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Discussione: Scrittori conservatori

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    La guerra dei 50 anni (della sinistra) contro l’antimoderno JRR Tolkien
    Gianfranco de Turris
    La guerra di Tolkien.....vale a dire la guerra ideologica che da mezzo secolo la nostra Sinistra, sotto vari camuffamenti, conduce contro il grande scrittore e la sua opera. Guerra che ha due fasi opposte e complementari spesso denunciate e sempre rimosse, la prima volta ad escluderlo per principio, la seconda volta a includerlo manipolandolo.
    La prima scoppio' subito, appena l’editore Rusconi pubblico' i tre tomi del romanzo tutti in unvolume nel 1970. L’intellettualità impegnata, con in testa Umberto Eco, respinse compatto Il Signore degli Anelli e il suo autore definendoli reazionari, conservatori, oscurantisti e, ça va sans dire, fascisti: per le tesi espresse, per l’ambientazione, per i personaggi, ma anche per la connotazione che veniva data all’editore ed ai curatori italiani. Tolkien divenne un vero tabù e la sua opera era letteralmente proibita: nelle sezioni della Fgci e del Pci era vietato leggerla, come poi alcuni hanno apertamente confessato (tra essi Oliviero Beha, se ricordo bene). Tutto questo è rimosso dalla attuale “Sinistra tolkieniana”, non viene mai ricordato quasi non fosse avvenuto, ma carta canta: basta leggere il libro di Oronzo Cilli Tolkien e l’Italia (il Cerchio, 2017) e la mia presentazione de La vita di J.R.R.Tolkien di H. Carpenter (Ares, 1990) dove tutto viene precisamente citato. L’ipocrisia dei compagni si scontra con la realtà dei fatti.
    Tolkien icona della sinistra?
    Unico Paese al mondo in cui avvenne questo scandalo. Dopo oltre trent’anni si apre la seconda fase. La guerra per recuperare a sinistra Tolkien. Il successo della trilogia filmica di Jackson (201-2003) fu il primo svegliarino per una generazione di neocomunisti successiva alla cariatidi intellettuali progressiste degli anni Settanta. Poi nel 2004 spunta un talo Federico Guglielmi (che ama definirsi Wu Ming alla Quarta, ma più noto come il Censore Bolognese) che suggestionato dal film scrive un romanzo che falsifica la figura di Tolkien e poco dopo inizia a prendersela con le interpretazioni “tradizionaliste”, poi nel 2014 nasce l’Aist da lui fondata col giornalista dell’Unità Roberto Arduini, e la guerra per recuperare il professore continua cercando di denigrare con accuse puramente ideologiche gli avversari, cioè coloro che se ne erano interessati mentre la Sinistra lo denigrava. Ma Tolkien ha idee ben chiare e precise che non si possono negare se con contraffacendole e capovolgendole, sicché certe presunte denunce contro i suoi interpreti accusati di essere “di destra” non bastano più. Non basta che il Guglielmi ne abbia straolto pacchianamente la psicologia in due suoi romanzi. Occorre intervenire in corpore vili, incidere sulle parole (e quindi il pensiero) di Tolkien a proprio uso e consumo, presentandolo in modo adatto al tipo di interpretazione banalizzante e terra-terra, piatta, priva di ogni afflato mitico, offerto a una Sinistra che ha letteralmente paura di tutto questo. E’ quindi indispensabile per condurre in porto l’operazione ri-tradurlo in un certo modo, rimodularlo, stravolgendo concetti e termini, andando contro i precetti di Tolkien stesso, aggiornalo come costoro senza pudore ammettono, vale a dire mettere in atto una operazione che il professore, linguista ed esperto di mitologia, respingeva sdegnosamente senza mezzi termini: le favole non si possono aggiornare e adeguare ai tempi! E Il Signore degli Aneli è o non è, come è stato definito, “la favola più lunga del mondo?… E’ sufficiente leggere il suo straordinario saggio-conferenza Sulle fiabe per non aver dubbi in proposito.
    La nostra Sinistra neo-comunista se non vetero-maoista tutto cio' lo vuole ignorare e mette in pratica le regole del Grande Fratello orwelliano: modifica il passato per conquistare il presente e accreditarsi il futuro manipolando la lingua e le parole, fa il suo solito gioco delle tre carte e si pone sul banco degli inquisitori, mentre dovrebbe essere mandata da un bravo psichiatra per curarsi della sindrome paranoide epidemica di cui soffre.
    Focus. La guerra dei 50 anni (della sinistra) contro l'antimoderno JRR Tolkien | Barbadillo

    Nostalgia degli dei, una visione del mondo in dieci idee: la recensione sul Corriere della Sera di Pierluigi Panza
    Intorno al diecimila avanti Cristo i nostri antenati cacciatori/raccoglitori incominciarono a stanziarsi in villaggi di pescatori, allevare animali, coltivare il grano e difendere il territorio circoscritto da una recinzione avviando un’idea di organizzazione perfezionatasi con lo sviluppo della scrittura, che tramando' su pietre o rotoli i nomi degli dei, i miti e le leggi della comunità. Gli dei — ogni civiltà ebbe i propri, ma sono comparabili — possono essere interpretati come archetipi che sintetizzano identità, leggi, usi, costumi di queste società stanziali e che indicano i limiti invalicabili della conoscenza e delle applicazioni tecniche, oltre i quali c’è la hybris, ovvero la tracotante sfida degli uomini all’infinito. La domanda che l’ultimo libro di Marcello Veneziani innesca è questa: con quale allegra inconsapevolezza la società contemporanea ha abbandonato questo tipo di sviluppo umano iniziato 12 mila anni fa?
    Questo saggio sulle «cose essenziali, decisive» (Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee), riassume un po’ tutto il percorso di critico della cultura di Marcello Veneziani. Per l’autore di La rivoluzione conservatrice in Italia (SugarCo, 1987) tradizione, comunità e un certo valore spirituale della vita sono condizioni — simbolizzate dagli dei — che si pongono come rivoluzionarie per la contemporanea società nichilista, pragmatica, individualista e unificata solo dal denaro come strumento del globalismo: chi non crede negli stessi valori crede nel denaro come mezzo di scambio unificante, più delle religioni e degli imperi.
    Gli dei, ovvero le dieci parole-chiave del Decalogo alle quali Veneziani guarda con nostalgia, sono steli che possono orientare un futuro sviluppo antico del mondo. Questi archetipi sono: Civiltà, Destino, Patria, Famiglia, Comunità, Tradizione, Mito, Anima, Dio, Ritorno. Gli dei che simbolizzano queste parole-chiave vanno intesi come archetipi dotati di apertura di senso. La Civiltà, ad esempio, è la dea che connette i popoli; la Famiglia quella che genera e procrea; cio' che trasmette i valori è la Tradizione; il dio del luogo è la Patria mentre la Comunità (che si oppone alla cultura utilitaristica e contrattualistica contemporanea) è la dea del legame sociale. Questi archetipi stanno dall’Inizio, prima della nascita delle idee filosofiche che si trasformano, poi, in ideologie con catastrofiche conseguenze pratiche o si semplificano, oggi, in algoritmi. Sono richiami stabili, alternativi alla visione pragmatica del mondo dove «il vero è cio' che funziona» (Richard Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli). La Comunità non puo' essere estesa universalmente come sui social, poiché è fondata su un’etica dell’onore che sigla l’appartenenza a valori condivisi. La Tradizione come senso di continuità, fedeltà e rispetto per chi ci ha preceduto è l’opposto della formazione che si dà a quel chierico vagante chiamato Erasmus e in quelle contemporanee fabbriche diseducative dell’opinione pubblica che sono i social. Questi ultimi appaiono quasi una rivisitazione dell’Intellettuale collettivo, punto sul quale la storia si ripete oggi come farsa con l’affermarsi della figura dell’influencer: Chiara Ferragni ha preso il posto di Michel Foucault.
    Tutto è stato destrutturato: la storia è andata fuori servizio, il vecchio è solo una oscenità da nascondere, si allontana il vicino ma si vuole avvicinare il lontano, si moltiplicano «i domini senza domus», non c’è più la casa ma c’è l’account, trionfa una cultura che ha puntato su finanza, comunicazione globale e sistema rete, smaterializzando la Terra e i rapporti umani. Questa società degli apolidi, dell’incessante, della comunità senza confini e del mondo delle false ricostruzioni è il trionfo di quello che lo studioso americano Yuri Slezkine, nel saggio Il secolo ebraico (Neri Pozza), ha chiamato l’ebraismo mercuriale, movimento che ha forgiato la «stupefacente» modernità globalista, rete, finanziaria e senza luoghi. Hermes è il padre mitologico del web e Mercurio la divinità del capitalismo spregiudicato.
    «Ormai soltanto un dio ci puo' salvare» (come scrisse, metaforicamente, Martin Heidegger) dall’infotainment, dalla tecnoscienza, dai deliri paralleli del digitale, dal biologismo estetico per cui tutti credono interessante cio' che è imposto dai grandi operatori della comunicazione? Se cio' accadesse, conoscenza e contemplazione tornerebbero a prevalere sulla trasformazione, l’educazione sulla ricerca, il Cosmo — ovvero una civiltà con confini e connessioni — sul Caos. Muterebbe la predilezione per tutto cio' che è nuovo e globale e il disinteresse verso cio' che tradizionale e locale.
    Per alcuni critici, lo scenario di Veneziani è solo espressione nostalgica e reazionaria per il ritorno a una civiltà chiusa (da qui le ripetute citazioni di Platone) rispetto a una aperta, a-fondazionale e determinata solo dall’efficacia cogente delle sue trasformazioni. Il saggio erudito e ben scritto di Veneziani inocula, tuttavia, il dubbio che con la morte degli dei e della storia si stia proprio tornando alla preistoria, quella dei cacciatori/raccoglitori senza lavoro, senza casa, senza tradizione, esposti al caso e capaci solo di condividere cibo d’occasione in micro-comunità instabili: un cupio dissolvi, insomma! Una civiltà, infatti, e questo è il richiamo del libro, «non si esprime nell’evoluzione della tecnica e dell’economia ma nello sviluppo di tecnica ed economia in rapporto alla cultura e alla vita dei popoli singoli».
    Il decalogo dimenticato - Marcello Veneziani

    IL FILM PRO-LIFE
    "Unplanned" sfida la censura e mostra l'orrore dell'aborto
    Si intitola Unplanned ed è la cosa peggiore del mondo: va in scena l'aborto. Il film è tratto dall'omonimo libro di una ex dirigente di una clinica di Planned Parenthood, convertitasi alla causa pro-vita dopo aver realizzato quel che stava facendo. La pellicola, pur subdolamente boicottata (anche da Twitter) è un successo di pubblico.
    Calano le luci. Immagini di amena vita familiare. Poi, a pochi quadri dall’inizio, il pugno arriva diritto nello stomaco. Assisti a un aborto. Ricreato per il cinema, lo sai, ma in quel momento lo dimentichi apposta, hai già sospeso la tua incredulità, sei totalmente dentro, sei là dove e mentre sta accadendo. Ti dimeni sulla poltroncina, incapace di resistere. Vorresti strapparti le vesti, vuoi vomitare. Boccheggi, ti manca l’aria, pensi di mandare tutti alla malora e scappare lontano. La testa ti gira. Lo odi quel film, lo maledici, specie il momento in cui hai deciso di entrare in sala. Chiudi orecchi e occhi, non vuoi sapere nulla, niente di niente, risvegliarti dall’incubo a mille miglia di distanza. Senti invece le immagini scenderti nella carne, entrarti dentro. “Basta!”, sbotti dentro di te, e quasi lo dici ad alta voce. Vuoi accendere la luce, uscire dal tunnel, liberarti dagli spettri. Si', è proprio un film adatto a tutti nonostante la censura, un film da far vedere a tutti.
    Si intitola Unplanned ed è la cosa peggiore del mondo. Tratto dal libro omonimo del 2011, è la storia vera e nota di Abby Johnson, che oggi ha 39 anni. Quando ne aveva 29 ha visto un aborto monitorato agli ultrasuoni. Cercando il modo migliore per tradurre questa espressione dall’inglese, mi imbatto in una fantastica geremiade della NARAL Pro-Choice America, una delle costole storiche della lobby abortista statunitense: «Costringere una paziente a sottoporsi a una procedura medicalmente non necessaria non è etico ed è avvilente, ma questo è esattamente cio' che le leggi sull’ecografia obbligatoria impongono alle donne che chiedono interventi abortivi». L’originale, ipocrita, falso e infingardo, dice «abortion care», un ossimoro per «cura abortiva». Prosegue: «Per la maggior parte delle donne che cercano abortion care, l’ecografia non è necessaria dal punto di vista medico. Tuttavia, diversi Stati del Paese impongono ai medici di fare l’ecografia prima di eseguire un aborto. Alcuni di questi Stati costringono anche le donne a visualizzare gli ultrasuoni o ad ascoltare il battito cardiaco, anche se la donna vi si oppone con decisione». A parte la ricostruzione caricaturale della faccenda, il punto è che agli abortisti fa scandalo che una donna possa vedere e sentire il figlio che sta per sopprimere. Il NARAL lo dice apertamente: «Le leggi sull’obbligatorietà degli ultrasuoni non hanno giustificazione medica e sono pensate dai politici anti-choice solo per intimidire, vergognare e molestare le donne che vogliono l’aborto». Qui la ricostruzione caricaturale si fa grottesca, ma il punto è detto con chiarezza (in mezzo c’è un passaggio ridicolo: «Vale la pena notare che, per ragioni di sicurezza, l’American College of Obstetricians and Gynecologists raccomanda che gli ultrasuoni vengano eseguiti solo per scopi medici da un operatore sanitario qualificato». Ragioni di sicurezza mentre si sta letteralmente disintegrando una vita umana?).
    C’era una volta Bernard Nathanson (1926-2011), il medico che trucco' le carte dell’aborto clandestino e che si vantava di essere stato responsabile di 75mila aborti. Poi venne l’ecografia e a Nathanson cadde la mascella. Si converti' (alla fine anche al cattolicesimo) e divenne un eroe pro-life con pochi eguali anche realizzando lo scioccante documentario L’urlo silenzioso, che un altro eroe, donna, convertita cattolica pure lei, Faith Whittlesay (1939-2018), regalo' in videocassetta a ciascuno dei parlamentari americani.
    Anche Abby Johnson è stata folgorata dagli ultrasuoni. Di aborti ne aveva avuti lei stessa, due. Aveva patito fisicamente le pene dell’inferno, ma non aveva mai visto cosa succede fisicamente a un bambino nel ventre di sua madre quando viene annientato per suzione. Un giorno, per caso, ma il caso non esiste, fu chiamata in sala operatoria. Svolgeva mansioni amministrative, aveva fatto carriera: da hostess on the road, di quelle che si prendono “cura” delle abortende per sottrarle ai pro lifer che cercano di dissuaderle, a dirigente di una clinica della Planned Parenthood. Ma un aborto in diretta non lo aveva ancora mai visto, benché alle turpitudini non fosse certo nuova. Fu allora che pianto' tutto.
    La sua conversione è stata la notizia peggiore che la Planned Parenthood abbia mai avuto. Perché ovviamente poi Abby Johnson non se n’è rimasta zitta. Ecco, Unplanned è il film della sua storia. Unplanned è la cosa più cruda che possiate vedere. La cosa più greve. E pure la più grave. Uno scannatoio ributtante. Ma ad Unplanned non si puo' sfuggire: perché racconta esattamente quanto accade tutti i giorni, da decenni, in migliaia di luoghi del mondo.
    L’attrice Ashley Bratcher interpreta Abby alla perfezione ed Abby ha approvato la sceneggiatura. Diretto da Chuck Konzelman e Cary Solomon, il film è costato 6 milioni dollari alla Pure Flix e le sue riprese si sono svolte in segreto. Quando lo vedrete, capirete perché. Unplanned ha un vantaggio enorme. E' fatto benissimo, roba da grandi major. Nei 110 “interminabili” minuti della sua cavalcata sciorina scene da fare accapponare la pelle per lo sdegno e per la compassione.
    Venerdi' 29 marzo è uscito in 1059 sale americane e ha incassato 3 milioni di dollari. Nei due giorni seguenti è salito a 6,4 milioni, più di quello che è costato, piazzandosi al quarto posto delle vendite del week end nel momento del trionfo di Dumbo. La Motion Picture Association of America, quella che dà le patenti ai film, lo ha marchiato “R”: con meno di 17 anni va visto solo se accompagnati. Pero' gli aborti si possono anche se più giovani. Quindi, mentre Unplanned sbancava, Twitter ne sospendava l’account. Per un errore, dicono. Poi l’hanno riconnesso: ovvio, s’è sollevato mezzo mondo, e tra i fan della pellicola ci sono anche Donald J. Trump e il suo vice Mike Pence.
    L’ho visto in anteprima privata in margine al Congresso mondiale delle famiglie. Arriverà anche in Italia. Andremo tutti a vederlo, e soffriremo, piangeremo, urleremo, picchieremo i pugni, ma sarà fondamentale farlo vedere a chi l’aborto lo predica e lo pratica. Perché Unplanned cambia davvero la vita. Si raccolgono idee su come convincere gli abortisti a vedere questo piccolo, grande capolavoro che amiamo e odiamo allo stesso tempo.
    "Unplanned" sfida la censura e mostra l'orrore dell'aborto - La Nuova Bussola Quotidiana

    Basta con i sensi di colpa per gli immigrati e l'islam
    Due interessanti articoli su un nuovo libro uscito in questi giorni: ‘ Il complesso occidentale – Piccolo trattato di de-colpevolizzazione’, per la Paesi Edizioni, scritto dal politologo e saggista francese Alexandre Del Valle (prefazione di Marcello Vaneziani), che contrasta il “terrorismo intellettuale” nato intorno ad un malsano senso di colpa dell’Occidente.
    Una linea critica, decisamente minoritaria in campo intellettuale, che approfondisce il tema del senso di colpa europeo, secondo una visione originale e nuova: dopo il successo ottenuto in Francia (L’Artilleur editore) esce anche in Italia, per Paesi Edizioni, ‘Il complesso occidentale – Piccolo trattato di de-colpevolizzazione’, il libro del politologo e saggista francese Alexandre Del Valle che contrasta il “terrorismo intellettuale” nato intorno al senso di colpa dell’Occidente, trovando per la strada compagni di peso quali Alain Fienkelkraut, Pascal Bruckner, Marcello Pera, Magdi C. Allam, Giovanni Sartori e Oriana Fallaci.
    Secondo l’autore il senso di colpa europeo per la mancata integrazione sociale e il fallimento del multiculturalismo è una malattia mortale, di essenza masochista, che puo' colpire tutti quelli che non hanno gli anticorpi. Per smontarlo Alexandre Del Valle usa nel libro ragionamenti fondati che contrastano quel complesso occidentale che riesce a colpevolizzare più la vittima che il carnefice.
    «Fa bene Alexandre Del Valle – scrive Marcello Veneziani nella prefazione – a smontare con argomenti convincenti, quel diffuso, pervasivo senso di colpa dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, in particolare dell’Islam, del sud del pianeta e di quelle terre che furono un tempo colonizzate. È un complesso indecente quanto ingiustificato, la vergogna di essere quel che noi siamo e figli di quella storia, di quella civiltà, di quel modo di essere. Una forma di auto-colpevolizzazione, a volte grottesca, che poi coincide con il canone occidentale presente, quello che viene definito politically correct e con il dogma umanitario dell’accoglienza, dell’apertura senza limiti ai migranti».
    * * *
    Basta avere sensi di colpa per gli immigrati e l'islam
    Per cambiare la politica, è stato trasformato il passato. Cosi' la civiltà è stata letta come colonizzazione, l'evangelizzazione ha finito per equivalere a cancellazione delle culture autoctone. E chi si è opposto è stato inserito suo malgrado nella categoria dei "medioevali", rimasta oramai l'unica che è lecito discriminare secondo il nuovo catechismo politicamente corretto. Tutti gli altri al contrario non possono essere offesi, se no scatta la censura, che agisce come «una camicia di forza lessicale». Percio' i gay pride sono divenuti eventi meritori del patrocinio istituzionale, durante i quali è ben accetta la partecipazione di eterosessuali, mentre la marcia per la famiglia finisce nel contenitore dei rifiuti ideologici e guai se un divorziato o una madre single osano aderirvi.
    Se un fenomeno di tale portata è potuto accadere, la causa è l'imposizione alla società, da parte di alcune minoranze, di un senso di colpa ideologico dal quale ci insegna a liberarci il politologo francese Alexandre Del Valle, con l'opera Il complesso occidentale. Piccolo trattato di decolpevolizzazione, (Paesi edizioni, pp. 432, 15 euro), che esce oggi in traduzione italiana. Sarà un processo complesso e doloroso, tanto quanto lo è stata l'avanzata della rivoluzione culturale che ha invaso le scuole, i mezzi d'informazione, il cinema e le serie tv, la musica pop, la moda e il design e perfino l'alimentazione. Non si riesce più a sfuggire alla dittatura dell'etnico né in occasione del Festival di Sanremo né al ristorante né dal mobiliere né nelle competizioni sportive, mentre ogni forma d'espressione artistica deve obbligatoriamente passare attraverso l'accettazione acritica del modello Lgbt. L'obiettivo è condurci al suicidio demografico per scontare i peccati commessi nei secoli in cui nel frattempo abbiamo abolito la schiavitù, inventato gli ospedali e le università, introdotto la distinzione fra lo Stato e la religione. Lo abbiamo dimenticato e «l'Europa è dunque soprattutto vittima della propria demoralizzazione e della propria "volontà d'impotenza" che ne deriva».
    LA MANIPOLAZIONE
    Qualsiasi resistenza superficiale si rivela inefficace, anzi pure dannosa e controproducente. A scoraggiarci è una manipolazione dei concetti di verità, di libertà e di giustizia per cui «oggi il razzismo viene utilizzato anche per denunciare il sessismo, il maschilismo, il rifiuto dell'immigrazione incontrollata, l'omofobia e persino la critica delle religioni e in particolare l'islamofobia. La denuncia del razzismo è dunque divenuta una temibile arma retorica che serve a "imbavagliare il dissenziente importuno", l'avversario, ostracizzato per il mero fatto di essere etichettato come razzista. Privato del diritto di esprimersi, l'accusato non puo' nemmeno difendersi ed essere creduto, ed è letteralmente vittima di una morte sociale».
    LA REAZIONE
    L'unica via d'uscita è una reazione. Intellettuale, innanzitutto. Vanno sfatati i miti fondativi della modernità, che Del Valle enumera uno per uno: l'odio per la civiltà cristiana si nutre della demonizzazione delle Crociate e della Chiesa cattolica, del presunto debito nei confronti della scienza arabo-islamica. Cosi' si smonta il meccanismo che ha convinto perfino il clero di aver fregato il mondo, inducendo preti e vescovi a un atto penitenziale, non tanto rivolto a Dio Onnipotente quanto verso il nuovo idolo buonista: il dialogo come fine e non più come mezzo per la conversione a Cristo.
    Se vi fosse una rivolta interiore, spirituale, sarebbe l'inizio di una contro-rivoluzione, un agere contra, secondo le indicazioni degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Loyola. Da qualche parte, nel mondo, l'autore ne vede qualche premessa, come in Russia. Percio' propone che «gli strateghi americani e i Paesi europei della Nato ridefiniscano la loro teoria strategica e cessino di vedere nelle petromonarchie islamiste del Golfo e nella Turchia i loro migliori alleati La coerenza geo-culturale passerà al contrario attraverso l'integrazione del mondo slavo ortodosso nello spazio "panoccidentale", il che richiederà ovviamente seri sforzi da una parte e dall'altra». In effetti la Russia non ha conosciuto «la Riforma, il Rinascimento e la Rivoluzione Francese, "le tre R dell'Occidente"», ma soltanto la loro conseguenza più nefasta, il socialcomunismo. E se n'è sbarazzata.
    Chiesa e post concilio: Basta con i sensi di colpa per gli immigrati e l'islam

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Holodomor, verità sullo sterminio voluto da Stalin
    Finalmente è stato tradotto in italiano un film canadese di due anni fa: Raccolto amaro. Il titolo originale è Holodomor, che è il nome che gli ucraini hanno dato alla loro più grande tragedia nazionale: lo sterminio per fame di milioni di contadini voluto da Stalin.
    Finalmente è stato tradotto in italiano un film canadese di due anni fa: Raccolto amaro. Il titolo, tanto per cambiare, non rende giustizia all’argomento. Infatti, il titolo originale è Holodomor, che è il nome che gli ucraini hanno dato alla loro più grande tragedia nazionale; un po’ come gli armeni che chiamano Metz Yeghern («il grande male») il genocidio del loro popolo operato dai turchi prima e durante la Grande Guerra. Il film (sottotitolo Bigger Harvest) ambienta la sua storia al tempo della grande carestia, artificiale, che il regime sovietico provoco' in Ucraina e che cagiono' la morte per fame di sette o dieci milioni di persone (naturalmente, la cifra esatta forse non si saprà mai), una tragedia di proporzioni immani.
    Sono documentati anche casi di cannibalismo. Nel film si dice chiaramente che tra il 1932 e il 1933 Stalin mise in atto la soluzione finale che già Lenin aveva escogitato per risolvere definitivamente la questione dei kulaki, i contadini-proprietari. La maggior parte di questi era ucraina, perché l’Ucraina era il «granaio d’Europa». La collettivizzazione coatta porto', ovviamente, al crollo della produzione, cosi' come in altri settori. E i comunisti conoscevano una sola soluzione ai problemi economici: la fucilazione dei «nemici del popolo». Solo che né decimazioni né deportazioni in Siberia bastavano. Allora, il grano ucraino requisito venne venduto all’estero a prezzo stracciato per battere la concorrenza e procurarsi valuta pregiata. E l’Ucraina divenne una gigantesca prigione da cui non si poteva uscire e in cui si poteva solo aspettare la morte.
    Ma ai dettagli storici ha già provveduto il nostro Stefano Magni. Il film ben descrive il crescendo della tragedia partendo dalle colorate e religiosissime usanze di un popolo di antica cultura (è proprio dal principato di Kiev, capitale ucraina, che comincia la cristianizzazione della Russia). Poi arriva il commissario del popolo e l’unica preoccupazione dei protagonisti è quella di nascondere l’icona di San Yuri (Giorgio), protettrice della famiglia. Il giovane Yuri, pittore, è andato a cercare fortuna a Kiev, ma il direttore dell’accademia di belle arti boccia le sue opere citando il Manifesto dei Surrealisti e Picasso (tutti comunisti).
    E pronuncia la frase che perfettamente descrive l’ideologia del regime, anzi tutte le ideologie di derivazione giacobina: «La realtà è il nemico». Yuri si ingegna di accontentarlo ma, qualche tempo dopo, scopre che quello è finito nel gulag. Contrordine, compagni: bisogna dipingere trattori, operai, soldati. Insomma, manifesti di propaganda politica, l’arte sovietica è tutta qui e non deve essere altro. Ma non vogliamo qui narrare tutte le peripezie di Yuri, che assaggerà le carceri e le torture del paradiso dei lavoratori e poi scappa per tornare a casa dalla moglie. Quando torna e trova il deserto (la moglie insidiata dal commissario del popolo, che ha ucciso i suoi genitori, le fosse comuni e le cataste di cadaveri che nessuno ha la forza di seppellire) si unisce alla resistenza. Ma anche questa, senza armi e munita della sola forza della disperazione, non ha futuro.
    L’unica a quel punto è la fuga verso la Polonia e, da li', verso l’Occidente. Il film non dice se la fuga è riuscita, rimane il finale aperto. Saranno i titoli di coda a dirci quanti ucraini riuscirono a espatriare in quegli anni: quasi nessuno. La produzione, canadese, ha fatto ricorso ad attori hollywoodiani, tra cui i più noti sono Barry Pepper e Terence Stamp, rispettivamente il padre e il nonno di Yuri, fieri guerrieri dalla caratteristica acconciatura tradizionale (cranio interamente rasato tranne un lunghissimo ciuffo). Il film è avvincente, e merita la visione. Anche perché, per quanto ne so, è l’unico a trattare il tema.
    Holodomor, verità sullo sterminio voluto da Stalin - La Nuova Bussola Quotidiana

    L’ARTISTA TOTALE CHE SI SENTIVA POCO AMATO
    Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
    Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un' ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare. La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell' imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l' ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «pero', insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo La terra trema . Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell' acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il "comunista" Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».
    Franco Zeffirelli amava ricevere nell' archivio della sua villa sull' Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, pero' Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureyev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali.
    Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l' idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate , a mettere pace tra la cristianità e l' Islam. Da Visconti, pero', si doveva partire. Era stato il suo maestro.
    «Non dico abbia sparso il sale per convenienza - diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquisto' Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquisto' Parigi. Coco Chanel se ne invaghi', visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l' influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua».
    Era colpa dell' egemonia della sinistra sulla cultura - sosteneva - se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, pero' al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: "Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno"». Era Silvio Berlusconi.
    Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando giro' Un tè con Mussolini : la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l'era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell' amore». Il padre si chiamava Corsi ed era sposato con un' altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze - raccontava Zeffirelli -. Mia madre ne mori', quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary 'O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C' era una ricca americana, che in Un tè con Mussolini è impersonata da Cher, la quale saldo' il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consenti' di studiare. E c' era la moglie dell' ex ambasciatore britannico a Roma, sino all' ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l' Italia dai rossi.
    Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco: Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l' aborto è un crimine e che i totalitarismi sono tutti pericolosi, ma il comunismo è il più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull' Appennino per fare il partigiano».
    Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischio' di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvo' un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com' erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».
    Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la Guerra Fredda. «Siamo ancora li'. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all' Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l' oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent' anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse Johnny Stecchino . Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».
    Il suo sogno era fare un film - ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l'esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del '500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.
    https://www.dagospia.com/rubrica-2/m...lli-206079.htm

    L’estinzione dei Nativi Europei – White Guilt, il saggio di Emanuele Fusi
    Secondo Jürgen Habermas la stampa svolge un ruolo essenziale nelle società moderne e anche un libro letto da pochi, negli anni, puo' generare una trasformazione dell’opinione comune. Il pubblico privato dei lettori, potenzialmente razionale ed autonomo nei confronti dello stato, è in grado, facendo uso critico della propria ragione, di esprimersi su oggetti di rilievo pubblico e, nel corso del tempo, modificare l’assetto deontologico di una società.
    Il libro White Guilt – il razzismo contro i bianchi al tempo della società multietnica di Emanuele Fusi è uno di quei saggi che, girando di mano in mano e schivando la censura passiva del regime globalista attualmente vigente, è destinato ad avere ripercussioni anche sulla sfera pubblica. Esso, infatti, come l’athanor, il forno dell’alchimista, trasforma una semplice percezione (piombo) in una certezza (oro): dopo averlo letto cio' che prima era solo un’intuizione, ossia il razzismo anti-bianco, diviene un fatto concreto e misurabile tramite dati e grafici. In molti attualmente hanno la sensazione che la società bianca stia per soccombere a causa dell’emigrazione incontrollata e della denatalità, e questo libro, forte di grafici e precisi studi demografici, ce lo dimostra.
    Che ormai l’uomo bianco, un misero 7% dell’intera popolazione mondiale, sia in pericolo d’estinzione è un’ovvietà, ma ancora nessuno aveva avuto il coraggio di esprimere questo fatto con la chiarezza di Emanuele Fusi. Egli, infatti, non ha fatto altro che dimostrare la verità e, citando la nota fiaba di Andersen, dire che il Re è nudo. In un mondo che si ostina a promuovere il meticciato, sostenere la tesi secondo cui le identità razziali e culturali debbano essere preservate è un atto di resistenza, coraggio e, soprattutto, onestà.
    Il primo capitolo tratta di un’evidente ipocrisia della società di massa: tutte le minoranze umane autoctone, come i Rohingya della Birmania, secondo l’ONU debbono essere tutelate sia dal punto di visto culturale, religioso ed etnico, eccetto la più grande delle minoranze, cioè quella incarnata dai bianchi, categoria che include mediterranei, dinarici, baltici, alpini e nordici.
    Di seguito Fusi parla dell’odio teorico che sta dietro al razzismo anti-bianco ed elenca una serie di discorsi di personaggi celebri che auspicano l’estinzione dei nativi europei.
    Successivamente vi sono una serie di grafici che mostrano le curve evolutive della popolazione. In questo studio vi è una statistica particolarmente agghiacciante: nel 2050 gli europei saranno 600 milioni, ossia un quarto degli africani che, crescendo in modo esponenziale, saranno quasi 3 miliardi. Nel 2100, gli africani saranno sette volte più numerosi degli europei.
    Dopo aver riportati svariati esempi di odio teorico verso i bianchi e le prove scientifiche del declino della razza europea, l’autore mostra una serie di situazioni generate dalla politica immigrazionista che si sono rivelate fallimentari. Dagli attentati alle no-go-area, dalla whyte-phobia in America sino alle oscene dichiarazioni di Meghan Markle che critica il fatto che ci siano troppi bianchi nelle università, il mondo multietnico non riesce a funzionare ed è pieno di falle, problemi e scontri sociali ed ideologici.
    Per concludere il saggio Fusi tratta dei boeri, i bianchi d’origine olandese che vivono in africa dal 1600 e che sono soggetti ad espropri, persecuzioni e violenze terribili. Solo che, essendo bianchi, la loro drammatica situazione non viene presa in considerazione da quell’élite di bianchi-occidentali razzisti contro i bianchi, contro sé stessi.
    Questo libro non è solo una sfida ad un tabù lessicale che vieta di parlare del razzismo anti-bianco, ma è anche il manifesto degli indigeni europei prossimi alla scomparsa che rivendicano il loro diritto di esistere e di essere tutelati in qualità di minoranza.
    https://dolcestylenovo.wordpress.com...emanuele-fusi/

    LA VERSIONE DI MUGHINI – MI AUGURO DI SENTIRE ALLA RAI, PRIMA O POI, I NOMI DEI SETTE FRATELLI GOVONI, MARTORIATI NEI PRESSI DI ARGELATO DA UNA BANDA DI PARTIGIANI COMUNISTI L’11 MAGGIO 1945 – FOSSE VERO UN DECIMO DI QUELLO CHE RACCONTA GIANFRANCO STELLA NEL SUO “COMPAGNO MITRA”, QUESTO LIBRO NON DOVREBBE MANCARE DAGLI SCAFFALI DI UN CITTADINO REPUBBLICANO VORACE DELLA VERITA'. ALTRO CHE LE TESTIMONIANZE DEGLI EX PARTIGIANI COMBATTENTI DI CUI VEDO CHE LA RAI STA APPRONTANDO UN PROGRAMMA
    Caro Dago, tu lo sai che a me piacciono i libri che se ne stanno un po’ di lato, quei libri un po’ clandestini e un po’ maledetti, rarissimamente letti e rarissimamente citati. Ne sto leggendo uno, il “Compagno mitra” che Gianfranco Stella, un professore cattolico e ardentemente anticomunista (alle recenti elezioni europee s’era candidato nelle liste del partito di Giorgia Meloni) si è autoedito qualche mese fa e che nel frattempo è arrivato alla terza edizione.
    Più precisamente Stella da trent’anni ha puntato il mirino sulle tragedie della guerra civile italiana del 1943-1945, su cui ha scritto almeno quattro o cinque libri di cui si è enormemente giovato Giampaolo Pansa. Libri che Stella adopera come un’ascia da combattimento, tale è la sua avversione totale al “partigianato marxista” cui attribuisce una indomita e indomabile attitudine alla violenza e allo strazio dell’avversario.
    Né Stella attenua o camuffa di un etto questa avversione totale, assoluta. Di più: i suoi libri sono dei pamphlet prima ancora che delle documentatissime narrazioni. Libri dai quali è assente qualsiasi espediente letterario, com’è invece nei racconti del mio amico Pansa. Stella mette in fila crimini, massacri di intere famiglie, squartamenti di prigionieri, stupri collettivi di ausiliarie poi uccise con un colpo alla nuca. E nomi, nomi, nomi. I nomi dei morti assassinati innanzitutto, e poi i nomi degli assassini. Le loro foto, anzi.
    Di tutti gli assassini fa i nomi e cognomi, e quanti anni hanno fatto di galera, e le loro fughe in Cecoslovacchia protetti dal Partito comunista, e le grazie presidenziali di cui hanno goduto e le medaglie al valoro militare della Resistenza che talvolta sono state revocate dinnanzi a condanne nell’ordine dei vent’anni e passa, talvolta no. Fosse vero un decimo di quello che Stella racconta, questo libro non dovrebbe comunque mancare dagli scaffali di un cittadino repubblicano vorace della verità di quegli anni drammatici quale il sottoscritto. Altro che le testimonianze degli ex partigiani combattenti di cui vedo che la Rai sta approntando un programma.
    Il fatto è che le verità di quegli anni bruciano, e le rammemorazioni improntate all’antifascismo non ti ci portano vicino. Trent’anni fa, quando io ero ancora largamente nutrito da quelle rammemorazioni – e non che fossi un ragazzo ancora ignaro e acerbo, è che non sapevo molto dell’essenziale – mai avevo sentito il nome dei sette fratelli Govoni martoriati nei pressi di Argelato da una banda di partigiani comunisti l’11 maggio 1945, e ho detto partigiani e avrei dovuto dire invece delinquenti.
    Il loro nome me lo fece per la prima volta Giano Accame, un ex volontario della Repubblica sociale italiana, un intellettuale fra i più adamantini che io abbia mai conosciuto. Nel discutere con lui io mettevo avanti la tragedia dei fratelli Cervi, come a dire la superiorità della parte politica che aveva avuto quei martiri. Giano mi replico' che la sua parte ne aveva di martiri similari, per l’appunto i sette fratelli Govoni. Aveva perfettamente ragione Giorgia Meloni, la quale pochi giorni fa (nell’anniversario del massacro) lamentava che il nome dei Govoni non esiste nei libri di storia, non viene fatto alle scolaresche, è tabù per le istituzioni e per i grandi media. Tabù.
    I sette fratelli Govoni non s’erano macchiati di alcuna azione infame. Nessuna. Due dei sette fratelli, Marino e Dino, erano stati convocati dal CLN subito dopo il 25 aprile e immediatamente rilasciati. L’11 maggio i partigiani della brigata garibaldina “Paolo”, gente non particolarmente ingombrata dall’uso dei guanti bianchi nei confronti dei loro avversari politici, sequestro' prima il fratello Marino, poi la sorella Ida e gli altri cinque fratelli. (Si salvo' un’ottava sorella, Maria, che s’era maritata e viveva ad Argelato.)
    Il camion della morte ando' via caricando altre dieci persone, fra cui un sottotenente di artiglieria dell’esercito italiano del sud, uno che aveva combattuto contro i tedeschi. Tutti e diciassette i sequestrati vennero rinchiusi nella casa colonica di un partigiano. Dove vennero massacrati a calci e a colpi di bastone e infine strangolati con il filo del telefono. Nessuna delle vittime mori' per arma da fuoco. I corpi vennero ritrovati molti anni dopo, nel 1951. Il processo contro quei delinquenti camuffati da partigiani comincio' poco dopo a Bologna e si concluse nel 1953.
    Il commissario politico della brigata partigiana venne condannato all’ergastolo e cosi' il vicecomandante della brigata e il partigiano che aveva guidato il sequestro. Riuscirono tutti a fuggire in Cecoslovacchia per poi usufruire delle numerose amnistie relative ai fatti di guerra del 1943-1945. Tornato in Italia, Vitaliano Bertuzzi, uno dei condannati all’ergastolo, ritrovo' il suo lavoro di bigliettaio ai trasporti urbani di Bologna. Lo Stato italiano riconobbe ai genitori dei Govoni una pensione di settemila lire al mese, mille lire per ognuno dei figli assassinati.
    Mi auguro di sentirli alla Rai, prima o poi, questi fatti e questi nomi. O forse no?
    https://www.dagospia.com/rubrica-29/...poi-204904.htm

 

 
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