, di truffare i loro clienti? Di cedere loro delle scatole vuote in cambio dei risparmi di una vita? Ma vogliamo scherzare? Quella è gente che ne mastica di economia e di finanza. C’era pure stata pochi anni prima l’esperienza dei bond argentini! Volendo essere cattivi, ritenendo che l’attuale crisi sia stata voluta e pianificata, si può pensare che quello dei bond argentini, dove già il denaro dei risparmiatori era scomparso inghiottito in una voragine senza fondo, sia stato un esperimento pilota in vista dello scatenamento di una crisi di ben maggiori proporzioni, come è stata quella innescata dai mutui subprime.

Quali ragioni vi sono per pensare che questa crisi in cui si dibattono le economie europee, e che – cosa del tutto ovvia – ha colpito in maniera più dura quelle più deboli: Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, Irlanda, sia stata voluta e programmata a tavolino? La prova più chiara in tal senso si desume dal fatto che tutte le misure imposte ai singoli stati (che con il diktat del Trattato di Lisbona firmato dalle classi politiche degli stati europei nonostante le opinioni espresse dai popoli là dove è stato sottoposto a referendum, ma perlopiù, ed è anche il caso italiano, sottoscritto senza consultarli e sostanzialmente a loro insaputa, hanno ceduto gran parte della propria sovranità) “per superare la crisi” puntano nella direzione delle privatizzazioni, della globalizzazione dell’economia, della riduzione del potere residuo degli stati nazionali, dell’eliminazione dello stato sociale, del far pagare all’economia reale e alle classi lavoratrici i debiti del sistema bancario-finanziario, dello scuoiare i popoli per salvare le banche, e certamente non possono produrre altro che recessione, aggravare la crisi stessa, ma visibilmente costituiscono un ulteriore passo in avanti nella realizzazione di quel piano Kalergy di cui gli eurocrati si ostinano a negare l’esistenza dopo aver sbattuto in galera Gert Honsik per averlo rivelato, ma la cui sistematica attuazione abbiamo sotto gli occhi giorno dopo giorno.

Ci vogliono far credere che la via d’uscita alla crisi possa consistere nelle privatizzazioni, nello smantellamento dello stato sociale, nell’accentuazione della spinta all’economia globalizzata in modo che gli stati nazionali non possano in alcun modo erigere delle barriere di protezione a tutela delle economie più fragili, in definitiva nel trasferimento di tutto il potere economico nelle mani del grande capitale bancario-finanziario, cioè in definitiva dei grandi usurai internazionali. Possiamo davvero credere che costoro useranno il potere accaparrato in questo modo per il bene della società (delle società) nel suo (loro) complesso? Siamo davvero così ingenui o stupidi fino a questo punto?

Qui tocchiamo veramente i limiti di quello che è stato chiamato il pensiero unico. In poche parole, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti, come se quella fosse stata l’unica forma di socialismo concepibile e possibile, si è imposta la convinzione della bontà del liberismo in campo economico, la convinzione che per far progredire le economie occorra arricchire sempre più i ricchi e impoverire sempre più i poveri; una rinnovata fede nella “mano invisibile” delirata da Adam Smith, secondo il quale lasciando agire il “libero mercato” senza freni né controlli, né contrappesi, per un miracolo di recondita armonia si finirebbe per realizzare l’interesse di tutti. E’ chiaro che questa specie di nuova mistica che si cerca di inocularci non ha nessunissima base, e la “mano invisibile” sta dimostrando piuttosto la sua efficacia nello strangolare le società.

E’ invece visibile che i provvedimenti che dovremmo adottare per uscire da questa crisi sono esattamente il contrario di quelli che la BCE impone agli stati nazionali e che non potranno che rendere la crisi più grave (per essere sicuri che non possiamo trovare scampo, gli eurocrati della BCE sono arrivati al punto di “commissariare” uno stato nazionale come l’Italia, che come dimensioni e importanza non è esattamente Malta o Cipro, e diciamolo chiaro, Mario Monti non è altro che un commissario impostoci dalla BCE, a riprova che con il Trattato di Lisbona la nostra sovranità è stata svenduta senza dircelo).

Per prima cosa, occorrerebbe abolire l’euro. Questa moneta-trappola non significa altro che la rinuncia degli stati nazionali ad esercitare un controllo sulla valuta. Il ritorno alle monete nazionali sarebbe il primo passo, ma ovviamente non basta. Bisogna invertire il trend alle privatizzazioni. Nessuna privatizzazione ha mai migliorato la situazione economica se non in termini di liquidità immediata, è come vendere i gioielli di famiglia, ed è un chiodo in più sulla nostra bara. Sarebbe necessario anche nazionalizzare le banche e cambiare radicalmente il sistema fiscale.


Marinus van Reymerswaele, Usurai (circa 1540), Firenze, Museo Stibbert.

L’aumento della pressione fiscale, lo sappiamo bene, è il metodo più facile e più usato dagli stati per fare fronte ai debiti, ma esso, oltre allo scontento dei cittadini, può provocare recessione, perché con meno denaro a disposizione, i consumi si riducono, e con essi la produzione, cala la competitività delle aziende, e i posti di lavoro sono a rischio sempre maggiore, in una spirale dalla quale è difficile trovare una via d’uscita.

Eppure, la strada per evitare di cadere in questa trappola sarebbe relativamente semplice: colpire con l’imposizione fiscale i redditi più alti non sarebbe solo eticamente giusto, ma anche economicamente conveniente, perché mentre i redditi medio-bassi perlopiù si traducono in consumi che non è possibile non deprimere se si aumenta l’imposizione fiscale, la frazione dei redditi alti, specie dei super redditi destinata ai consumi è marginale, ed essi vengono perlopiù capitalizzati.

Occorrerebbe l’introduzione di una consistente imposta patrimoniale che colpisca soprattutto i grossi patrimoni. Di più, un’imposta di questo genere non dovrebbe essere un’una tantum, ma dovrebbe entrare stabilmente nel nostro sistema fiscale. Occorrerebbe spostare l’imposizione fiscale dal reddito al patrimonio. Ciò avrebbe il vantaggio di rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale, perché si occulta molto più facilmente un reddito che una proprietà.

E’ ovvio, assolutamente ovvio che il governo Monti non farà nulla di tutto questo, e che la BCE vigilerà per impedire l’introduzione di misure simili in un qualsiasi stato europeo, al contrario, tutti i provvedimenti che “lor signori” adotteranno serviranno a (sono calcolati per) spingere noi e le altre nazioni europee sempre più velocemente verso il baratro.

Io non so se ci avete fatto caso, ma una parola ormai scomparsa da una decina d’anni dal gergo politico dopo essere stata ripetuta per decenni in maniera martellante, è “europeismo”. All’Europa come aspirazione abbiamo smesso di crederci perché è diventata un fatto, oppure è invece diventato evidente che questo termine non significa nulla se non abbiamo le idee chiare di quale Europa stiamo parlando, e come?

Un punto è e deve essere assolutamente chiaro: credere nell’Europa, nella sua civiltà, nei destini profondamente interrelati dei popoli che la compongono, volere che essi abbiamo un futuro, non significa credere nella UE; al contrario, occorre essere consapevoli che la UE è uno strumento nelle mani del grande capitale finanziario internazionale con la testa e il cuore a Washington per asservire e distruggere i popoli europei, per trasformare l’Europa in una periferia degli Stati Uniti dominata dalla legge del mercato e dal “pensiero unico” liberista-democratico e ibridata, indebolita nella sua sostanza umana anche dal punto di vista etnico. Non c’è scampo, tertium non datur, essere per l’Europa significa essere contro la UE.

Questa crisi, dicevo, arriva da lontano, ma difficilmente ci rendiamo conto da quanto lontano. Nel corso del mezzo secolo all’incirca che va dalla conclusione della seconda guerra mondiale al crollo dell’Unione Sovietica, nell’era della Guerra Fredda, l’Europa è stata spartita fra le due superpotenze allora esistenti, ma bisogna anche riconoscere che, almeno in una certa misura, Stati Uniti e Unione Sovietica si neutralizzavano a vicenda, e gli effetti più deleteri del predominio americano sull’Europa e sul nostro intero pianeta hanno potuto dispiegarsi in tutta la loro ampiezza solo negli ultimi vent’anni.

La potenza americana, a sua volta, però non è che un proconsolato dietro il quale sta il potere del grande (per meglio dire, enorme) capitale anonimo, dell’alta finanza internazionale che mira e ha sempre mirato al dominio mondiale incontrastato, perché non è possibile separare l’economia dalla politica, la ricchezza dal potere. E’ qui che bisogna guardare se vogliamo capire le tragedie che hanno colpito il nostro continente e il nostro pianeta nell’ultimo secolo, a cominciare dalle due guerre mondiali.

Che la prima guerra mondiale sia stata voluta dalla Gran Betagna, progettata nella City londinese allo scopo di stroncare la concorrenza che l’espansione dell’industria tedesca faceva all’ormai obsoleto sistema industriale britannico, è un fatto accertato, dimostrato con larghezza di prove, e a questo riguardo, vi rimando al mio saggio Il grande equivoco pubblicato sul n. 70 de “L’uomo libero” (ma reperibile anche in internet) di cui vi raccomando caldamente la lettura; anche se nel corso della prima fase (1914-1918) e ancor più nella seconda (1939-1945) della loro impresa criminosa, gli squali britannici dovettero passare la mano ai loro – ancora peggiori – complici statunitensi.

Come per la prima, anche per la seconda guerra mondiale, la responsabilità è stata fatta ricadere interamente sulla Germania provocando sistematicamente le “aggressioni” tedesche facendo sistematicamente vessare dai governi vassalli cecoslovacco e polacco le popolazioni tedesche dei Sudeti e della Prussia occidentale, date loro in ostaggio con gli innaturali confini stabiliti a Versailles nel 1919, ma il motivo vero del più spaventoso conflitto della storia umana è presto detto: una nazione che rifiuta di indebitarsi fa infuriare gli usurai.

Per quanto possa sembrare strano, abbiamo a suffragio di ciò le esplicite ammissioni dei responsabili, a cominciare da Winston Churchill che nel 1960 dichiarò:

“Il delitto imperdonabile della Germania prima della Seconda Guerra Mondiale fu il suo tentativo di sganciare la sua economia dal sistema di commercio mondiale, e di costruire un sistema di cambi indipendente di cui la finanza mondiale non poteva più trarre profitto”.

Gli fa eco uno storico della seconda guerra mondiale, il generale J. P. C. Fuller:

“Non fu la politica di Hitler a lanciarci in questa guerra. La ragione fu il suo successo nel costruire una nuova economia crescente. Le radici della guerra furono l’invidia, l’avidità e la paura”.

Nel 1992, il segretario agli esteri statunitense James Baker ha poi precisato che:

“La guerra [la seconda guerra mondiale] era solo una misura economica preventiva”.

Sicuramente, dopo il conflitto c’è stato un intoppo, la Guerra Fredda ha imposto all’assoggettamento dell’economia planetaria all’alta finanza, cioè all’usura internazionale uno stop di mezzo secolo, ma da allora la spoliazione delle ricchezze mondiali e dei popoli europei è ripresa alla grande, e lo pseudo-europeismo della UE ne è lo strumento principale.

La riduzione alla fame del Terzo Mondo, di quelli che ancora oggi con macabra ironia si continuano a chiamare i “Paesi in via di sviluppo” ha poi il vantaggio di provocare l’immigrazione verso l’Europa di milioni di disperati, e il vantaggio per gli usurai che vogliono strangolarci è duplice: destabilizzare la situazione economica e politica degli stati europei, e minarne la compattezza etnica in modo da renderli più facilmente manovrabili.



Quello che in questo contesto per molti sarà un enigma incomprensibile, è l’atteggiamento della sinistra, o di ciò che passa per tale. Per limitarci a considerare il caso italiano, essa ha portato ai vertici dello stato italiano gli uomini della Goldman-Sachs e del Bilderberg, i valletti del capitalismo finanziario internazionale: Romano Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, Mario Draghi e oggi Mario Monti, mostrando uno spirito di collaborazione, un servilismo totale verso quello che in teoria, molto in teoria dovrebbe essere il nemico di classe. Walter Veltroni, già candidato premier del centrosinistra è di un filoamericanismo, di un’adorazione del moloc americano che è sconvolgente, e nel corso della campagna elettorale 2008 dichiarò che “la lotta di classe non esiste”; un po’ come se; non vogliamo dire il papa, diciamo il presidente della CEI avesse dichiarato che il vangelo è una massa di stupidaggini, senza provocare nel proprio entourage nemmeno un moto di stupore. D’altronde ricordiamo che fu il governo del “compagno” Massimo D’Alema a permettere alla NATO di usare il territorio italiano come base per la vilissima aggressione contro la Serbia.

Certo il piano Kalergy ha elementi che a sinistra possono apparire logicamente attraenti: è il progetto del mondialismo, della totale ibridazione della scomparsa dei popoli e delle culture, ma il fatto che esso sia totalmente a favore del grande capitalismo finanziario più rapace che possiamo concepire, non dovrebbe provocare almeno qualche resistenza? Se avete dubbi di questo genere, allora non avete capito per nulla cosa è la sinistra.

È sempre esistito il tipo del “compagno” di estrazione alto ma anche medio o piccolo borghese per il quale ostentare “apertura verso il proletariato” costituiva/costituisce una forma di snobismo, quel che si chiama o forse un tempo si aveva il coraggio di chiamare radical-chic, ma per lunghissimo tempo è stato un tipo nettamente minoritario rispetto al classico proletario di estrazione operaia opportunamente sindacalizzato. Oggi le proporzioni numeriche sembrano essersi capovolte, e se andiamo a vedere chi sono e cosa pensano “i compagni”, troviamo molto pacifismo, mondialismo, femminismo, una spruzzata di “no global”, di ambientalismo, di misticismo New Age, diritti dei gay, molto odio antifascista (verso di noi, è chiaro, indipendentemente dal fatto che per ragioni anagrafiche legami col fascismo storico non ce ne possono essere), e i problemi delle classi lavoratrici vengono all’ultimo, all’ultimissimo posto.

Quando, come e perché si è verificata questa “mutazione genetica” o quanto meno mutazione antropologica, anche questo non è di sicuro un mistero. All’analisi di questo fenomeno ho dedicato ampio spazio nell’articolo Oltre la destra e la sinistra pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa e altrove (non è per autocitarmi, ma per non dovermi ripetere troppo spesso), vediamo di ripetere qui la questione in forma più succinta, anche se vi rimando alla lettura dell’articolo suddetto; un’analisi che ho svolto riguardo alla società italiana, ma che certamente trova rispondenze anche altrove. Tutto parte dalla data fatidica del ’68, e un evento quello della cosiddetta contestazione sulla quale ancora oggi esiste una marea di equivoci.

Nel 1968 gli studenti delle università dalle quali partì la contestazione, erano ancora nettamente di estrazione altoborghese, ma erano premuti alle spalle dalla scolarizzazione di massa che, già estesa alle scuole medie e alle superiori, stava per portare negli atenei una popolazione molto più variegata in termini di estrazione sociale, che avrebbe loro reso molto più difficile, e sicuramente non automatico riprodurre la posizione sociale dei loro genitori: c’era il rischio che il progetto insito nella riforma gentiliana di una scuola selettiva tendente a far avanzare i migliori a prescindere dalla condizione sociale d’origine che, per l’arretratezza dell’Italia di anteguerra non aveva potuto trovare che un’attuazione molto larvata, si traducesse in realtà, che capacità e merito l’avessero vinta sulla condizione sociale d’origine.

Tanti piccoli Metternich travestiti da Robespierre e Filippo Buonarroti si rivoltarono contro la “scuola selettiva” gentiliana, con l’ovvio risultato che la selezione cacciata da una scuola che distribuiva/distribuisce titoli di studio inflazionati, si è ripresentata nella società sotto forma di appartenenze familiari, amicizie, raccomandazioni, tessere di partito, magari affiliazione a clan mafiosi.

Si concretizzò un pactum sceleris fra i “contestatori” e i partiti di sinistra, vantaggioso per entrambi. In cambio di una certificazione di autenticità marxista data ai nuovi piccoli Metternich, questi ultimi ci guadagnarono una robusta iniezione di ideologia marxista nella cultura e nella società, una futura classe di apparatcik, un controllo in molti importanti gangli della società, dalla magistratura all’informazione, alla pubblica istruzione, un quasi-monopolio davvero prezioso dei “compagni” per infettare con la loro ideologia le persone nel momento più delicato della loro formazione.

Chi ci ha rimesso, sono state le classi lavoratrici che hanno perso un’importante occasione di promozione sociale per i loro figli, e l’Italia nel suo complesso, privata della possibilità di avere una classe dirigente all’altezza delle sfide dei nostri tempi, che si è vista imporre una democrazia che è ogni giorno di più il dominio dei mediocri e dei peggiori.

Tuttavia, a ben guardare, la storia della sinistra internazionale è costellata di simili “stranezze”. Negli anni ’30 l’ascesa al potere del nazionalsocialismo in Germania attirò l’odio di Wall Street contro i Tedeschi, di fatto diede il via alla preparazione della seconda guerra mondiale: negli stessi anni, i media controllati dal grande capitale non profondevano altro che simpatia per l’Unione Sovietica e il regime di Stalin sul punto di trasformarsi – a loro dire – nella più liberale delle democrazie.

Nel 1939 l’attacco della Germania alla Polonia, che Inghilterra e Francia avevano indotto i Polacchi a provocare in ogni modo, indusse le democrazie occidentali a scatenare il più spaventoso conflitto della storia umana pur di estirpare il nazionalsocialismo, eppure l’attacco sovietico alle spalle alla Polonia già impegnata contro i Tedeschi non modificò in alcun modo le relazioni fra Stalin e gli Occidentali, senza contare che poco prima o poco dopo l’Unione Sovietica invadeva le repubbliche baltiche, toglieva alla Romania la Bessarabia, alla Cecoslovacchia la Rutenia Subcarpatica, e aggrediva la Finlandia, ma a quanto pare a “zio Joe” tutto era concesso dai suoi amici di Wall Street e della City londinese.

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quel che rimane oggi del comunismo si rivela strettamente funzionale e grandemente utile al grande capitale internazionale, soprattutto americano, in particolare la Cina con il suo immenso mercato di braccia sfruttate a bassissimo costo per l’industria yankee.

Si potrebbe perfino nutrire un “orribile” sospetto, che in ultima analisi il socialismo di tipo marxista, destinato invariabilmente a mostrarsi utopico o a partorire mostruosità di tipo sovietico, sia stato creato o comunque usato per prevenire l’avvento dell’unico vero socialismo possibile, il socialismo nazionale, ossia una comunità Volksgemeinschaft che decide di difendere il proprio futuro proteggendosi dalla speculazione della grande usura internazionale parassitaria.

Sicuramente da questa sinistra non possiamo aspettarci altro che appoggio supino alle misure “per fronteggiare la crisi” adottate da coloro che l’hanno provocata, e “crisi” e misure non sono altro che le due parti della stessa manovra intesa a spogliare i popoli della loro ricchezza a favore di una ristretta classe di speculatori cosmopoliti.

Abbiamo il coltello puntato alla gola, questa è la verità.

C’è un libro, considerato un classico della fantascienza, che descrive una situazione molto simile a quella che stiamo vivendo, Schiavi degli invisibili di Eric Frank Russell; anche in esso, l’umanità è tiranneggiata da mostruose creature che ne succhiano le energie; la differenza rispetto al romanzo, è che i nemici reali dell’umanità non sono invisibili di per sé, ma perché passano per comuni esseri umani.

C’è una frase di questo libro che vi consiglio di meditare, perché indica chiaramente quella che è l’unica reale possibilità di salvezza:

“L’ignoranza può essere una benedizione, ma la conoscenza è un’arma”.