C’è del marcio in Danimarca. O in Italia?
lunedì 30 gennaio 2012 | Massimiliano Smeriglio | Nessun commento



Considerazioni sull’ultimo libro di Pietro Ichino “Inchiesta sul lavoro”.

A dispetto del titolo non è un’inchiesta. Non lo è in senso tecnico. Piuttosto un insieme di domande (la parte migliore del testo) e risposte che ruotano intorno ad un unico grande punto: l’articolo 18 come male assoluto del nostro Paese. Non sembri un’esagerazione, è proprio così. Più della corruzione, della illegalità, dell’assenza di infrastrutture, di interi territori controllati dalla criminalità organizzata potè l’articolo 18 nel dissuadere gli investimenti stranieri nel bel Paese.

Dall’analisi manca del tutto la crisi, la recessione, il milione di lavoratori che andranno a casa nel corso dei prossimi mesi; manca una riflessione seria sulla democrazia sui luoghi di lavoro, sul clima che si respira nei fortini assediati dove il lavoro resiste. Il noto giuslavorista appare aver assunto in tutto e per tutto un punto di vista ideologico, persino un po’ provocatorio e rozzo fondato sulle ragioni dell’impresa. Congedandosi per sempre da quell’approccio al diritto del lavoro come diritto che norma e regola le relazioni tra soggetti dispari, tra ambiti (l’impresa e il lavoro) che hanno diverso peso e potere.

Il professore appare estremamente sensibile alle ragioni dei figli, degli outsider, dei giovani precari. La loro assenza di futuro dipende dai padri, dagli insider e dal cosiddetto job property. Pur specificando che non vi è nessuna prova sulla esattezza di questa equazione, ma solo dati empirici raccolti qua e là, il cuore della sua proposta muove da questo assioma non dimostrato. E muove sulle ali della giustizia facendo una operazione curiosa. Non c’è bisogno di estendere diritti e tutele per vincere la precarietà e riconsegnare alle persone la possibilità di scelta, autonomia e indipendenza. Basta generalizzarela precarietà. Tuttiprecari, tutti licenziabili, tutti uguali, fine del regime duale.

Come si realizza questa straordinaria operazione di equità sociale? Col modello danese. O meglio con la trasfigurazione nostrana di quel modello. Agli analisti più spericolati interessa la possibilità di licenziare in cinque giorni senza troppe storie. A questo si riduce quel modello. A noi invece interessa ragionare sulla organicità di quanto sperimentato in Danimarca. Un intreccio tra welfare universalistico, flessibilità e politiche attive, definito triangolo d’oro. Un contenimento delle tasse sul lavoro. Una forte tassazione sui patrimoni. Un’articolata tutela in uscita dal mercato del lavoro fondata sul sussidio di disoccupazione per quattro anni e sul reddito minimo. Un modello produttivo che ha investito nella produzione energetica da fonti rinnovabili e nella industria meccanica convertita alla realizzazione di pale eoliche. Insomma un intreccio virtuoso, forse un po’ troppo flessibile, che comunque non lascia fuori nessuno. Osservando il nostro malconcio Paese verrebbe da chiedere dove si firma per passare a tale sistema.

Ichino insiste poi su due altri topos della letteratura iperliberista. Il primo è che della ricollocazione della persona licenziata dovrebbe occuparsi l’impresa che lo ha licenziato. E’ un conflitto d’interessi palese nel quale non si capisce bene chi dovrebbe valutare la congruità tra profilo professionale e offerta.

Il secondo è quello che la nuova normativa senza articolo 18 non riguarderebbe i lavoratori già occupati ma solo i nuovi assunti. A meno di pensare all’art 18 come un diritto soggettivo che segue la persona, concetto difficile da dimostrare, la realtà è abbastanza semplice da immaginare. Licenziamenti e riassunzioni definiranno in poco tempo la geografia dei nuovi rapporti di lavoro, tutti fuori dalle tutele. A quel punto non ci sarà più bisogno di abolire il famigerato articolo.

Insomma il cuore della proposta Ichino osserva il Paese dal buco della serratura degli interessi particolari, di un sistema d’impresa incapace d’investire in innovazione e ricerca. Un sistema d’impresa ed una elite che non è in grado di ridefinire la visione, il cosa e come produrre nei prossimi venti anni. Sembra davvero convinto il professor Ichino che se in Italia si produce solola Pandala colpa è della Fiom.

Poi c’è l’indicibile. Ovviamente in filigrana. Svalorizzare il lavoro e la sua rappresentanza sindacale per avere le mani libere. Anche per tornare a dilatare a dismisura l’orario di lavoro. Ma questo nessuno lo dice, semplicemente viene fatto. A Pomigliano e nel resto del Paese.

Massimiliano Smeriglio (responsabile nazionale Economia e Lavoro Sinistra Ecologia e Libertà)

http://www.sinistraecologialiberta.i...a-o-in-italia/