Risultati da 1 a 5 di 5
  1. #1
    Bye bye & kisses
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    Predefinito Un declino che viene da lontano

    L'inizio del declino italiano ha una data esatta ed è il 26 dicembre 1991. Quel giorno si sciolse ufficialmente l'Unione sovietica e finì la Guerra Fredda. Con la guerra fredda finì anche quella che potremmo chiamare l'eccezione italiana. Perché per 35 anni l'Italia era stata la frontiera geografica e politica dell'impero occidentale. Frontiera geografica (orientale) perché il blocco sovietico cominciava proprio sull'altra riva dell'Adriatico. Frontiera politica perché il Pci era il più forte partito comunista dell'Occidente. Quindi tutto fu messo in opera (e tutto fu consentito) perché l'Italia americana fosse una «success story».
    Da qui il miracolo economico, da qui la straordinaria stabilità politica di un regime sostanzialmente monopartitico (i gabinetti cadevano sì uno dopo l'altro, ma a rotazione le poltrone erano occupate sempre dagli stessi).
    D'altronde l'Italia non era sola. Anche il Giappone si trovava in una situazione analoga: anch'esso era uno dei vinti della seconda guerra mondiale, anch'esso era una frontiera geografica dell'impero, stavolta occidentale, avendo dirimpetto Siberia e Cina. Anche in Giappone la sinistra era forte. Così non stupisce che i due paesi abbiano avuto per tutta la guerra fredda un destino parallelo: ambedue vissero un incredibile miracolo economico (il Giappone partiva da più in alto e quindi anche il suo miracolo lo portò più in alto); ambedue furono governati da un regime monopartitico (a Roma dalla Democrazia cristiana, a Tokyo dal Partito Liberal-democratico), ambedue erano caratterizzati da una forte commistione tra politica e criminalità (mafia in Italia, yakuza in Giappone).
    E in ambedue i paesi il sistema entrò in crisi esattamente con la fine della guerra fredda: in Giappone esplose la bolla immobiliare e cominciò una recessione da cui non è ancora uscito; anche a Tokyo, come a Roma, il regime monopartitico entrò in crisi. A questi destini paralleli ha dedicato un volumone intitolato Machiavelli's Children: Leaders and their Legacy in Italy and Japan (2003) lo storico Richard J. Samuels della Cornell University.
    In Italia la fine della guerra fredda fu vero un terremoto politico con fortissime scosse economiche di assestamento. In Italia il Pci si era già sciolto pochi mesi prima, nel febbraio 1991. Ma nel giro di pochi mesi scoppiò Mani pulite e implosero tutti gli altri protagonisti della prima Repubblica: Democrazia cristiana, Partito socialista, socialdemocratici, liberali, repubblicani. Nessuna di queste formazioni sopravvisse.
    Ma quel che a noi interessa è che allora finì l'eccezione italiana: non era più un paese chiave, non era più indispensabile né per gli Stati uniti, né per la Nato: diventava un alleato marginale tra gli altri, e sostituibile, in termini strategici da altri paesi dell'ormai ex est europeo: era un drastico downrating di status, da nevralgico pivot a periferia irrilevante. Fino ad allora era stato persino sopportato un primo ministro con legami di mafia. Ora poteva essere processato (anche se poi fu assolto). Fino ad allora l'establishment economico internazionale aveva accettato che l'Italia trasgredisse tutti gli accordi, svalutasse a ripetizione, s'indebitasse più di ogni altro paese occidentale (anche qui in parallelo col Giappone, che oggi ha un debito pubblico superiore al doppio del Pil). Nessuna agenzia di rating attaccò mai l'Italia che pure svalutava a go go (i meno giovani ricorderanno che alla fine degli anni 1970 erano addirittura scomparse le monete metalliche sostituite da mini assegnetti fai-da-te emessi dalle singole banche per 5, 10, 20 lire).
    Oggi qualcuno rimpiange la «laicità» della Democrazia rispetto al servilismo attuale dei partiti verso la Chiesa, ma dimentica che allora la Dc doveva ubbidire a due padroni, Usa e Vaticano, e non a uno solo: e non sempre la diplomazia vaticana coincideva con quella statunitense, basti l'esempio del Medio oriente su cui infatti un politico come Andreotti aveva una posizione nettamente più filoaraba e meno filoisraeliana di quella americana. Ma con la fine della Guerra fredda, la Chiesa tornava a essere l'unica struttura insieme organizzata, presente sul territorio e portatrice d'ideologia. Da qui il revanscismo vaticano, la reconquista cattolica cui assistiamo.
    Fino al 1991 la delocalizzazione e l'off-shoring erano stati mantenuti entro i limiti, proprio per non degradare l'economia e il mercato del lavoro di una marca di frontiera. Ma da allora non ci fu più nessuna remora. E da allora il Prodotto interno lordo del nostro paese è sostanzialmente piatto, è anzi arretrato con l'ingresso nell'euro. Ricordiamo che dal 1992 in poi, su mandato politico, l'Istat ha mentito sistematicamente sui dati dell'inflazione: mantenendoli più bassi del reale consentiva di pagare interessi minori sui Bot, di rivalutare meno le pensioni, di abbassare la scala mobile. Quando fu introdotto l'euro e i prezzi praticamente raddoppiarono d'un colpo (la parità nominale era 1 euro = 2.000 lire, la parità reale era 1 euro = 1.000 lire), l'Istat ebbe il coraggio di dirci che in quell'anno i prezzi erano aumentati del 4 o 5 per cento, se non ricordo male. Divenne un luogo comune dire che spendevamo in euro, ma guadagnavamo ancora in lire. A detta dello stesso ex ministro Giulio Tremonti, l'introduzione dell'euro provocò la più colossale redistribuzione di reddito della storia repubblicana, a scapito dei lavoratori dipendenti (operai, insegnanti, infermieri, ma anche professori universitari, giudici o diplomatici) e a favore del cosiddetto «popolo della partita Iva».
    Come il Giappone, quando è scoppiata la crisi del 2007, anche l'Italia non si era ancora ripresa dalla degradazione decretata dalla fine della guerra fredda. Semmai, la nostra situazione era molto peggiore di quella giapponese perché erano già in calo tutti gli indicatori, dalla percentuale del Pil dedicata a ricerca e innovazione, alle spese di welfare, agli investimenti in grandi opere, all'acculturazione dei giovani, al mercato del lavoro). Ma quel che è successo potrebbe essere letto in modo ancora più impietoso: e cioè i favoritismi nei confronti del nostro paese avevano mascherato durante la guerra fredda la principale carenza di lunga durata dell'Italia, e cioè l'assenza di una classe borghese: in Italia ci sono moltissimi ricchi, come si è visto l'altro ieri a Cortina, ma questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi d'oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e gli Agnelli comprano tutt'al più calciatori. L'assenza di una borghesia intesa come classe si ripercuote - sembra un'ovvietà - nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».


    IL MANIFESTO 2012.01.06 - Un declino che viene da lontano
    Con le ali, al buio e nel silenzio da te io volerei.

  2. #2
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    Predefinito Rif: Un declino che viene da lontano

    Citazione Originariamente Scritto da Betelgeuse Visualizza Messaggio
    L'inizio del declino italiano ha una data esatta ed è il 26 dicembre 1991. Quel giorno si sciolse ufficialmente l'Unione sovietica e finì la Guerra Fredda. Con la guerra fredda finì anche quella che potremmo chiamare l'eccezione italiana. Perché per 35 anni l'Italia era stata la frontiera geografica e politica dell'impero occidentale. Frontiera geografica (orientale) perché il blocco sovietico cominciava proprio sull'altra riva dell'Adriatico. Frontiera politica perché il Pci era il più forte partito comunista dell'Occidente. Quindi tutto fu messo in opera (e tutto fu consentito) perché l'Italia americana fosse una «success story».
    Da qui il miracolo economico, da qui la straordinaria stabilità politica di un regime sostanzialmente monopartitico (i gabinetti cadevano sì uno dopo l'altro, ma a rotazione le poltrone erano occupate sempre dagli stessi).
    D'altronde l'Italia non era sola. Anche il Giappone si trovava in una situazione analoga: anch'esso era uno dei vinti della seconda guerra mondiale, anch'esso era una frontiera geografica dell'impero, stavolta occidentale, avendo dirimpetto Siberia e Cina. Anche in Giappone la sinistra era forte. Così non stupisce che i due paesi abbiano avuto per tutta la guerra fredda un destino parallelo: ambedue vissero un incredibile miracolo economico (il Giappone partiva da più in alto e quindi anche il suo miracolo lo portò più in alto); ambedue furono governati da un regime monopartitico (a Roma dalla Democrazia cristiana, a Tokyo dal Partito Liberal-democratico), ambedue erano caratterizzati da una forte commistione tra politica e criminalità (mafia in Italia, yakuza in Giappone).
    E in ambedue i paesi il sistema entrò in crisi esattamente con la fine della guerra fredda: in Giappone esplose la bolla immobiliare e cominciò una recessione da cui non è ancora uscito; anche a Tokyo, come a Roma, il regime monopartitico entrò in crisi. A questi destini paralleli ha dedicato un volumone intitolato Machiavelli's Children: Leaders and their Legacy in Italy and Japan (2003) lo storico Richard J. Samuels della Cornell University.
    In Italia la fine della guerra fredda fu vero un terremoto politico con fortissime scosse economiche di assestamento. In Italia il Pci si era già sciolto pochi mesi prima, nel febbraio 1991. Ma nel giro di pochi mesi scoppiò Mani pulite e implosero tutti gli altri protagonisti della prima Repubblica: Democrazia cristiana, Partito socialista, socialdemocratici, liberali, repubblicani. Nessuna di queste formazioni sopravvisse.
    Ma quel che a noi interessa è che allora finì l'eccezione italiana: non era più un paese chiave, non era più indispensabile né per gli Stati uniti, né per la Nato: diventava un alleato marginale tra gli altri, e sostituibile, in termini strategici da altri paesi dell'ormai ex est europeo: era un drastico downrating di status, da nevralgico pivot a periferia irrilevante. Fino ad allora era stato persino sopportato un primo ministro con legami di mafia. Ora poteva essere processato (anche se poi fu assolto). Fino ad allora l'establishment economico internazionale aveva accettato che l'Italia trasgredisse tutti gli accordi, svalutasse a ripetizione, s'indebitasse più di ogni altro paese occidentale (anche qui in parallelo col Giappone, che oggi ha un debito pubblico superiore al doppio del Pil). Nessuna agenzia di rating attaccò mai l'Italia che pure svalutava a go go (i meno giovani ricorderanno che alla fine degli anni 1970 erano addirittura scomparse le monete metalliche sostituite da mini assegnetti fai-da-te emessi dalle singole banche per 5, 10, 20 lire).
    Oggi qualcuno rimpiange la «laicità» della Democrazia rispetto al servilismo attuale dei partiti verso la Chiesa, ma dimentica che allora la Dc doveva ubbidire a due padroni, Usa e Vaticano, e non a uno solo: e non sempre la diplomazia vaticana coincideva con quella statunitense, basti l'esempio del Medio oriente su cui infatti un politico come Andreotti aveva una posizione nettamente più filoaraba e meno filoisraeliana di quella americana. Ma con la fine della Guerra fredda, la Chiesa tornava a essere l'unica struttura insieme organizzata, presente sul territorio e portatrice d'ideologia. Da qui il revanscismo vaticano, la reconquista cattolica cui assistiamo.
    Fino al 1991 la delocalizzazione e l'off-shoring erano stati mantenuti entro i limiti, proprio per non degradare l'economia e il mercato del lavoro di una marca di frontiera. Ma da allora non ci fu più nessuna remora. E da allora il Prodotto interno lordo del nostro paese è sostanzialmente piatto, è anzi arretrato con l'ingresso nell'euro. Ricordiamo che dal 1992 in poi, su mandato politico, l'Istat ha mentito sistematicamente sui dati dell'inflazione: mantenendoli più bassi del reale consentiva di pagare interessi minori sui Bot, di rivalutare meno le pensioni, di abbassare la scala mobile. Quando fu introdotto l'euro e i prezzi praticamente raddoppiarono d'un colpo (la parità nominale era 1 euro = 2.000 lire, la parità reale era 1 euro = 1.000 lire), l'Istat ebbe il coraggio di dirci che in quell'anno i prezzi erano aumentati del 4 o 5 per cento, se non ricordo male. Divenne un luogo comune dire che spendevamo in euro, ma guadagnavamo ancora in lire. A detta dello stesso ex ministro Giulio Tremonti, l'introduzione dell'euro provocò la più colossale redistribuzione di reddito della storia repubblicana, a scapito dei lavoratori dipendenti (operai, insegnanti, infermieri, ma anche professori universitari, giudici o diplomatici) e a favore del cosiddetto «popolo della partita Iva».
    Come il Giappone, quando è scoppiata la crisi del 2007, anche l'Italia non si era ancora ripresa dalla degradazione decretata dalla fine della guerra fredda. Semmai, la nostra situazione era molto peggiore di quella giapponese perché erano già in calo tutti gli indicatori, dalla percentuale del Pil dedicata a ricerca e innovazione, alle spese di welfare, agli investimenti in grandi opere, all'acculturazione dei giovani, al mercato del lavoro). Ma quel che è successo potrebbe essere letto in modo ancora più impietoso: e cioè i favoritismi nei confronti del nostro paese avevano mascherato durante la guerra fredda la principale carenza di lunga durata dell'Italia, e cioè l'assenza di una classe borghese: in Italia ci sono moltissimi ricchi, come si è visto l'altro ieri a Cortina, ma questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi d'oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e gli Agnelli comprano tutt'al più calciatori. L'assenza di una borghesia intesa come classe si ripercuote - sembra un'ovvietà - nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».


    IL MANIFESTO 2012.01.06 - Un declino che viene da lontano



    Marea di cazzate. L?Italia è andata bene fino a quando le tasse e la burocrazia non c'erano, massimizzando quindi l'estro e la laboriosità italiana. Da quando poi si è iniziato a prendere come modello Svezia e Germania, assistenzialismo e tasse, le cose sono andate a puttane. Come s enon bastasse l'entrate nella UE ci ha definitivamente segati. Guardate la Turchia se è in crisi: ritmi di crescita del PIL spaventosi.
    Tu ne cede malis, sed contra audentior ito, quam tua te Fortuna sinet.


  3. #3
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    Predefinito Rif: Un declino che viene da lontano

    le solite stronzate del manifesto...in italia è tutto andato quasi bene sino a quando non hanno abolito la scala mobile.. e lasciato che i padroni trasferissero i soldi e le aziende nei paradisi fiscali,..
    cioè da quando comunisti e sindacalisti sono diventati complici del padronato e i governi mangiavano a 4 ganasce.
    la caduta del muro è solo servita a peggiorare la situazione e lìimpunità dei ladri.. sino a quando il bubbone è scoppiato
    Ultima modifica di anton; 11-01-12 alle 09:52
    su questo forum è meglio non rispondere ai fessi!
    voi nazifascisti di oggi e i vostri servi siete solo gli ayatollah E I TALEBANI dell'occidente..

  4. #4
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    Predefinito Rif: Un declino che viene da lontano

    Così Monti promuove saldi di energia e difesa, il direttorio ringrazia


    Potrebbero cominciare presto i saldi al "discount Italia", il grande centro commerciale gestito oggi da un "consiglio d'amministrazione" che sembra rispondere ad azionisti stranieri che ci si ostina a chiamare partner invece che concorrenti e rivali. Non c'è bisogno di aderire a teorie complottistiche per notare le forti sponsorizzazioni esterne del governo Monti. Ha fatto scalpore la notizia resa nota dal Wall Street Journal della telefonata tra Angela Merkel e il presidente Giorgio Napolitano, ma pochi ricordano i contatti tra Napolitano e Barack Obama durante la messa a punto del governo tecnico e dai quali sarebbero emersi i nomi dei ministri di Esteri e Difesa: l'ambasciatore negli Stati Uniti, Giulio Terzi, e il presidente del Comitato militare della Nato, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola. Uomini che garantiscono alla Casa Bianca l'assoluta fedeltà dell'Italia.

    Sull'applicazione di nuove sanzioni a Teheran, Terzi ha detto già un mese fa che "l'Italia sostiene con piena convinzione il piano di sanzioni economiche annunciato dall'Amministrazione americana". Monti ha dichiarato che l'Italia sarebbe "pronta a partecipare a tutte le nuove sanzioni imposte dall'Europa" nonostante l'Italia importi da Teheran il 13 per cento del suo greggio (la Francia solo il tre). Il ministro Di Paola ha blindato le missioni all'estero con uno stanziamento da 1,4 miliardi di euro che coprirà il 2012 mettendole così al riparo da eventuali crisi dell'esecutivo. Nessuna riduzione delle truppe in Afghanistan e più soldati in Kosovo. Conti alla mano molto di più di quanto possiamo permetterci ma esattamente quello che vogliono da noi Nato e America.

    Sul piano economico le "potenze occupanti euroamericane" sembrano determinate a eliminare l'Italia dalla lista dei concorrenti sui mercati internazionali. La manovra del governo tutta tasse e zero sviluppo ci affosserà per anni tra recessione ed elevata inflazione mentre il crollo in Borsa di grandi aziende italiane ne facilita l'acquisto da parte dei gruppi stranieri.

    Finmeccanica ha oggi una capitalizzazione di appena due miliardi di euro a fronte di un valore almeno doppio soltanto contando i beni immobiliari e l'unico argine alla scalata al gruppo (in testa i franco-tedeschi di Eads e Thales, quest'ultima interessata a Wass e Oto Melara) è la golden share, l'azione privilegiata con la quale il Tesoro controlla anche Enel, Snam rete gas, Eni e Telecom. Nicolas Sarkozy, Angela Merkel, e persino i vertici della Ue Van Rompuy e Barroso hanno imposto a Monti l'abrogazione della "golden share" entro un mese, pena pesanti sanzioni.

    Il mese sta per scadere ed è certo che l'argomento verrà discusso nel tour che il premier ha iniziato in un'Europa che non sembra aver fretta però di demolire meccanismi simili presenti in Germania e Francia per impedire scalate straniere.
    Lo shopping al discount Italia è già cominciato. La settimana scorsa la francese Edf ha acquisito l'81 per cento di Edison mentre Eads ha comprato il 67 per cento dell'italiana Space Engineering specializzata in tecnologie radar e telecomunicazioni. Abrogata la golden share, senza una nuova legge a protezione dei nostri asset pregiati, cominceranno i saldi. Con il rischio che non siano quelli di fine stagione ma quelli per "cessata attività".

    Gianandrea Gaiani
    Fonte: Il Foglio.it - [ Edizione online ]
    10.01.2012
    E infatti i 'loro' gioielli di famiglia sono ancora tutti lì, ben saldi nelle loro mani.

    I nostri, invece, devono essere dismessi (possibilmente a francesi e tedeschi che si guardano bene dal vendere i propri) perché per noi (non per gli altri) è più figo così. e noi ci crediamo.
    Con le ali, al buio e nel silenzio da te io volerei.

  5. #5
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    Predefinito Rif: Un declino che viene da lontano

    Citazione Originariamente Scritto da JohnPollock Visualizza Messaggio
    Marea di cazzate. L?Italia è andata bene fino a quando le tasse e la burocrazia non c'erano, massimizzando quindi l'estro e la laboriosità italiana. Da quando poi si è iniziato a prendere come modello Svezia e Germania, assistenzialismo e tasse, le cose sono andate a puttane. Come s enon bastasse l'entrate nella UE ci ha definitivamente segati. Guardate la Turchia se è in crisi: ritmi di crescita del PIL spaventosi.
    Bah, 'nzomma...parlavo con un amico turco e mi diceva che non è proprio così anche se le cose da loro vanno molto meglio. però qui leggo:

    Turchia, Pil record: cresciuto dell'8,2%
    Nei primi nove mesi del 2011 la crescita più impetuosa al mondo.


    Turchia davanti a tutti, Turchia più veloce del gigante cinese. Nonostante un previsto rallentamento, la crescita economica di Ankara si è confermata la più impetuosa al mondo. Il tasso di aumento del Pil turco nel terzo trimestre è stato dell'8,2% portando il ritmo di crescita del Paese a superare di nuovo quello di Pechino Cina nei primi nove mesi dell'anno.
    CINA IN TESTA NEL SECONDO E NEL TERZO TRIMESTRE. Mentre da gennaio a settembre il Pil cinese è cresciuto del 9,4%, quello turco è aumentato del 9,6%, ha sottolineato il ministro dell'Economia turco, Zafer Caglayan, notando che l'incremento è andato oltre le aspettative. Considerando solo il terzo trimestre, ha notato in tv un altro ministro turco, il record però spetta nettamente alla Cina con un tasso del 9,1%.
    Il primato mondiale della crescita più veloce era andato alla Turchia anche per l'intero primo semestre mentre la Cina si era imposta nel secondo trimestre. La Banca centrale turca all'inizio di novembre aveva segnalato però un rallentamento al 7% per l'intero 2011 che dovrebbe accentuarsi nel 2012 anche secondo il governo: lo stesso Caglayan ha parlato di 4% commentando una previsione ancor più modesta (2%) fatta del Fondo monetario internazionale.

    Lunedì, 12 Dicembre 2011
    Turchia sulla cima del mondo - ECONOMIA
    Mi sa che hai ragione tu. :giagia:
    Con le ali, al buio e nel silenzio da te io volerei.

 

 

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