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  1. #111
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura




    Soldati
    Bosco di Courton luglio 1918

    Si sta come
    d’autunno
    sugli alberi
    le foglie






    Si sta come d'autunno / sugli alberi le foglie: riscritti così sono due versi settenari.
    Spezzati, come ha fatto Ungaretti, richiamano il cadere delle foglie dagli alberi.
    Ultima modifica di vanni fucci; 20-12-16 alle 15:43

  2. #112
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    L'ABETE
    fiaba di Hans Christian Andersen

    Lontano, nel bosco, c'era un piccolo abete molto grazioso. Aveva largo spazio, poteva godere il sole, l'aria non mancava e tutt'intorno a lui crescevano molti suoi compagni grandi, abeti e pini; il piccolo abete però era smanioso di crescere; non pensava al sole caldo o all'aria fresca, non gli importava nulla dei bambini dei contadini che gli passavano accanto chiacchierando, quando andavano in cerca di fragole e lamponi; venivano spesso con la ciotola piena di fragole, a volte le fragole le portavano infilate su fili di paglia; si mettevano a sedere accanto al piccolo albero e dicevano:
    << Oh! com'è bello questo albero piccolino! >>
    All'albero però non piaceva per niente sentir dire così.
    L'anno dopo era già cresciuto di un bel nodo e l'anno dopo ancora di un altro nodo anche più lungo, poiché di un abete si può sempre conoscere, a seconda dei nodi che porta sul tronco, quanti anni ha.
    << Oh! magari fossi un albero grande come gli altri! >> sospirava l'alberello. << Allora potrei spandere lontano i miei rami, e dalla mia cima potrei guardare sul mondo! Gli uccelli verrebbero a fare il nido tra le mie foglie, e quando soffia il vento potrei mandare dignitosi saluti, come quegli altri laggiù! >>
    Non traeva alcuna contentezza dal calore del sole, dagli uccelli e dalle nuvole di porpora che mattina e sera gli navigavano sopra.
    Se era d'inverno, e la neve bianchissima scintillava all'intorno, ecco di tanto in tanto sbucar fuori una lepre, che con un salto si andava a sedere proprio sopra l'alberello: "Oh! che seccatura!"
    Ma passarono due inverni, e al terzo, l'albero era ormai così alto che la lepre fu costretta a girargli intorno.
    "Oh! crescere, crescere, diventare alto e vecchio, non è in fondo la cosa più bella su questa terra?" l'albero pensava.
    D'autunno venivano sempre i boscaioli ad abbattere alcuni degli alberi più alti; questo avveniva ogni anno, e il giovane abete che si era fatto bello grande ormai, rabbrividiva a pensarci, perché quegli alberi grandi e stupendi cadevano a terra con un orrendo schianto; poi gli strappavano via i rami, ed essi restavano tutti nudi, così esili e magri che quasi non si riconoscevano più; poi venivano caricati sui carri e i cavalli li conducevano via dal bosco.
    Dove li portavano? quale sorte li aspettava?
    In primavera, quando giunsero la rondine e la cicogna, l'albero domandò loro:
    << Sapete forse dove li hanno portati? non li avete incontrati per caso? >>
    Le rondini non sapevano nulla, ma la cicogna parve riflettere un poco, poi annuì col capo e disse:
    << Mi pare di sì! Di ritorno dall'Egitto ho incontrato molte navi nuove che avevano alberi maestri magnifici; sono sicura che erano loro, odoravano di abete! Potrei anche salutarvi da parte loro! Avevano un portamento molto fiero! >>
    << Oh! fossi anch'io tanto grande da poter viaggiare sul mare! Ma ditemi: com'è questo mare, a che cosa somiglia? >>
    << Sarebbe troppo lungo a spiegarsi! >> disse la cicogna, e se ne andò.
    << Godi la tua giovinezza! >> dissero i raggi del sole << godi delle tue forze e della fresca vita che scorre in te! >>
    Il vento baciò l'albero e la rugiada lo bagnò di lacrime, ma l'abete non capiva.
    Quando si avvicinò il Natale, alberi giovanissimi vennero abbattuti, alberi che non erano neppure alti e grandi come questo abete, il quale non aveva pace, voleva sempre partire; questi alberi giovani che erano per l'appunto i più belli, non vennero però spogliati dei loro rami; furono soltanto caricati sui carri e i cavalli li condussero via dal bosco.
    << Dove andranno quelli? >> chiese l'abete << non sono mica più grandi di me, ce n'era uno anzi molto più piccolo; e perché gli hanno lasciato indosso tutti i rami? dove li portano? >>
    << Lo so io! lo so io! >> cinguettarono i passeri. << Laggiù in città, abbiamo spiato dai vetri delle finestre! lo sappiamo noi dove li portano! non hai un'idea della ricchezza e dello sfarzo che li aspetta! abbiamo spiato dalle finestre, e abbiamo visto che li piantavano nel bel mezzo di una stanza riscaldata e li guarnivano d'ogni sorta di bellissime cose, mele dorate, mostaccioli, giocattoli, e centinaia e centinaia di candeline. >>
    << E dopo? >> domandò l'albero, tremando in tutti i rami. << E dopo? che succede dopo? >>
    << Non abbiamo visto altro, ma era splendido! >>
    "Chissà che io non sia destinato proprio a quella vita brillante!" pensò l'albero, esultando di gioia. "E' anche più bello che andare sul mare! Ah! come soffro di malinconia! Fosse già Natale! ora sono alto e sviluppato come quelli che portarono via l'anno scorso! Oh! fossi già sul carro! fossi già nella stanza riscaldata, tra tutti quegli splendori! E dopo? Oh! certo succederanno cose ancor più belle e straordinarie, se no a che scopo tanti ornamenti? deve proprio succedere qualcosa di grande, una cosa meravigliosa! ma quale? Oh! soffro tanto! ho malinconia! non so neppure io cosa mi capita!"
    << Godi di noi! >> dissero l'aria e la luce del sole << godi della tua fresca giovinezza nella libera foresta! >>
    Ma lui non godeva! Continuava a crescere ed era sempre verde, estate e inverno; era verde cupo; la gente lo guardava e diceva:
    << Che bell'albero! >> e a Natale fu tagliato prima degli altri.
    La scure penetrò profondamente nel midollo e l'albero cadde a terra con un gran sospiro; sentì dolore, e un languore che non gli permetteva di pensare ad alcuna felicità; era triste staccarsi dal suolo, dalla zolla dov'era nato, sapeva bene che non avrebbe rivisto mai, mai più, i cari vecchi compagni, i cespugli e i fiorellini intorno a lui, oh!, forse neppure gli uccelli. Non era davvero lieto il distacco!
    L'albero si riebbe soltanto allorché venne sballato insieme agli altri alberi dentro un cortile mentre un uomo diceva:
    << E' splendido questo! proprio quello che ci serve! >>
    Giunsero allora due domestici in livrea di gala che presero l'abete e lo portarono in una sala ampia e bella. Alle pareti erano appesi dei quadri, sopra la stufa di maiolica c'erano due grandi vasi cinesi con dei leoni sul coperchio; c'erano poltrone a dondolo, divani foderati di seta, bei tavoli con libri illustrati e tanti giocattoli per cento volte cento talleri, almeno così dicevano i bambini. E l'abete venne rimesso in piedi dentro un mastello ricolmo di sabbia; nessuno però poteva capire che era un mastello, perché era tutto avvolto di una stoffa verde e stava in mezzo a un gran tappeto variopinto. Come tremava, l'albero! Cosa sarebbe accaduto? I domestici e le signorine gli giravano intorno per farlo bello; a un ramo legarono delle reticelle ritagliate in carta colorata, e ogni reticella era piena di caramelle; mele e noci dorate pendevano come fossero sbocciate dai rami stessi, e più di cento candeline bianche, rosse e azzurre furono fissate delicatamente ai rami. Bambole che sembravano bambini veri, mai l'albero ne aveva viste di simili, prima d'allora, si dondolavano tra il verde, e sulla vetta fu collocata una grande stella di stagnola d'oro; era meravigliosa!
    << Stasera >> dicevano tutti << stasera lo vedremo in tutto il suo splendore! >>
    "Oh! fosse già sera!" pensava l'albero "se almeno le luci si accendessero subito! cosa accadrà mai? chissà! forse verranno gli alberi del bosco a vedermi! forse voleranno i passeri sulla finestra, forse io metterò le radici e vivrò qui, così addobbato, estate e inverno!"
    Eh, sì! era proprio bene informato! Ma intanto gli era venuto un mal di scorza acuto, e il mal di scorza per un albero è brutto proprio come lo è il mal di testa per noi.
    Vennero accese le candele. Quale splendore, che ricchezza! L'albero fremeva in tutti i rami, al punto che una delle candeline appiccò fuoco al fogliame; che dolore cocente sentì!
    << Dio mio! cos'è successo? >> gridarono le signorine, e si affrettarono a spegnere.
    Ora l'albero non osava neppure più fremere. Che tortura! aveva una paura tremenda di perdere qualcuno dei suoi tesori! era profondamente turbato da tanta ricchezza. A un tratto la porta si spalancò a due battenti e una banda di bambini irruppe nella stanza, quasi volessero addirittura rovesciare l'albero; le persone grandi vennero dietro prudentemente; i piccoli restarono attoniti, ma un attimo solo, e subito ripresero a urlare di gioia, da far tremare tutta la casa; e si misero a saltare intorno all'albero, spiccando, uno dopo l'altro, tutti i doni.
    "Ma che fanno?" pensava l'albero "che cosa succederà?"
    E le candele arsero fino al legno dei rami e una dopo l'altra, a mano a mano che si consumavano, vennero spente. Allora i bambini ebbero il permesso di spogliare l'albero. Oh! si sentì scricchiolare in tutti i rami, quando gli si avventarono addosso!
    Se non fosse stato legato al soffitto con la stella d'oro fissata alla cima, sarebbe precipitato a terra.
    I bimbi ballarono per la stanza tenendo in mano i bei giocattoli; nessuno badava più all'albero, all'infuori della vecchia bambinaia che ficcava il naso tra i rami, ma soltanto per vedere se per caso non ci fosse rimasto ancora un fico secco o una mela.
    << Una storia, una storia! >> gridarono i bambini trascinando verso l'albero un signore piccolo e tondo, e quello venne a sedersi proprio sotto i rami dicendo:
    << Adesso noi siamo nel bosco e anche l'albero farà bene ad ascoltare! Io, però, non racconterò più di una storia. Volete sentire quella di Ivede-Avede, oppure quella di Poldo-Balordo che cadde giù per le scale, e finì col salire sul trono e sposare la principessa? >>
    << Ivede-Avede >> gridarono alcuni. << Poldo-Balordo >> gridarono altri; e tutti facevano un gran baccano; soltanto l'abete restava muto e pensava:
    "E io non conto nulla? Non mi vorranno più?" Aveva contato molto per loro, ma ahimé! la sua parte era finita.
    E l'uomo raccontò di Poldo-Balordo che cadde per le scale e finì col salire sul trono e sposare la principessa, e i bambini batterono le mani e gridarono:
    << Racconta ancora, racconta ancora! >>
    Volevano sentire anche Ivede-Avede, ma dovettero accontentarsi di Poldo-Balordo. L'abete stava tutto pensieroso: mai gli uccelli del bosco avevano raccontato storie di questo genere.
    "Poldo-Balordo cadde per le scale e finì con lo sposare la principessa! così avviene in questo mondo!" pensava l'abete, e credeva che la storia fosse vera, perché chi raccontava era un signore molto per bene. "Eh! chissà! forse anch'io cadrò per le scale e sposerò una principessa!" e si mise a pensare con gioia al giorno dopo, quando l'avrebbero addobbato di nuovo con giocattoli, candeline e frutta dorate.
    "Domani non tremerò!" pensava "voglio proprio godermi il mio splendore! domani potrò ascoltare un'altra volta la storia di Poldo-Balordo e forse anche quella di Ivede-Avede" e l'albero restò immobile e meditabondo tutta la notte.
    Il mattino dopo il domestico e la cameriera entrarono nella stanza.
    "Ora ricomincia la festa!" pensò l'albero; ma quelli lo trascinarono fuori della stanza, su per le scale, in una soffitta, e lo buttarono in un angolo buio, dove non penetrava nemmeno un po' di luce.
    "Che significa questo?" pensava l'albero "cosa mi faranno ascoltare?" Si appoggiò al muro e restò lì a pensare, e pensare: tempo ne aveva a sufficienza, poiché passarono giorni e notti; nessuno veniva lassù, e quando finalmente capitava qualcuno, era soltanto per posare qualche cassetta in un angolo; l'albero era già mezzo nascosto, si sarebbe creduto che l'avessero dimenticato del tutto.
    "Adesso fuori è inverno" pensava l'albero "la terra è dura e coperta di neve, gli uomini non potrebbero piantarmi; è per questo che mi lasciano qui al riparo fino alla prossima primavera! come sono comprensivi! e come sono buoni gli uomini in fondo! Soltanto, se non fosse così buio qui! e se non fossi così disperatamente solo! Neppure un leprotto! Era così carino invece nel bosco, quando c'era la neve, e la lepre mi balzava improvvisamente davanti; sì, anche quando mi saltava sopra; allora però non mi piaceva. Quassù, c'è una tale solitudine!"
    << Pii! pii! >> si udì, e al tempo stesso saltò fuori un topolino; poi ne arrivò subito un altro; entrambi fiutarono l'abete e gli si intrufolarono tra i rami.
    << Che freddo atroce! >> dissero i topolini << se non fosse per il freddo si starebbe così bene, qui! non ti pare, vecchio abete? >>
    << Io non sono per niente vecchio! >> disse l'abete << ne conosco tanti che sono molto più vecchi di me! >>
    << Di dove vieni, tu? >> chiesero i topini << e che cosa sai? >>
    Ora erano tremendamente curiosi:
    << Suvvia, raccontaci del luogo più bello della terra! ci sei stato? sei stato mai nella dispensa, dove i formaggi stanno sui palchetti allineati di sotto ai prosciutti che pendono dal soffitto, e dove si balla sulle candele di sego, e si entra magri e si esce grassi? >>
    << Non conosco quel luogo >> disse l'albero << ma conosco il bosco, dove il sole splende e gli uccelli cantano! >> E raccontò tante cose della sua giovinezza, e quelli ascoltarono con le orecchie tese, e poi dissero:
    << Ma quante cose hai visto, tu! come sei stato felice! >>
    << Io? >> disse l'abete, e rifletté a quel che raccontava. "Sì, in fondo erano tempi proprio divertenti." Poi raccontò della sera di Natale, quando fu addobbato con dolci e candeline.
    << Oh! >> dissero i topolini ammirati << come sei stato felice nella tua vita, vecchio abete! >>
    << Non sono per niente vecchio! >> disse l'albero << è appena il primo inverno, questo, che sto lontano dal bosco! Sono dell'età più bella, soltanto, mi sono arrestato nella crescita! >>
    << Come racconti bene! >> dissero i topolini, e la notte dopo tornarono insieme a quattro altri topolini, i quali vollero anch'essi ascoltare l'albero raccontare, e più raccontava, più l'albero si ricordava di tutto e più pensava: "Erano davvero tempi divertenti! torneranno, però, torneranno! Poldo-Balordo cadde giù per le scale e finì con lo sposare la principessa; forse anch'io sposerò una principessa." Intanto l'abete pensava a una piccola, adorabile betulla che viveva lontano nel bosco e che all'abete appariva come una vera, bella principessa.
    << Chi è Poldo-Balordo? >> chiesero i topolini. Allora l'abete raccontò tutta la fiaba, la ricordava parola per parola; e mancò poco che i topolini, dal gran divertimento, non saltassero in cima all'albero. La notte successiva arrivarono molti altri topolini, e la domenica perfino due ratti; ma quelli dissero che la storia non era divertente, e i topoli ni rimasero male, ma da quel momento anche a loro la fiaba parve molto meno divertente.
    << Lei conosce solo questa storia? >> chiesero i ratti.
    << Solo questa >> rispose l'albero. << La sentii raccontare una sera che fu la più felice della mia vita, ma allora non capivo quanto ero felice! >>
    << E' una storia oltremodo noiosa! non ne conosce una che parli di lardo e candele di sego? o una storia di dispensa? >>
    << No! >> disse l'albero.
    << Allora buonanotte e mille grazie! >> risposero i ratti e si ritirarono nei loro quartieri.
    Anche i topolini infine scomparvero; allora l'albero sospirò:
    "Eppure era assai piacevole quando si mettevano intorno a me, quei topolini vispi, ad ascoltare quello che raccontavo! Ora anche questo è finito! Ma una volta tirato fuori di qui mi voglio ricordare di divertirmi."
    Ma quando? ah, sì! Una mattina presto, allorché venne della gente a rovistare in soffitta; furono spostate delle casse, l'albero fu tirato fuori dall'angolo; a dir la verità lo gettarono alquanto rudemente sul pavimento, e poi subito un domestico lo trascinò verso le scale, dove splendeva la luce del giorno.
    "Ora ricomincia la vita!" pensò l'albero, che sentiva l'aria l'aria fresca e i primi raggi di sole, e si trovò nel cortile.
    Tutto accadde così in fretta che l'albero si scordò completamente di guardare se stesso, c'erano tante cose da vedere. Il cortile confinava con un orto, dove c'erano tutte piante in fiore; le rose rampicanti pendevano fresche e odorose dalla ringhiera; i tigli erano fioriti, le rondini volavano qua e là garrendo:
    << Qvirre-virrevit, è arrivato mio marit! >> ma non era all'abete che si riferivano.
    << Ora voglio vivere! >> esclamò pieno di gioia, e volle spandere ben larghi i suoi rami; ma, ahimé, quelli erano tutti gialli e appassiti; e l'avevano gettato in un angoletto, pieno di ortiche ed erbacce. La stella di carta dorata gli stava ancora sulla cima, e brillava nella chiara luce del sole.
    Nel cortile giocavano alcuni di quegli allegri bambini che la sera di Natale avevano saltato intorno all'albero. Un piccolino arrivò di corsa e strappò la stella d'oro dall'albero.
    << Guardate che cosa c'era ancora su questo vecchio, brutto albero di Natale! >> esclamò, e si mise a pestare sui rami, che scricchiolavano sotto gli stivaletti.
    L'albero guardò quello sfoggio di fiori e di verde nel giardino, guardò se stesso e rimpianse di non essere rimasto nel cantuccio buio su in soffitta; ripensò alla sua fresca giovinezza nel bosco, alla gaia sera di Natale e ai topolini che avevano ascoltato con tanto piacere la fiaba di Poldo-Balordo.
    << Finito! finito! >> disse il povero albero. << Se almeno avessi goduto, quando potevo! finito! finito! >>
    Arrivò il domestico, che tagliò l'albero a piccoli pezzi, ne fece un fascio che divampò con una bella fiammata sotto il grande paiolo; si sentirono allora dei profondi sospiri e ogni sospiro sembrava un piccolo sparo; allora i bambini accorsero e si misero davanti al fuoco, guardandolo fisso e gridando:
    << Pim! pam! >> ma a ogni crepitio che era un sospiro profondo, l'albero pensava a un giorno d'estate nel bosco lontano, o alle notti d'inverno, quando le stelle splendevano nell'aria, e pensava alla sera di Natale e a Poldo-Balordo, l'unica fiaba che aveva udito; ed ecco che l'albero era già consumato!
    I bambini giocavano nel cortile; il più piccolo aveva sul petto una stella d'oro; ora era tutto finito e finito era l'albero, e così anche la storia. Finito, finito, così finiscono tutte le storie!

    La Stamberga dei Lettori

  3. #113
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    Devi dare un po' di reputazione in giro prima di poterla dare di nuovo a vanni fucci.
    ci si rivede, forse.

  4. #114
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    :gluglu: Est! Est!! Est!!!
    di Montefiascone doc :gluglu:

    Storia

    La vicenda legata al nome di questo vino è quanto mai singolare e pittoresca, a metà fra storia e leggenda. Si narra che nell'anno 1111, assieme a Enrico V di Germania e al suo esercito - in marcia verso Roma per ricevere da papa Pasquale II la corona di imperatore del Sacro Romano Impero - vi fosse anche il vescovo Johannes Defuk. Il prelato, intenditore e amante del buon vino, era solito mandare in avanscoperta il suo coppiere Martino, col preciso incarico di scoprire i migliori nettari locali. Qualora l'assaggio avesse rivelato un buon vino, Martino avrebbe dovuto scrivere est - c'è - nei pressi dell'osteria, così che il vescovo, riconosciuto il segnale, avrebbe potuto soddisfare la propria passione; se poi il vino fosse stato particolarmente buono, la scritta doveva essere est est. Ma quando il servo giunse a Montefiascone e degustò il vino locale, ne fu talmente estasiato che decise di lasciare al vescovo un segnale inequivocabile, rafforzato da sei punti esclamativi: Est! Est!! Est!!! Giunto in paese, il vescovo non potè che condividere il giudizio di Martino, fermandosi subito per tre giorni e ritornando a Montefiascone al termine della missione imperiale, rimanendovi fino alla morte, avvenuta, pare, per le grandi bevute.

    Zona di produzione

    Questo vino si produce nei comuni che circondano il lago di Bolsena, a Montefiascone, Bolsena, San Lorenzo Nuovo, Grotte di Castro e Gradoli.

    Vitigni e caratteristiche organolettiche


    L'Est! Est!! Est!!! di Montefiascone doc deve essere prodotto con uve provenienti dai seguenti vitigni: Trebbiano toscano, per almeno il 50% e non più del 65%, Trebbiano giallo, in percentuale variabile dal 25% al 40%, e Malvasia bianca lunga o Malvasia del Lazio, per un apporto oscillante fra il 10% e il 20%. Il disciplinare prevede la possibilità di vinificazione da altri vitigni, puchè di analogo colore, non aromatici e in misura non superiore al 15%. Il vino si presenta di colore giallo paglierino, brillante e con riflessi verdognoli; il profumo è fine, leggermente aromatico, con note floreali e fruttate; in bocca può essere secco, abboccato o amabile, con un retrogusto leggermente amarognolo, comunque armonico e persistente. Il grado alcolico minimo è del 10,5% e dell'11% per l'Est! Est!! Est!!! di Montefiascone Classico. Esiste anche la versione spumante, con prufumi più delicati, un sapore più fresco e aromatico e un titolo alcolometrico minimo pari all'11%.

    Accostamenti a tavola
    L'Est! Est!! Est!!! di Montefiascone doc è un ottimo accompagnamento per antipasti freddi, risotti delicati, piatti a base di pesce, carni bianche, frittate, verdure e mozzarella di bufala. Da buon vino laziale è perfetto da abbinare a un piatto tipico della cucina romana: gli spaghetti cacio e pepe.

    Curiosità
    Forse non tutti sanno che il vescovo tedesco che accompagnava Enrico V, e la cui vicenda è indissolubilmente legata a questo vino, è sepolto a Montefiascone nella chiesa di San Flaviano, dove ancora si legge sulla lapide l'iscrizione: "Per il troppo EST! qui giace morto il mio signore Johannes Defuk." Del resto, il prelato si era talmente appassionato all'Est! Est!! Est!!! di Montefiascone che, in cambio dell'ospitalità ricevuta dalla cittadinanza, lasciò in eredità al paese una somma di 24mila scudi: a condizione che a ogni anniversario della sua morte fosse versata sulla sua tomba una botticella del vino tanto amato.

    :gluglu: PROSIT :gluglu:

    Est! Est!! Est!!! di Montefiascone doc - Vino Lazio Vino bianco

  5. #115
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura


    Una deliziosa novella sentimentale di ambiente familiare che ci è narrata da uno dei più famosi poeti del tempo di Augusto, Ovidio (Publio Ovidio Nasone, di Sulmona – 43 a.C. – 18 d.C.) nel libro VIII delle Metamorfosi. Le figure dei due arzilli vecchietti hanno un particolare risalto nella pia leggenda, che s’immagina narrata da un uomo saggio e posato.



    FILEMONE E BAUCI, C.1500
    Bartolomeo Suardi Bramantino

    Si racconta che un tempo, - quando sull’Olimpo vivevano gli dei dell’antica Grecia – Giove volle discendere sulla terra per rendersi conto di come gli uomini si comportassero. Per questo, preso l’aspetto di un uomo qualunque, egli e il figlio Mercurio, il quale per l’occasione si era tolto dai piedi le ali, si diedero a percorrere le vie della Grecia.
    I due pellegrini, così travestiti, giunsero in Frigia senza farsi riconoscere da nessuno. Qui, desiderosi di trovare un rifugio dove riposarsi, si misero a picchiare di porta in porta chiedendo ospitalità. Bussarono così a innumerevoli palazzi, ma dovunque furono scacciati e trovarono le porte serrate a catenaccio.
    Giunsero finalmente ad un povera capanna ricoperta di canne e di erbe palustri, dove abitavano due vecchietti della medesima età, la pia Bauci e il buon Filemone. In quella capanna Filemone e Bauci avevano vissuto insieme fin dalla giovinezza; in quella erano invecchiati senza vergognarsi della loro povertà e sopportandola tranquillamente, tanto da non sentirne neppure il peso.
    Nell’umile dimora era inutile chiedere quale fosse il servo e quale il padrone: vi erano due sole persone, e tutte e due comandavano e ubbidivano a vicenda. Qui Giove e Mercurio trovarono pronta cordiale accoglienza.
    Non appena furono entrati, chinando la testa per non batterla allo stipite della porta troppo bassa, il vecchio li invitò a riposarsi porgendo loro una panca sulla quale l’accorta Bauci aveva steso un rustico tappeto. Quindi la buona vecchierella allargò con le mani le ceneri tiepide del focolare e, per riattizzare il fuoco del giorno prima, lo alimentò con foglie e scorze secche, e ne fece sprizzare la fiamma soffiandovi sopra con quel poco fiato che ancora le rimaneva. Prese poi legna e rami di pino ben secchi e li spezzò per metterli sotto al piccolo paiolo; poi si diede a mondare gli erbaggi raccolti dal marito nell’orto coltivato con molto amore. L’altro con un’asta forcuta tirò giù un coscio di maiale affumicato rimasto appeso per lungo tempo alla nera trave, ne tagliò una fetta sottile e la mise a cuocere nell’acqua bollente.
    Frattanto ingannavano il tempo discorrendo.
    Infine il buon vecchio, spiccato da un chiodo un bacile, lo riempì d’acqua tiepida e l’offerse agli ospiti perché potessero lavarsi i piedi. Quindi gli dei si adagiarono su un povero lettuccio di legno di salice, ma con un materasso di soffice alga, sul quale era stata distesa la coperta dei giorni festivi; anche questa però era una coperta vecchia e misera adatta a un letto di salice.
    La vecchietta, serratasi la veste alla vita, cominciò a preparare la tavola. Era una tavola a tre gambe, e dovette rincalzarla perché una gamba era più corta. Quando l’ebbe ben pareggiata, ne strofinò il piano con la menta fresca e vi servì in piatti di coccio le olive sacre alla casta Minerva, le corniole dell’autunno conservate in salamoia, invidia e rafano, formaggio fresco, uova assodate nella cenere calda. Dopo fu portato in tavola un rozzo cratere, anch’esso di coccio, e coppe di faggio spalmate, nel cavo, di bionda cera.
    Così tolte via dalla mensa le vivande, viene mesciuto nella coppa il vinello asprigno di quell’anno medesimo, che poi, messo un poco in disparte, lascia posto alle frutta. Ecco la noce, ecco i fichi secchi insieme ai datteri rugosi, e prugne, e mele odorose negli ampi canestri, ed uva colta dalle viti rosseggianti di grappoli. In mezzo sta un candido favo ricolmo di miele. E tutto è condito con un piatto di buon viso.
    Senonchè durante il pasto, ogni volta che il cratere rimaneva vuoto, lo vedevano spontaneamente riempirsi, come se il vino sorgesse su dal fondo.
    Meravigliati per una cosa tanto straordinaria, Filemone e Bauci furon presi da timore, e levando le mani al cielo invocarono perdono per i rustici cibi e per la mancanza d’ogni apparato.
    Possedevano una sola oca, che faceva da guardia alla povera capanna, e i due vecchi si preparavano ad ucciderla in onore degli dei loro ospiti. L’oca, svelta, svolazzando qua e là, riesce a lungo a sfuggire ai due lenti inseguitori, e finalmente trova rifugio in grembo agli dei, che la proteggono e la salvano.
    "Noi siamo proprio dei" dissero "e i vostri empi vicini subiranno la punizione che hanno meritato; voi invece rimarrete immuni dal flagello. Abbandonate dunque la vostra casa e seguiteci sulla cima del monte".
    I vecchietti ubbidirono, e, preceduti dagli dei, appoggiandosi ai loro bastoncelli, si sforzarono quanto lo permetteva la tarda età, di salir su lentamente per l’erto pendio.
    Erano lontani dalla cima quanto un tiro di freccia, allorchè, volgendo gli occhi al basso, scorsero tutte le cose dintorno sommerse da una palude; soltanto la loro capanna era salva.
    Mentre essi stupiti compiangevano la sorte dei vicini, la vecchia capanna, piccola perfino per due soli padroni, ecco si converte in un tempio: i pali a forcella di sostegno al tetto si trasformano in colonne, le stoppie diventano d’oro, il pavimento si copre di marmo, le porte appaiono magnificamente scolpite.
    Allora il figlio di Saturno parlò con benigna voce: "Ditemi ora, o buoni vecchi sposi, degni l’uno dell’altro, che cosa desiderate".
    Scambiate poche parole con Bauci, Filemone rispose: "Chiediamo di essere sacerdoti e di poter custodire il vostro tempio; e siccome abbiamo trascorso insieme d’amore e d’accordo tutta la vita, desideriamo di morire nel medesimo tempo, cosicchè io non debba vedere il sepolcro della mia sposa, nè essere da lei sepolto."
    I loro voti vennero accolti, e i due vecchi diventarono custodi del tempio.
    Giunti al termine della vita, si trovarono per caso sui gradini del tempio a narrarne la storia ai visitatori. A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter fronde anch’esse. Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano parole di saluto, fino a quando fu loro possibile.
    "Addio, sposo mio" si dissero a un tempo. I quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia.
    Ancora oggi, in quel medesimo luogo, i cittadini di Cibra indicano i due tronchi, l’uno accanto all’altro, nati dai due corpi.
    Queste cose mi furono raccontate da persone degne di fede. Io stesso vidi poi le corone votive appese agli alberi; e mentre vi appendevo anch’io fresche ghirlande, dissi: "Gli uomini pii sono cari agli dei, e coloro che li onorano vengono onorati."


    FILEMONE E BAUCI
    Ultima modifica di vanni fucci; 26-02-12 alle 19:53

  6. #116
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    Colloqui con gli alberi

    Te che solinghe balze e mesti piani
    ombri, o quercia pensosa, io più non amo,
    poi che cedesti al capo de gl’insani
    eversor di cittadi il mite ramo.

    Né te, lauro infecondo, ammiro o bramo,
    che menti e insulti, o che i tuoi verdi e strani
    orgogli accampi in mezzo al verno gramo
    o in fronte a calvi imperador romani.

    Amo te, vite, che tra bruni sassi
    pampinea ridi, ed a me pia maturi
    il sapiente de la vita oblio.

    Ma più onoro l’abete: ei fra quattr’assi,
    nitida bara, chiuda al fin li oscuri
    del mio pensier tumulti e il van desio.

    Giosuè Carducci
    Ultima modifica di vanni fucci; 26-02-12 alle 20:59

  7. #117
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    è dagli alberi che si ricava la carta!


    CARTA
    Secondo i cinesi, la carta fu inventata nel 105 DC da un funzionario dell'imperatore, ma recenti ritrovamenti archeologici hanno dimostrato che la carta era già usata in Cina almeno duecento anni prima. I cinesi usarono grandi quantità di carta fabbricata a partire da stracci e da fibre vegetali ricavate da canapa, bambù, gelso, salice, etc. Essi usarono la carta anche per fabbricare ventagli, cappelli, vestiti ed altri oggetti di uso comune. L'uso della carta venne diffuso da monaci buddisti in molti paesi orientali.

    Nel 751 DC, gli arabi sconfissero i cinesi in battaglia. Fra i prigionieri, c'erano anche degli operai di cartiere che insegnarono la tecnica di fabbricazione della carta agli arabi. Poco tempo dopo, Samarcanda divenne un importante centro di produzione della carta. Come materia prima, gli arabi usavano stracci di lino e canapa. Qualche secolo dopo, l'arte della fabbricazione della carta arrivò in Egitto, poi in Marocco e da qui in Spagna. La prima cartiera spagnola fu aperta nel 1009.
    Nel 1250, l'Italia diventò il maggiore produttore di carta, che veniva esportata in molti paesi europei. Per rendere la carta meno assorbente, gli arabi usavano colle di origine vegetale, ma questa carta veniva aggredita da muffe e si degradava rapidamente. Usando colle di origine animale, gli italiani migliorarono molto la qualità della carta e la sua durata potè raggiungere numerosi secoli. Si conoscono infatti documenti di carta ancora in ottimo stato dopo oltre 700 anni dalla loro produzione. Un importante centro italiano per la fabbricazione della carta fu Fabriano, dove fu inventata la filigrana. In circa tre secoli, dall'Italia la tecnica della fabbricazione della carta si diffuse in tutta l'Europa e poi nelle Americhe.
    All'inizio, gli arabi e gli europei fabbricavano la carta partendo da stracci. Man mano che il tempo passava, la richiesta di carta aumentava rapidamente, tanto che ad un certo punto, gli stracci non bastarono più. Nella ricerca di un sostituto degli stracci, nel 1719 un francese, che aveva osservato le vespe mentre costruivano il loro nido, suggerì di provare ad usare il legno per fabbricare la carta. Le prove che vennero fatte ebbero esito positivo e da allora il legno è diventato la principale materia prima per la fabbricazione della carta.
    Gli stracci o il legno venivano inseriti in mortai e battuti da grossi pestelli azionati da ruote idrauliche per separare le singole fibre di cellulosa l'una dall'altra. Quando l'impasto di fibre era pronto, gli operai lo versavano in vasche piene d'acqua. Quindi immergevano degli appositi setacci nelle vasche e li estraevano raccogliendo una parte della sospensione di fibre. Durante l'estrazione, muovevano il setaccio per rendere uniforme lo strato di fibre. Poi essi lasciavano scolare via l'acqua, quindi depositavano lo strato di fibre su di un feltro che veniva posto su una pila di altri fogli e feltri. Questa pila veniva torchiata per spremerne via l'acqua. Alla fine, il foglio di carta veniva appeso ad asciugare.
    All'inizio del 1800, i francesi e gli inglesi cominciarono a costruire macchine per la produzione continua di carta. Le macchine continue sono fornite di un setaccio a forma di tappeto mobile che preleva uno strato continuo di fibre. Durante il suo cammino, il nastro di carta in via di formazione viene addizionato di colle, cariche minerali e di altre sostanze, quindi viene spremuto dall'acqua in eccesso, asciugato e rullato. Alla fine, viene raccolto in grandi bobine ed inviato alle fabbriche che lo trasformano in giornali, quaderni e numerosi altri prodotti. La fabbricazione a mano della carta è ancora praticata per produrre fogli pregiati o per uso artistico, ma rappresenta una quantità minima della carta prodotta nel mondo.
    La carta moderna è dunque prodotta principalmente a partire dal legno ed è costituita da numerosissime fibre di cellulosa che sono tenute insieme da collanti. La carta può subire trattamenti speciali per renderla adatta all'impiego al quale è destinata. Pensate per esempio alle carte usate per disegno e per pittura all'acquarello, le quali devono avere uno spessore ben definito, una certa rugosità superficiale, una certa assorbenza, etc. E' possibile ottenere carta anche senza aggiungere colle, ma si ottiene una carta molto assorbente. Per renderla adatta alla scrittura e alla stampa, occorre ridurne l'assorbimento dell'inchiostro che altrimenti spanderebbe. A tale scopo, la carta viene collata, viene cioè aggiunta di colle animali o sintetiche. Per renderla meno porosa, più compatta e perfino lucida, la carta viene patinata. La patinatura consiste nell'aggiungere finissime polveri minerali quali il caolino, carbonato di calcio, talco, farina fossile ed un opportuno legante quale caseina o altre colle. Il foglio passa fra rulli che lo premono con forza (calandratura) e ne esce lucido.
    Spesso, la gente usa fazzoletti di carta per pulire le lenti degli occhiali o della macchina fotografica, ma la presenza di polveri minerali rende la carta normale inadatta a questo scopo. Infatti, strofinando sulle delicate superfici ottiche, queste particelle minerali provocherebbero microscopiche striature che ne rovinerebbero le caratteristiche. Per la pulizia delle lenti, si possono usare speciali carte prodotte apposta per questo scopo e che sono composte di pura cellulosa.
    Purtroppo, certi moderni processi di fabbricazione riducono molto la durata della carta, che nel giro di pochi anni tende ad ingiallire e ad infragilirsi. Esistono processi che invece producono carta capace di durare secoli, mantenendosi in ottimo stato.
    L'importanza dell'invenzione della carta può essere capita meglio se si pensa che prima della sua comparsa, per fabbricare un libro in pergamena erano necessarie decine o centinaia di pelli. Per la sua uniformità nello spessore, la carta rese possibile anche l'invenzione della stampa. Prima dell'avvento della stampa, i libri dovevano essere scritti a mano. Insieme, queste due innovazioni ridussero drasticamente il costo dei libri e contribuirono moltissimo alla diffusione della cultura nel mondo.
    ci si rivede, forse.

  8. #118
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura


    Il Pioppo

    Sotto la brina il pioppo è di cristallo:
    se lo tocchi l'infrangi; e piomba al suolo
    con tintinnio di frantumate lastre.
    Lo diresti un altissimo zampillo
    che un incanto invetrò; ma dentro è vivo,
    e lo strazia desìo di primavera.
    « Oh, mai più tornerà la primavera,
    pensa. - Mai più. Son vecchio.
    Non mi resta foglia sui rami,
    uccello che mi canti
    in vetta, linfa nelle vene, strido
    di cicala sul tronco. E ciascun giorno
    che passa, accresce il gelo; e già mi sento
    vicino a morte ».

    Ma un mattino, il sole
    rompe l'algore: scioglie in molle pianto
    sugli stecchiti rami il vel di ghiaccio:
    torna la linfa e il verde: giovinezza
    ritorna, e n'ha sì gran sorpresa il pioppo
    ch'ogni sua foglia, anche se tace il vento,
    trema di gioia: anche la notte, in sogno,
    trema di gioia in ogni foglia il pioppo.

    Ada Negri
    Ultima modifica di vanni fucci; 26-02-12 alle 20:59

  9. #119
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    ll Tu Bishvat, il “Capodanno degli alberi”

    I - L'origine di Tu Bishvat
    II - I significati simbolici
    III - Come ricordare Tu Bishvat




    Spiegazione 1:
    Ricordiamo che Hillel e i suoi discepoli dichiaravano Chamishá Assar Bi-Shevat un giorno semi-festivo e lo chiamano Rosh Hashaná La-Ilanot (Capodanno degli Álberi), perché in Israele era in questo giorno che terminavano le piogge annuali e quindi iniziava un nuovo ciclo di crescita degli alberi.

    Spiegazione 2
    Anticamente, la "decima" dei frutti colti durante l'anno doveva essere portata come offerta al Tempio. Per effetto del suo calcolo, il 15° giorno del mese di Shevat veniva stabilito come inizio dell'anno fiscale. È da questo che deriva l'usanza della commemorazione del Tu (15) (*) B'shevat come "Il Capodanno degli alberi"

    L’origine di Tu-bishvat

    Anche quest’anno, all’inizio dell’estate, dovremo, nostro malgrado, fare la nostra dichiarazione dei redditi. E lo faremo raccogliendo tutta la documentazione di quanto abbiamo guadagnato e speso nell’anno precedente, dal 1 gennaio al 31 dicembre. Ciò che sta prima e dopo queste date non conta. Conta solo l’anno fiscale, che comincia e finisce in momenti precisi.
    Per quanto possa sembrare strano, la ricorrenza del Tu-bishvat, 15 del mese di Shevat, è strettamente legata al concetto di anno fiscale. Anche nell’antica società ebraica si pagavano le tasse, e questo certo non sorprende. Il calendario era diviso in cicli di sette anni, e in ogni anno bisognava prelevare una “decima” sul prodotto agricolo. La “prima decima” spettava ogni anno ai Leviti. Sul prodotto che rimaneva dopo il prelievo si applica una seconda decima; nel primo, secondo, quarto e quinto anno questa decima rimaneva al produttore, ma con l’obbligo di consumarla (direttamente o nel suo equivalente valore economico) a Gerusalemme; nel terzo e sesto anno veniva invece versata ai poveri. Si noti per inciso come l’entità di queste tasse fosse molto più modesta di quelle che ci impone uno stato moderno.
    Era quindi importante stabilire a quale anno appartenesse un certo prodotto; se ad esempio era del secondo anno, rimaneva al produttore con l’obbligo di portarlo a Gerusalemme, se era dell’anno dopo doveva essere dato ai poveri. Ma come si faceva a valutare se un prodotto era di un certo anno? E ancora: la Torà proibisce di mangiare i frutti prodotti nei primi tre anni di vita di un albero (‘orlà): ma come si calcola l’età di un albero e di un frutto? È necessario stabilire delle date di inizio dell’anno, che sono strettamente legate al ciclo agricolo. Come capodanno per la frutta prodotta dall’albero viene considerato il momento d’inizio della formazione di gemme, dopo la pausa invernale. Ogni frutto che è nato (o che ha iniziato a maturare, secondo alcune opinioni) prima della data stabilita come capodanno, appartiene all’anno precedente, se è nato dopo è dell’anno in corso.
    Nel clima della terra d’Israele il capodanno (fiscale) degli alberi è strettamente legato al momento in cui la maggior parte delle precipitazioni piovose (che avvengono quasi totalmente in autunno e in inverno) sono passate. La Mishnà (la prima del trattato di Rosh haShanà) indica quali sono i diversi capi d’anno del calendario ebraico e riferisce, a proposito degli alberi, una divergenza tra la scuola di Shammai e quella di Hillel; i primi fissano il capodanno al 1 di Shevat, i secondi al 15. La regola, come sappiamo , segue l’opinione di Hillel, quindi si inizia il 15. Ma se si tratta di una data legata al flusso delle piogge, è difficile capire i motivi del dissenso tra le due scuole. Uno studio recente, basato sui dati attuali di piovosità - che si presume non si discostino molto da quelli di duemila anni fa -, spiega che in Eretz Israel esistono fasce climatiche molto differenti; in tutta la pianura costiera le piogge maggiori terminano alla data fissata da Shammai, mentre nelle colline della Giudea e a Gerusalemme in particolare la data è spostata avanti di 15 giorni. Questo significa in pratica che noi fissiamo il calendario fiscale degli alberi in base al clima di Gerusalemme.
    Quando si parla di tasse e ancora di più quando si pagano non si è molto allegri e in linea di principio non si capisce perché, dopo tutto, Tu-bishvat sia diventata una piccola festa. Per questo ci sono diverse spiegazioni. Intanto le tasse non si pagano a Tu-bishvat, ma a raccolto avvenuto; quando si celebra un capodanno, quale che sia, si sta in allegria e non si pensa che è l’inizio e la fine di un anno fiscale, piuttosto ci si augura che il raccolto o il guadagno dell’anno che inizia sia migliore di quello dell’anno precedente.
    A parte questo, la storia della celebrazione del Tu-bishvat mostra una certa evoluzione e indica che c’è voluto molto tempo prima che si creassero modi speciali di ricordare e festeggiare questo giorno. Come festa minore è sempre stato un giorno in cui il lavoro è permesso, ma sono proibite alcune manifestazioni di tristezza, come le orazioni funebri o la lettura del tachannun. Ma c’è voluto molto tempo per arrivare a forme di celebrazione attiva, e in questo è stato determinante il contributo dei cabalisti di Safed, nel XVI secolo. L’uso più semplice e antico, probabilmente risalente all’alto medioevo, e ormai diffuso in tutto il mondo, è quello di mangiare in questo giorno frutta di tipi diversi, in particolare i prodotti dell’albero per cui nella Torà è celebrata la Terra d’Israele: uva, fichi, melograni, olive, datteri; oltre a questi altri frutti menzionati nella Bibbia, come mandorle, pistacchi, noci, tappuchim (che nella Bibbia non sono le mele, come si ritiene comunemente e come oggi si indica nell’ebraico moderno, ma sono agrumi), e poi ogni altro tipo di frutto dell’albero.
    Un rito vero e proprio, risalente almeno agli inizi del XVIII secolo è documentato per la prima volta nell’opera cabalistica Chemdat Yamim, e consiste in una specie di Seder (o Tikkùn) in cui si alterna il consumo di frutta diversa, in un ordine speciale, e di vino (bianco e rosso), alla lettura e al commento di brani biblici, rabbinici e della letteratura mistica. Questo rito, da tempo dimenticato in Italia, è stato reintrodotto di recente da Rav Shalom Bahbout che ha anche curato la stampa del testo con traduzione italiana e commenti: ne sono uscite già due edizioni, la prima nel 5746 (1986): Seder Tu Bishvat per il Capodanno degli alberi, la seconda (edizioni Lamed) nel 5760 (2000); il nostro pubblico ha accolto con piacere questa reintroduzione e ormai il Seder si fa in molte famiglie.
    Altri modi di ricordare questo giorno sono cerimonie di piantagione di alberi; sono iniziate in Eretz Israel nei primi decenni del secolo scorso, come testimonianza di attaccamento alla terra e all’importanza della ripresa della vita agricola, e della riforestazione in particolare. Forse non è stato estraneo un influsso di cultura americana (arbor day), ma in ogni caso hanno avuto la prevalenza nella società ebraica i valori positivi specificamente interni, collegati al rapporto con Eretz Israel, la sua ricostruzione, e l’importanza tradizionale degli alberi, specialmente quelli da frutta. Per educare a questi valori si usa in molti luoghi anche fuori da Eretz Israel di piantare simbolicamente un albero a Tu-bishvat.

    I significati simbolici:
    Ricordando il Tu-bishvat vengono richiamate e sottolineate alcune idee molto importanti nella coscienza ebraica.
    Il rispetto della creazione e del Creatore: La natura che ci circonda viene vista come un’opera buona e utile, da rispettare, da coltivare, da mantenere e non distruggere; viene esaltata l’opera del Creatore, nei cui confronti viene espressa la gratitudine per i doni molteplici e diversi che ci elargisce.
    Il rapporto speciale con la Terra d’Israele e della sua capitale Gerusalemme: Il legame del nostro popolo con la sua terra non è mai venuto meno, e per noi ha un significato sacro, anche dopo millenni di distacco traumatico, ricordare quando piove e quando finisce di piovere in quella terra, quando gli alberi fioriscono e quale frutta producono. Si rivendica il diritto a quella terra anche mantenendo un rapporto speciale con il suo ciclo agricolo e i suoi prodotti. Ed è una rivendicazione pacifica e costruttiva, portatrice di bene ed esemplare per tutto il mondo. La tradizione ci insegna che quella terra può fiorire solo nelle nostre mani, e di questo siamo testimoni nella nostra epoca.
    La solidarietà sociale: il ricordo delle antiche forme di tassazione non è quello delle asprezze fiscali, ma quello di un sistema in cui devono esistere compensi e ridistribuzione della ricchezza.
    La riflessione sulla natura dell’uomo: l’uomo come creatura è una specie di albero rovesciato (con le radici in alto). Questa identità simbolica propone una riflessione sulle origini dell’uomo, sulla sua dipendenza dall’alto nelle risorse naturali e spirituali, sulla sua potenzialità produttiva di frutti buoni e utili, sulla sua forza e sulla sua debolezza, sul suo destino.
    La responsabilità: la storia dell’umanità in questo mondo comincia dalla colpa di Adamo ed Eva, che mangiano un frutto proibito. Mangiare ritualmente della frutta fa parte di un processo di presa di coscienza di responsabilità e di riparazione.
    Il rapporto con le realtà nascoste: la mistica ebraica parla delle realtà a noi invisibili, che spesso paragona ad un albero, come paragona le diverse forme di frutta (buccia commestibile o no, nucleo duro o morbido ecc.) ai simboli dei mondi diversi. La “buccia” (qelippà) è anche simbolo del male. Per questo i cabalisti propongono un percorso simbolico tra le diverse specie di frutta e i colori del vino, suggerendo un viaggio tra i mondi diversi, tra la Giustizia e la Misericordia, con l’intenzione di contribuire a riparare (tikkùn) il mondo visibile dove viviamo. Sono messaggi e insegnamenti che per essere compresi richiedono conoscenze e sensibilità speciali, ma che non possono essere trascurati nella ricchezza di simboli che questo giorno propone alla comunità ebraica.

    Come ricordare Tu-bishvat:
    chi lo desidera cerchi il testo del Seder, reperibile in libreria, e lo segua procurandosi tutti gli ingredienti necessari (vini e frutta), o si unisca ad amici che già sono organizzati per farlo.
    In ogni caso non si trascuri la tradizione di mangiare frutta di specie diverse, almeno in un pasto della giornata. È importante mangiare e benedire. Quando si mangia frutta, prima si recita la benedizione borè perì ha’etz, (Creatore del frutto dell’albero) che in questo momento assume un significato speciale. La benedizione si recita anche se si mangia frutta durante il pasto, e si è già detto l’hamotzì. Dopo aver mangiato, se il pasto comprendeva il pane, con la birkat hamazon si esce d’obbligo. Chi invece ha mangiato solo frutta recita alla fine una benedizione speciale: ‘al ha’etz we’al perì ha’etz ecc. per uva, fichi, melograno, olive datteri; borè nefashòt per tutte le altre (i testi sono stampati nelle tefillot e nei comuni birkhonim).
    Riccardo Di Segni
    ______________________
    Fonte: torah.it, il sito dedicato allo studio della Torah (Tor, Pentateuco, Antico Testamento)

    Nota della Redazione LnR:
    (*) Richiamiamo l'attenzione sulla costruzione ebraica del numero 15, ricavato secondo il valore numerico posseduto dalle lettere. Esso dovrebbe essere composto dalla lettera iod (valore numerico = 10) e dalla lettera he (valore numerico = 5) che, insieme: rappresentano l'abbreviazione del Nome, così com'è indicato nel Tetragramma ; è per questo che, per rispetto al Nome, il numero 15 viene composto da 9 + 6, e quindi teth e vav (tu). La lettura, da destra verso sinistra.
    Riccardo Di Segni su Tu-bishvat Il Capodanno degli alberi

    N.b. quest'anno il Tu-bishvat è stato mercoledì 8 febbraio.


  10. #120
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    Predefinito Re: Alberi, storia e letteratura

    La parte iniziale del De Monarchia di Dante Alighieri:

    Gli uomini tutti, cui la natura superiore ha infuso l'impulso ad amare la verità, sembrano dare il massimo valore al fatto di lavorare per i posteri, onde questi ricavino un arricchimento dalle loro fatiche, così come essi stessi sono stati arricchiti dal lavoro degli antichi. Stia quindi pur certo di aver mancato al proprio dovere colui che, dopo aver fruito di tanti insegnamenti forniti dalla società, non si cura poi a sua volta di recare qualche contributo al bene comune: egli infatti non è un «albero che lungo il corso delle acque porta frutti nella sua stagione», ma piuttosto è una voragine perniciosa che ingoia sempre senza mai restituire quanto ha ingoiato. Perciò, ripensando spesso fra me queste cose e non volendo un giorno essere tacciato di aver colpevolmente sotterrato il mio talento, desidero non solo accrescere la mia cultura, ma anche portare frutti per il bene pubblico, dimostrando delle verità che altri non hanno mai affrontato. Quale frutto infatti arrecherebbe chi volesse dimostrare di nuovo un teorema di Euclide, oppure chi cercasse di ridefinire la felicità, già chiarita da Aristotele, o riprendesse a difendere la vecchiaia, già difesa da Cicerone? Decisamente nessuno, anzi tali noiose e superflue ripetizioni non arrecherebbero che fastidio. Siccome poi, tra le altre verità nascoste ma utili, quella relativa alla monarchia terrena è la più utile e la più nascosta e non è stata affrontata da nessuno, in quanto non offre la prospettiva di un guadagno immediato, mi sono proposto di strappare tale verità dai suoi nascondigli, nell'intento sia di rendere le mie laboriose veglie utili al mondo, e sia anche di riportare per primo, a mia gloria, la palma di una così nobile impresa. Certamente affronto un'opera ardua e superiore alle mie forze, ma confido non tanto nelle mie capacità, quanto nella luce di quel Dispensatore «che dà a tutti copiosamente senza rinfacciare mai».
    ci si rivede, forse.

 

 
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