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    Predefinito La strategia del Presidente Ahmadinejad - di L.Fantini

    del prof. Luca Fantini, TerraSantaLibera.org, 15 giugno 2009



    LA STRATEGIA DEL PRESIDENTE AHMADINEJAD



    La vittoria, nelle ultime elezioni iraniane, del Presidente in carica Ahmadinejad dà la possibilità di sviluppare una serie di riflessioni - che se finalizzate anzitutto alla comprensione debbono essere per forza di cose distaccate, per quanto severe, anche rispetto alla politica antirachena attuata dagli iraniani in coopetizione con gli angloamericani- sull’azione e sulla visione del mondo dello stesso e su eventuali riflessi nella situazione internazionale.



    Di fronte a eventi così importanti (una stabilizzazione dell’attuale Presidente persiano per altri quattro anni avrà indubbiamente conseguenze geopolitiche assai pesanti) è assai più importante comprendere piuttosto che tifare “passionalmente”.

    Ad esempio, la indubbia immutata “simpatia” per Tareq Aziz, eroe cristiano, per il Presidente Saddam Hussein o per lo stesso Arafat non deve impedire di valutare con obiettività, per quel che è possibile, quanto si sta verificando nel Vicino Oriente. Ad una analisi della visione del mondo di Ahmadinejad seguirà una breve disanima dei possibili effetti rispetto alla sua ulteriore affermazione.



    Ahmadinejad, se si volesse accettare il criterio identificativo della struttura di potere vigente in Iran dato da osservatori internazionali[1], è un rappresentante della destra estremista.

    Per comprendere l’ascesa di Ahmadinejad è necessario tenere in considerazione il diffuso sentimento di insofferenza della società civile iraniana verso la gerarchia sciita al potere; molto spesso, i persiani identificano i mullah con i privilegi economici che derivano dalla loro carica politica, con la corruzione, con l’imposizione della morale islamica ai costumi e alla vita sociale.

    Ahmadinejad è infatti il massimo rappresentante della “nuova elite” che emergeva a Teheran durante gli anni di Khatami, l’elite militare comprendente i pasdaran, i bassiji e tutti coloro che ruotavano attorno alle varie fondazioni rivoluzionarie.

    Tale elite, che veniva definita “la seconda generazione di rivoluzionari” per aver forgiato la sua reale identità sui campi di battaglia della guerra contro l’Iraq, non quindi durante il processo rivoluzionario, si faceva in quel periodo portatrice del messaggio della “rivoluzione tradita”: in una famosa lettera a Khatami, comandanti pasdaran portavoce della stessa corrente si dicevano assolutamente pronti a “difendere con il sangue” la rivoluzione che aveva ormai, a loro parere, imboccato un binario morto, soprattutto a causa della corruzione del clero. Il petrolio, in tale ottica, teneva in sella gli interessi del gruppo di potere creato dall’Imam Khomeini.



    L’oro nero – come ai tempi dello shah - non faceva altro che stabilizzare il controllo oligarchico di una ristretta casta (in questo caso clericale), che se da un lato rafforzava il ruolo dello Stato come distributore di assistenza e sussidi, dall’altro accentuava il distacco tra popolo ed elite. Il passaggio rivoluzionario dalla monarchia alla repubblica non comportava così una effettiva e concreta rottura con il passato dinastico.

    In tal senso, il vero messaggio rivoluzionario - ancor meglio, nazionalrivoluzionario - si aveva con l’ascesa di Ahmadinejad. Primo Presidente non appartenente al clero sciita, dopo Bani Sadr, figlio di un fabbro, nasceva il 28 ottobre 1956 a Garmasar.



    Ciò che probabilmente doveva radicalmente influenzare la visione sociale e spirituale di Ahmadinejad era l’esperienza maturata durante la guerra Iran Iraq. L’attuale Presidente iraniano avrebbe partecipato quale volontario nelle forze speciali dei Pasdaran, a talune operazioni oltre le linee nemiche e avrebbe visto di conseguenza morire, come molti iraniani al fronte, tanti dei suoi giovani compagni.

    Dico avrebbe in quanto, secondo altre interpretazioni, non avrebbe partecipato affatto ad operazioni oltre le linee, ma si sarebbe limitato a svolgere i due anni di servizio militare. Al riguardo, sostiene comunque Guolo che “è in questa austera comunità di “monaci guerrieri” che Ahmadinejad matura convinzioni, stringe amicizie e relazioni che coltiverà quando abbandonerà il fucile” [2]. Questa interpretazione è condivisibile.



    Sebbene in Occidente passi l’interpretazione di Ahmadinejad pura appendice di Khamenei, in realtà il Presidente non è affatto un ortodosso continuatore della tradizione del clero khomeinista che fa capo alla Guida.

    L’alleanza tra Ahmadinejad e Khamenei è dunque di tipo tattico, non strategico. Lo dimostra la stessa composizione del primo governo Ahmadinejad, insediatosi il 3 agosto 2005, formato in larga parte da rappresentanti di quell’elite militare di cui si parlava sopra: ben 18 erano infatti i ministri che provenivano dalle file dei pasdaran.

    “Una volta pasdar, per sempre pasdar”, il motto delle Guardie della rivoluzione che ben sintetizza il sentimento di identità spirituale e unità comunitaria nazionalista che tra queste vige. Dai Komitè Pasdaran del ‘79, oggi conosciuti come Sepah Pasdaran, il nucleo originario, partiva la carriera della maggior parte degli attuali fiancheggiatori e sostenitori di Ahmadinejad.



    Quest’ultimo faceva in origine parte del battaglione Al Qods, l’unità delle operazioni speciali. I pasadran sono oggi nel complesso centinaia di migliaia e dalle Guardie della rivoluzione dipendono anche i bassiji. In genere, pasdaran e bassiji appartengono agli strati più poveri della popolazione e sono di conseguenza anche attirati dalle offerte della cosiddetta “economia pasdaran”, che possiede società commerciali, banche con prestiti senza interesse, università, centri culturali, ospedali, le varie Bonyad, come la Fondazioni dei martiri.



    Sebbene abbia sposato la figlia dell’ayatollah Jannati e sia legato da una sorta di discepolato spirituale con l’ultraconservatore ayatollah Mesbah Yazdi, Ahmadinejad ha attuato in Iran il principio che è il partito “militare” rivoluzionario (non i chierici imboscati), ossia la “comunità del fronte”, che ha idealmente raccolto il sacro sangue dei giovanissimi martiri caduti a dover guidare la nazione.

    Ahmadinejad si presentava da subito, da quando era sindaco di Teheran, quale “bonificatore”, ossia come colui che voleva ripulire la tenebrosa palude che aveva oscurato lo spirito originario della rivoluzione, custodito in verità da quel blocco militare che trasmetteva con la sua stessa presenza la memoria dei “martiri”.

    Immagine simboleggiata dallo stesso abbigliamento con cui è solito presentarsi, lo shal, il fazzoletto, e gli stivaletti, che i volontari portavano al fronte.



    Di fronte a quest’immagine di un Presidente nazionalrivoluzionario (più che dogmatico islamista), si potrebbe ben obiettare che egli dice spesso di ispirarsi al messaggio originario dell’Ayatollah Khomeini. Ma ciò è legittimo e comprensibile alla luce dei processi storici.



    Le rotture di paradigma, in vari processi rivoluzionari o presunti tali, si sono avuti proprio operando con la medesima metodologia: basti pensare, per fare solo un esempio, a Stalin, che si richiamava pubblicamente al leninismo mentre in realtà puntava diritto alla realizzazione del “socialismo in un solo paese”.



    La dimensione mistica e spiritualistica di Ahmadinejad, non è un caso, esce chiaramente dalla tradizione khomeinista anche con il principio del mahdaviat, il ritorno del Dodicesimo Imam, il Mahdi.

    Nella visione mutuata da Ahmadinejad sin dalla fine degli anni ’70, frutto della sua familiarità con la Hojateh, un’associazione fondata sulla preparazione mistica e spirituale dell’ “Atteso”, il Mahdi, messa fuori legge da Khomeini nel 1983, ma ritornata alla massima vitalità proprio con l’attuale Presidente, nessun governo, neanche quello khomeinista, risponde alla autentica natura dello sciismo.



    Viene così svalutata le legittimazione del potere del clero khomeinista, in quanto il compito principale del potere terreno è accelerare (non sostituire, come fa il clero di ispirazione khomeinista, che in tal senso sembrerebbe allontanare l’urgenza cosmologica del ritorno del Mahdi) il ritorno del Mahdi – ritorno che sarà contrassegnato da dure sofferenze e tribolazioni, ma anche dalla fine escatologica del Regno cosmico dell’Oppressione (che talvolta pubblicamente il Presidente persiano ha definito anche regno dell’anticristo), di cui Usa e Israele sono i più potenti strumenti e in tal senso la liberazione palestinese dall’ “arroganza” assume, nella concezione escatologica di Ahmadinejad, un significato prioritario.



    Il Presidente iraniano ha assai spesso sollevato il problema del ritorno del Mahdi, non solo di fronte agli sciiti.

    Parlando ad esempio di fronte alle Nazioni Unite, sconcertava il pubblico presente concludendo il suo intervento con una preghiera che invocava proprio l’ “Atteso”: “O luminoso e forte Signore, ti prego di accelerare la venuta del tuo supremo depositario, l’Atteso, quell’essere umano di luce pura e perfetto: il solo che riempirà questo mondo di giustizia e pace”. Secondo molteplici testimonianze, tornato da New York, Ahmadinejad diceva al suo referente spirituale, l’ayatollah Mohammed Taghi Mesbah-Yazdi, che il suo discorso alle Nazioni Unite aveva prodotto il seguente effetto: “Un membro della nostra delegazione ha raccontato di avermi visto attorniato da una luce quando iniziai l’invocazione conclusiva”. Mi sentii compenetrato da questa aura benefica luminosa. Avvertivo che l’atmosfera si mutava di colpo e per circa ventotto minuti i leader di tutti il mondo rimasero come rapiti in sogno. Era come se una mano li trattenesse per ricevere il messaggio della Repubblica islamica”.



    Si sbaglierebbe ad accusare Ahmadinejad di allucinazione o bizzarria: tale tradizione escatologica non solo appartiene alla spiritualità iraniana, anche pre-islamica [3], ma veniva tenuta in alta considerazione dallo stesso shah Reza Pahlavi, il quale, tutto tranne che islamista radicale, ricorda una sua esperienza di infanzia nella quale trovandosi a contatto con la morte, veniva miracolosamente salvato dalle benefiche forze spirituali attivate dalla mano santa di Abbas, fratello del martire Hussein e dalla manifestazione reale dell’Imam nascosto, il Dodicesimo[4].



    Grave limite di Ahmadinejad è che – fino ad ora – tale visione escatologica non si è accompagnata ad un antigiudaismo spirituale, ma si è limitata ad una retorica antisionista. Sebbene in Occidente si enfatizzi l’importanza che l’antigiudaismo rivestirebbe nel pensiero di Ahmad Fardid, ad un esame attento la visione di quest’ultimo non esce dall’astrazione naturalistica heideggeriana. E’ anche vero che per sviluppare una simile via escatologica antigiudaica occorrerebbe una forte familiarità con la misteriosofia dei Padri cristiani.



    Un’altra rottura di paradigma con il khomeinismo si ha sul piano del nazionalismo persiano, un nazionalismo assai permeato della dimensione mistica ed universale caratterizzante la visione di Ahmadinejad, collegato nella sfera interna ad una determinata “nazionalizzazione delle masse”, con un ruolo dinamico attivo, in tale processo di mobilitazione totale, assegnato anche alle donne.



    Ahmadinejad ha immesso a forti dosi – nel tessuto sociale e politico persiano – elementi mutuati dalla tradizione nazionalrivoluzionaria europea. Rilanciando la visione rivoluzionaria e radicalizzandola in senso antiamericanista, antianglosassone ed antisionista, Ahmadinejad persegue il fine strategico di fare dell’Iran un’autentica potenza internazionale. Ma non tanto potenza musulmana, come ambiva ad essere fino alla morte di Khomeini, quanto potenza grande-nazionale, antiamericana ed antisionista.



    Una potenza che non mira tanto a “sciitizzare” o islamizzare quanto a imprimere un nuovo assetto geopolitico all’intero Vicino Oriente. Di questa nuova linea nazionalrivoluzionaria fa chiaramente parte la rivendicazione del “diritto al nucleare”. La mobilitazione sul tema del nucleare si coniuga, sul piano interno, come si è potuto osservare anche alle recenti elezioni, con un ferreo blocco sociale tra gli elmetti e i mostafazin, ossia i più poveri della popolazione, che hanno ancora accordato la massima fiducia al Presidente nella sua proclamata lotta a sperperi e corruzione.



    Il patto sociale di Ahmadinejad è basato su una equa redistribuzione del reddito e su pesanti investimenti finanziati con i guadagni delle esportazioni di gas e petrolio. Per attuare questi obiettivi, il Presidente persiano ritiene che i consumi energetici interni dovrebbero essere sostenuti dal nucleare, non dai guadagni ottenuti dall’esportazione di oro nero e gas, il cui utilizzato è usato per altri fini.

    Di conseguenza, le politiche di redistribuzione del reddito sono destinate a ottenere il consenso dei meno abbienti. Significativo che, nella storia recente o meno dell’Iran, i bazarì (la cosiddetta classe media composta soprattutto di mercanti), nelle decisioni politiche definitive, hanno sempre avuto un peso prioritario. Khomeini entrava nelle grazie dei mercanti iraniani da quando, nel 1967, diveniva loro protettore accusando la rivoluzione bianca dello shah di aver mandato in bancarotta molti bazarì.



    Subito dopo la presa del potere, impartiva alla Guardia rivoluzionaria l’ordine di non danneggiare le proprietà dei bazarì ed il 29 dicembre del 1980 dichiarava che “la ricchezza è un dono di Dio”[5]. Viceversa, i bazarì hanno sempre visto di cattivo occhio l’ascesa di Ahmadinejad ed ancor più alle ultime elezioni hanno compattamente fatto blocco contro di lui. Nonostante questo, il patto sociale del Presidente non è stato scalfito.



    Ahmadinejad, d’altra parte, ha arrestato e placato ma non certamente annichilito la negativa occidentalizzazione che ha sedotto buona parte della società iraniana: significative al riguardo le note feste notturne di Teheran nord dove non sembra mancare niente di quanto prolifera nella decadenza materialista occidentale.

    Dunque se il Presidente iraniano è forte del granitico sostegno di soldati e fasce popolari, non potrà mai dormire sonni tranquilli in quanto i mercanti, tradizionale motore della società persiana, non hanno alcuna simpatia per la sua azione e per il suo populismo.



    Come una guida rivoluzionaria di altri tempi, Ahmadinejad ha saputo compenetrare perfettamente politica interna e politica internazionale, ha saputo sacrificare completamente la tattica a vantaggio della finalità strategica, ha quasi sempre mantenuto le promesse fatte al suo popolo.

    Probabilmente, è stato – di recente – l’unico capo di stato capace di ottenere una massiccia espansione delle proprie posizioni con sacrifici interni minimi o addirittura nulli. Senza tatticismo alcuno, ma esasperando anzi il puro momento strategico.



    Del tutto indifferente alle continue minacce riguardo al tanto sbandierato attacco di aria e di mare, su larga scala, verso Teheran, Ahmadinejad rafforzava costantemente le posizioni iraniane in tutto il Vicino Oriente, nell’alleanza strettissima con la Siria, supportando esplicitamente con ogni mezzo l’azione di Hezbollah e Hamas, che frattanto divenivano sempre più (probabilmente sull’esempio mostrato dallo stesso Ahmadinejad) movimenti di liberazione nazionale aperti anche alle componenti patriottiche non islamiste.



    La pagina più brutta, e sicuramente non difendibile (almeno da una prospettiva che non sia quella persiana) è stata la linea politica di coopetizione instaurata con gli angloamericani in Iraq, giocata sulle spoglie del glorioso passato patriottico baathista.

    Gli attuali leader iracheni sono uomini di Teheran, un’intera classe politica che si formava in Iran negli anni ottanta, le milizie Al Badr e la nuova intelligence sono stati addestrati dai pasdaran e Muqtada Al Sadr passa probabilmente la maggior parte del suo tempo a Teheran.



    L’Iran di Ahmadinejad, inoltre, come mostrato dalla recente visita a Teheran di Chavez e come notava un documento del ministero degli esteri israeliano, ha addirittura rafforzato le proprie posizioni in Sud America.






    La vittoria di Ahmadinejad è la vittoria di un capo di stato che è comunque sempre stato leale, fino ad ora, verso la Russia. Dunque in prospettiva, è una vittoria filoeuropea.

    Putin è stato ospitato a Teheran da Ahmadinejad nel corso di una visita definita storica, in quanto dall’epoca di Stalin nessun capo di stato russo era più entrato in Iran; la costruzione della prima centrale nucleare iraniana è stata completata grazie alla Russia e Sergey Kirienko, il leader dell’agenzia atomica Rosatom, ha promesso di recente all’Iran combustile nucleare (non uranio arricchito) per almeno altri dieci anni.

    Da quando si è avuta in Iran la reggenza Ahmadinejad, le forze militari persiane non si sono più fatte coinvolgere nelle strategie geopolitiche angloamericane antirusse quali ad esempio quelle finalizzate alla creazione di “trasversali verdi” in territorio europeo. Durante il recente conflitto russo-georgiano, Ahmadinejad ha plaudito all’azione difensiva russa ed ha denunciato la presenza di moltissimi agenti del Mossad nel Caucaso quali istruttori dell’esercito georgiano e di tutte le forze antirusse ivi operanti.





    Infine: se Ahmadinejad riuscirà ad avere facilmente ragione di questo iniziale tentativo di “rivoluzione velluto” partorita con largo anticipo da strateghi americani che si sta verificando sulle strade di Teheran in questi giorni, si potrebbero aprire degli scenari inaspettati.



    Non si può dire con certezza se risponde al vero quanto denunciava in diverse occasioni la sorella gemella dello shah: cioè che Brzezinski era il reale artefice della rivoluzione khomeinista.

    Allora Brzezinski puntava realmente (e vi riusciva!) a creare una “mezzaluna verde”, formata da regimi islamisti radicali, a ridosso del lato meridionale dell’Urss, per accerchiare Mosca impedendole peraltro l’accesso ai mari caldi.



    Se la versione della sorella dello shah è, a detta di molti, azzardata o infondata, rimane indubbio il fatto che gli angloamericani iniziavano a scaricare lo shah quando – dall’aprile del 1977 almeno, come indicava chiaramente il convegno di Sciraz – il monarca era ormai determinato a far diventare l’Iran da potenza petrolifera una potenza atomica.



    Khomeini viceversa considerava l’ atomica un frutto diabolico dell’Occidente. Con Ahmadinejad l’Iran rivendica oggi nuovamente il suo diritto storico e morale ad essere una potenza nucleare.



    Se si è svolta negli ultimi anni una intensa guerra da parte dell’intelligence israeliana contro elementi di spicco ruotanti verso Teheran (es. Imad Mugnyeh e Mohammed Suleyaman) o contro siti nucleari (settembre 2007) o missilistici (luglio 2007) siriani dove erano impiegati tecnici iraniani, è anche vero che Israele, giunto ai limiti dell’attacco militare, non disponendo mai del semaforo verde e del supporto esplicito di Washington, ha dovuto rinunciare ai suoi propositi. Vediamo ora invece prendere corpo le strategie giudeoamericaniste di cui si è di recente parlato (Cfr. Obama al Cairo. L’unipolarismo giudeoamericanista).



    E’ infatti chiaro che si ha il clan Brzezinski dietro ai tentativi di “rivoluzione vellutata” che, sul modello delle varie rivoluzioni colorate, sta tentando di delegittimare anzitutto all’interno il Presidente Ahmadinejad.



    Vi è quasi certamente la medesima regia dietro i vari attentati verificatisi in Iran negli ultimi mesi nelle zone di confine con il Pakistan e con l’Afghanistan, come a Zahedan.

    D’altra parte, le correnti radicaliste sioniste sembrano voler giocare la carta russa.



    Gli israeliani, sentendosi per la prima volta abbandonati “strategicamente” - già in passato comunque, non a caso, quando Brzezinski era un influente consigliere di Carter, si avevano momenti di tensione ai limiti della rottura tra Usa e Tel Aviv – hanno mandato il loro ministro degli esteri Lieberman a San Pietroburgo per proporre a Putin quegli aerei automatici senza pilota che nel recente conflitto russo-georgiano, in dotazione all’esercito georgiano, hanno abbattuto diversi aerei con pilota russi.

    Una richiesta simile, rivolta a un nemico strategico storico del popolo ebraico (come insegnano Soros e Andrè Glucksmann), come la Russia, denota che il progetto sionista sta correndo disperatamente contro il tempo.



    E in questa partita, elemento da notare, fedele alla sua apparente assenza di strategia, che è, come è risaputo, una scuola storica e militare ben precisa, una strategia priva di strategia, quale volontaria, paziente, esasperazione del momento tattico, la Cina sembra rimanere dietro l’angolo.



    Il tempo, in conclusione, lavora a favore di Ahmadinejad. Se il Presidente iraniano ha già organizzato una solida difesa interna contro le tecniche tipiche, certamente assai aggiornate, delle suddette rivoluzioni colorate e delle destabilizzazioni interne, molto più che contro un eventuale attacco militare, il suo radicale offensivismo strategico continuerà la via della puntuale realizzazione degli obiettivi prefissati.

    Luca Fantini

    Dottore di ricerca in storia della filosofia, collabora con il nostro sito quale consulente riguardo problematiche storico-filosofiche, con particolare attenzione alla questione giudaica

    Link a questa pagina :

    http://www.terrasantalibera.org/Luca...hmadinejad.htm


    documento anche in PDF 156 KB



    NOTE

    [1] Cfr. W. Buchta, Who rules Iran? The structure of Power in the Islamic Republic, Washington 2000.

    [2] R. Guolo, La via dell’Imam. L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Roma-Bari 2007, pag. 113.

    [3] Sia detto brevemente, poiché il discorso non può essere affrontato in questo contesto, ma va precisato che alcuni autori sciiti (fra i quali Kamal Kashani e Haydar Amoli) identificano esplicitamente l’Imam atteso con il Paracleto, la cui venuta è annunciata dal Vangelo di Giovanni a cui essi fanno riferimento. L’avvento dell’Imam-Paracleto inaugurerà il Regno del puro senso spirituale degli archetipi primordiali, e cioè della vera religione che è la perenne walayat. Ecco perché il regno dell’Imam preannuncia la Grande Resurrezione. H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, pag. 85; P. Filippani Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo, Roma 2007, pp. 55 e sgg.

    [4] Mohammad Reza Pahlavi, Risposta alla storia. Il testamento politico e morale dello Shah, Milano 1980, pag. 42.

    [5] F. Sabati, Storia dell’Iran, Milano 2003, pag. 166.

  2. #2
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    MOLTO interessante...ho sempre notato una tendenza "persiana", regionalista di Ahmadinejad...a questo punto però...con quello che sta succedendo, o pensa ad una Notte dei lunghi coltelli per uscire dall'islamismo come pilastro del regime...o è davvero in trappola fra Mussawi e Khamenei.

  3. #3
    Tringeadeuroppa
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    Citazione Originariamente Scritto da socialistaprussiano Visualizza Messaggio
    MOLTO interessante...ho sempre notato una tendenza "persiana", regionalista di Ahmadinejad...a questo punto però...con quello che sta succedendo, o pensa ad una Notte dei lunghi coltelli per uscire dall'islamismo come pilastro del regime...o è davvero in trappola fra Mussawi e Khamenei.
    secondo me l'attuale potere è un misto tra potere militare, industriale e religioso radicale. Non credo si possa scindere, se non altro per l'enorme carisma dell'Ayatollah Khamen'ei.
    Però un repulisti del clero borghese e riformista è auspicabile.

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Spetaktor Visualizza Messaggio
    del prof. Luca Fantini, TerraSantaLibera.org, 15 giugno 2009



    LA STRATEGIA DEL PRESIDENTE AHMADINEJAD



    La vittoria, nelle ultime elezioni iraniane, del Presidente in carica Ahmadinejad dà la possibilità di sviluppare una serie di riflessioni - che se finalizzate anzitutto alla comprensione debbono essere per forza di cose distaccate, per quanto severe, anche rispetto alla politica antirachena attuata dagli iraniani in coopetizione con gli angloamericani- sull’azione e sulla visione del mondo dello stesso e su eventuali riflessi nella situazione internazionale.



    Di fronte a eventi così importanti (una stabilizzazione dell’attuale Presidente persiano per altri quattro anni avrà indubbiamente conseguenze geopolitiche assai pesanti) è assai più importante comprendere piuttosto che tifare “passionalmente”.

    Ad esempio, la indubbia immutata “simpatia” per Tareq Aziz, eroe cristiano, per il Presidente Saddam Hussein o per lo stesso Arafat non deve impedire di valutare con obiettività, per quel che è possibile, quanto si sta verificando nel Vicino Oriente. Ad una analisi della visione del mondo di Ahmadinejad seguirà una breve disanima dei possibili effetti rispetto alla sua ulteriore affermazione.



    Ahmadinejad, se si volesse accettare il criterio identificativo della struttura di potere vigente in Iran dato da osservatori internazionali[1], è un rappresentante della destra estremista.

    Per comprendere l’ascesa di Ahmadinejad è necessario tenere in considerazione il diffuso sentimento di insofferenza della società civile iraniana verso la gerarchia sciita al potere; molto spesso, i persiani identificano i mullah con i privilegi economici che derivano dalla loro carica politica, con la corruzione, con l’imposizione della morale islamica ai costumi e alla vita sociale.

    Ahmadinejad è infatti il massimo rappresentante della “nuova elite” che emergeva a Teheran durante gli anni di Khatami, l’elite militare comprendente i pasdaran, i bassiji e tutti coloro che ruotavano attorno alle varie fondazioni rivoluzionarie.

    Tale elite, che veniva definita “la seconda generazione di rivoluzionari” per aver forgiato la sua reale identità sui campi di battaglia della guerra contro l’Iraq, non quindi durante il processo rivoluzionario, si faceva in quel periodo portatrice del messaggio della “rivoluzione tradita”: in una famosa lettera a Khatami, comandanti pasdaran portavoce della stessa corrente si dicevano assolutamente pronti a “difendere con il sangue” la rivoluzione che aveva ormai, a loro parere, imboccato un binario morto, soprattutto a causa della corruzione del clero. Il petrolio, in tale ottica, teneva in sella gli interessi del gruppo di potere creato dall’Imam Khomeini.



    L’oro nero – come ai tempi dello shah - non faceva altro che stabilizzare il controllo oligarchico di una ristretta casta (in questo caso clericale), che se da un lato rafforzava il ruolo dello Stato come distributore di assistenza e sussidi, dall’altro accentuava il distacco tra popolo ed elite. Il passaggio rivoluzionario dalla monarchia alla repubblica non comportava così una effettiva e concreta rottura con il passato dinastico.

    In tal senso, il vero messaggio rivoluzionario - ancor meglio, nazionalrivoluzionario - si aveva con l’ascesa di Ahmadinejad. Primo Presidente non appartenente al clero sciita, dopo Bani Sadr, figlio di un fabbro, nasceva il 28 ottobre 1956 a Garmasar.



    Ciò che probabilmente doveva radicalmente influenzare la visione sociale e spirituale di Ahmadinejad era l’esperienza maturata durante la guerra Iran Iraq. L’attuale Presidente iraniano avrebbe partecipato quale volontario nelle forze speciali dei Pasdaran, a talune operazioni oltre le linee nemiche e avrebbe visto di conseguenza morire, come molti iraniani al fronte, tanti dei suoi giovani compagni.

    Dico avrebbe in quanto, secondo altre interpretazioni, non avrebbe partecipato affatto ad operazioni oltre le linee, ma si sarebbe limitato a svolgere i due anni di servizio militare. Al riguardo, sostiene comunque Guolo che “è in questa austera comunità di “monaci guerrieri” che Ahmadinejad matura convinzioni, stringe amicizie e relazioni che coltiverà quando abbandonerà il fucile” [2]. Questa interpretazione è condivisibile.



    Sebbene in Occidente passi l’interpretazione di Ahmadinejad pura appendice di Khamenei, in realtà il Presidente non è affatto un ortodosso continuatore della tradizione del clero khomeinista che fa capo alla Guida.

    L’alleanza tra Ahmadinejad e Khamenei è dunque di tipo tattico, non strategico. Lo dimostra la stessa composizione del primo governo Ahmadinejad, insediatosi il 3 agosto 2005, formato in larga parte da rappresentanti di quell’elite militare di cui si parlava sopra: ben 18 erano infatti i ministri che provenivano dalle file dei pasdaran.

    “Una volta pasdar, per sempre pasdar”, il motto delle Guardie della rivoluzione che ben sintetizza il sentimento di identità spirituale e unità comunitaria nazionalista che tra queste vige. Dai Komitè Pasdaran del ‘79, oggi conosciuti come Sepah Pasdaran, il nucleo originario, partiva la carriera della maggior parte degli attuali fiancheggiatori e sostenitori di Ahmadinejad.



    Quest’ultimo faceva in origine parte del battaglione Al Qods, l’unità delle operazioni speciali. I pasadran sono oggi nel complesso centinaia di migliaia e dalle Guardie della rivoluzione dipendono anche i bassiji. In genere, pasdaran e bassiji appartengono agli strati più poveri della popolazione e sono di conseguenza anche attirati dalle offerte della cosiddetta “economia pasdaran”, che possiede società commerciali, banche con prestiti senza interesse, università, centri culturali, ospedali, le varie Bonyad, come la Fondazioni dei martiri.



    Sebbene abbia sposato la figlia dell’ayatollah Jannati e sia legato da una sorta di discepolato spirituale con l’ultraconservatore ayatollah Mesbah Yazdi, Ahmadinejad ha attuato in Iran il principio che è il partito “militare” rivoluzionario (non i chierici imboscati), ossia la “comunità del fronte”, che ha idealmente raccolto il sacro sangue dei giovanissimi martiri caduti a dover guidare la nazione.

    Ahmadinejad si presentava da subito, da quando era sindaco di Teheran, quale “bonificatore”, ossia come colui che voleva ripulire la tenebrosa palude che aveva oscurato lo spirito originario della rivoluzione, custodito in verità da quel blocco militare che trasmetteva con la sua stessa presenza la memoria dei “martiri”.

    Immagine simboleggiata dallo stesso abbigliamento con cui è solito presentarsi, lo shal, il fazzoletto, e gli stivaletti, che i volontari portavano al fronte.



    Di fronte a quest’immagine di un Presidente nazionalrivoluzionario (più che dogmatico islamista), si potrebbe ben obiettare che egli dice spesso di ispirarsi al messaggio originario dell’Ayatollah Khomeini. Ma ciò è legittimo e comprensibile alla luce dei processi storici.



    Le rotture di paradigma, in vari processi rivoluzionari o presunti tali, si sono avuti proprio operando con la medesima metodologia: basti pensare, per fare solo un esempio, a Stalin, che si richiamava pubblicamente al leninismo mentre in realtà puntava diritto alla realizzazione del “socialismo in un solo paese”.



    La dimensione mistica e spiritualistica di Ahmadinejad, non è un caso, esce chiaramente dalla tradizione khomeinista anche con il principio del mahdaviat, il ritorno del Dodicesimo Imam, il Mahdi.

    Nella visione mutuata da Ahmadinejad sin dalla fine degli anni ’70, frutto della sua familiarità con la Hojateh, un’associazione fondata sulla preparazione mistica e spirituale dell’ “Atteso”, il Mahdi, messa fuori legge da Khomeini nel 1983, ma ritornata alla massima vitalità proprio con l’attuale Presidente, nessun governo, neanche quello khomeinista, risponde alla autentica natura dello sciismo.



    Viene così svalutata le legittimazione del potere del clero khomeinista, in quanto il compito principale del potere terreno è accelerare (non sostituire, come fa il clero di ispirazione khomeinista, che in tal senso sembrerebbe allontanare l’urgenza cosmologica del ritorno del Mahdi) il ritorno del Mahdi – ritorno che sarà contrassegnato da dure sofferenze e tribolazioni, ma anche dalla fine escatologica del Regno cosmico dell’Oppressione (che talvolta pubblicamente il Presidente persiano ha definito anche regno dell’anticristo), di cui Usa e Israele sono i più potenti strumenti e in tal senso la liberazione palestinese dall’ “arroganza” assume, nella concezione escatologica di Ahmadinejad, un significato prioritario.



    Il Presidente iraniano ha assai spesso sollevato il problema del ritorno del Mahdi, non solo di fronte agli sciiti.

    Parlando ad esempio di fronte alle Nazioni Unite, sconcertava il pubblico presente concludendo il suo intervento con una preghiera che invocava proprio l’ “Atteso”: “O luminoso e forte Signore, ti prego di accelerare la venuta del tuo supremo depositario, l’Atteso, quell’essere umano di luce pura e perfetto: il solo che riempirà questo mondo di giustizia e pace”. Secondo molteplici testimonianze, tornato da New York, Ahmadinejad diceva al suo referente spirituale, l’ayatollah Mohammed Taghi Mesbah-Yazdi, che il suo discorso alle Nazioni Unite aveva prodotto il seguente effetto: “Un membro della nostra delegazione ha raccontato di avermi visto attorniato da una luce quando iniziai l’invocazione conclusiva”. Mi sentii compenetrato da questa aura benefica luminosa. Avvertivo che l’atmosfera si mutava di colpo e per circa ventotto minuti i leader di tutti il mondo rimasero come rapiti in sogno. Era come se una mano li trattenesse per ricevere il messaggio della Repubblica islamica”.



    Si sbaglierebbe ad accusare Ahmadinejad di allucinazione o bizzarria: tale tradizione escatologica non solo appartiene alla spiritualità iraniana, anche pre-islamica [3], ma veniva tenuta in alta considerazione dallo stesso shah Reza Pahlavi, il quale, tutto tranne che islamista radicale, ricorda una sua esperienza di infanzia nella quale trovandosi a contatto con la morte, veniva miracolosamente salvato dalle benefiche forze spirituali attivate dalla mano santa di Abbas, fratello del martire Hussein e dalla manifestazione reale dell’Imam nascosto, il Dodicesimo[4].



    Grave limite di Ahmadinejad è che – fino ad ora – tale visione escatologica non si è accompagnata ad un antigiudaismo spirituale, ma si è limitata ad una retorica antisionista. Sebbene in Occidente si enfatizzi l’importanza che l’antigiudaismo rivestirebbe nel pensiero di Ahmad Fardid, ad un esame attento la visione di quest’ultimo non esce dall’astrazione naturalistica heideggeriana. E’ anche vero che per sviluppare una simile via escatologica antigiudaica occorrerebbe una forte familiarità con la misteriosofia dei Padri cristiani.



    Un’altra rottura di paradigma con il khomeinismo si ha sul piano del nazionalismo persiano, un nazionalismo assai permeato della dimensione mistica ed universale caratterizzante la visione di Ahmadinejad, collegato nella sfera interna ad una determinata “nazionalizzazione delle masse”, con un ruolo dinamico attivo, in tale processo di mobilitazione totale, assegnato anche alle donne.



    Ahmadinejad ha immesso a forti dosi – nel tessuto sociale e politico persiano – elementi mutuati dalla tradizione nazionalrivoluzionaria europea. Rilanciando la visione rivoluzionaria e radicalizzandola in senso antiamericanista, antianglosassone ed antisionista, Ahmadinejad persegue il fine strategico di fare dell’Iran un’autentica potenza internazionale. Ma non tanto potenza musulmana, come ambiva ad essere fino alla morte di Khomeini, quanto potenza grande-nazionale, antiamericana ed antisionista.



    Una potenza che non mira tanto a “sciitizzare” o islamizzare quanto a imprimere un nuovo assetto geopolitico all’intero Vicino Oriente. Di questa nuova linea nazionalrivoluzionaria fa chiaramente parte la rivendicazione del “diritto al nucleare”. La mobilitazione sul tema del nucleare si coniuga, sul piano interno, come si è potuto osservare anche alle recenti elezioni, con un ferreo blocco sociale tra gli elmetti e i mostafazin, ossia i più poveri della popolazione, che hanno ancora accordato la massima fiducia al Presidente nella sua proclamata lotta a sperperi e corruzione.



    Il patto sociale di Ahmadinejad è basato su una equa redistribuzione del reddito e su pesanti investimenti finanziati con i guadagni delle esportazioni di gas e petrolio. Per attuare questi obiettivi, il Presidente persiano ritiene che i consumi energetici interni dovrebbero essere sostenuti dal nucleare, non dai guadagni ottenuti dall’esportazione di oro nero e gas, il cui utilizzato è usato per altri fini.

    Di conseguenza, le politiche di redistribuzione del reddito sono destinate a ottenere il consenso dei meno abbienti. Significativo che, nella storia recente o meno dell’Iran, i bazarì (la cosiddetta classe media composta soprattutto di mercanti), nelle decisioni politiche definitive, hanno sempre avuto un peso prioritario. Khomeini entrava nelle grazie dei mercanti iraniani da quando, nel 1967, diveniva loro protettore accusando la rivoluzione bianca dello shah di aver mandato in bancarotta molti bazarì.



    Subito dopo la presa del potere, impartiva alla Guardia rivoluzionaria l’ordine di non danneggiare le proprietà dei bazarì ed il 29 dicembre del 1980 dichiarava che “la ricchezza è un dono di Dio”[5]. Viceversa, i bazarì hanno sempre visto di cattivo occhio l’ascesa di Ahmadinejad ed ancor più alle ultime elezioni hanno compattamente fatto blocco contro di lui. Nonostante questo, il patto sociale del Presidente non è stato scalfito.



    Ahmadinejad, d’altra parte, ha arrestato e placato ma non certamente annichilito la negativa occidentalizzazione che ha sedotto buona parte della società iraniana: significative al riguardo le note feste notturne di Teheran nord dove non sembra mancare niente di quanto prolifera nella decadenza materialista occidentale.

    Dunque se il Presidente iraniano è forte del granitico sostegno di soldati e fasce popolari, non potrà mai dormire sonni tranquilli in quanto i mercanti, tradizionale motore della società persiana, non hanno alcuna simpatia per la sua azione e per il suo populismo.



    Come una guida rivoluzionaria di altri tempi, Ahmadinejad ha saputo compenetrare perfettamente politica interna e politica internazionale, ha saputo sacrificare completamente la tattica a vantaggio della finalità strategica, ha quasi sempre mantenuto le promesse fatte al suo popolo.

    Probabilmente, è stato – di recente – l’unico capo di stato capace di ottenere una massiccia espansione delle proprie posizioni con sacrifici interni minimi o addirittura nulli. Senza tatticismo alcuno, ma esasperando anzi il puro momento strategico.



    Del tutto indifferente alle continue minacce riguardo al tanto sbandierato attacco di aria e di mare, su larga scala, verso Teheran, Ahmadinejad rafforzava costantemente le posizioni iraniane in tutto il Vicino Oriente, nell’alleanza strettissima con la Siria, supportando esplicitamente con ogni mezzo l’azione di Hezbollah e Hamas, che frattanto divenivano sempre più (probabilmente sull’esempio mostrato dallo stesso Ahmadinejad) movimenti di liberazione nazionale aperti anche alle componenti patriottiche non islamiste.



    La pagina più brutta, e sicuramente non difendibile (almeno da una prospettiva che non sia quella persiana) è stata la linea politica di coopetizione instaurata con gli angloamericani in Iraq, giocata sulle spoglie del glorioso passato patriottico baathista.

    Gli attuali leader iracheni sono uomini di Teheran, un’intera classe politica che si formava in Iran negli anni ottanta, le milizie Al Badr e la nuova intelligence sono stati addestrati dai pasdaran e Muqtada Al Sadr passa probabilmente la maggior parte del suo tempo a Teheran.



    L’Iran di Ahmadinejad, inoltre, come mostrato dalla recente visita a Teheran di Chavez e come notava un documento del ministero degli esteri israeliano, ha addirittura rafforzato le proprie posizioni in Sud America.






    La vittoria di Ahmadinejad è la vittoria di un capo di stato che è comunque sempre stato leale, fino ad ora, verso la Russia. Dunque in prospettiva, è una vittoria filoeuropea.

    Putin è stato ospitato a Teheran da Ahmadinejad nel corso di una visita definita storica, in quanto dall’epoca di Stalin nessun capo di stato russo era più entrato in Iran; la costruzione della prima centrale nucleare iraniana è stata completata grazie alla Russia e Sergey Kirienko, il leader dell’agenzia atomica Rosatom, ha promesso di recente all’Iran combustile nucleare (non uranio arricchito) per almeno altri dieci anni.

    Da quando si è avuta in Iran la reggenza Ahmadinejad, le forze militari persiane non si sono più fatte coinvolgere nelle strategie geopolitiche angloamericane antirusse quali ad esempio quelle finalizzate alla creazione di “trasversali verdi” in territorio europeo. Durante il recente conflitto russo-georgiano, Ahmadinejad ha plaudito all’azione difensiva russa ed ha denunciato la presenza di moltissimi agenti del Mossad nel Caucaso quali istruttori dell’esercito georgiano e di tutte le forze antirusse ivi operanti.





    Infine: se Ahmadinejad riuscirà ad avere facilmente ragione di questo iniziale tentativo di “rivoluzione velluto” partorita con largo anticipo da strateghi americani che si sta verificando sulle strade di Teheran in questi giorni, si potrebbero aprire degli scenari inaspettati.



    Non si può dire con certezza se risponde al vero quanto denunciava in diverse occasioni la sorella gemella dello shah: cioè che Brzezinski era il reale artefice della rivoluzione khomeinista.

    Allora Brzezinski puntava realmente (e vi riusciva!) a creare una “mezzaluna verde”, formata da regimi islamisti radicali, a ridosso del lato meridionale dell’Urss, per accerchiare Mosca impedendole peraltro l’accesso ai mari caldi.



    Se la versione della sorella dello shah è, a detta di molti, azzardata o infondata, rimane indubbio il fatto che gli angloamericani iniziavano a scaricare lo shah quando – dall’aprile del 1977 almeno, come indicava chiaramente il convegno di Sciraz – il monarca era ormai determinato a far diventare l’Iran da potenza petrolifera una potenza atomica.



    Khomeini viceversa considerava l’ atomica un frutto diabolico dell’Occidente. Con Ahmadinejad l’Iran rivendica oggi nuovamente il suo diritto storico e morale ad essere una potenza nucleare.



    Se si è svolta negli ultimi anni una intensa guerra da parte dell’intelligence israeliana contro elementi di spicco ruotanti verso Teheran (es. Imad Mugnyeh e Mohammed Suleyaman) o contro siti nucleari (settembre 2007) o missilistici (luglio 2007) siriani dove erano impiegati tecnici iraniani, è anche vero che Israele, giunto ai limiti dell’attacco militare, non disponendo mai del semaforo verde e del supporto esplicito di Washington, ha dovuto rinunciare ai suoi propositi. Vediamo ora invece prendere corpo le strategie giudeoamericaniste di cui si è di recente parlato (Cfr. Obama al Cairo. L’unipolarismo giudeoamericanista).



    E’ infatti chiaro che si ha il clan Brzezinski dietro ai tentativi di “rivoluzione vellutata” che, sul modello delle varie rivoluzioni colorate, sta tentando di delegittimare anzitutto all’interno il Presidente Ahmadinejad.



    Vi è quasi certamente la medesima regia dietro i vari attentati verificatisi in Iran negli ultimi mesi nelle zone di confine con il Pakistan e con l’Afghanistan, come a Zahedan.

    D’altra parte, le correnti radicaliste sioniste sembrano voler giocare la carta russa.



    Gli israeliani, sentendosi per la prima volta abbandonati “strategicamente” - già in passato comunque, non a caso, quando Brzezinski era un influente consigliere di Carter, si avevano momenti di tensione ai limiti della rottura tra Usa e Tel Aviv – hanno mandato il loro ministro degli esteri Lieberman a San Pietroburgo per proporre a Putin quegli aerei automatici senza pilota che nel recente conflitto russo-georgiano, in dotazione all’esercito georgiano, hanno abbattuto diversi aerei con pilota russi.

    Una richiesta simile, rivolta a un nemico strategico storico del popolo ebraico (come insegnano Soros e Andrè Glucksmann), come la Russia, denota che il progetto sionista sta correndo disperatamente contro il tempo.



    E in questa partita, elemento da notare, fedele alla sua apparente assenza di strategia, che è, come è risaputo, una scuola storica e militare ben precisa, una strategia priva di strategia, quale volontaria, paziente, esasperazione del momento tattico, la Cina sembra rimanere dietro l’angolo.



    Il tempo, in conclusione, lavora a favore di Ahmadinejad. Se il Presidente iraniano ha già organizzato una solida difesa interna contro le tecniche tipiche, certamente assai aggiornate, delle suddette rivoluzioni colorate e delle destabilizzazioni interne, molto più che contro un eventuale attacco militare, il suo radicale offensivismo strategico continuerà la via della puntuale realizzazione degli obiettivi prefissati.

    Luca Fantini

    Dottore di ricerca in storia della filosofia, collabora con il nostro sito quale consulente riguardo problematiche storico-filosofiche, con particolare attenzione alla questione giudaica

    Link a questa pagina :

    http://www.terrasantalibera.org/Luca...hmadinejad.htm


    documento anche in PDF 156 KB



    NOTE

    [1] Cfr. W. Buchta, Who rules Iran? The structure of Power in the Islamic Republic, Washington 2000.

    [2] R. Guolo, La via dell’Imam. L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Roma-Bari 2007, pag. 113.

    [3] Sia detto brevemente, poiché il discorso non può essere affrontato in questo contesto, ma va precisato che alcuni autori sciiti (fra i quali Kamal Kashani e Haydar Amoli) identificano esplicitamente l’Imam atteso con il Paracleto, la cui venuta è annunciata dal Vangelo di Giovanni a cui essi fanno riferimento. L’avvento dell’Imam-Paracleto inaugurerà il Regno del puro senso spirituale degli archetipi primordiali, e cioè della vera religione che è la perenne walayat. Ecco perché il regno dell’Imam preannuncia la Grande Resurrezione. H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, pag. 85; P. Filippani Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo, Roma 2007, pp. 55 e sgg.

    [4] Mohammad Reza Pahlavi, Risposta alla storia. Il testamento politico e morale dello Shah, Milano 1980, pag. 42.

    [5] F. Sabati, Storia dell’Iran, Milano 2003, pag. 166.
    molto interessante

  5. #5
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