Un ricordo del ‘fratello maggiore’ Domenico Settembrini
di Dino Cofrancesco
Se gli studiosi – quelli che hanno qualcosa da dire, s’intende, non i predicatori e i venditori di fumo – si dividono in pittori e in scultori, Domenico Settembrini apparteneva, senz’altro, alla seconda categoria. Il suo argomentare era caratterizzato da una logica implacabile portata a tagliare i grandi problemi della storia e della politica, con precisione, sì, ma, non di rado, anche con l’accetta – come gli rimproveravano, talora, amici e colleghi, che pur ne avevano grandissima stima.
Fu lui, in particolare, a mettermi in guardia dai socialisti alla Kautsky, critici sì del marxleninismo, ma perché miravano agli stessi scopi – l’abolizione dell’economia di mercato – con strategie diverse e più rispettose dei diritti e delle libertà individuali (il che, peraltro, non era poco). Ma fu soprattutto lui – che nelle lettere chiamavo scherzosamente il mio ‘fratello maggiore’ – a rafforzare (e, forse, fin troppo) il mio penchant incontenibile per la demistificazione, per la critica spietata dei luoghi comuni, delle mitologie politiche nate dalla retorica e non dalla vita reale, delle ‘repubbliche immaginarie’ che non rimangono sogni nel cassetto ma si traducono in insurrezioni armate, in assassini di esponenti politici e di giornalisti scomodi. La sua Storia dell’idea antiborghese in Italia, 1860-1989: società del benessere, liberalismo, totalitarismo (Ed. Laterza 1991) è non poco emblematica di tale attitudine ed è così radicale e originale da sconcertare anche quanti come me erano stati da lui convertiti all’idea che non ci sono terze vie, di cui le nostre avanguardie intellettuali sarebbero le interpreti, ma solo la società aperta, da un lato, con la sua accettazione del mercato e dello ‘stile limitato’ della politica – leggi: democrazia liberale e sovranità del popolo nello spazio concesso dalla costituzione o, meglio, dai ‘diritti naturali’ indisponibili – e il dirigismo totalitario, dall’altro, con la sua idea forte di ‘bene comune’ chiaro, ovviamente, solo alle menti dei filosofi aspiranti reggitori.
Il tema della diversità nell’illuminismo, il principio illuministico che «al di sopra dell'autonomo giudizio dell'individuo, di ogni singolo individuo, non v'è autorità legittima, perché ogni autorità è tale solamente se trova riscontro nella libera adesione della coscienza del singolo individuo» fa correre il rischio all’individualismo liberale di «precipitare nel suo contrario: dall'anarchia al dispotismo. Ciò è stato riconosciuto anche esplicitamente da due grandi classici del liberalismo, Montesquieu e John S. Mill. E' stata riconosciuta, cioè, la necessità che la libertà individuale, la libertà di dissentire, lo scontro delle idee, delle passioni e degli interessi poggi, se la società non ne deve finire disintegrata, su una fede comune in alcuni principi fondamentali; fede che deve essere nei più, nella stragrande maggioranza, più forte ed indiscussa di quanto non lo sia l'attaccamento alle proprie idee particolari, ai propri interessi, al proprio "partito", di modo che questa fede, restando al di fuori e al di sopra del perpetuo scontro intorno alle idee e agli interessi personali o di gruppo, non solo non venga da questo tumulto neppure scalfita, ma costituisca anzi l'argine che serve a regolarne il pacifico svolgimento, al punto da essere essa a renderlo possibile».
Chi voleva fare di Settembrini il Pangloss del liberalismo contemporaneo aveva sbagliato indirizzo ma è non poco significativo che questa preoccupazione per le ‘ricuciture’ sociologiche neppure per un momento lo portasse a simpatizzare con quanti intendevano ‘eticizzare la politica’ e dare un supplemento d’anima a una nazione, come quella italiana, segnata dal familismo amorale e dalla ricerca continua e frenetica del ‘particulare’. I fautori della ‘riforma morale e intellettuale’gli piacevano poco.
In un saggio, che poteva leggersi come una sintesi magistrale del suo pensiero, Fascisti e azionisti, carissimi nemici. La ‘terza via’ fra corporativismo e liberalsocialismo, ‘Nuova Storia Contemporanea’(a. II, n.4, luglio-agosto 1998), scriveva: « perché la rivisitazione dell’azionismo costituisce (..) un’angolazione particolarmente proficua per comprendere le ragioni storiche della ‘anormalità’ italiana? Perché essa consente di mettere in luce come, a partire dalla cultura delle riviste del primo Novecento, l’Italia ha avuto una classe intellettuale che, salvo pochissime eccezioni, è stata caratterizzata da un orientamento rivoluzionario palingenetico, profondamente elitario e aristocratico, profondamente diffidente, per non dire sprezzante, anche quando credeva di parlare e di battersi in nome della più avanzata democrazia, verso la massa degli uomini comuni, degli uomini della strada, ritenuta materia amorfa, cui andava dall'alto insufflata un'anima. Le divisioni, le vere e proprie fratture, come quella mortale tra fascisti e azionisti, che possiamo prendere, per quest'aspetto, a simbolo di tutto l'antifascismo, intervenivano soltanto sul tipo di anima da insufflare».
Un romanzo su "Maria e i fratelli"
Carlo Alianello racconta la grandezza di Maria e Giuseppe
di Gianandrea de Antonellis
ROMA, sabato, 12 maggio 2012 (ZENIT.org).- Lo scrittore romano, ma di origini lucane, Carlo Alianello (1901-1981) è famoso soprattutto per la trilogia “borbonica” (L’alfiere, L’eredità della priora, Soldati del Re), ma merita di essere ricordato per i suoi romanzi di carattere religioso (Il mago deluso, Maria e i fratelli, Nascita di Eva).
Soprattutto in Maria e i fratelli (1955) si esprime appieno la sua spiritualità profondamente mariana, con la riproposizione della storia di Gesù Cristo letta attraverso gli occhi di Sua Madre.
Fin dall’inizio l’autore mette l’accento sulla regalità della ascendenza di Gesù, sottolineando come sia Giuseppe che Maria provengano dalla stirpe di Davide. La nobiltà della Madonna, inoltre, si esprime attraverso il suo dignitoso comportamento, il suo distacco dai beni materiali (non così superiore si dimostra, invece, suo zio Alfeo, che pure fa di tutto per organizzare il matrimonio con Giuseppe, anch’egli del tutto distaccato).
Toccante è la descrizione della nascita del Bambino nella mangiatoia di Betlemme:
Il Re nato stava nella mangiatoia e tutti lo potevan vedere. Un fagottino di panni, una testina tonda e rossetta, come si conviene a chi è giunto alla luce da un’ora appena; e adesso dormiva. Vicino c’era la mamma; e così giovane, Dio! Quei pastori non avevano visto mai una bellezza tanto rara, che quasi non gli sarebbe parsa neppur bella, al loro modo di guardare le donne, così gracile e squisita, se non avessero inteso che per lei non c’è altro confronto che gli angeli. Le poche pastore tramezzo agli uomini nel piangevano di tenerezza e se la rimiravano rapite, stando in ginocchio sulla paglia, perché lei era al centro d’ogni luce. (Cap. I pastori, I, p. 68)
Passando, per necessità di sintesi, al momento finale della vita umana di Gesù, quello del Golgota, lo scrittore sottolinea ancora la nobiltà della Madonna:
Allora Maria attraversò decisa il cerchio dei sacerdoti e dei sinedriti e salì sul monticello, con Giovanni e Maria Maddalena che la seguirono lesti. Giacomo le andò appresso, ma si fermò sul ciglio; e c’erano anche la madre e Salome.
Il decurione s’alzò di scatto, i soldati avevano fatto un fascio delle lance e sedevano sugli scudi, fuorché l’unica sentinella che andava su e giù, e già apriva la bocca a sbraitare, ma il centurione lo fermò con un cenno.
–È la madre – spiegò.
Il sottufficiale lo guardò sbalordito e poi volse ancora gli occhi verso Maria, perché la cosa non gli pareva giusta. Come poteva essere la madre di Gesù, di quel pezzo d’uomo grande e maturo, lei, una donnina esile che va dritta come una giovinetta?
Eppure il signor centurione ha visto bene, ha ragione. Quel viso straziato, ma non sconvolto, dove il pianto non ha singhiozzi, ma lacrime sole trattenute e lasciate una per una, è un viso di mamma.
Anche il centurione guardava Maria e non aveva visto mai un dolore così accorato e così composto, una bellezza tutta pura e tutta scoperta, che non c’è altre parole per precisarla, se non quelle due: bellezza e dolore.
Ma il decurione gli interruppe il pensiero: – Questi? – e indicava Giovanni e Maria Maddalena che erano giunti con la Vergine ai piedi della croce.
– Lasciali stare – disse il centurione. (Cap. Il segno di contraddizione, III, pp. 376-377)
La fede di Alianello è piena e sincera. E non poteva essere diversamente, per uno scrittore che si era pienamente consacrato a Maria, come egli stesso racconta nel libro autobiografico Lo scrittore o della solitudine (1970):
[...] Congregazione Mariana vuol dire unione fraterna nel nome di Maria. Nella cerimonia d’ammissione io mi son votato a Lei, come, secondo la vecchia formulazione feudale, cavaliere a Dama e Signora. Ho giurato e, se non ho sempre mantenuto il mio giuramento, non fu mai per infedeltà, ma per debolezza, così come quando il cavaliere si alleggeriva talvolta di corazza, giaco e morione; l’armatura di ferro è dura a portarsi, dura milizia è la vita degli uomini.
Però quella fede donata, quel prestato giuramento non l’ho scordato né lo dimenticherò mai per l’onore della mia Dama, neppure quando non vi saranno più né luoghi né tempi per correr quintane e nessun infedele porterà più colori avversi contro il suo azzurro manto. Resterà un nome solo, un tempo incommensurabile, un unico confine senza limiti né misure: l’eternità, dico, nel nome di Dio. (Lo scrittore o della solitudine, p. 84, cap. V)
E conclude il suo diario ancora ricordando il suo amore per la Madre di Dio:
Ora ho sempre sul mio scrittoio l’immagine della Vergine che mi conforta, anche nelle mie cadute, perché uomo sono e fragile, e, se lo spirito è intrepido, la carne è stanca e malata, non di mali corporei, ma di superbia, di sprezzo per un certo mondo che brulica di soprusi e d’inganni, di poca carità, non verso i piccoli e i bisognosi, ma verso i grandi e i superbi, anch’essi bisognosi, anch’essi miserabili, ma non abbastanza perché io riesca ad amarli, com’è dovere di cristiano. (Lo scrittore o della solitudine, p. 138, cap. VIII)
Carlo Alianello è attualmente uno scrittore ingiustamente poco considerato: sconta il fatto di essere «a metà strada tra Manzoni e Balzac», come scrissero di lui, vale a dire un grandissimo scrittore, ma in ritardo sui tempi, vissuto in un periodo che ha preferito la novità astrusa e lo sperimentalismo fine a se stesso anziché la vera bellezza. Ma il tempo permetterà di riscoprire la sua grande vena poetica.
ZENIT - Un romanzo su "Maria e i fratelli"
Ma che borghesi gli antiborghesi
di Giampietro Berti
Deve ancora essere scritto un libro che racconti senza pietà gli innumerevoli disastri compiuti da molti intellettuali nel corso della prima metà del Novecento, dato che la stragrande maggioranza parteggiò per il fascismo, il nazismo e il comunismo.
Ciò che li accomunava era l'odio radicale contro il liberalismo conservatore, additato come causa ideologica della legittimazione di una società tendente alla pace e al benessere, e quindi avversa a concezioni ideologiche «eroiche» ed «estreme» del vivere sociale. Tale stato d'animo non è si è esaurito con la caduta del fascismo e del nazismo, ma è continuato fino al '68 e oltre, quando ha trovato ulteriore alimento nella sistematica avversione a tutta la civiltà occidentale.
Abbiamo ora a disposizione una raccolta di saggi di uno dei grandi maestri italiani della storiografia filosofica, scomparso di recente, Paolo Rossi: Un breve viaggio e altre storie. Le guerre, gli uomini, la memoria (Cortina, pagg. 189, euro 13); saggi che riguardano alcuni momenti salienti della nostra storia nazionale, come il fascismo, la Seconda guerra mondiale, il dopoguerra e gli anni di piombo. Essi delineano alcune figure della cultura italiana intrise di quell'animus ideologico che abbiamo appena descritto.
Uno dei tanti banchi di prova dell'avversione antiliberale è riscontrabile, a giudizio di Rossi, nel secondo dopoguerra, quando si registra il repentino passaggio di molti intellettuali dal fascismo all'antifascismo; passaggio che, opportunismo a parte, delinea una continuità ideale; continuità a suo tempo sintetizzata dalla battuta di Ennio Flaiano, per il quale ci sono due fascismi in Italia: il fascismo e l'antifascismo.
Leggendo l'impietosa ricostruzione di Rossi ne abbiamo la piena riprova nella biografia di molti esponenti della cultura di sinistra; un percorso intellettuale emblematicamente rappresentato dal filosofo Enzo Paci, passato dal fascismo all'antifascismo per approdare, durante il '68, a un estremismo radicale e irresponsabile. Tale estremismo è rintracciabile in molti altri intellettuali. A esempio nel marxista Cesare Cases, il cui radicale antioccidentalismo si spinse ad affermare che la liberazione dell'uomo consisteva «nello scrollarsi dalle spalle la civiltà occidentale». Rossi, soprattutto, è caustico nei confronti di coloro che demonizzano l'Occidente senza ripudiare nei fatti nulla del benessere che esso produce. Sempre sull'onda di questa irresponsabilità autoreferenziale possono essere visti anche i contraccolpi del marxismo: la sconfitta storica ne ha fatto affiorare la vera natura, l'essere cioè una gnosi travestita da scienza. La contrapposizione manichea fra il Bene e Male si rintraccia, a esempio, nel profetismo millenaristico di due famosi intellettuali marxisti, Alberto Asor Rosa e Danilo Zolo. Quest'ultimo ha affermato che il terrorismo globale può essere definito come una «replica sanguinosa» provocata dalle «strategie egemoniche degli Stati Uniti». Ne consegue che per sconfiggerlo bisogna «liberare il mondo dal dominio economico, politico e militare degli Stati Uniti e dei loro alleati europei». Insomma, la colpa è tutta dell'Occidente.
Dove però il catastrofismo apocalittico, quale forma di autocompiacimento anti-borghese, trova per Rossi il proprio apogeo è negli incredibili giudizi «estetici» di Pietro Citati e Guido Ceronetti riguardanti l'attentato dell'11 settembre 2001.
Così Rossi: «Pietro Citati ha scritto che Osama bin Laden e i suoi compagni “posseggono un genio della politica come oggi nessuno al mondo. Hanno una grandiosa immaginazione, una ferrea volontà, un'estrema lucidità razionale, un'intuizione potentemente semplificatrice, una spaventosa audacia intellettuale”. (A sua volta) Guido Ceronetti parlò della follia di chi aveva fatto costruire “quelle sciagurate Torri Gemelle”, affermando che il pensiero di ricostruirle “è della stessa natura tenebrosa del progetto terroristico che le ha abbattute”». Qui ogni commento è superfluo.
Roger Scruton
L'Occidente si può ricostruire. Per il «filosofo più influente al mondo»
nella nostra civiltà il rancore ormai ha preso il posto della fede, «ma
i barbari non hanno ancora distrutto tutto. La pietas ci salverà»
di Emanuele Boffi
A chi gli chiede di rispondere all'accusa di essere un «reazionario»,
risponde: «Sì, sono un reazionario. Nel senso che reagisco a ciò
che vedo».
Roger Scruton coltiva il sano pessimismo dei bastian contrari
e l'irriducibile speranza degli architetti medioevali che, anche
in tempi di barbarie, sanno dove andare a porre la pietra angolare
dei loro pensieri.
Giornalista, scrittore, filosofo, insegna all'Institute for the
Psychological Sciences della Virginia. E' l'autore della Guida
filosofica per tipi intelligenti e del Manifesto dei conservatori,
scrive di vino sul The New Statesman e dei temi più disparati
sull'American Spectator. Quello che per il New Yorker è
«il più influente filosofo al mondo» ama la musica (è compositore),
l'architettura (ma non le archistar) Thomas Stearns Eliot e Dante
Alighieri. Eppure Scruton, anche quando s'ostina a pestare
il mortaio sull'insensatezza degli idoli moderni, non si sofferma
mai alla sterile elegia del passato. è per questo che, proprio
al termine dell'ultimo libro si trova il capitolo "Raggi di speranza",
in cui il filosofo inglese elenca le persone e i gruppi di persone
che hanno saputo nell'ultimo mezzo secolo del Novecento
«rigettare il nichilismo dominante»:
«Giovanni Paolo II, il movimento giovanile di Comunione
e Liberazione, fondato in Italia da don Luigi Giussani,
correnti filosofiche tipo quella promossa da René Girard
in Francia, da Jan Patocka in Europa Centrale, da Czeslaw
Milosz in Polonia e Aleksandr Solzenicyn in Russia».
Un suo maestro, Thomas Masaryk, negli anni Trenta, previde
un futuro in cui «ogni fede sarebbe stata messa in dubbio, ogni
moralità relativizzata, ogni appagamento annientato».
E, aggiunge Scruton a Tempi, «certamente abbiamo fatto molta
strada in quella direzione. Ma non siamo ancora arrivati a quel punto,
e l'umanità nel passato è spesso tornata indietro dall'orlo del baratro...».
Nichilismo a luci rosse
Eppure i segnali che giungono, in particolare dal Vecchio Continente,
sembrano indicare che il piede che franerà nell'abisso è stato levato.
Nella sua Inghilterra - dove, ebbe a dire, ormai «Dio è uno straniero,
un clandestino» - Sky Real Lives ha mandato in onda il suicidio
di Craig Ewert, malato di Sla. Il suicidio uscito dalla sfera della disfatta
e della ribellione privata si è trasformato in show, documentario, reality.
Per Scruton, in storie come questa, c'è «il potenziale per una sorta
di pornografia della morte. I cuori delle persone saranno induriti dalle
immagini del suicidio al punto che nessuno reagirà nemmeno se il suicidio
è manifestamente assistito, e nemmeno quando quel che è presentato come
"suicidio" non lo è affatto, ma è piuttosto il frutto di una manipolazione
o di un inganno».
Così come è una frode quella spacciata dal sito internet
del quotidiano francese Liberation che ha scelto di ospitare
un "Osservatorio sull'eterosessualità".
Sulle istanze omosessuali - «è l'ortodossia della nuova ummah
dei disaffezionati» - Scruton puntò l'indice contro «la filosofia contemporanea
che ha ridotto il problema della morale sessuale a quello dei diritti.
Viviamo in un tempo esposto alla causa del nulla e ciò è dimostrato
dalla mancanza di volontà di avere figli, cioè di creare qualcosa
che abbia un significato al di là del momento».
L'uomo, bestia morale
Ed è una costruzione anche quella che vuol farci credere di essere
solo delle scimmie in giacca e cravatta, ma non per questo più
evolute degli orangutan del Borneo. Sulle istanze dell'ambientalismo
più sciocco Scruton riversa spesso una ferocia cannibale.
Tempo fa allevò e mangiò un maiale cui aveva dato il nome
del grande teorizzatore dei diritti degli animali: Singer.
Lo ha pasciuto, sgozzato e quindi macellato a casa sua, il tutto -
orgogliosamente - al di fuori di qualsiasi confine di legalità.
E a chi gli chiedeva conto dell'"efferato delitto", Scruton
non aveva altro da far notare se non che «siamo diversi
dagli animali, siamo esseri morali, mentre gli animali
non lo sono. Da qui la domanda se mangiarli o meno.
Loro non si pongono questa domanda. Difendo l'opinione
secondo cui noi dobbiamo mangiarli perché, se non
li mangiassimo, non esisterebbero».
E' per questa ragione che può solo ridere amaro della Spagna
di José Luis Rodriguez Zapatero, paese che ha voluto garantire
i "diritti fondamentali" anche alle grandi scimmie antropoidi.
«La Spagna di Zapatero - spiega - è un ottimo esempio
di una nazione in fuga dal proprio passato e dalla propria
identità spirituale.
È in uno stato di ripudio, e non sorprende la scoperta
che il movimento per i diritti degli animali ha messo radici
laggiù, dove tutte le forme tradizionali di distinzione hanno
subito un processo di erosione.
Il problema, ovviamente, è che si possono garantire diritti
agli scimpanzé, ma non si può insistere sui loro doveri,
e di conseguenza i diritti diventano vuoti privilegi che
non portano beneficio né all'umanità nella quale vivono
immersi gli scimpanzé né agli stessi scimpanzé.
Immaginiamo di garantire "libertà di movimento"
o "libertà di associazione" agli scimpanzé.
Come sarebbe la nostra vita?».
La gratitudine e il perdono
La filosofia di Scruton può essere riassunta in parole "antiche",
e bellissime, con cui il filosofo cerca di sottrarre l'esistente
dalla coltre dell'indistinto. Pietas, gratitudine, perdono, riso
(Scruton ha scritto pagine chestertoniane sull'idea di ironia).
Parole che si contrappongono a multiculturalismo, tolleranza,
altruismo («l'altruismo, a differenza della pietà, ha esiti sadici»),
termini ormai usati per legittimare, spesso, violenze indicibili.
Per questo, per Scruton si tratta di recuperare un senso dell'umano
che solo la tradizione cristiana è ancora in grado di comunicare.
La pena è barare sul senso dell'evidente, come ebbe a dire
a Giulio Meotti del Foglio: «E' vero che il feto è un collage
di elementi chimici, ma solo nel senso che la Quinta sinfonia
di Beethoven è solo una collezione di suoni, la Monna Lisa
di colori e i Promessi Sposi di parole.
Creazione significa invece creare un significato. Se gli esseri
umani cominciano a scomporre il tutto nelle parti, si ritroveranno
in un mondo senza significato di atomi disconnessi in cui niente
sembra prendere parte al presente».
In tempi in cui tutto, per diritto, deve essere permesso, Scruton
ama ripetere che «la vera libertà, la libertà concreta non è
agli antipodi dell'obbedienza, ma solo l'altro lato di essa».
Come l'Eucarestia nelle catacombe
Nel suo Il tramonto dell'Occidente Oswald Spengler scriveva:
«Un giorno l'ultimo ritratto di Rembrandt e l'ultima battuta
di Mozart cesseranno di esistere perché l'ultimo occhio
e l'ultimo orecchio accessibili al loro messaggio saranno scomparsi».
Scruton ha già osservato che è senz'altro veritiero che l'uomo
moderno vaga come un cieco in una valle nebbiosa, ma anche
che «sta emergendo un forte movimento laico e soprattutto
cattolico che va nell'opposta direzione, rappresentato
da Karol Wojtyla e da Joseph Ratzinger».
Non è ancora giunto il tempo di suonare le campane a morto.
«No, ricostruire è ancora possibile, e lo vediamo accadere.
La fede è difficilmente reperibile in un'epoca di buio,
ma brilla come una luce all'orizzonte, e quella luce cresce
come ci si avvicina ad essa. I barbari non hanno distrutto tutto,
ci hanno solo obbligato a interiorizzarlo, a ospitarlo dentro
noi stessi come memoria e a tenerlo lì, come una volta
l'Eucarestia era tenuta nelle catacombe».