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Discussione: Scrittori conservatori

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Oriana Fallaci: «Ho amato così tanto la vita da non potermi non definire cristiana»
    Redazione
    Un libro sulla grande scrittrice ne indaga l’umanità e i tormenti per una fede non compiutamente abbracciata ma sempre cercata e rispettata
    Tratto dall’Osservatore Romano, di Elisabetta Galeffi –
    «Sono convinto — ma fra noi non ne abbiamo mai parlato — che Oriana non abbia mai letto la Lettera ai Colossesi dove san Paolo scrive che Cristo ha “privato della loro forza i principati e le potestà e ha fatto di loro pubblico spettacolo”, ma è certo che lei, coi suoi scritti, con le sue micidiali e irriverenti interviste, ha fatto la stessa cosa, spogliando il potere dei suoi paramenti e offrendo pubblico spettacolo delle sue debolezze».
    Umberto Cecchi, nel suo ricordo dell’amica Oriana Fallaci (Oriana Fallaci. Cercami dov’è il dolore, Firenze, Polistampa, 2013, pagine 320, euro 13) scrive una testimonianza di quella che, per me, fu la via della fede della giornalista: la ricerca della verità senza ipocrisie e senza stancarsi. Lo dice lei stessa, in una telefonata che riporta Luigi Accattoli: «Ho amato così tanto la vita da non potermi non definire cristiana». Perché non potrebbe essere? Non tutti nasciamo con le stesse granitiche certezze, ma credo che ognuno di noi mortali abbia la necessità profonda, che ogni tanto fa capolino, di trovare una ragione del nostro essere qui, su questa Terra.
    Forse in alcuni il bisogno di ancorarsi a qualcosa è meno impellente, forse altri ancora si barcamenano senza farsi troppe domande. La Fallaci non apparteneva a nessuna delle due categorie. «Ognuno nella vita deve riempire il suo calice» diceva anni fa una suora del Sacro Monte di Varese. «I calici hanno misure diverse, ognuno ha il suo». Alla Fallaci, che ammetteva di non potersi dire “non cristiana” per cultura e per sentimento nei confronti dell’umanità, mancò per avvicinarsi alla fede «quell’anticipo di simpatia senza la quale non c’è alcuna comprensione» che Papa Benedetto chiede ai suoi lettori nell’introduzione di Gesù di Nazaret.
    La Fallaci, negli anni giovanili, quell’anticipo di simpatia non lo provò. Altrimenti, come avrebbe potuto l’Oriana, nella Firenze che amava, splendente di capolavori artistici nati da una profonda fede religiosa, non abbandonarsi, almeno, alla speranza di non esser soli? La Fallaci era cresciuta da genitori militanti di Giustizia e Libertà, un movimento nato nel 1929 che lottava per una società laica e secolarizzata. Ebbe un’educazione forgiata negli ideali della famiglia: a 14 anni attraversava l’Arno nel punto di secca con la sua bicicletta per trasportare munizioni. Uno svezzamento anche nel più radicale anticlericalismo, come riescono a esser radicali i fiorentini dal tempo di Dante.
    Ognuno ha il suo calice, la sua vita con cui riempirlo, la Fallaci ha trovato nella difesa della libertà, della dignità, dei diritti dell’uomo, la sua via. Oriana ha vissuto il giornalismo come un mestiere/missione; può esserlo se ci si crede.
    La difficoltà di entrare nei panni di altri uomini, in società diverse da quella a cui si è abituati, può rafforzare o distruggere le nostre certezze. Per incontrare chi non si conosce e si vuol capire è necessario andare oltre le varie forme di relativismo, gli schematismi e i pensieri deboli. Il giornalismo, specie quello di alcuni fortunati reporter, può diventare una via privilegiata verso un cammino di fede.
    Difficile immaginare quanto può resistere il desiderio di Trascendente nell’orrore di una guerra senza fine e con troppe vittime come quella del Vietnam. Ma, razionalmente, come si può accettare di trovarsi sulla Terra solo per un tale insensato destino? «L’obiettivo dello scrivere: è quella ricerca della verità che serve alla vita» dichiara Oriana Fallaci in una sua celebre conferenza nel luglio del 1983 a Buenos Aires, all’epoca della dittatura dei militari. «Senza il sogno di un mondo migliore non possiamo operare (noi veri scrittori) perché perdiamo l’obiettivo morale, la spinta creativa» conclude.
    «Provate a vivere come se Dio esistesse» ha proposto Joseph Ratzinger a chi non crede. Oriana Fallaci confidava, negli ultimi anni della sua vita, di riflettere spesso su quelle parole. Magari si era accorta che aveva accettato, da tempo, quella scommessa.
    Oriana Fallaci e la fede. L'incontro con Ratzinger | Tempi.it



    EMILIO BIAGINI, “TRIGOTTO” E NARRATORE IMPERTINENTE -
    La graffiante narrativa al servizio della religione
    di Piero Vassallo
    Fondatori della provocatoria associazione culturale i "Trigotti" (scherzoso titolo che allude ai bigotti inflessibili) il professore Emilio Biagini e sua moglie Maria Antonietta Novara, promuovono in Genova una scuola letteraria finalizzata alla diffusione del pensiero forte attraverso quella narrativa d'intransigente ispirazione cristiana, che suscita lo sdegno e promuove le censure del potente e implacabile culturame.
    I pensieri edificanti sono deplorati e squalificati dalle rumorose cattedre della vanità, del vizio e della dissoluzione mentale. L'iniziativa dei trigotti resiste tuttavia quale segno di vivacità lanciato dall'ambiente tradizionalista, severamente ostracizzato perché irriducibile alla cultura garibaldina della città marmorea.
    In mezzo al frastuono del futile e dell'inutile, resiste la minoranza ostinata, qualificata dalla memoria degli intrepidi Giuseppe Siri, Michele Federico Sciacca, Maria Adelaide Raschini, Gianni Baget Bozzo, Alessandro Massobrio, Cesare Viazzi e Raffaele Francesca.
    Emilio Biagini, il più estroso e creativo fra i militanti nell'animoso manipolo, è un dotto e affermato uomo di scienza, ma la sua vera vocazione è scrivere racconti, un'attività avviata privatamente negli anni dell'adolescenza e diventata fomite di successi (e di roventi polemiche) nel 2006, anno della pubblicazione del romanzo "La luce".
    Autore instancabile dallo stile scintillante, Biagini confessa con arguzia di conservare "una nutrita pila di inediti da dare in pasto ai suoi ventitré lettori e mezzo". Dalla sapida pila sono stati tratti gli avvincenti testi (quattordici) raccolti in un robusto volume antologico, pubblicato in questi giorni dalla veronese editrice "Fede & cultura" sotto il titolo "Montallegro e altri racconti".
    Il primo brano della raccolta ricostruisce con calore e ironia la storia della miracolosa apparizione a Montallegro, sulle alture di Rapallo, di una icona della Santissima Vergine Maria che era appartenuta ai fedeli della dalmata Ragusa.
    Gli altri racconti ora descrivono il cammino discendente verso il nulla di persone consegnate alla macchina mangiauomini, allestita dalla stupidità al servizio dell'inferno, ora mettono in scena personaggi che interpretano la resistenza alla devastazione post-moderna. Biagini traduce nella bella lingua dei romanzieri la fenomenologia dell'autodistruttore, che corre all'impazzata nelle vie della città gaudente e nei vicoli del buonismo teologizzante.
    Il coinvolgente racconto "La vocazione", ad esempio, descrive magistralmente la stupidità dell’imperante buonismo cattolico, che si allea con il furore laicista per rovesciare in un disastro pedagogico/antropologico la genuina vocazione religiosa di una ragazzina. "Il treno" dipinge con colori forti il vuoto che le mode punk scavano nell'animo degli adolescenti. "Il labirinto" propone il vuoto desolante di una biografia incatenata al successo.
    Non tutti i racconti descrivono l'alienazione demente/furente. I racconti "Lo straccio", "Il pianoforte", "L'uomo che tornò dall'inferno", "L'uomo che vedeva le anime", rivelano la presenza della Grazia divina trionfante sull'oscurità del mondo moderno. Notevoli sono le poesie che l'autore ha incastonato nel racconto intitolato "Nebbia".
    La lettura dell'antologia di Biagini si raccomanda quasi come una medicina ai lettori dei giornali anestetici, che riducono i mali del presente a trascurabili eccezioni alla luminosa felicità avanzante sulla via - laica e democratica - delle magnifiche sorti e progressive.
    EMILIO BIAGINI, ?TRIGOTTO? E NARRATORE IMPERTINENTE - di Piero Vassallo

    Fede&Cultura eBook



    "Il mio Ulisse feroce sfida i buonisti"
    Il romanziere-archeologo Manfredi "rilegge" i poemi omerici: "Che pena quelli che vorrebbero gli eroi greci più umani"
    Stefania Vitulli
    Al Festival «Anteprime» di Pietrasanta, Dante e Omero si sfiorano: Dan Brown ha presentato ieri Inferno, Valerio Massimo Manfredi presenta il secondo dei due volumi su Ulisse, Il mio nome è Nessuno.
    Il ritorno (in libreria da settembre per Mondadori). L'archeologo Manfredi rivaleggia con l'autore del Codice da Vinci anche sul versante cinema targato Hollywood: già deciso il film da Lo scudo di Talos (il suo primo romanzo, 1988), e pare che i produttori abbiano incontrato a Roma James Franco per un ruolo; in predicato due altre sceneggiature americane top secret, oltre a un progetto archeologico internazionale («Ma non abbandono Selinunte», ci dice, ovvero la sua ricostruzione del tempio G, crollato 25 secoli fa).

    La produzione di riscritture storiche aumenta. Come mai?

    «Oggi c'è un grande pubblico per questo genere. In un'epoca di millenarismi e apocalissi in cui non c'è più riparo per nessuno, fatta di miliardi di persone che hanno distrutto il vincolo con la natura e cercano di recuperarlo in modi ridicoli come il cibo biologico, narriamo di società piccole, di un mondo immerso nella natura e nei mostri, in cui diventi tu l'eroe, il conquistatore, l'esploratore che vive in spazi infiniti e sterminati».

    Tra lei e Dan Brown che differenza c'è?

    «Ho letto solo Il Codice da Vinci, dove si viola una logica inevitabile e stringente: all'inizio si promette che la storia è basata su documenti autentici, poi quando si va a vedere se è vero, scappa da ridere».

    Non sarà tutta invidia?

    «Sono felicissimo come sono: mentre parliamo qualcuno compra un mio libro a Singapore o a Santiago del Cile, le mie opere vengono ristampate, a diritti scaduti mi si chiede il rinnovo in tutto il mondo. Trovo che il modo di agire di Dan Brown sia tipico di un'operazione a freddo soprattutto commerciale: rompere le regole del gioco tutte le volte che fa comodo».

    E quali sono le regole del gioco?

    «Rispettare la tradizione consolidata. Creare una ricostruzione ambientale impeccabile, non solo drammatica, ma anche psicologica: i personaggi devono avere la mentalità di uomini del loro tempo, come se chi scrive là ci fosse stato. Come fa Dante con l'“Inferno”. Non ci devono essere contraddizioni, non sequitur, assurdità e anacronismi che rompono subito il patto col lettore. Alla fine, quello che fa piangere e tremare è il talento».

    Oggi quanti romanzi storici violano le regole?

    «Tanti. Un romanzo appena uscito in Italia su Achille e Patroclo ha spopolato negli Usa. È una storia soft-porn gay tra i due che viola tutti i codici. Una totale invenzione, visto che in Iliade e Odissea non c'è traccia di rapporti omosessuali. Nel libro, Achille si prova due orecchini, si ammira allo specchio e si mette due gocce di profumo sul polso. Che sia Chanel n.5?».

    Al suo Ulisse che cosa succederà in questo secondo volume?

    «Ho avuto due grandi difficoltà narrative: Omero nella seconda parte del racconto è sempre presente e inoltre l'elemento fantastico prende il sopravvento. E non potevo rappresentarlo realisticamente: non potevo fare del Ciclope un pastore guercio gigantesco e antropofago. Saranno i lettori a dire se ho trovato la soluzione».

    Qual è il segreto dell'immortalità letteraria di Ulisse?

    «È un eroe borderline, l'ipostasi del genere umano. Peccato che oggi si voglia persino insegnare a Omero a scrivere l'Odissea».

    Cioè?

    «Ero a cena con dei colleghi accademici di grande livello. Una a un certo punto esclama: “Ulisse è un bastardo. Ha perso la prima generazione di nobili in guerra e nei viaggi, poi torna e distrugge la seconda generazione con una strage. Avrebbe dovuto dire: Il re è tornato. E basta”. Ma Odisseo era un uomo dell'età del Bronzo, non un signore che ha letto i Vangeli, Marx e Spinoza. E si comporta come un leone in una società senza regole».
    "Il mio Ulisse feroce sfida i buonisti" - IlGiornale.it





    Santachiara & Co. buoni ultimi sulle vette dell'epica fascista
    Luigi Mascheroni
    Le storie reazionarie sono quelle che affascinano di più gli intellettuali impegnati a sinistra. Gli autori progressisti a parole, nei fatti cedono alla nostalgia per il passato.
    Ad esempio, quella raccontata a quattro mani da Roberto Santachiara e Wu Ming 1, scrittori politicamente più che corretti, nel romanzo-inchiesta Point Lenana della correttissima Einaudi Stile Libero, è una straordinaria storia - stranota fra i politicamente meno corretti - di eroismi, patriottismo, coraggio, Tradizione, nazionalismo. Una pagina gloriosa e fascistissima d'Italia. È la storia di Felice Benuzzi, internato dagli inglesi in Kenya, che nel 1943 insieme con due compagni fu protagonista di un'impresa epica e spettacolare lunga 17 giorni: una evasione-lampo dal campo di prigionia, la scalata del Monte Kenya con ramponi fatti col filo spinato, il tricolore issato su Punta Lenana (4.985 metri) e infine il ritorno-beffa, morti di fame e stanchezza, dai carcerieri inglesi. Un blitz leggendario, esaltato dal fascismo, magnificato dalla Tribuna illustrata, raccontato dai giornali e dallo stesso Benuzzi, a guerra finita, in un libro in due versioni diverse, italiana e inglese, e poi ri-raccontata da scalatori, storici, giornalisti e ora ri-ri-raccontata (fra reportage, fiction e inchiesta minuziosa) dallo scrittore Wu Ming 1, all'anagrafe Roberto Bui, nato a Ferrara, casa a Bologna, ma triestino d'adozione (come Benuzzi, che però nacque per sbaglio a Vienna), e da Roberto Santachiara, che in realtà non è scrittore, ma il più importante agente italiano, uno che ha nella sua scuderia i bestselleristi italiani e stranieri, anche Saviano fino all'altroieri.... Una coppia anomala (il primo si cela e dietro un nome de plume collettivo, il secondo è il personaggio più riservato e misterioso della nostra editoria) che si è appassionata a una vicenda epica («Non ne posso più di romanzi da pianerottolo», è l'unica battuta di Santachiara) attorno alla quale Point Lenana aggrega il colonialismo, i libri Del Boca, testi di Evola e tante memorie di «quando gli uomini e le montagne si incontrano»...
    Un libro su tanti libri, a partire da Fuga sul Kenya di Benuzzi (che ogni amante di montagna ha in casa: nel 2012 è uscito da Corbaccio), che ha l'ambizione di portare a un pubblico pop e meno «tradizionale» una storia culto per alpinisti&scalatori. Ma che, viste le recensioni (quasi nulle) e le vendite (a occhio, bassine), resterà tale.
    Santachiara & Co. buoni ultimi sulle vette dell'epica fascista - IlGiornale.it







    Chi era davvero il padre del pensiero liberale?
    Intellettuale finissimo e acuto, Alexis de Tocqueville è genericamente conosciuto come il "padre del pensiero liberale". Ma chi era davvero?
    Massimiliano Trovato
    Nel 1831, il visconte Alexis de Tocqueville – giovane magistrato parigino – era un uomo smarrito, in preda a una profonda crisi personale. Diversamente dalla famiglia, legittimista e fino all’ultimo fedele ai Borbone, aveva prestato giuramento agli Orléans; e tuttavia l’avvento della Monarchia di Luglio ne aveva congelato le prospettive di carriera.
    Nel considerare il nascente ordine politico, Tocqueville era dibattuto tra la lealtà all’istinto e alla coscienza di classe, che gli consigliavano di diffidarne, e quella alle proprie inclinazioni intellettuali, che suggerivano un atteggiamento di maggior apertura verso il nuovo assetto istituzionale – seppure non necessariamente verso i suoi interpreti. Si sentiva, perciò, isolato in patria; e persino esposto alle bizze della storia: “quando ho cominciato a vivere, l’aristocrazia era già morta e la democrazia non era ancora nata”, avrebbe scritto nel 1837.
    Così, Tocqueville accolse l’incarico di recarsi con l’amico e sodale Gustave de Beaumont negli Stati Uniti, al fine di studiarne il sistema penitenziario, come una preziosa opportunità per allontanarsi dalle vicende francesi e guardare ad esse con maggior distacco. Non poteva, però, immaginare quanto il viaggio avrebbe influenzato la sua concezione di libertà; né quanto l’opera originata da quell’esperienza (La democrazia in America) avrebbe contribuito alla sua fama di pensatore. La prima parte, pubblicata nel 1835, incontrò un enorme successo, tanto da essere adottata come libro di testo nelle scuole statunitensi; la seconda, invero meno acclamata, consolidò la sua reputazione.
    Il libro potrebbe essere definito come un trattato sull’autogoverno. I cittadini americani – nella ricostruzione di Tocqueville – si associavano per ogni fine; e molti dei compiti che in Francia sarebbero stati assolti – con maggior o minor successo – dal governo, erano in quel paese appannaggio di organizzazioni spontanee di cittadini. La natura intrusiva e espansiva del potere indebolisce quelle connessioni spontanee, le paralizza, le spezza: l’inganno dello Stato consiste nel mostrarsi come indispensabile, dipingendo le libertà di scelta e di associazione come strumenti residuali e eccezionali, e non come la strada maestra per farsi carico dell’interesse generale. In un certo senso, per Tocqueville, libertà è partecipazione: non tanto ai riti politici, quanto ai legami sociali e comunitari, unico e vero antidoto alla resa della persona allo Stato.
    Il profilo ideologico di Tocqueville è, in qualche misura, sfumato dal solido sostrato di concretezza sempre presente nelle sue opere, e dal ricorso a categorie flessibili come quella di “democrazia”; tuttavia, egli non fu mai timido nei giudizi normativi e qualificò con chiarezza il proprio quadro di riferimento: in particolare, fu sempre conscio dei limiti della democrazia, e della sua possibile degenerazione in “tirannia della maggioranza” – espressione che non coniò, ma rese popolare. Fu accorto per indole, ma non alieno al radicalismo delle idee, come testimoniano – per esempio – i suoi giudizi contro il socialismo.
    Alle fatiche intellettuali – dal 1841 fu socio dell’Académie Française – affiancò un’intensa attività politica: deputato nel 1839, nel 1848 membro dell’Assemblea Costituente e, brevemente, ministro. Il suo impegno pubblico cessò, sostanzialmente, con l’arresto per l’opposizione al colpo di stato di Napoleone III, nel dicembre 1851. Pagò il prezzo di essere un “obsoleto amante della libertà, in un’epoca in cui chiunque desidera un padrone”. Si dedicò a L’antico regime e la rivoluzione, il cui secondo volume – incompiuto – fu pubblicato postumo. Il 4 marzo 1859 scrisse all’amico Beaumont, pregandolo di raggiungerlo a Cannes, dove il deterioramento delle sue condizioni di salute l’aveva costretto a riparare: la fine si avvicinava. Tocqueville morì il 16 aprile: riposa nel villaggio normanno di cui porta il nome.
    Chi era davvero il padre del pensiero liberale? - IlGiornale.it


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Dalla denuncia dei Laogai ai dissidenti cubani: le note rock dei Fuoco Vivo
    Esce il nuovo album della band. Tra le canzoni un omaggio a Oscar Biscet, il medico cubano sbattuto in carcere perché difendeva la vita. E un brano sulla vergogna dei campi di concentramento del terzo millennio, i Laogai cinesi
    Orlando Sacchelli
    Sulla vergogna dei Laogai cinesi (i campi di lavoro forzato) si sono scritti libri e organizzati convegni. Lo stesso sulle battaglie dei dissidenti cubani, tra cui il medico Oscar Biscet, sbattuto in cella per le sue idee contro l'aborto e l'eutanasia, e condannato a 25 anni (scarcerato nel 2011, dopo undici anni di prigionia, grazie alle fortissime pressioni della Chiesa cattolica). C'è un gruppo rock, i Fuoco Vivo, che da anni affronta questi temi nelle proprie canzoni, mescolando spiritualità e vicende internazionali legate al tema della libertà.
    La band si ispira al christian rock di marca statunitense e alla sfida lanciata da Bono e dagli U2 agli esordi: "I nostri occhi sono aperti a un altro mondo, che esiste oltre i limiti monocromi e unidimensionali di quello che ci circonda". L’ultimo album dei Fuoco Vivo si intitola "Dimensione verticale".
    Il nome del gruppo deriva da un passo del libro biblico di Geremia. E diversi sono i riferimenti alle scritture sacre anche nell’album Dimensione verticale. Ma i protagonisti delle canzoni rimangono quelli che i Fuoco Vivo considerano i "veri eroi" del nostro tempo. Come, appunto, il dissidente cubano Biscet. In prima linea contro l’aborto, nel 1997 diede vita alla fondazione Lawton per i diritti umani, che si batteva contro le pratiche di clonazione umana cosiddetta "terapeutica", e l’aborto forzato per motivi di ricerca medica. Biscet si è battuto anche contro l’eutanasia praticata su malati poveri, ormai ritenuti soltanto un peso economico, e si è opposto con fermezza alla pena di morte e alla tortura per i dissidenti. Ecco perché la sua liberazione non poteva passare inosservata per i Fuoco Vivo che a Biscet hanno dedicato un pezzo del nuovo album, "Radio libertà", da cui è stato tratto anche un videoclip (Fuoco Vivo - Radio libertà (official video) - YouTube ). Il brano fa riferimento al momento del suo rilascio ("Oscar libero") ma evoca anche i durissimi anni della prigionia: "Parlare con la notte e stringere i pugni e piangere". Le note rock esaltano il coraggio e la speranza di un uomo pronto a "sfidare a mani nude chi calpesta senza scrupoli". Sebbene sotto stretta sorveglianza Biscet continua ancora oggi a lottare. Da poco ha lanciato perfino un proprio canale youtube: Revelando Cuba.
    Da Cuba i Fuoco Vivo si spostano alla Cina. La canzone "Macchine umane" denunciare i laogai: i campi di concentramento del terzo millennio, attivi dalla seconda metà del secolo scorso. "Non è fantasia" ripete il brano, ma "stupida follia". Dal 1949, anno in cui il Partito comunista è salito al potere, milioni di persone sono state internate nei laogai. Torturati e costretti ai lavori forzati a vantaggio del regime e delle imprese che lucrano sul lavoro dei prigionieri-schiavi. I Fuoco Vivo nei loro brani toccano anche temi molto sentiti dai giovani: dagli affetti al lavoro. La band nei prossimi mesi girerà l'Italia, esibendosi nelle piazze e nei teatri.
    Sul sito ufficiale FUOCO VIVO tutte le informazioni sulla band e, per chi lo volesse, le indicazioni per acquistare il nuovo cd.
    Dalla denuncia dei Laogai ai dissidenti cubani: le note rock dei Fuoco Vivo - IlGiornale.it



    Più propaganda che cronaca
    Indro alla campagna di Grecia
    Così Montanelli sul Corriere fascistizzato stravolgeva la guerra e giustificava il fallimento italiano (dettando la linea ai colleghi)
    Luigi Mascheroni
    Il difficile rapporto fra informazione e guerra nasce probabilmente già con l'assedio di Troia. Chi fa il resoconto degli eventi vuole essere libero di scrivere ciò che vede, chi fa la guerra vuole controllare ciò che si scrive.
    È una regola rigidissima, a cui non sfuggì neppure la penna più bella del nostro giornalismo, Indro Montanelli: inviato straordinario per scrittura e coraggio, e perfetto uomo di mondo nell'adattarsi quando serve a esigenze “superiori”. Lo fece, ad esempio, quando si trovò a raccontare al lettore (che Montanelli era troppo intelligente per non sapere che non è mai il tuo unico padrone) durante la campagna di Grecia, fra l'ottobre 1940 e l'aprile 1941.
    Fabio Fattore, in un intervento dal titolo «Indro Montanelli in Grecia: cronache e propaganda» sulla rivista Nuova storia contemporanea (in uscita il 15 maggio), sulla base di uno studio comparato delle maggiori testate presenti all'epoca - da Corriere alla Stampa, dalla Gazzetta del Popolo al Messaggero - e di lettere inedite del direttore del Corriere Aldo Borelli, mette in evidenza molte circostanze interessanti. La più importante delle quali riguarda il fatto che gli articoli scritti da Montanelli, per sua stessa ammissione, erano eseguiti su comando del «Nucleo corrispondenti di guerra», dipendente da Roma, e spesso con l'obiettivo di giustificare gli errori della campagna di Grecia: cosa che Montanelli fece sia sul Corriere sia, in forma anonima, sul quotidiano del Partito fascista albanese Tomori (in questo caso, come scrive Fattore, «con qualche accento antisemita in più...»). Non solo: le tesi “accomodate” di Montanelli (che sarebbe stata la Grecia a voler aggredire l'Italia, e che poi sarebbe stata l'Italia ad aiutare la Germania nei Balcani, cioè il contrario di come andarono le cose) furono poi riprese da tutti altri corrispondenti italiani, ma solo molto tempo dopo. Anche in questo caso, insomma, fu il maestro d'orchestra Montanelli a dare il “la” a tutti. Il direttore del coro.
    Come spiega nel suo saggio Fabio Fattore, il Minculpop stravolse completamente agli occhi degli italiani la conduzione militare, e i risultati, della disastrosa campagna greco-albanese: bloccando per settimane le cronache dai fronti terrestri, orientando la stampa e praticando una rigida censura. E in più la propaganda si servì di Montanelli per giustificare gli errori commessi durante la guerra, mentre Mussolini arrivò a chiedergli relazioni riservate su quanto accadeva al fronte: il Duce non voleva certo che Montanelli raccontasse sul suo giornale le reali condizioni delle truppe italiane e l'impreparazione degli alti comandi, ma gli risultava utile riceve informazioni per uso personale (nella biografia Lo stregone, 2006, si fa cenno alle informative, ma secondo Sandro Gerbi e Raffaele Liucci erano destinate al Minculpop: qui si dimostra come il richiedente e destinatario fosse il Duce in persona).
    In quel momento sottotenente di fanteria di 31 anni, Montanelli vola a Tirana il 28 ottobre 1940, giorno in cui le truppe del Regio Esercito, partendo dalle basi albanesi, entrano in territorio ellenico. E come tutti i suoi colleghi deve rapportarsi con il «Nucleo corrispondenti di guerra» che esercita un forte potere sulla stampa: fornendo materiale, organizzando visite al fronte, suggerendo temi da trattare e vietandone altri (all'inizio, ad esempio, è Alessandro Pavolini in persona a raccomandare ai direttori dei giornali di non svalutare troppo il nemico, perché si diminuirebbe il coraggio degli italiani; di usare mano leggera sul maltempo, altrimenti l'opinione pubblica si chiederà perché l'Italia ha deciso di attaccare proprio a fine ottobre; e di non sottolineare la mancanza di strade in Grecia: ciò darebbe l'impressione che il nostro Stato Maggiore l'abbia scoperto solo a invasione avvenuta (come in effetti accadde). Per capirci meglio, ecco un passaggio del pezzo di Montanelli «Artiglierie e aerei schiacciano le difese nemiche» uscito sul Corriere di 5 novembre 1940: «I nostri sono ben nutriti e ottimamente equipaggiati, pongono una cura puntigliosa nel mantenimento del materiale, sapendo che anche la vita di un motore o di un mulo è preziosa», le perdite sono scarse perché «i Comandi operanti quaggiù sono meticolosi» e «il nostro Quartiere generale segue ogni spostamento mantenendosi collegato telefonicamente». La verità ovviamente è un'altra, e chi è sul posto la sa: la campagna è cominciata nel peggiore dei modi, i soldati sono impreparati, i Comandi non all'altezza, il caos totale.
    E non va meglio il prosieguo della guerra, né il lavoro di Montanelli, che arriva addirittura a protestare con Borelli per i tagli operati dai colleghi di via Solferino, per un eccesso di prudenza, sugli articoli che hanno già superato i controlli militari. Fino al disastro finale, per l'Italia e per il grande giornalista, che non si sa quanto suo malgrado si fa portavoce della propaganda fascista. «Il ribaltamento della verità è completo - scrive Fabio Fattore -: dosando bene fatti reali con versioni dettate dall'alto, Montanelli conclude prima che è stata la Grecia a volere aggredire l'Italia, poi che è stata l'Italia ad aiutare la Germania nei Balcani. La teoria, che confeziona fra febbraio e aprile 1941 sarà ripresa, dopo l'armistizio, da tutti i suoi colleghi: quando dovranno spiegare le ragioni di una guerra cominciata “in condizioni di netta inferiorità da parte nostra” per “sventare in tempo il piano nemico”».
    Montanelli, a operazioni concluse, riceverà la Croce di guerra al valor militare. E il Corriere - che oggi tende a dimenticare gli anni della fascistizzazione e quelli del Montanelli in camicia nera - ne pubblicò per intero la motivazione ufficiale. A sprezzo del pericolo.
    Più propaganda che cronaca Indro alla campagna di Grecia - IlGiornale.it



    Stato educatore, si ricomincia
    di Angela Pellicciari
    Siamo alle solite: da quando la rivoluzione francese (e prima Lutero) ha soppresso la scuola cattolica in favore di un indottrinamento pubblico anticattolico, pomposamente denominato scuola pubblica, i tentativi di educare bambini e ragazzi alla morale illuminata e libera (da rivelazione, magistero e senso comune) sono proseguiti con regolare costanza. Giacobini, massoni, comunisti, nazisti, e, oggi, le élites illuminate di varia provenienza, concordano nell’idea che non siano le famiglie il soggetto più adatto ad educare le nuove generazioni. Questo compito spetterebbe alla stato per manifesta inadeguatezza, arretratezza e piccineria dell’ambiente domestico. I genitori sono carenti sul piano culturale e pieni di pregiudizi, quindi tocca allo stato: questo il pensiero apertamente condiviso anche da noi, poco più di un anno fa, dal ministro Fornero.
    Ora è la Francia che, ancora una volta come all’epoca dell’89, si è messa con decisione alla testa delle rivendicazioni liberali. Niente referendum per vedere se è davvero così popolare il matrimonio gay, e scuola di stato per imporre la morale laica. Così ha dichiarato il ministro dell’istruzione Vincent Peillon.
    Il progetto è quello di inculcare la “morale laica”. La morale comune? No, solo quella che l’elite socialista e radical-massone definisce tale. Quella che nega la realtà per costruire un mondo dettato dalle esigenze della ragione sedicente illuminata: niente sessi ma generi. Niente uomini e donne ma “esseri che praticano certe forme di sessualità”. L’educazione non è compito della famiglia ma dello stato laico, che di morale se ne intende e bene!
    Il pensiero di Mazzini, uno dei nostri cosiddetti padri della patria, è identico. Personalità di spicco del mondo settario internazionale dell’Ottocento, nel 1861 Mazzini scrive in Dell’unità italiana: «Gli uomini che avversano il principio dell’Educazione Nazionale in nome dell’indipendenza della persona non s’avvedono ch’essi sottraggono il fanciullo all’insegnamento de’ suoi fratelli per darne l’anima e l’indipendenza all’arbitrio tirannico d’un solo individuo, il padre». Mazzini è esplicito nell’attribuire a se stesso e ai suoi “fratelli” massonici la facoltà maieutica di sottrarre i giovani alla tirannia dei genitori. Per trasferirli nel mondo della “libertà vera”, quella imposta dall’alto con la violenza rivoluzionaria.
    Trent’anni più tardi, l’11 dicembre 1889, l’antico mazziniano Francesco Crispi rivendica alla Camera la funzione “creatrice” dello stato con queste parole: «Tutto ciò che si può creare per legge è legittimo, e l’autorità del Governo, che viene dalla legge, non è mai eccessiva».
    Speriamo di non ricominciare daccapo…
    La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Stato educatore, si ricomincia

    Röpke e l’immoralità dell’interventismo statale
    Grazie a lui la critica spietata dello statalismo elaborata dalla scuola austriaca e da Ludwig von Mises ha investito il mondo tedesco
    Carlo Lottieri
    Wilhelm Röpke ha occupato una posizione cruciale nell’Europa del ventesimo secolo. È proprio grazie a questo economista che la critica spietata dello statalismo elaborata dalla scuola austriaca e da Ludwig von Mises ha investito il mondo tedesco. È lui che favorisce la comprensione da parte di Ludwig Erhard della necessità di liberare i prezzi, permettendo in tal modo – dopo la seconda guerra mondiale – la rinascita di una società uscita completamente distrutta dal conflitto.
    Come attestano anche i due saggi del periodo 1964-65 raccolti ne “La statizzazione dell’uomo”, Röpke è assai critico verso i limiti culturali di certo economicismo, comune anche a talune correnti novecentesche schierate a difesa del mercato. La “terza via” elaborata da questo studioso (che da tedesco diverrà svizzero, dopo essersi trasferito a Ginevra) non mira a superare liberalismo e socialismo, ma semmai a ripensare e rafforzare il primo.
    Quando parla di terza via Röpke intende elaborare un nuovo liberalismo, sicuramente alternativo a ogni forma di interventismo socialista, ma al tempo stesso assai critico nei riguardi di quelle teorie che anche se difendono la concorrenza e avversano la regolazione statale, ugualmente non avvertono le implicazioni morali e culturali dei fondamentali problemi che dividono l’opinione pubblica. Questo aiuta anche a capire come la sua avversione per Keynes o Galbraith, e in generale per gli studiosi orientati a pianificare dall’alto la vita sociale, sia stata più radicale di quella di molti pensatori imbevuti di positivismo e indifferenti di fronte a ogni problema di ordine etico.
    Nelle pagine sugli “adoratori dello Stato” la polemica con Galbraith non è solo contro l’irragionevolezza dell’interventismo statale, ma è in diretto rapporto con l’umanesimo cristiano dell’intellettuale tedesco, che avversa con forza l’idea di uno Stato che si presenta come saggio, benevolente e onnipotente: di un Potere potenzialmente illimitato che “sa meglio di noi che cosa ci è utile e che, nella sua “umanitaria” sollecitudine arriva, sotto il segno dello Stato assistenziale e dell’educazione statalizzata, a sollevare dalle nostre spalle uno dopo l’altro i compiti e le spese che, nella nostra “prava individualità”, credevamo essere una responsabilità nostra”.
    Con questo Stato padrone, evidenzia Röpke, non c’è più spazio per la libertà né per la morale comune. E non si può salvaguardare la prima senza prendersi a cuore la seconda.


    IL PAMPHLET DI TOM WOLFE
    L'epopea dei rivoluzionari da salotto
    Redazione
    All'inizio fu Tom Wolfe. Nel 1970 scrisse «Radical chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto» (Castelvecchi). Un reportage strepitoso, in cui raccontava la festa organizzata da Leonard Bernstein al fine di raccogliere fondi per le Pantere Nere. Wolfe coglieva il desiderio dell'aristocrazia bianca: lasciarsi coinvolgere nelle rivendicazioni violente dei leader neri.
    Il libro passò alla storia, e l'espressione radical chic, «affettazione modaiola di punti di vista della sinistra radicale» (così traduce Daniela Ranieri in «AristoDem», Ponte alle Grazie), entrò nei vocabolari di tutto il mondo accanto alle espressioni «locali» spesso divertenti ma meno universali: «gauche caviar» (sinistra al caviale); «salonkommunist» (comunista da salotto); «champagne socialism» (socialismo champagne); «Limousine liberal» (sinistra in Limousine).
    IL PAMPHLET DI TOM WOLFE L'epopea dei rivoluzionari da salotto - IlGiornale.it

    Una medaglia (in ritardo) per Eugenio Cortidi Ruben Razzante
    Di lui si apprezzano soprattutto la grande capacità di indagine storica e l’attenzione agli sviluppi della società, con un palpitante incoraggiamento al recupero dei valori umani e spirituali venuti meno in seguito ai conflitti bellici e all’affermazione di ideologie contrarie al progresso umano.
    Eugenio Corti, nato a Besana in Brianza 92 anni fa, ha ritirato dalle mani del Ministro per i beni e le attività culturali, prof.Lorenzo Ornaghi, la Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte, premio conferito a quanti hanno illustrato la nazione nei campi della cultura, dell’arte, dello spettacolo. Tale alto riconoscimento conferma ancora una volta il profondo valore letterario delle opere e l’autorevolezza del pensiero di Corti, grande scrittore italiano, testimone d’eccezione degli eventi del secolo novecento e voce universale della letteratura contemporanea.
    La sua fama si lega soprattutto alla trilogia “Il Cavallo Rosso”, romanzo storico pubblicato da Ares nel maggio 1983 e giunto nel 2010 alla ventisettesima edizione italiana con traduzione in otto lingue.
    Apprezzato soprattutto tra i giovani, è uno dei romanzi che in Italia e all’estero hanno riscosso maggiore popolarità negli ultimi decenni. In esso l’autore racconta la storia della sua famiglia, pur parlando in terza persona e usando nomi di fantasia per far rivivere ai lettori le atrocità delle guerre e trasmettere ad essi il fulgore di una speranza cristiana lontana dalle ideologie che avevano condotto a quei conflitti e li avevano esasperati.
    La prima copia del Cavallo Rosso fu donata a Papa Giovanni Paolo II durante la sua visita a Milano e in Lombardia (maggio 1983).
    La sconfinata moltitudine di lettori di ogni età e condizione sociale che, in Italia e nel mondo intero, hanno trovato nelle opere e nel pensiero di Eugenio Corti un solido riferimento per la loro crescita umana, culturale e spirituale, riconosce in lui un testimone di primo piano del “secolo breve”, uno dei cantori e degli interpreti della crisi del XX secolo, al pari di altri grandi, come Eugenio Montale e Thomas Eliot.
    Ma qui si apre una riflessione non oziosa sul perché uno scrittore del suo livello sia stato per decenni pressoché ignorato nelle antologie scolastiche, nei manuali di letteratura o nelle enciclopedie e non abbia mai vinto premi letterari noti al grande pubblico e di cui si fregiano gli autori considerati importanti dall’establishment culturale ufficiale.
    Nemo profheta in patria. Mai frase fu più calzante di questa, se riferita a Eugenio Corti, assai apprezzato e studiato all’estero, ma non sufficientemente valorizzato e coltivato in Italia.
    La parte più ideologica della sinistra italiana non ha mai perdonato a Corti il suo talento, né la sua fede orgogliosamente cattolica.
    Corti nelle sue illuminanti opere, e con la sua limpida esistenza, ha saputo far rivivere gli orrori del comunismo (nel 1942-1943 visse per un mese chiuso in una “sacca”, un micidiale accerchiamento operato dai russi contro i nemici in ritirata). Negli anni cinquanta iniziò uno studio approfondito sulle atrocità delle ideologie della sinistra comunista, che diventerà una tragedia teatrale (“Processo e morte a Stalin”), nuovamente rappresentata cinquant’anni più tardi, nel giugno 2011, presso il Teatro Manzoni di Monza.
    Nel 1991 pubblicò “L’esperimento comunista”, che spiegava il comunismo nei suoi aspetti filosofici e politici e ne denunciava i crimini. L’originalità di Corti sta proprio nel voler fornire chiavi di lettura alternative a quelle della storiografia conformista, che per decenni hanno dominato nella formazione scolastica italiana e che risultano improntate a ideologismo e faziosità deformanti. Durante il periodo post-conciliare, Corti ha costantemente denunciato la deriva di tanti ambienti cattolici abbagliati dall’illusione marxista.
    Nel 2005 si è costituita a Milano l’associazione culturale internazionale “Eugenio Corti”, network di lettori nato con lo scopo di far conoscere la figura e le opere di Eugenio Corti in Italia e nel mondo. L’associazione svolge un’intensa azione di sensibilizzazione rispetto agli insegnamenti che lo scrittore brianzolo ha saputo trasmettere per decenni nei suoi scritti.
    Sarebbe opportuno che la visione cortiana dell’uomo e del mondo, profondamente realista e sempre equidistante dalle derive ideologiche di ogni colore e provenienza, diventasse oggetto di studio nelle scuole e nelle università, per consentire a una voce così autorevole e genuina del novecento come quella di Eugenio Corti di farsi apprezzare già negli anni della formazione della persona, in un momento di crescente smarrimento delle coscienze e di laiciste, nichiliste e distorte interpretazioni della storia e della società.
    La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online - Una medaglia (in ritardo) per Eugenio Corti





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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    L'OPERA OMNIA
    Dopo trent'anni «I più non tornano» chiude l'impresa
    Redazione
    Con la pubblicazione di «I più non ritornano», giunge a compimento l'Opera omnia di Eugenio Corti nel catalogo delle Edizioni Ares. La collana era stata inaugurata trent'anni fa con «Il Cavallo rosso».
    «I più non ritornano» è il drammatico diario dell'odissea del ventunenne tenente d'artiglieria Eugenio Corti, uno dei quattromila italiani (su trentamila) che riuscirono a uscire dalla sacca di Arbusov durante la Campagna di Russia. Il libro apparve in Italia per Garzanti nel 1947, e quella di Corti fu, in assoluto, la prima voce a raccontare l'inferno bianco della tragedia dell'Armir. François Livi, docente alla Sorbona di Parigi e autore dello studio «Italica: L'Italie littéraire de Dante à Eugenio Corti» (L'age d'homme, Losanna, 2012), ha scritto: «I più non ritornano è ben più di una semplice cronaca, per quanto ammirevole. L'ambizione di Eugenio Corti è più grande: tentar di capire, al di là della sua esperienza personale, necessariamente limitata, il mistero del male».
    L'OPERA OMNIADopo trent'anni «I più non tornano» chiude l'impresa - IlGiornale.it



    Col suo Hobbit, Tolkien ha tenuto testa anche ai razzisti del Terzo Reich
    di Edoardo Rialti
    "E’ pericoloso fare previsioni, ma potrebbe rivelarsi un classico”: è con queste parole che l’amico C. S. Lewis concludeva la sua recensione – il 2 ottobre 1937 per il Times Literary Supplement – de “Lo Hobbit” di J. R. R. Tolkien. Sono passati più di settant’anni, e alla prima neozelandese dell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, c’erano oltre centomila persone. Una “festa a lungo attesa” – a citare “Il Signore degli anelli” dello stesso Tolkien, che nello scrivere quella che era nata come semplice narrazione della buonanotte per i suoi bambini si trovò per primo esposto e coinvolto in un viaggio narrativo dalle conseguenze inimmaginabili, che vide affiorare nella sua immaginazione un affresco sempre più vasto: “Quella del signor Baggins è iniziata come storia comica fra convenzionali e inconsistenti gnomi usciti dalle fiabe dei fratelli Grimm eppoi è arrivata ai limiti estremi della fiaba – tanto che alla fine perfino Sauron il terribile vi fa capolino”.
    Fu sempre la finezza critica di Lewis a notare come la vicenda del piccolo e comico Hobbit coinvolto nel riscatto del tesoro usurpato dal drago Smaug – il più bel drago letterario che un amante di fiabe abbia mai incontrato, con la sua parlata magnifica e crudele – si facesse pagina dopo pagina sempre più epica e drammatica, tanto che persino il linguaggio si fa sempre più affine a quello delle heimsokn norrene, alle battaglie e al sentenziare nobile e austero delle contese legali nelle saghe antiche come quelle di Njall o Egill – “Vorrei inoltre chiedere quale parte della loro eredità avreste pagato ai nostri consanguinei, se aveste trovato il tesoro incustodito e noi uccisi” – e come, senza mai perdere il suo umoristico contrasto tra la tensione degli eventi e la comica inadeguatezza del suo protagonista, che da buon gentiluomo di campagna inglese si preoccupa spesso di non smarrire il fazzoletto per soffiarsi il naso, “bisogna leggere il libro personalmente per scoprire come questa mutazione sia inevitabile e come prenda velocità assieme al viaggio dell’eroe”.
    E una contesa aspra come quelle che infiammavano i vichinghi, seppure condotta stavolta in punta di penna anziché di spada, aspettava proprio lo stesso Tolkien, e il suo libro, che attirò l’attenzione degli editori tedeschi Ruetten e Loening. Questi si dissero disponibili a intraprendere la traduzione del libro e ad acquistarne i diritti, cosa che non avrebbe significato poco per un semplice professore universitario dalla famiglia numerosa, che aveva già messo le mani avanti sulla possibilità di sottoporlo agli “studi della Disney (per tutte le opere della quale ho un odio sentito)”. La casa editrice tedesca, secondo le leggi del Reich, chiese a Tolkien un certificato o una auto attestazione di razza arisch, cosa che in effetti il suo cognome lasciava ben sperare. La risposta di Tolkien è un piccolo capolavoro. Alla buona creanza – “Grazie per la vostra lettera” – segue una sistematica distruzione filologica delle confuse mitologie di Hitler e compagni: “Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per arisch. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati”.
    Tolkien certamente amava la cultura tedesca e si diceva fiero delle sue origini, ma, se queste dovranno farsi indistinguibili dalla “completa perniciosità e non scientificità della dottrina della razza”, allora mancherà davvero “poco al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio”. Aveva ragione Thorin il re dei nani quando, agonizzante, fissa negli occhi l’impacciato Hobbit Bilbo, che piange perché l’amico, dopo anni di esilio e di lotte, come Mosè o i monarchi scandinavi, si vede scivolare via ciò per cui aveva tanto lottato, e morendo lo conforta: “In te c’è più di quanto tu sappia, figlio dell’occidente cortese”. Era vero: lo Hobbit non aveva tenuto la testa solo a Smaug il Magnifico o alla gara di indovinelli di Gollum, ma anche al Terzo Reich.


    Il cane di Zarathustra
    di Marco Respinti
    Con Karl Marx (1818-1883) e Sigmund Freud (1856-1939), Friedrich Nietzsche (1844-1900) compone la trimurti dei “maestri del sospetto”. Con loro il pensiero si apre inesorabilmente a quel relativismo che allora era un fenomeno d’élite ma oggi impera ovunque. Sono loro i supremi insinuatori dell’idea che la realtà non è mai come la vediamo; che il mondo è una colossale cospirazione di menzogne (la politica, l’economia, la religione, l’educazione, la cultura); che il creato è tarlato sin dal principio e quindi va rifatto o distrutto, il che spesso, per tipi così, è la medesima cosa.
    Per questo Marx, Freud e Nietzsche stregano le menti più fragili. Marx ammalia indubitabilmente quando riformula ogni cosa in termini di rapporti economici; Freud conturba innegabilmente quando riconduce tutto all’inconscio; e Nietzsche rapisce sicuramente quando riduce il creato a volontà e rappresentazione. L’inquietudine del cuore umano impiega infatti un attimo a immiserirsi, se intravvede le scorciatoie di soluzioni prêt-à-porter al male del mondo e al mestiere di vivere. Perché se non si sa essere sant’Agostino, si finisce in fretta come Marx, Freud e Nietzsche.
    Disincantare dalle loro bugie, per reincantare al senso autentico delle cose, è dunque opera ardua; abbisogna di antidoti forti. Uno, studiato ad hoc per disintossicarsi dal sofista tedesco della “volontà di potenza”, è certamente il nuovo libro del sociologo Gianfranco Morra (uno dei nomi storici del pensiero per una volta tanto sul serio alternativo al conformismo che domina il nostro Paese), edito dalla milanese Ares, Il cane di Zarathustra. Tutto Nietzsche per tutti con un’antologia delle opere.
    Morra non è un moralista. Per Nietzsche prova trasporto sincero. Ne comprende la guerra all’ipocrisia. Ne condivide il rifiuto della modernità decadente. Ne compatisce la tragicità. Ne sa sublimare l’anelito a una salvezza ulteriore rispetto a ciò che è umano, e sin troppo umano. Ma Morra non è nemmeno un cavalier servente le mode del mondo. Scrive bene che la nietzscheana «condanna senza appello del mondo moderno, europeo e cristiano”» è un errore imperdonabile. In questa sua singolar tenzone con Nietzsche, alter ego del vero credente e quindi suo rovesciamento diabolico, Morra ricorda dappresso due giganti della cultura cattolica contemporanea, il pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), che del resto egli apprezza sinceramente, e il “filosofo-contadino” francese Gustave Thibon (1903-2001), tutti perfettamente coscienti del fatto che gli uomini delle grandi contraddizioni seducono sì, ma fuorviano.
    Nietzsche, osserva Morra, «condanna la decadenza, ma poi la accentua con le sue proposte; rifiuta la filantropia cristiano-laica solo per avanzare un disegno politico crudele e disumano; distrugge ogni fondamento della civiltà europea e cristiana, seppellisce la religione e la filosofia, di modo che si trova poi del tutto privo di ogni criterio di ricostruzione che non sia quello soggettivo del gioco e dell’arte o, peggio ancora, quello oggettivo della selezione e dell’allevamento; enuncia un Quinto Vangelo con il mito di un Superuomo, che certo vuole essere un “oltre” l’uomo, ma finisce poi, quando lo traduce nel concreto, per diventare un utopico “sopra” l’uomo e un reale “sotto” l’uomo». Il suo è dunque «un totale fallimento. Tant’è vero che il nichilismo, che egli pretendeva essere il carattere comune della civiltà europea da Socrate a oggi, non si è dissolto nel secolo apertosi nell’anno della sua morte, ma si è accentuato».
    Qualcuno, punge opportunamente Morra, ha assurdamente preteso, giocando sulle ambiguità, un ricupero cristiano di Nietszche, ma – alla scuola infallibile dei teologi cattolici Romano Guardini (1885-1958) e Cornelio Fabro (1911-1995) – è impossibile, giacché «con Nietzsche l’ateismo moderno tocca il suo culmine». Certuni rintuzzano sostenendo che l’ateismo, se autentico e integrale, è, a modo suo, una preghiera urlata. Vero. Ma il primo dei credenti è il diavolo, che l’ateismo lo usa ridendone amaramente l’insulsaggine. Il volume di Morra è insomma già un classico. Resisterà cioè al tempo per autorevolezza e rotondità. Da un lato, infatti, condensa, ricapitola e compie, con prosa raffinata e a tratti struggente, decenni di studi in un’opera che possiede i tratti della summula virtualmente definitiva sull’argomento. Dall’altro si propone come un abbecedario in grado d’introdurre anche i profani a uno dei pensatori probabilmente più influenti e malevoli del nostro tempo.
    Non scorda nulla, Morra, né la biografia né quell’“enciclopedia” sui generis di temi forse solo apparentemente confusi che è la filosofia nietzscheana, dalla psicologia alla politica, dalla teologia alla storia, dalla concezione dell’arte a quella della donna, chiudendo intelligentemente con la descrizione accurata delle sue opere e con la silloge delle principali interpretazioni critiche.
    Nietzsche ne esce con le ossa rotte. Meritatamente. Forse non si riavrà mai più. Dai pensieri stupendi con cui Morra costruisce questo testo importantissimo colgo in finis ancora un fiore. «Se la civitas christiana ha saputo creare, pur tra errori e tradimenti, la più alta civiltà nella storia del mondo, occorre ritornare a quella concezione dell’uomo e della comunità, non già rifiutarla in nome di miti utopistici e nichilistici.
    «Dobbiamo andare “oltre” Nietzsche, nel senso che dobbiamo riflettere a fondo sulla perentorietà della sua critica, ma in nessun modo “con” Nietzsche, nel senso che nulla del suo progetto di recupero appare sensato o realizzabile».
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    Martin Heidegger, un cattolico nascosto?
    Già da molto tempo è ormai emersa con chiarezza l’origine cattolica di quello che è da molti considerato il più grande filosofo del XX secolo, Martin Heidegger. Il padre era sacrestano della parrocchia di Messkirch, la madre desiderava che prendesse gli ordini religiosi e di fatti il giovane Martin iniziò il noviziato dai Gesuiti (poi abbandonato per motivi di salute). Studiò teologia a Friburgo laureandosi su Duns Scoto nel 1915.
    Sicuramente dunque proviene da un retroterra cattolico. La discussione verte oggi sul mantenimento di questo ideale nel corso della vita e sopratutto su quali tracce abbia lasciato nella sua opera filosofica. Ne parla su “Avvenire“ Francesco Tomatis, professore ordinario in Filosofia teoretica all’Università di Salerno, sottolineando come questo lato di Heidegger sia stato un messo in ombra dalla controversa adesione, peraltro per soli 9 mesi, al nazionalsocialismo in quanto rettore dell’Università di Friburgo.
    Fortunatamente sono usciti nell’ultimo periodo alcuni volumi con sue opere inedite che permettono di ricostruire questo legame con il cattolicesimo. Ad esempio “Contributi alla filosofia (Dall’evento)“ (Adelphi 2007), ma anche “Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger“ (Queriniana 2011) curato da Philippe Capelle-Dumont, docente all’Università di Strasburgo e all’Institut Catholique di Parigi. Egli individua il grande interesse di Heidegger verso il Nuovo Testamento e il rapporto vivo con il cristianesimo e la metafisica occidentale. Interessante anche l’intervista al nipote di Martin, Heinrich Heiddeger, sacerdote cattolico scelto dallo zio come confessore e consigliere spirituale nell’ultima parte della sua vita: “Martin Heidegger. Mio zio“ (Morcelliana 2011).
    Roberto Righetto invece, responsabile delle pagine culturali di “Avvenire”, sottolinea che il matrimonio (rito cattolico) con Elfride Prite, di fede luterana, lo allontanò per certi versi dalla Chiesa. Scrisse ad un amico: «Convinzioni gnoseologiche, che si estendono alla teoria della conoscenza storica, mi hanno reso problematico il Sistema cattolico, non però il cristianesimo e la metafisica» (Lettera a Krebs, 1919). Il nipote Heinrich assicura comunque: «pur essendosi allontanato dal “Sistema del cattolicesimo” non è mai fuoriuscito dalla Chiesa, come a torto è stato scritto». E ancora: «Ciò che lo ha mosso per tutta la vita è la domanda su Dio, anche se, filosoficamente, non l’ha esplicitata». Heinrich ricorda inoltre il profondo legame con il grande teologo cattolico Romano Guardini, e rivela che il celebre filosofo fu costretto a portare il simbolo nazista, anche se si dimostrò in privato sempre molto critico verso il partito di Hitler.
    Tomatis afferma che da questi nuovi volumi emerge chiaramente che «non solo la teologia, ma la fede cristiana e il cattolicesimo stesso risultano l’orizzonte esistenziale a partire dal quale soltanto è possibile comprendere l’intero l’intero cammino di pensiero di Heidegger, dai giorni passati presso il noviziato dei Gesuiti ai due anni di studi teologici universitari, ai pellegrinaggi annuali al monastero di Beuron, sino al conclusivo contegno solitario e monastico».
    D’altra parte è lo stesso filosofo tedesco a riconoscerlo nel 1938: «Solo chi era così radicato in un mondo cattolico effettivamente vissuto può intuire qualcosa delle esigenze che, come sotterranee scosse telluriche, influenzarono il cammino del mio domandare percorso fin qui» (M. Heidegger, “Besinnung”, V. Klostermann 1997).
    E ancora negli anni ’50: «Senza questa provenienza teologica, non sarei mai giunto sul cammino del pensiero. Provenienza tuttavia che rimane sempre avvenire». Heidegger stesso, continua il filosofo Tomatis, predispose personalmente il proprio funerale cattolico a Messkirch, con la recita del De Profundis e del Padre Nostro, officiato da Bernhard Welte e dallo zio Heinrich.
    Martin Heidegger, un cattolico nascosto? | UCCR








    Crisi o fine del mondo?
    Un saggio illustra l’esito anti-moderno dell’attuale “guerra civile mondiale”
    Giuseppe Brienza
    «Certi supponenti ambienti intellettuali […] deridono e condannano il timore di un’imminente fine del mondo quando si basa su antiche motivazioni religiose; ma lo prendono sul serio e l’approvano, quando si basa su moderne previsioni economiche e ambientali, per quanto fasulle siano, come quelle avanzate da noti guru neomarxisti od ecologisti».
    Lo afferma nell’Introduzione al suo ultimo saggio, “Fine del mondo? O avvento del Regno di Maria?”, lo studioso cattolico (è stato allievo a Roma di Augusto Del Noce) e vicepresidente del “Centro Culturale Lepanto” Guido Vignelli (“Fede & Cultura”, Verona 2013, pp. 176, € 12,50) che, partendo dalla disamina dell’attuale “guerra civile mondiale” s’interroga e fa interrogare sulla possibile imminente fine della storia o del mondo derivante dall’incipiente disgregazione dell’umano. «Tutti ammettono che il mondo d’oggi si trova in una situazione drammatica», argomenta Vignelli (op. cit., p. 11), ma poi le interpretazioni divergono, aggiunge, perché alcuni danno alla corrente fase di disgregazione il significato di una crisi definitiva che porterà alla catastrofe finale, altri quello di una “crisi di crescita” che, quindi, non potrà che essere di passaggio.
    L’autore, ricorrendo a strumenti principalmente di teologia della storia, inclina per una terza visione, in certo senso “intermedia” fra le due. Chiedendosi infatti se «L’attuale fallimento della “modernità” prepara l’avvento di una nuova epoca storica postmoderna o antimoderna come dicono alcuni» (op. cit., p 11), risponde che, secondo lui, non siamo alla “fine dei tempi”, ma solo alla fine di un tempo o di un’epoca: quella della Rivoluzione gnostica e anticristiana, della Babele planetaria e totalitaria. Della “modernità ideologica”, insomma.
    La sua risposta, quindi, in certo senso è la seconda, che vede l’approdo ad un’epoca “anti-moderna” , del resto ha scritto anche un originale “San Francesco Antimoderno. Difesa del Serafico dalle falsificazioni” (Fede&Cultura, Verona 2009) proprio per confutare quella grossolana e interessata falsificazione di un Serafico preso a paladino dei “no global” e degli ecumenisti/sincretisti del modernismo post-conciliare e post-ideologico. All’epoca attuale ne succederà dunque una nuova, austera, gerarchica, basata su quell’Istituzione primordiale che è la famiglia, nobile e generosa di figli. Una nuova epoca in cui la Chiesa rinnovata otterrà il maggiore trionfo della sua storia e, la Cristianità risorta, realizzerà finalmente il “Regno sociale di Cristo”.
    L’epoca ventura, poi, sempre secondo l’interpretazione di Vignelli e degli Autori contemporanei ai quali si appoggia nella sua teologia della storia, fra cui Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), padre Julio Meinvielle, Gianni Baget Bozzo, don Ennio Innocenti e René Girard, sarà non solo genericamente cristiana ma anche specificamente mariana, realizzando socialmente il celebre motto “ad Jesum per Mariam”, il “Regno di Maria”, appunto.
    In conclusione il saggio intende dimostrare la intrinseca debolezza del mondo moderno denunciando, nel contempo, «Lo spettacolo della teologia in ginocchioni davanti a un sistema ideologico agonizzante che legittima la domanda formulata da Vignelli: "siamo davvero alla fine del mondo oppure siam soltanto alla fine di un mondo, per quanto vasto e potente?"» (Piero Vassallo, "Fine del mondo? o avvento del Regno di Maria?", di Guido Vignelli, in “Riscossa Cristiana”, 6 Giugno 2013).
    Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa - Crisi o fine del mondo?


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    La cultura di destra ha vinto Ma non diventa mai politica
    Un libro ripercorre le vicende decennali del "think tank" Magna Carta e mostra come le idee conservatrici abbiano conquistato la società ma non il Parlamento
    Alessandro Gnocchi
    La sinistra, quando parla di «cultura di destra», non riesce o forse non vuole andare oltre la caricatura. Ieri, per dire, la Stampa ha pubblicato una doppia pagina sull'egemonia culturale della destra.
    Toh, stai a vedere che se ne sono accorti, meglio tardi che mai, ci siamo detti qua in redazione. Invece l'articolo metteva in fila la solita serie di luoghi comuni sul berlusconismo come appendice della società dello spettacolo, come letale mix di spensieratezza e aggressività «neoliberista» in grado di plagiare un'intera nazione. Grottesco. Chiunque sia uscito di casa almeno una volta negli ultimi vent'anni, e abbia dato un'occhiata in giro anche veloce, è consapevole di una realtà molto diversa. I pilastri della cultura di destra, infinitamente ampia e frammentata al suo interno, sono altri e non hanno a che vedere col Drive In (per altro bellissima trasmissione, avercene).
    Una idea sintetica, senz'altro parziale ma non imprecisa di cosa sia «cultura di destra» si può ricavare dalla lettura di Think tank all'italiana (Rubbettino) di Margherita Movarelli. È la storia della Fondazione Magna Carta, nata nel 2003 per iniziativa di Marcello Pera, che iniziò a prendere le distanze dalla sua creatura intorno al 2006, e Gaetano Quagliariello, oggi ministro del governo Letta. Il saggio è stringato ma efficace, l'autrice embedded ma non acritica. Come dimostra il titolo stesso. «All'italiana» sottolinea infatti una caratteristica, ma anche un limite, di Magna Carta, ovvero il legame divenuto sempre più stretto con la militanza politica. Le Fondazioni come correnti di partito? Il rischio esiste, ed è una peculiarità non riscontrabile nelle analoghe istituzioni anglosassoni.
    La Fondazione risponde alla necessità di offrire gli strumenti culturali necessari al nuovo centrodestra creato da Silvio Berlusconi. In questa operazione Magna Carta non è stata l'unica e neppure la prima protagonista. Ricordiamo le altre esperienze citate nel libro: il bimestrale Ideazione, che divulgò i maestri del liberalismo, da Von Hayek ad Aron, da Popper a Von Mises; la Convenzione per la riforma liberale promossa da Giuliano Ferrara, Lucio Colletti e altri; la Fondazione Liberal di Ferdinando Adornato, possibile terreno d'incontro tra liberali laici e cattolici; la Free Foundation, tuttora attivissima, di Renato Brunetta, attenta ai grandi temi dell'economia come sanno bene i lettori del Giornale. Manca, e quindi lo aggiungiamo noi, Il Foglio: l'evoluzione del quotidiano di Giuliano Ferrara offre un'importante chiave di lettura delle vicende del centrodestra (e sarebbe un ottimo soggetto per un altro libro).
    In Think tank all'italiana è facile individuare la proposta culturale del liberalismo conservatore propugnato da Magna Carta e, a nostro avviso, maggioritario nell'elettorato, non solo del Pdl. Riforme istituzionali: maggior potere all'esecutivo (con o senza presidenzialismo), Statuto dell'opposizione, bipolarismo. Occidente: centralità dell'asse con gli Stati Uniti, esigenza ancora più forte nell'epoca del terrorismo islamico. Europa: riscoperta della tradizione giudaico-cristiana come premessa indispensabile dell'unione politica. Cattolicesimo: confronto e incontro con la Chiesa sulla base della comune avversione per il relativismo dogmatico. Va ricordato, a questo proposito, l'intenso dialogo tra Marcello Pera e l'allora cardinale Joseph Ratzinger. Ma anche qualche polemica, quando il dialogo sembrò scivolare verso un appiattimento sulle posizioni del Vaticano in materia di bioetica. Liberismo: l'adesione al mercato, e al suo primato anche morale, non è unanime neppure nel centrodestra, altro che «neoliberismo selvaggio»... «Meno Stato e primato della sussidiarietà» comunque è una formula che mette d'accordo quasi tutti.
    E ora il domandone finale, quello decisivo, a cui il libro, intelligentemente, non si sottrae: tutto questo si è tradotto in politica? Solo in minima parte. Molte colpe si possono imputare ai limiti evidenti del Pdl. Ma non tutte. Non scordiamoci che il centrodestra ha dovuto fare i conti con macchine burocratiche forti come un partito, con una opposizione non all'altezza perché ossessionata dal nemico e con le invasioni di campo della magistratura. Tutto vano, quindi? No. Sul piano culturale, le energie sprigionate nell'ultimo ventennio hanno lasciato il segno.
    La cultura di destra ha vinto Ma non diventa mai politica - IlGiornale.it

    L’OSCURO VISIBILE: IL CUORE DI TENEBRA DELL’UOMO
    Luca Fumagalli
    Opera minore del premio Nobel per la letteratura del 1983, William Golding, L’oscuro visibile prosegue nel medesimo tentativo di analisi dell’anima umana già iniziato con Il signore delle mosche, il suo capolavoro indiscusso.
    Ancora una volta la sapiente penna dello scrittore inglese indugia nelle pieghe più remote e nascoste dell’uomo, scruta il suo cuore e ne fa emergere il doloroso contrasto tra bene e male, tra l’apparenza e gli innominabili segreti che affardellano il quotidiano. Non un’antropologia negativa, ma il coraggio e l’onestà di presentare l’uomo quale è, senza nessuna velina ipocrita, ma nudo nella sua libertà, nella possibilità di compiere il bene come il male, di raggiungere grandi vette come seppellirsi nei più gretti e odiosi peccati. Ogni sua opera è uno specchio in cui il lettore si affaccia colmo di terrore, scoprendo improvvisamente di quali e quante malattie è ammorbato il suo cuore.
    Il libro, il cui titolo è tratto da un verso del Paradiso perduto di Milton, racconta la storia di Matty, un giovane ragazzo senza passato che, miracolosamente, viene salvato da alcuni vigili del fuoco durante un incendio in un quartiere di Londra. Siamo all’inizio della seconda guerra mondiale e i bombardamenti tedeschi non hanno risparmiato il ragazzo che, orrendamente sfigurato, presenta una metà del volto completamente ustionata. Crescendo, il contatto con la scuola, i compagni e una realtà che sembra rifiutarlo lo gettano in uno stato di progressiva tristezza. E’ l’incontro con un mondo ipocrita, lo stesso mondo della beneficenza e delle opere caritatevoli che, in realtà, prova disgusto e odio profondo nei suoi confronti. Un disprezzo inizialmente estetico ma che ben presto si trasforma in qualcosa di ulteriore e quel volto, metà umano e metà mostruoso, ha la forza di turbare le coscienze che, in quale modo, si scoprono simili ad esso.
    Lo stesso Matty si trova impegnato poi in un’esistenza confusa, da un lato tutta tesa nella ricerca di un’identità sconosciuta, di un passato che gli è celato, dall’altro lo scontro con se stesso, il tentativo di comprendere se la propria natura sia benevola o maligna. Santo o Anticristo, angelo o demone, le sue azioni disorientano, slanci di crudeltà si alternano senza soluzione di continuità con gesti di grande carità, il tutto impastato in un rapporto di incontro/scontro con il professor Sebastian Pedegree.
    Una vicenda dunque non banale, spesso di difficile decifrazione, in cui i buoni o i malvagi non sono mai veramente tali e in cui è impossibile trovare un punto di vista stabile a cui aggrapparsi. Ne risulta una storia avvincente e inquietante, che colpisce il lettore con la forza di uno schiaffo, ma che, fortunatamente, non omette di offrire una speranza finale. Forse uno scossone un po’ troppo brusco ma, tutto sommato, un libro è impareggiabile proprio quando aiuta a svegliarsi.
    L?oscuro visibile: il cuore di tenebra dell?uomo | Radio Spada

    Il conservatore Santorum sfida il cinema liberal di Hollywood «che va contro i nostri valori»
    Paola D'Antuono
    «Milioni di americani non vanno al cinema perché non vogliono far vedere alcuni contenuti ai loro figli. Ora possiamo cambiare le cose»
    Rick Santorum torna a far parlare di sé. L’ex senatore repubblicano, che ha rischiato di sfidare Barack Obama all’ultima campagna presidenziale, prepara la sua corsa alle prossime elezioni del 2016 a partire dal cinema. Lo sfidante di Mitt Romney è diventato l’amministratore delegato della società di produzione cinematografica EchoLight Studios, specializzata in film destinati a un audience cristiana. È stato Santorum stesso ad annunciarlo, nel corso di un’intervista al canale televisivo Fox News: «Mi sembrava il momento giusto per farlo e mi sono buttato con tutti i piedi. L’intrattenimento rappresenta la forza e la luce che possono rafforzare i valori delle persone».
    FILM PER TUTTI. L’obiettivo della casa di produzione di Dallas è dare vita a un’industria dell’intrattenimento che promuova i valori conservatori e si presenti al pubblico come alternativa al mercato hollywoodiano, dichiaratamente progressista: «Ci sono milioni di americani che non vanno al cinema perché non vogliono vedere alcuni contenuti e non vogliono soprattutto farli vedere ai figli. Per troppo tempo Hollywood ha avuto il potere di influenzare i giovani americani, spesso con un messaggio imperfetto che va contro i nostri valori. Ora possiamo cambiare le cose».
    SFIDA A HOLLYWOOD. EchoLight Studios avrà l’obiettivo di intercettare il pubblico che ha di recente sancito il successo della serie tv The Bible, di History Channel, vero e proprio fenomeno televisivo e di concentrare la produzione sui cosiddetti “film per famiglie” che nel 2012 hanno permesso all’industria cinematografica americana d’incassare 1,3 miliardi di dollari. Il primo film in lavorazione ha già un titolo e una sinossi: The Redemption of Henry Myers e racconterà la redenzione di un rapinatore del vecchio West.
    Rick Santorum sfida Hollywood | Tempi.it

    Nicola Lisi - Diario di un parroco di campagna - romanzo epistolare
    Fonte: CulturaCattolica.it
    ed. Cantagalli € 12,00
    “Certe sere, quando ho trascorso la giornata inquieto, faccio una passeggiata sino al bivio della croce. Non v’è canto che mi alletta, né brusio d’insetto che mi divaga: mi compenetra il silenzio, dico una preghiera, mi si scalda il cuore…”.
    Ristampato dopo decenni di dimenticanza, questo “Diario” (da non confondere con il testo di Bernanos, simile nel titolo), dello scrittore cattolico toscano Lisi, è certamente il romanzo cristiano italiano più sorprendente ed intenso del ‘900. Sono i giorni e le ore piene di stupefacente stupore dello sguardo di un anziano prete del Mugello (Toscana) negli anni ’30. È uno sguardo che contempla la realtà intorno a sé come un dono, come un “segreto” di rivelazione di un Altro. Diario semplice, ma essenziale per la fede, la speranza e la charitas, che animano gli incontri e gli avvenimenti di un anno, indicati sempre con il nome dei santi della liturgia quotidiana della chiesa cattolica: la liberazione di un’indemoniata, la visita ad una parente, suora di clausura che offre dei gigli, quella ad un monastero dove il chiostro è illuminato da straordinari girasoli, la conversazione con un professore sull’“odore” della santità, lo strazio per una bambina perduta nel bosco, il rifugio di una colonia di farfalle bianche…
    La mitezza dello spirito e del cuore caratterizza questa figura, che riesce a guardare oltre il finito ed a inoltrarsi in quel “mistico quotidiano”, costituito dal territorio del Mistero, espressione della Bellezza e della Grazia.
    Dopo “I Promessi Sposi”, nessuno come Lisi, è riuscito a cogliere l’essenza e la semplicità del Cristianesimo come nel suo “Diario”. Lisi è certamente debitore dell’amico poeta Carlo Betocchi, di Papini, dell’anelito religioso di Leopardi, dell’inquieta ricerca del “varco” di Montale. Alcune pagine di questo libro dovrebbero essere lette nelle chiese cattoliche, accanto alla liturgia.



    Scruton: «L’uomo moderno ha perduto se stesso perché ha sostituito Dio con il ciarpame»
    Redazione
    In una intervista ad Avvenire il filosofo britannico spiega perché, eliminando le questioni di fede dalla sua prospettiva, l’io diventa incapace di conoscere se stesso
    Sono passati un paio di mesi dall’uscita in Italia dell’ultimo libro di Roger Scruton, Il volto di Dio (edito da Vita e pensiero). Nel volume, il filosofo britannico, senza dubbio uno fra i più influenti pensatori “conservatori” viventi, ha voluto provare a «valutare le implicazioni dell’ateismo crescente che ci circonda». E la conclusione a cui è arrivato non sono rassicuranti, poiché, scrive Scruton, «come lo sposo o la sposa nel sacramento del matrimonio, Dio è ineludibile, o eludibile solo creando una voragine, un abisso spalancato davanti a noi quando stravolgiamo non solo il volto dell’uomo ma il volto del mondo». Una conseguenza evidente di questo declino del pensiero umano provocato dalla rimozione del divino, per Scruton, è l’idea sempre più dominante secondo la quale «le neuroscienze ora devono rimpiazzare la filosofia come la vera capacità di spiegare la mente umana». Peccato che «nessun tentativo di rintracciare il soggetto nel mondo degli oggetti potrà mai avere successo».
    PROSPETTIVA UMANA. Oggi il filosofo torna su questi argomenti in una bella intervista concessa ad Avvenire. Da «persona moderna», dice Scruton a Lorenzo Fazzini, «mi approccio alla questione di Dio, della sua natura e della sua esistenza da una prospettiva umana piuttosto che divina». E da questa prospettiva umana non si possono eliminare le questioni di fede, perché esse hanno un «posto indispensabile nelle interazioni che ogni giorno noi abbiamo con altre persone».
    LA SCOMPARSA DEL SACRIFICIO. Ma come inciderebbe Dio nella vita dell’uomo? «Dio – spiega Scruton ad Avvenire – si fa conoscere nei nostri atti di carità e quando un essere umano sacrifica se stesso per il bene di un altro oppure senza pensare al proprio guadagno personale». Purtroppo però questo sembra non interessare più a nessuno oggi. «La cultura consumistica è una cultura senza sacrifici», continua il filosofo. Domina «il divertimento riadattato come oggetto dei nostri desideri» e dunque «è inevitabile che le manifestazioni di “timore sacro” siano tra noi una rarità. È certamente questo, e non gli argomenti degli atei, a causare il declino della religione».
    DAVVERO “NE ABBIAMO ABBASTANZA”? Per il senso religioso umano c’è insomma un pericolo più efficace delle prediche dei vari laicisti militanti alla Odifreddi e alla Onfray. Come osserva Scruton, «il nostro mondo conteneva molte aperture al trascendente, che sono state ostruite dal ciarpame. Alcuni diranno che non importa, che l’umanità ne ha abbastanza dei misteri religiosi. Ma credo che a nessuno piaccia il risultato. L’uomo postmoderno negherà che il suo disagio abbia un significato religioso. Ma penso che egli sia in errore».
    Roger Scruton: «Senza Dio l'uomo perde se stesso» | Tempi.it



    Sironi, un fascista che ha "cercato" l'infinito in città
    Elena Pontiggia
    Con questo libro di inediti uscito per i tipi di Abscondita, sono ormai trentun anni (una vita!) che mi occupo di Sironi. Da quando, nel 1982, ho
    scritto della sua opera monumentale per il Palazzo di Giustizia di Milano, a oggi in cui pubblico questa sua antologia di scritti dimenticati, non ha mai smesso di affascinarmi la sua arte drammatica e potente, che parla del dolore della vita, ma esprime anche un sentimento di grandiosità. È un sentimento che si può tradurre in una forma perfino di speranza. Ma sì, di speranza. E adesso cerco di spiegare perché.
    È singolare che la nostra epoca veda nelle città sironiane solo desolazione, e coltivi invece il culto dell’impressionismo, giudicato un’arte gradevole, rasserenante o, come oggi si ama dire, solare. In realtà il mondo di acque e fiori dipinto da Monet e compagni vive la durata di un attimo fuggente: presuppone quella brevità, quella provvisorietà della bellezza su cui hanno pianto i lirici di tutti i tempi. Nei quadri di Sironi, invece, la durezza delle pietre, le case senza gerani alle finestre, le città senza giardini, senza alberi, senza il refrigerio di un fiume, esprimono un’idea di eternità. La loro drammaticità è compensata da una potenza costruttiva classica, capace di erigere monumenti più perenni del bronzo.
    Nulla fugge, nulla è breve nella visione di Sironi. Tutto trasmette un sentimento di solennità, certo non accattivante come un campo di papaveri o un viale alberato (“L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza” diceva lui stesso), eppure animato da un’energia che non si esaurisce, da una vita non destinata a finire. E che cosa dà più speranza all’uomo (o, visto che la speranza è una virtù teologale ed è un dono di Dio), che cosa dà più forza all’uomo che pensare non all’attimo, ma all’eternità?
    La vita non ha risparmiato a Sironi le esperienze drammatiche: prima la perdita del padre a tredici anni, le ricorrenti crisi di nervi, la guerra; poi, nell’immediato dopoguerra, quando aderisce al fascismo, la povertà: la moglie Matilde ricordava che quando aveva dipinto uno dei suoi Paesaggi urbani più belli, quel giorno avevano mangiato in tutta la giornata un uovo in due. E, ancora, le aspre polemiche sulla sua pittura; con la caduta del fascismo il crollo di tutti i suoi ideali politici, un’esecuzione sommaria evitata in extremis (dopo il 25 aprile sta per essere fucilato per la strada, a Milano, e si salva solo per l’intervento di Gianni Rodari, partigiano ma suo estimatore), le umiliazioni e l’emarginazione; infine la perdita della figlia Rossana, che si uccide a diciotto anni nel 1948.
    Eppure nelle sue opere più alte non manca mai quel senso di grandezza che suggerisce anche a noi di non abbatterci di fronte alle prove della vita. Non so voi, ma a me non è mai capitato di non sentirmi depressa di fronte a certe visioni della vita tutte rose e fiori che per reazione mi fanno pensare al titolo di un saggio americano, Se la vita è un piatto di ciliegie, perché a me solo i noccioli? E invece non mi è mai capitato di avvicinare un capolavoro di Sironi, che certamente non indora la pillola, senza attingerne un senso vivificante di energia.
    Ma vediamo le sue opere più da vicino. Sironi è stato, con De Chirico, il maggior pittore di architetture del Novecento. Per lui, anzi, la pittura coincide con l’architettura: non perché rappresenta degli edifici, ma perché edifica delle forme. L’esito più alto e insieme l’emblema di questa sua concezione sono i paesaggi urbani, che nascono nel 1919, nel periodo in cui l’artista si stabilisce definitivamente a Milano. Le sue Periferie sono appunto architetture compatte, potenti, simbolo di una radicale volontà costruttiva, di una ritrovata capacità di dipingere forme compiute dopo le scomposizioni e le frammentazioni delle avanguardie. Per questo sono prive di quegli elementi leggeri, irregolari, volatili (nuvole, foglie, fiori, erbe, acque) che avevano contraddistinto le città dipinte dagli impressionisti, come pure di quegli elementi dinamici, di quel movimento che dissolveva figure e cose, che avevano contrassegnato le città dipinte dai futuristi.
    Occorre però non equivocare sull’asprezza della pittura sironiana. L’uomo non compare, nelle sue città, non soltanto e non tanto perché Sironi vuole esprimere la solitudine della città contemporanea (l’uomo era solo già ai tempi di Adamo), ma perché ha in mente un orizzonte più vasto dell’io. “Anche se noi non fossimo, l’universo sarebbe eterno. E questo eterno è Dio” scriverà anni dopo. Per questo le sue case di periferia hanno la nobiltà delle cattedrali.
    In questo senso può esserci d’aiuto una pagina del 1920 di Margherita Sarfatti, che delle Periferie sironiane è stata la più precoce esegeta. Vale la pena di analizzare le sue parole, perché la sua lettura non nasce solo dal suo intuito critico, ma anche da una conoscenza diretta dell’artista, dalle discussioni fra pittori e intellettuali che si accendevano nel suo salotto. Ed è una lettura in cui Sironi si riconosceva, vista la continuità e l’intensità del sodalizio che stringe con la scrittrice. Sironi, osserva dunque la Sarfatti, “da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre… una bellezza e una grandiosità nuove”. E conclude: “È lui l’artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta: luxe, ordre et beauté”.
    ARTE/ Sironi, un fascista che ha "cercato" l'infinito in città




































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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    E questa è l'egemonia culturale del Cav?
    Redazione
    di Gianfranco de Turris
    In Rai Angelo Mellone, nominato capostruttura de La vita in diretta, è sottoposto a killeraggio perché si scopre essere «intellettuale di destra». E al Museo di Rivoli una commissione di saggi decide di non decidere per favorire amici degli amici, comunque di sinistra. Ecco i risultati della egemonia derivata dalla «rivoluzione culturale berlusconiana» iniziata vent'anni fa...
    Chi sostiene questa idea ridicola? A 35 anni dal criminalizzante Cultura di destra di Furio Jesi, la sostiene La cultura delle destre (Bollati Boringhieri) di Gabriele Turi, già stroncato su queste pagine da Luigi Mascheroni. Una tesi ridicola e sbagliata, perché nel ventennio di governo berlusconiano, per nulla ininterrotto e assoluto, il centrodestra a livello culturale ha concesso un'alternanza con il centrosinistra sia a livello di governo sia soprattutto a livello amministrativo locale.
    Turi, e chi ragiona come lui, cade, spesso in mala fede, nell'errore che compiono da anni tutti gli intellettuali di sinistra quando affrontano l'argomento: confondere una miriade di piccole iniziative ristrette e locali, del tutto slegate fra loro, anzi spesso in contrasto fra loro, e in genere non «berlusconiane», con un grande e compatto progetto culturale «di destra» che invece purtroppo non esiste. Inoltre si confonde, come al solito, una vera e profonda Cultura con la maiuscola, con la tv popolare che cultura in senso proprio non è, ma semplice intrattenimento, gettando la croce, chissà per quale motivo, sul tanto demonizzato Drive In, peraltro inventato da un uomo di sinistra come Antonio Ricci.
    Ma cosa c'entrano sketch e ballerine di quel programma con la Cultura, di destra o meno che sia? Il fatto è che non è esistita, come progetto, programma, tattica e strategia una «rivoluzione culturale berlusconiana» degna di tale none. Ci sarebbe stata se sin dal 1993-94 si fosse puntato sulla vera Cultura: ad esempio, se la maggiore casa editrice italiana, Mondadori, finita nell'orbita berlusconiana, avesse impostato una vera «rivoluzione culturale» (che non dimenticasse ovviamente anche l'aspetto commerciale) riequilibrando l'unica vera «egemonia culturale» che è esistita ed esiste ancora, quella di sinistra, che Turi si ostina a definire «presunta». Ma Mondadori non lo ha fatto, limitandosi a dare spazio a qualche autore autenticamente e validamente di destra come Veneziani, Buttafuoco e Zecchi, ma non operando in modo diffuso in quella direzione. E peggio ha fatto Einaudi.
    Il centrodestra politico e imprenditoriale non ha mai mosso un dito e un soldo per sostenere le iniziative culturali - riviste, associazioni, editori - che avrebbero potuto nell'arco di vent'anni consolidare un elettorato moderato e conservatore. Stesso ragionamento per gli enti locali di centrodestra. Se si comportassero come quelli governati dal centrosinistra molte iniziative locali non sarebbero in difficoltà: ad esempio, il Premio Acqui Storia che si è visto decurtate i contributi dalla leghista Regione Piemonte, che credo non li lesini al Salone del Libro di Torino che nell'ultima edizione è sembrato una succursale del Pd, proprio quando in cinque anni ha dimostrato, sotto la gestione di un'avveduta amministrazione di centrodestra, di mettere finalmente in evidenza autori e temi a lungo ignorati anche se validi. La «cultura delle destre» non è certo quella descritta da Turi, ma bisogna che dopo tante chiacchiere anche il centrodestra se ne accorga.
    E questa è l'egemonia culturale del Cav?il commento 2 - IlGiornale.it

    La libertà fulcro del pensiero di Rosmini
    Se il socialismo è utopico, il comunismo è il male peggiore per l'abate Antonio Rosmini-Serbati, uno dei più rigorosi filosofi del XIX secolo
    Alberto Mingardi
    Nella società socialista, i governanti “aspirano a ricevere tutte le proprietà in deposito, gli altri debbono sperare di essere nutriti da quelli”.
    Al lettore contemporaneo l’italiano di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) può apparire roccioso, a tutta prima impenetrabile. Non ci si crede, che desse consigli in fatto di bello scrivere all’amico Manzoni. Eppure, la vigorosa polemica dell’abate roveretano vale lo sforzo della lettura. Il “Saggio sul comunismo e sul socialismo”, letto in forma di discorso all’Accademia dei Risorgenti di Osimo nel 1847 e stampato la prima volta due anni dopo, è una formidabile demolizione del perfettismo, ovvero dell’ambizione di costruire la società perfetta sulla terra. “L’uomo non è una macchina, miei Signori: e se fosse, a che tanto affetto, di cui gli utopisti si mostrano spasimanti, per una macchina?”.
    Rosmini si misura col socialismo cosiddetto “utopistico”: Babeuf, Owen, Fourier. Ciò che scrisse, tuttavia, s’applica in buona misura anche al socialismo cosiddetto “scientifico”, cioè marxista che noi meglio ricordiamo. Con sorprendente preveggenza, Rosmini (che non rifiutava per sé l’aggettivo di liberale, sostenitore di un liberalismo che è “un sistema di diritto e insieme di politica, il quale assicura a tutti il prezioso tesoro delle loro giuridiche libertà”) colse l’intrinseca contraddittorietà delle dottrine socialiste. Le quali puntano il dito contro la concentrazione delle proprietà in un’economia di mercato (“le diseguaglianze”) ma finiscono per patrocinare l’estrema concentrazione del potere in un unico soggetto: lo Stato.
    Pensatore che mai s’accontenta di fermarsi in superficie, Rosmini legge negli autori oggetto della sua critica anzitutto l'esproprio di qualsiasi responsabilità personale, ad apparente sollievo dei singoli. Proprio questa banalizzazione dell’essere umano (mera pedina sulla scacchiera sociale) consente d’immaginare “nuovi sistemi dove non è più nulla l’individuo, il governo è tutto” e l’individuo altro non deve che “eseguire materialmente gli ordini” del governo cui gli utopisti affiderebbero “ogni immaginabile potere”.
    Leggendo oggi Rosmini, vien da pensare ch’era scritto che il comunismo fosse la più strepitosa macchina assassina mai vista sulla terra. Se la società perfetta deve funzionare come un impeccabile meccanismo, ciò richiede una tale concentrazione di potere che per la libertà non c’è più spazio.
    La libertà individuale fulcro del pensiero di Rosmini SCARICA L'EBOOK A 1,99 EURO - IlGiornale.it



    Lettera su mio padre che si difese e sul gioielliere che non ha potuto farlo
    Ci scrive il figlio del tabaccaio milanese di Piazzale Baracca, che uccise un malvivente armato che voleva rapinarlo. Giriamo a chi è pieno di certezze buoniste
    di Nicolò Petrali
    Meglio un cattivo processo che un bel funerale. È quello che io e la mia famiglia, per certi versi egoisticamente, abbiamo pensato durante tutti questi anni. Dieci per la precisione, tanto ci ha messo la giustizia italiana ad emettere un verdetto sul caso di mio padre, il tabaccaio di Piazzale Baracca che nel 2003 uccise un malvivente che aveva tentato di rapinarlo.
    All’epoca dei fatti avevo 15 anni. Quel maledetto pomeriggio di maggio ero a casa di un mio amico a giocare a qualche videogame. Sua madre entrò nella stanza e mi disse che dovevo rimanere a casa loro a dormire perché i miei genitori avevano fatto tardi sul lavoro. Dovettero solo stare attenti a non sintonizzarsi, neanche per sbaglio, su qualche telegiornale. Sennò avrei scoperto tutto. Ovviamente la mia famiglia passò tutta la notte in questura. La mattina dopo tornai a casa. C’era qualcosa di strano nell’aria. Troppa gente sotto casa e qualcuno addirittura sul pianerottolo. Avrei scoperto solo dopo che erano tutti giornalisti e che io non gli interessavo, nonostante fossi il figlio del tabaccaio, perché ero ancora minorenne e quindi non potevano intervistarmi. Entrai in casa e vidi tutta la mia famiglia attorno al tavolo, tranne mio padre. «Nico, dobbiamo dirti una cosa – esordì mio fratello maggiore – ma non spaventarti . Stiamo tutti bene fortunatamente. Ieri c’è stata una rapina al bar e c’è stata anche una sparatoria. Il papà sta bene ma adesso è in ospedale perché lo hanno picchiato e ha preso qualche botta alla testa». In quel momento ebbi molta paura. Pensavo mi stessero mentendo per non dirmi subito la verità. «Dov’è papà?», fu l’unica cosa che riuscii a dire. «È in ospedale, sta bene», ribadirono. «Non facciamo scherzi – urlai – mi state dicendo la verità vero?». «Sì, stai tranquillo». «E allora portatemi in ospedale, subito!».
    Il resto della storia la lessi anch’io nei giorni seguenti sui giornali. Mio padre era stato malmenato, minacciato di morte, i due rapinatori avevano puntato la pistola prima su di lui e poi su mia madre. Nel bar c’era la cassaforte a tempo e quindi non poteva essere aperta in modo volontario. «Sparagli – urlava al suo complice il ladro non armato per spaventare mio padre – sparagli!». Mio papà mi ha confessato molte volte che in quel momento pensava fosse la fine. «Un’intera vita a lavorare per morire qui, come un cane», mi ha ripetuto spesso. Per fortuna non è andata così. Mio papà in un momento di disattenzione dei rapinatori ha preso la pistola e ha fatto fuoco. Uno dei due è morto poco dopo. Nel caos di quei momenti, tra ambulanze, polizia, curiosi che si accalcavano intorno al locale, mio padre chiedeva di suo figlio più piccolo. Era preoccupato di come avrei avuto la notizia. «Il fiulin ( bambino in dialetto milanese) – diceva a mia madre con un’espressione allucinata – il fiulin!».
    A tanti anni di distanza i postumi di quella tragica esperienza sono ancora forti. Mio padre ogni tanto ha ancora gli incubi. L’ansia torna spesso a fare visita a mia madre e a mia sorella. Nel tempo abbiamo ricevuto tanta solidarietà e dovuto mandare giù qualche boccone amaro. Un processo lungo, a tratti paradossale, in cui mio padre era accusato di omicidio volontario. Qualche provocatore che nei giorni seguenti entrava al bar e chiedeva il punto preciso dove era morto il rapinatore per mettere dei fiori o chi sosteneva che avrebbe dovuto sparare alla gambe, come se si ragionasse razionalmente in quei momenti. Alla fine l’assoluzione completa non è arrivata, ma non importa. Sono ancora convinto che un brutto processo sia meglio di un buon funerale.
    P.s. La famiglia Petrali è vicina nel dolore ai parenti dell’orefice ucciso ieri a Milano. Se ieri eravamo tutti tabaccai, oggi siamo tutti gioiellieri. Perché ogni volta che sentiamo una notizia del genere muore anche un pezzo di noi.
    Lettera su mio padre che si difese e sul gioielliere che non ha potuto farlo | L'intraprendente

    Manifesto in difesa della libertà d’armarsi, con numeri a rinforzo
    In Italia c'è un pregiudizio culturale contro il possesso privato di armi. Ma la realtà americana insegna: negli Stati in cui la legge è meno restrittiva, il tasso di crimine è minore
    di Stefano Magni
    Il gioielliere Giovanni Veronesi, ucciso a Milano da un ignoto rapinatore, in via dell’Orso, nel suo negozio, in pieno centro, in pieno giorno, non è solo la dimostrazione che Milano sta diventando una città sempre più pericolosa. Un uomo anziano, che secondo chi lo conosceva era molto prudente (non lasciava mai entrare più di un cliente alla volta), è stato ammazzato perché era indifeso. Non lo ha salvato la polizia, che pure è lì a due passi. Giovanni Veronesi potrebbe aver opposto resistenza fino all’ultimo respiro, secondo una prima ricostruzione dell’omicidio. Ma non aveva armi. La prima reazione dei commercianti milanesi, comprensibilmente terrorizzati, è quella di armarsi. E chiedere, per bocca dei loro rappresentanti, una revisione delle leggi sulla legittima difesa. Più libertà di tenere un’arma in negozio e di usarla all’occorrenza. Per ora le regole sono proibitive per chi cerca di difendersi e la magistratura le interpreta in modo estremamente restrittivo.
    Oltre alla testimonianza personale di Nicolò Petrali, che possiamo leggere su queste pagine, l’ultimo episodio riguarda, non un negoziante, ma una guardia giurata. Dunque un uomo che, per suo dovere, usa le armi per proteggere una proprietà privata. Ebbene: a Trieste, per aver ferito (e pure involontariamente) uno dei ladri che tentavano di svaligiare la banca che doveva proteggere, dopo un processo durato nove anni, una guardia giurata è stata condannata a un anno di galera e 10mila euro di risarcimento per il rapinatore. Che, a questo punto, può ben dire di aver fatto il colpo della sua vita: 10mila aggiudicati, con la benedizione di un giudice. Con precedenti simili, chi ha più il coraggio di sparare a un aggressore?
    In Italia prevale un forte pregiudizio culturale, più ancora che giuridico. I media italiani pompano tutte le notizie di cronaca nera negli Stati Uniti per dimostrare una sola tesi: la violenza è causata dall’eccessiva diffusione delle armi ai privati. Ma le statistiche dimostrano proprio il contrario. Nel saggio More Guns, Less Crime (più pistole, meno crimini), l’economista John Lott dimostra, numeri alla mano, come la liberalizzazione del porto d’armi, ovunque applicata, abbia causato un netto calo del crimine. Negli Stati Uniti, secondo dati del Dipartimento della Giustizia, il numero degli atti di violenza è costantemente diminuito (dai 3,5 milioni nel 1970 all’1,2 attuale) all’aumentare della diffusione delle armi per autodifesa nello stesso lasso di tempo (dalle 590 ogni 1000 cittadini nel 1970 alle 890 attuali). La cittadina di Kennesaw, in Georgia è un esperimento sociale unico nel suo genere: tenere un’arma in casa è addirittura obbligatorio dal 1982 ad oggi. Nessun obbligo è bello, ma il numero di furti nelle case e il tasso di criminalità in genere, si è dimezzato dopo quella legge. È la dimostrazione che il solo possesso di un’arma fa da deterrente, scoraggia l’aggressore. Non a caso, attualmente, le città più violente degli Stati Uniti, fra cui la capitale Washington DC, sono anche quelle in cui le leggi sul porto d’armi e l’autodifesa sono più restrittive. E non c’è possibilità di invertire la causa con l’effetto: a Chicago, per esempio, dopo i divieti introdotti sul porto d’armi nel 1980, i crimini sono aumentati del 40%. I nostri media sparano le notizie sui massacri nelle scuole. Ma nelle scuole, nessuno può portare armi, tranne i folli che decidono di fare una strage. Solo da due settimane a questa parte e nel solo stato del South Dakota, insegnanti e personale scolastico possono armarsi per difendersi. Finora sono stati uccisi uomini e bambini disarmati, proprio come Giovanni Veronesi a Milano.
    Manifesto in difesa della libertà d?armarsi, con numeri a rinforzo | L'intraprendente

    Le "cronache morali" di Bradbury
    Scelte etiche, valori della famiglia e difesa della vita: un'autoantologia tutt'altro che fantascientifica
    Alessandro Gnocchi
    Per capire che cosa distingue l'umano dal disumano, Ray Bradbury si è imbarcato in un colossale viaggio nell'universo della letteratura. Migliaia e migliaia di pagine, divise in romanzi, racconti, sceneggiature.
    Da qualche tempo in libreria è atterrato un imponente monolite, i Cento racconti. Autoantologia 1943-1980 (Mondadori, pagg. 1342, euro 29; con un'intervista finora inedita). In questo volume, Bradbury ha selezionato il meglio della propria sterminata produzione. C'è moltissima fantascienza ma non mancano singolari storie horror, ritratti della provincia americana, piccoli-grandi apologhi morali.
    Che descriva i coloni di Marte o un ragazzino in angosciante attesa del fratello, lo sguardo di Bradbury non cambia. A lui interessa cercare la verità. Per arrivare alle cose ultime, quelle che danno o tolgono senso alla vita, Bradbury costruisce grandiose utopie o altrettanto grandiose distopie (come nel suo romanzo più noto, Fahrenheit 451). Il risultato è sempre lo stesso: gli uomini si trovano in una situazione strana in un mondo stranissimo ma possono trionfare, o quantomeno resistere, se si comportano in modo etico. Una lezione, a dire di Bradbury, appresa da narratori umili (secondo i canoni della critica snob) quali Jules Verne o Edgar Rice Burroughs.
    Nei racconti ci sono splendidi personaggi. Senza perdere in spessore psicologico, essi sono l'incarnazione di idee. A esempio, l'idea che la tecnologia e il progresso siano auspicabili soltanto se al servizio dell'uomo. Non è affatto una prospettiva passatista, Bradbury è tutt'altro che refrattario al progresso. Si legge ne La gita di un milione di anni, storia di una famiglia in fuga dalla Terra: «La scienza è corsa troppo avanti a noi, e troppo presto, e gli uomini si sono smarriti nel deserto meccanizzato come bambini che si balocchino con attraenti congegni, elicotteri, razzi; dando rilievo agli aspetti meno degni, dando valore alle macchine anziché al modo di servirsi delle macchine».
    A proposito di famiglia. In quali altre raccolte di fantascienza s'incontra un numero così alto da essere sbalorditivo di padri e figli in cerca (e in soccorso) gli uni degli altri? In Bradbury perfino i vampiri non possono vivere al di fuori della soltanto in apparenza convenzionale famiglia borghese... In che cosa consiste l'orrore? Le paure più grandi sono la ribellione violenta dei figli, come nel magistrale The Veldt, o la mancata attenzione del padre, come nell'altrettanto magistrale Rocket Man. In quest'ultimo racconto, un guidatore di razzi interstellari non riesce ad abbracciare fino in fondo ciò che avverte come verità: «Il mare e la città, la Terra e la famiglia erano le sole cose vere, le sole cose buone».
    Non stupisce dunque che Russell Kirk, l'autore di The Conservative Mind, abbia visto in Bradbury un compagno di strada, da collocarsi accanto a Lewis e Tolkien. Secondo Kirk, Bradbury «ha sfoderato la spada contro il materialismo cupo e corruttore del secolo XX; contro l'idea di una società ridotta alla mera dinamica produttore-consumatore; contro la bruttezza del vivere moderno; contro il potere senza criteri; contro l'ossessione sessualista; contro l'intellettualismo vuoto; e contro la retta ragione pervertita nel giro mentale di chi dipende solo dalla televisione. I suoi marziani, i suoi spettri e le sue streghe non sono infatti un intrattenimento che distrae; al contrario, essi diventano, per vie misteriose, i difensori della verità e della bellezza» (cito da Enemies of the Permanent Things, 1969).
    Bradbury, come si diceva all'inizio, cerca sempre l'umano, anche nel disumano. Ne Le sfere di fuoco, il padre missionario chiamato a convertire le misteriose forme di vita marziane, luci baluginanti tra i valichi di montagna del pianeta rosso, espone un punto di vista vicino a quello dell'autore: «Se domani scoprissi che gli elefanti marini posseggono il libero arbitrio e capacità d'intelletto, la facoltà di riconoscere un'azione malvagia e il valore dell'esistenza, che significa temperare la giustizia con la misericordia e la vita con l'amore... se scoprissi tutto questo, potete star certi che andrei a costruire una cattedrale sotto il mare». In una famosa intervista rilasciata a Oriana Fallaci, e pubblicata nel 1968 sull'Europeo, Bradbury spiega alla giornalista perché sia necessario conquistare lo spazio. Dice lo scrittore: «Scordiamo il nostro sistema solare, scordiamo il nostro corpo, la forma che aveva, queste braccia queste gambe questi occhi, diventiamo non importa come, diventiamo licheni, insetti, sfere di fuoco, non importa cosa, importa solo che in qualche modo la vita continui, e con la vita continui la coscienza di ciò che fummo e facemmo e imparammo: la coscienza di Omero, la coscienza di Michelangelo, la coscienza di Galileo, di Leonardo, di Shakespeare, di Einstein!».
    La Fallaci, nel passaggio successivo, commenta così: «Ecco. Questa fu la risposta. E a me parve una bellissima preghiera».
    Le "cronache morali" di Bradbury - IlGiornale.it



    Beppe Fenoglio e quel miracolo di una grazia senza nome
    Carlo Bortolozzo
    Tra i dodici racconti che compongono I ventitre giorni della città di Alba, libro d’esordio di Beppe Fenoglio (1922-1963) pubblicato nel 1952, spicca Un altro muro. Fenoglio è noto per aver trattato il tema della Resistenza, a cui partecipò personalmente, senza toni celebrativi o agiografici, con uno stile “asciutto ed esatto”, come intuì da subito Calvino. Dietro all’avvenimento fondamentale della sua vita, la guerra partigiana, egli vide i risvolti esistenziali; si potrebbe dire che le inquietudini dei giovani protagonisti emergono sempre più sullo sfondo di quegli anni tragici, come documenta fin dal titolo il romanzo probabilmente più bello dello scrittore piemontese, Una questione privata. Fenoglio non ha il respiro mitico di Pavese, l’altro grande scrittore langhigiano, ma preferisce affidarsi a un’oggettività psicologica di misura
    quasi flaubertiana.
    Un altro muro racconta i giorni di prigionia di Max, giovane partigiano catturato dai repubblichini, in attesa della fucilazione. Egli appare, fin dall’inizio, un partigiano pentito, abbandonato dai suoi amici: “ero badogliano”, dice al compagno partigiano garibaldino Lancia con cui condivide la pena di quei giorni. Sono in attesa dell’esecuzione, dovrebbero essere rassegnati, “ma la voglia di vivere invece non ti va mica via”, dice il compagno. Ma mentre in Lancia sembra sopravvivere solo un istinto, Max spera ancora in una liberazione: immagina i compagni girare “per le alte colline liberi e padroni della loro vita” e li odia per questo; invidia il fidanzato della sua ex ragazza, “ma solo perché lui non doveva essere fucilato, lui sarebbe vissuto e per l’enorme numero di anni che compongono la vita normale d’un uomo avrebbe potuto fare un’infinità di cose delle quali il possedere Mabì era assolutamente la più trascurabile”.
    Si sente abbandonato da tutti, gettato in un’infinita solitudine. “Più niente dipende da noi. Per noi il giorno e la notte ce li fa il maggiore, ci fa lui la vita e la morte. E’ spaventoso che degli uomini abbiano una simile potenza, una simile potenza dovrebbe essere soltanto di Dio. Ma Dio non c’è, bisogna proprio dire che non c’è”.
    Tenta un’estrema solidarietà con Lancia: “Se ci mettono al muro insieme, facciamoci forza tra di noi”. Ma il compagno rifiuta, chiuso nel suo mondo di paure e di egoismi. Allora Max prorompe: “Se me la cavo…esco e non mi intrigherò più di niente. Nei partigiani non ci torno, tiro una croce sulla guerra e sulla politica… Purché me la cavi, faccio voto di solo guardare e non toccare nella vita, sono pronto a fare il pitocco tutta la vita”.
    Dinanzi alla morte crollano tutte le sue certezze, le fragili ragioni dell’impegno politico non reggono più. Rivolto a Lancia: “Tu te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? Se ti cerchi dentro, tu te la trovi l’idea? Io no. E nemmeno tu”.
    Tutto il distacco e la diversità da quel mondo esplodono. Max non aveva mai ucciso, ha orrore per la violenza; quando ha visto uccidere un fascista gli sembrava che il cielo gli crollasse addosso. Ma è soprattutto un episodio a stagliarsi nella sua memoria: quando ha catturato un repubblichino ha provato pietà, tanto da pensare di confortarlo. Non gli ha sparato, lo ha consegnato al suo comando con la promessa che sarebbe stato risparmiato. Ma i suoi compagni tradirono e uccisero il prigioniero. Avverte il senso di un’acuta ingiustizia: “Quando ho vinto non ho intascato la posta, e adesso che ho perduto devo pagarla per intero. Ma mi sembra di pagare per degli altri”.
    Dalla tana in cui sono rinchiusi, sentono i soldati giocare a calcio. Voci “calde e liete” di giovani penetrano nel luogo della sofferenza: Max immagina “le fughe e gli arresti” sul terreno invetriato dal gelo invernale e poi avverte “schioccar di dita, i botti del pallone ed il suo corto fruscio per l’aria”. Lo scrittore usa parole come “fughe” e “arresti”, riferibili sia alle azioni partigiane che al gioco del calcio: nella mente disorientata del giovane esse sembrano sovrapporsi in un tragico delirio.
    Il momento è giunto, le guardie sono arrivate a prelevare i due prigionieri per condurli davanti al muro. I soldati, forse gli stessi che un’ora prima giocavano a football, fanno loro attraversare le strade e la piazza del paese, per portarli accanto a un altro muro, quello del cimitero, dopo quello del carcere. Max urla, sperando di attirare l’attenzione della gente. E soprattutto si chiede: dove sono i partigiani adesso? Perché non saltano fuori a salvarlo? In un crescendo degno di Dostoevskji, Max sente su di sé “il rumore della fine del mondo e tutti i capelli gli si rizzarono in testa”.
    Ai suoi piedi corrono rivoli di sangue: è il compagno Lancia steso a terra. I soldati ora fissano lui. Ma, ad un ordine del comandante, i soldati si lasciano alle spalle quel muro e si indirizzano, insieme a Max, verso la città. Gli viene spiegato che, fin dalla sera prima, un prete era sceso dalle colline, a intercedere per la sua liberazione: come ne L’idiota di Dostoevskij l’uomo, a cui era stata inflitta l’angoscia suprema, viene graziato all’ultimo momento.
    Max non risponde e guarda “l’erba spuntare gialla tra la neve”. Anche lui, come il Barabba di Lagerkvist, non sa chi ringraziare della sua salvezza. Bisognerebbe proprio che ci fosse un Dio, avrebbe potuto dire Fenoglio.
    LETTURE/ Beppe Fenoglio e quel miracolo di una grazia senza nome





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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    LA FASCIO-PAPOLATRIA DI FRANCO CARDINI, DA PERÓN ALLA GNOSI PEDOFILA
    di Roberto Dal Bosco
    Franco Cardini è generalmente considerato un eroe della destra italiana. Nella solenne tripartizione dell’umanità culturale italica (giovane promessa - venerato maestro - solito stronzo) Cardini si dovrebbe ascrivere automaticamente alla categoria «venerato maestro», anche se a pensarci bene non si capisce di che: sedicente «tradizionalista», il docente universitario fiorentino non è nuovo a posizioni aberranti, delle quali però mai nessuno gli ha chiesto di rendere conto. Un privilegio di non poco conto, l’impunità. Di certo non lo garantisce l’inesistente mandarinato del regno culturale destro - che è parimenti inesistente; lo può garantire, di solito, solo il favore della NATO del politicamente corretto, Repubblica, Espresso, Feltrinelli, etc. Si prenda il caso di Saviano, ritenuto bugiardo persino dai giudici, considerato una sòla letteraria persino da Aldo Busi, eppure ancora svettante lassù nell’empireo degli Dei Saputi, dei venerati maestri di cartapesta che infestano le lettere del nostro disgraziato Paese. Dai media debenedettiani, ma anche da quelli agnelliani, bancointesi o vescovili, il nostro Cardini è leccato senza requie alcuna, al punto da poter scrivere un libro sui martiri suicidi islamici con Gad Lerner, nel cui frusto salotto di cazzeggio catodico de L’Infedele - ora finalmente chiuso - al dotto Franco piaceva pontificare, impettito e protetto tra i dentoni sorridenti e le erre mosce dell’amico Gad - quello che, Oriana Fallaci definiva come colui «che cambia ogni poco gabbana, ed ora lecca i piedi a Mao, ora li lecca a Pol Pot, ora a Khomeini. Sicché se capitasse in un convento di monache rischierebbe di uscirne vestito da suora»[1]. Su questa teoria dei leccamenti, l’Oriana ci aveva preso in pieno. Ecco, pur non essendo suoi sostenitori in tutto e per tutto, non possiamo non notare come la Fallaci - a cui il Creatore ha sottratto la visione del teatrino filomaomettano di Lampedusa - è stata un’anima vera di Firenze, una grande fiorentina destinata, a differenza di Cardini, a lasciare un segno perpetuo, nella città e nel mondo intero.
    Recentemente molti sono rimasti colpiti da un ultimo, controverso intervento del Cardini, che è parso più scatenato che mai: neanche una settimana fa, il medievista toscano è uscito con un lungo panegirico di Bergoglio e del suo discorso barcaiolo, condendolo con varie incredibili perle che ci danno la possibilità di iniziare a comprendere la putredine dell’humus da cui muove il barbuto barone accademico.
    «Un Papa giustizialista, un vescovo socialista… dove andremo a finire?» è il titolo della ricca tirata in questione, uscita sul sito personale di Cardini e poi rimbalzata in altri angoli della rete. Si tratta, agli occhi dello scrivente, di una interessante summa della nuova idolatria papale, unita a cascami odorosamente ammuffiti dell’antico culturame neofascista: è una idolatria papal-fascista, una fasciolatria papista, una fascio-papolatria.
    Vogliamo qui dedicarci a vederne vari passaggi per capire quali sono le radici culturali - tossiche, e talvolta non prive di risvolti pornografici e criminali - del Cardini-pensiero, convinti che questo possa essere di qualche utilità per capire la tragedia dell’ideologia neodestra, che è una malattia che ammorba il Paese. Essa, di fatto, con le sue fumisterie neopagane o euro-statolatriche, ha bloccato per più di mezzo secolo la creazione di una vero movimento volto a riportare in Italia la legge del Dio vivente. Personalmente, prego perché la Nazione Italiana abbia a liberarsi dai dandy d’accademia, dalle loro indicibili attrazioni per la materia marxista o per la magia nera, dalla loro sterile inconcludenza, dal loro fallimento culturale, spirituale e generazionale. Ricordate, fuori dai testi scientifici, una sola opera degna di nota di Cardini? Un testo-manifesto che vi abbia elettrizzato davvero? Un programma che abbia dato forza al Cattolicesimo nazionale? Una campagna per i valori cristiani ideata da Cardini? Una qualche cosa per cui abbia lottato? Un qualche segno del suo passaggio per la direzione della RAI? Una battuta simpatica? Un’analisi approfondita? Un atto memorabile?
    No, davvero, di intellettuali castrati - tutti abbondantemente nutriti al sereno riparo dal mercato dalla grande mammella dell’istruzione statale- ne abbiamo avuti già abbastanza.
    Il futuro ha bisogno di ben altri personaggi, ognuno a suo modo con il dito pronto a tirare sul grilletto della Storia: servono sacerdoti consci di poter distribuire il miracolo dell’Eucarestia, servono ragazzi che offrano davvero il proprio cuore all’Intronazione di Cristo, servono operai che ridiano prosperità alle nostre genti, servono donne che facciano almeno 4 o 5 figli, servono organizzazioni che portino a marciare contro l’aborto almeno 40.000 persone, servono credenti di fede incrollabile - di ciascuno di questi cristiani, ora più che mai necessari, con mia fortuna conosco personalmente più di un esempio.
    Non abbiamo bisogno di untuosi e vanesi baroni, ma di Cristiani che facciano quello che hanno fatto sin dal primo momento: si diano a Cristo usque ad effusionem sanguinis.
    L’alba lampedusana del guénonismo abortista e mondialista
    «Papa Francesco è arrivato a Lampedusa esattamente ventisei mesi dopo quell’8 maggio del 2011, la data del tragico naufragio di un barcone di disperati la maggior parte dei quali incontrò la morte appunto in vista delle coste dell’isola considerata la Porta d’Europa da tanti poveri migranti. In ricordo di quelle povere vittime della loro sfortuna e della violenza e dell’egoismo altrui, il primo gesto del pontefice giunto pellegrino e penitente a rendere omaggio agli “Ultimi della terra”» ; pare di leggere un qualche ciclostilato di una ONLUS di protezione degli immigrati, invece l’incipit dell’articolessa del sedicente cattolico serve a farci capire dove si andrà a parare: il nuovo fariseismo filo-immigrazionista, un tempo appannaggio delle beghine sinistre e del loro rigido snobismo da maestrine mondialiste (chessò, ad esempio la Boldrinmeier, come con simpatia chiama la Presidente della Camera Dagospia ricordando la passione degli italiani per l’arcigna maestra francofortese di Heidi, che un po’ in effetti somiglierebbe anche al nostro Cardini) , ora invece in evidente tentativo di sdoganamento anche presso il mondo cattolico.
    L’esaltazione per il fatto raggiunge vette bibliche: «La scena dell’8 luglio, in quest’angolo di onde e di roccia al centro del Mediterraneo, somigliava alla perfezione a quella di circa duemila anni fa, quando le folle sulle rive del Mare di Galilea videro scendere da una barca Uno venuto per sfamarli, per guarirli, per confortarli». Ma pennellata dopo pennellata, questo quadretto di meraviglia evangelica non tarda ad mostrare la sua vera natura: «Dinanzi all’altare, durante la celebrazione della messa, il Papa si è rivolto direttamente ai rifugiati, nella totalità o quasi musulmani: ha ricordato che appunto con l’8 luglio è cominciato il mese del Ramadan, ha salutato i fedeli del Corano e ha assicurato che la Chiesa segue la loro preghiera delle prossime settimane. Tra gli astanti, sotto il sole, moltissimi non avevano né mangiato né bevuto dall’alba: e non lo avrebbero fatto fino al tramonto». Il tono del Cardini è effettivamente vibrante, eccitato, gli sembra di essere stato lì tra i flutti e non aver mangiato nulla nemmeno lui per tutte le ore di luce (invece con probabilità è stato seduto sulla sua comoda poltrona con la pancia bella piena). Un grande spot papale per il ramadan, ha pensato qualcuno: e come dargli torto; di fatto nella mente del mondo secolare oramai il digiuno è una esclusiva estiva dei musulmani, e i poveri cristiani che come il sottoscritto tentano di osservare il digiuno del venerdì vengono apostrofati, dai non-credenti, come cripto-musulmani («non mangi oggi? sei ancora in ramadan?»): anche in questo, Bergoglio si è solo accodato umilmente al mondo che non sa neppure più riconoscere i tratti della religione di Cristo.
    Ma non è quel che dice il Papa che ci interessa qui, preme invece analizzare la sudata eccitazione del Cardini. È qui che si innesta la prima, triste nervatura del fallimento ideologico cardiniano. Perché, se non lo si è capito, Cardini dall’Islam è emozionato, infiammato, di default: «I musulmani interrogati dai giornalisti hanno tutti dichiarato di essere felici e commossi della visita del Santo Padre, anche se qualcuno ha aggiunto che – com’era del resto suo diritto – non avrebbe assistito alla messa. Ma quel che non sapremo mai, e sarebbe la cosa più interessante da sapere, è quanti di loro sono restati profondamente scossi dall’incontro con Papa Francesco: resteranno fedeli al Profeta (non è la conversione il pegno di tutto ciò), ma cominceranno a porsi dei problemi nuovi o a considerare sotto una luce nuova problemi che credevano vecchi». Sono pagine strappalacrime, queste dei bravi musulmani che ascoltano il Papa pur restando fedeli a Maometto: pensateci, un’utopia win-win di gioioso incontro di religioni, di oikuméne etnica, di «dialogo» e via aggiungendo paroloni e concetti ultra-sputtanati che farebbero felici le professoresse occhiute che leggono Repubblica. Ebbene, a loro, e a tutto il pubblico di sinceri democratici che vogliono spellarsi le mani con i loro applausi mondialisti, diamo questa notizia: Cardini non lo fa perché crede nel «dialogo» o in altre porcherie issate dalla neoreligione globalista del politicamente corretto. Lo fa perché vittima di una ideologia giovanile fallita che, nonostante l’età, non è riuscito a digerire, assimilare. Una ideologia, cari repubblicoidi, che può decisamente definirsi «neofascista».
    È il guénonismo, la grande vulgata neodestra per la quale esiste una unità segreta di tutte le religioni, il vero motore della geremiade cardinesca. René Guénon, il pensatore della Tradizione (mi raccomando, T maiuscola) dopo averle provate tutte (cattolicesimo, vedantismo, massonerie varie, etc.) si convertì all’Islam, vedendovi una purezza «tradizionale» che altrove il mondo moderno non offriva: in questo universo corrotto, meglio musulmano che cristiano. Il capolavoro di Guénon fu di riuscire a far passare quello che un tempo si chiamava «apostasia» per un atto di invidiabile rigore cavalleresco, destinato a segnare l’ammirazione di generazioni di aspiranti cavalieri della neodestra. Allo stesso modo, la vena di apostasia di Cardini è rivendicata - certo con il supporto delle mirabolanti avventure nautiche di Bergoglio - come un grande esempio di Fede: «oh Signore, come sono buono, io che penso agli immigrati!» - voilà servito il nuovo fariseismo.
    Il pensiero che vi sia un disegno globale fatto con i miliardi sauditi (ed ora anche qatarioti) dietro la guerra immigratoria condotta tramite i gommoni islamici (tocca citare ancora la controversa scrittrice fiorentina scomparsa, del resto un suo trafiletto vale l’opera omnia cardinica) non sfiora minimamente l’augusta mente del colto barone. Niente di tutto questo, macché. I nostri fratelli musulmani sono l’emergenza umanitaria - cristiana! - vera, ci dice Cardini: guardateli sbarcare belli pronti e sodi, cresciuti e vivaci; sono belli, fieri, retti - immaginiamo la fantasia dello storico che si perde compiaciuto dentro a visioni salgariane di feroci Saladini sandokaniani, di Sinbad il marinaio in versione barcone di extracomunitari, delle Mille e una notte che si producono nelle corti dello spaccio della suburbia milanese.
    Chiaramente separato dalla realtà nella sua fantasia di missino fallito e dal ruolo di satrapo d’Accademia con lauto emolumento incorporato, il Cardini di altre emergenze della nostra povera umanità non si cura per niente - che si ricordi, non mi sembra abbia partecipato alla Marcia per la Vita. I 6 milioni di innocenti frullati nel ventre materno sono meno importanti dei poveri immigrati, certo: i bambini morti sarebbero potuti divenire al massimo dei flaccidi cristiani, mentre ogni barcone musulmano che sgancia il suo carico umano in mare è una bella spruzzata di sangue maomettanamente Tradizionale (T maiuscola) iniettato nel nostro paese decadente.
    No, l’aborto, per Cardini, non è una priorità, in nessun modo, anzi, al contrario, sarebbe un diritto da estendere chimicamente: in un articolo del 2010 attacca l’«ondata di prevedibile e comprensibile entusiasmo presso molti cattolici ed alcuni esponenti dell’autorità ecclesiale» nei confronti dei governatori di Veneto e Piemonte Luca Zaia e Roberto Cota per aver bloccato nelle loro regioni la pillola RU486[2]. Le lotte per il crocifisso nei luoghi pubblici portate avanti dalla Lega Nord, ci informa il saggio fiorentino, non vanno per niente bene: «Si semina cattolicesimo antiabortista perché si vuol raccogliere cattolicesimo xenofobo (...) i cattolici non debbono lasciarsi ingannare. La lotta contro l’aborto si vince convincendo le donne a non abortire e creando istituzioni e strutture sociali che consentano a tutte loro di mettere al mondo e di crescere in pace un figlio: non inventandosi “rimedi” illegali». Spero che ogni lettore si possa rendere conto della gravità oscena, criminale, di questa contorta teoria assassina, degna del più abbietto dei pensatori stragisti. Sì all’aborto per dire sì all’immigrazione, magari musulmana. Proprio così, avete capito bene: sì al pesticida umano RU486, altrimenti non ci mandano più stranieri sui barconi - specialmente i maomettani! - che ci servono per ricostruire una società Tradizionale (maiuscola). Ci chiediamo se mai qualcuno al divo Cardini di queste frasi oscene ha mai chiesto conto. Probabilmente no, di fatto è ancora lassù issato sulla sua cattedra, gonfio ed impunito, che pontifica sul tramonto dell’Occidente.
    L’oscura attrazione per gli omoni, da Mazzini a Perón
    Il lettore deve capire qual’è l’origine di Cardini, che pure ripete di essere «cattolico», al punto da sembrare una excusatio non petita. Il Cardini militò da ragazzo nella Jeune Europe, movimento destroide paneuropeista che tanti ragazzi attirava tra gli anni Sessanta e Settanta - in Italia si contarono, oltre a quello di Cardini, i nomi dell’ora eurodeputato leghista Mario Borghezio, dell’iniziatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, del vignettista de Il Giornale Alfio Krancic[3]. All’iniziatore della Jeune Europe, Jean Thiriart, dell’Europa cristiana non doveva importare proprio nulla, se aveva come programmatico riferimento nel nome la Giovine Europa ottocentesca, ossia la creatura di uno dei più grandi nemici che il Cristo ha avuto in terra europea e in ispecie italiana negli ultimi due secoli: Giuseppe Mazzini, di cui Thiriart era un aperto ammiratore. Il fulcro dell’azione per Thiriart non è una prospettiva di Trionfo di Cristo e del suo Regno, ma un mito mondano di dominio politico, l’«Europa nazione di quattrocento milioni di uomini», come da titolo di un’opera dell’illustre belga.
    L’idea di base di Thiriart è lo sganciamento dell’Europa dagli USA e dal patto atlantico, cui doveva seguire un’alleanza con ogni sorta di tiranno autoritario presente sul bicontinente, in ispecie l’infoibatore yugoslavo Tito, il genocida cinese Mao Zedong, il vampiro sessuale romeno Ceausecu, il militare egiziano Nasser e il poco fortunato satrapo di Tikrit Saddam Hussein. Questa idea «fusionale», dove estremi destri e sinistri si toccano nel sogno di una autocrazia antiborghese e antioccidentale dura e pura, non è certo una novità, e reca con sé il più naturale dei tic neofascisti: lo smodato ed incondizionato culto dell’uomo forte.
    Cardini, nonostante l’età, questo non è riuscito a metabolizzarlo; ecco che quindi il sempiterno e malcelato desiderio dell’omone che lo domini fa capolino anche nella sua apologia del Bergoglio lampedusano: «tutti quelli che l’8 luglio hanno seguito la “diretta” di RAI 1 che, all’arrivo del Papa, una voce scandiva da un altoparlante, in perfetto italiano ma forse con una lontana inflessione iberica, lo slogan “Si sente, si sente, il Papa è qui presente!” (...) lo stesso slogan con il quale, nel 1974, la folla di Buenos Aires aveva accompagnato all’estrema dimora un altro argentino d’Italia, l’oriundo Juan Domingo Perón: Se siente, se siente, Perón está presente!». Eccoci, il tirannone è servito. Nella fattispecie, ecco la transustaziazione di Bergoglio nella mummia connazionale del Presidente Perón[4].
    A sentire il nome del Presidente dei descamisados, ogni cattolico dovrebbe farsi il segno della croce, e recitare la preghiera a San Michele Arcangelo. Chi oggi non sa come Perón fosse una delle più alte, aperte espressioni della massoneria internazionale? Cardini sicuramente finge di dimenticare, in questa sua agiografia del presidente argentino, un’altra scena di grande calore epico: 20 giugno 1973, il ritorno di Perón a Buenos Aires, la discesa dalle scalette di quell’aero dove aveva viaggiato anche Isabelita e il cadavere di Evita trafugato dal cimitero di Milano. Un momento leggendario, propiziato da poteri di forza occulta ed immane: tutti sappiamo che su quell’aeroplano viaggiavano anche Licio Gelli e Giancarlo Elia Valori, autentici pesi massimi della massoneria globale. Ricordiamo brevemente anche chi fosse il suo segretario particolare, più tardi ministro per lo stato sociale: Juan Lopez Rega. Detto el brujo, lo stregone, perché totalmente ossessionato dalla pratica esoterica - lo confessa persino Elia Valori - era massone e oscuro ideatore della famigerata Tripla A, lo squadrone della morte incaricato di produrre la Strategia della Tensione in Argentina. Massoneria, terrorismo, magia nera: questo stava dietro a Perón, una figura fatta di ombre sanguinarie che ora viene impunemente associata al Vicario di Cristo.
    Ma che importa a Cardini? Nulla. A lui, alla sua oscura voglia dell’uomo forte (che vi siano dei risvolti psico-sessuali, come suggeriva qualche scalcagnato psicoanalista francofortese che si occupò della psicologia dei fascismi?) non preme che avere una grande figura da incensare e da riverire, non importa se cristiano o musulmano, se massone o comunista, assassino o mestatore. Mussolini, Genghis Kahn, Mao, Giulio Cesare, l’Imperatore Federico, Stalin, Sadat, Pol Pot, Alessandro Magno, Perón: tutto fa brodo, basta gratificarsi della visione dell’omone che ti domina nerborutamente. È il sandokanismo metapolitico, la superstoria da Nembo Kid - l’oppio fantastico che brucia nei decenni i neuroni dei neodestri, lasciandoli nella loro catatonica inanità, a fluttuare tra gli onanismi delle loro sterili biblioteche.
    Darei un consiglio a Cardini: visto che si tratta di idolatria - un peccato del decalogo, ma che ci frega in fondo, la Bibbia è un libro fra tanti! - la prossima volta per i suoi eccitamenti faccia un esperimento, provi ad usare un altro idolo, invero più riuscito di quello di Perón: la moglie Evita. Non sappiamo però se, essendo femmina, la figura di Evita soddisfi i bisogni oscuri dei neodestri, sulla cui finocchieria latente troppo poco si è scritto.
    Cronache della disperazione antiamericanista
    Prese le difese del clandestino purché musulmano come insegna Guénon, commosso l’animo per l’arrivo dell’uomo forte come da cultura neofascista, a Cardini rimane un altro grande punto della sua fallita ideologia thiriartiana di gioventù, lo sparo alzo zero sugli Stati Uniti d’America, vera fonte di ogni male presente su questo piano dimensionale. L’antiamericanismo di Cardini è estremamente particolareggiato, indefesso, esasperato, disperato.
    «Questo Papa che ha commissariato lo IOR, (...), tra qualche settimana incontrerà i giovani nel suo continente latinoamericano: un altro continente-martire, al pari dell’Africa. Un paese dove la Chiesa cattolica è attualmente messa a dura prova dall’offensiva delle sètte finanziate dai centri di propaganda statunitense: le stesse che si fanno finanziare dalla United Fruits e dai gorillas protetti dalla CIA (un nome per tutti: Rios Montt in Guatemala)». Segue elogio della teologia della liberazione.
    È chiaro - e un po’ abuso - il gioco di Cardini: vuole gettare tutta la destra cattolica conservatrice nel calderone dei neocon. I cattolici che non la pensano come lui, insomma, sono stupide pedine della CIA, irretite tra le maglie mefitiche dei neoconservatori, con le loro catastrofi belliche: «Le resistenze delle razze di vipere e dei sepolcri imbiancati che vorrebbero una Chiesa «anticomunista» (e per i quali il “comunismo” inizia subito, non appena si abbandonano i beati lidi del liberismo sognato da personaggi come Von Hayeck e Novak) e magari antimusulmana». Ora, certo, al di là di questo molto sospetto attacco ad una Chiesa anticomunista, bisogna pur ammettere che c’è senz’altro del vero nell’influenza di Langley sulla sfera religiosa mondiale, ma va anche ribadito forte e chiaro che di tutta quella che fu l’offensiva del KGB sulla Chiesa (in ispecie, sul Concilio...) e sulle Americhe (e quindi sulla teologia della liberazione) non si sa quasi nulla, se non le varie rivelazioni di Ion Pacepa, antica superspia ceauseschiana: da lui abbiamo saputo che, ad esempio, il KGB istituì a Praga la Christian Peace Conference, «il cui scopo è diffondere la teologia della liberazione in America latina»[5].
    Pacepa è al momento la punta di un iceberg storiografico ancora inabissato, da cui emergono queste sue dichiarazioni e forse i teoremi di Jean Madiran sull’accordo di Metz, la tregua supposta tra Papato e Unione Sovietica: altro, dell’attività di propaganda KGB relativamente alla Chiesa, proprio non ci è dato sapere. Sospettiamo che, anche se qualcos’altro filtrasse, a Cardini (vecchio fan dell’URSS, come da pulsione thiriartiana) poco potrebbe importare. Con probabilità a lui l’Unione Sovietica piaceva, anche visceralmente: andò a starci per un po’, gli piace ricordare quando andava alla messa ortodossa con i Komsomol comunisti, e nel 1996 curò per l’editore di estrema sinistra Teti un volume tratto dalla Storia Universale dell’Enciclopedia dell’Accademia Sovietica delle Scienze dell’URSS. Il Corriere titolò un articoletto sulla sua uscita: «il “fascista” Cardini: “Viva l’URSS”!»[6]. Così, senza tanti infingimenti. Essere filosovietici (bada bene: non filorussi), non può che portare alla necessaria conseguenza dell’antiamericanismo con la bava alla bocca, come era quello delle Feste dell’Unità tosco-emiliane dei bei tempi andati. Il «cattolico» Cardini somiglia insomma più ad un Peppone demoniaco sotto steroidi preparati dal KGB che non a un parrocchiano di Don Camillo.
    Cardini ignora (o finge di ignorare) che forse una delle poche, grandi speranze per il mondo risiede nella rinascenza - che è sotto gli occhi di tutti! - del cattolicesimo americano. La conferenza episcopale statunitense è l’unica voce possibile contro il mostro Obama, le conversioni, anche di membri altolocati della società sono molte. Basta dare un’occhiata all’enorme seminario che la Fraternità San Pio X sta costruendo in Virginia, per rendersi conto che l’America si sta candidando ad essere la vera terra di riprogrammazione di mondo cattolico ormai dissanguato dal Niente europeo.
    Infine, una parola sullo IOR: le lamentationes su questa banchetta che non ha nemmeno il giro d’affari di una cassa di risparmio di provincia, ma tanto eccita i giornali, hanno davvero rotto - solo i babbei possono credere a una qualche effettiva importanza della riorganizzazione dello IOR, la cui «sporcizia», certo, vi sarà anche, ma è proprio tramite questa banca che - teniamolo bene a mente ogni volta che ne parliamo - è stata vinta la battaglia del secolo scorso, permettendo a Giovanni Paolo di assestare un colpo letale al comunismo.
    Ci si chiede se in quel memorabile Natale 1991, quando al Cremlino venne ammainata per sempre la bandiera rossa, il Cardini invece che gioire e inneggiare a Gesù bambino e alla Madonna di Fatima, abbia versato qualche lacrimuccia. L’impero del Male se ne andava, e con esso ogni possibile masturbazione a base di nerboruti superuomini non-atlantisti. Orfani del fantasy totalitario: ecco una definizione per la masnada dei tristi neodestri.
    Ma non è solo la nostalgica passione per il sovietismo ad eccitare l’intellettuale. Non solo l’armata rossa e il KGB, il nostro ama il comunismo anche nella sua orrenda incarnazione sindacale italiana. Possiamo spiegarci solo così il peana al vescovo di Nola Beniamino Depalma «il quale, porta la sua solidarietà agli operai direttamente ai cancelli della FIAT di Pomigliano (...) Non passa neppure lontanamente per la testa dei dirigenti FIAT che quando ci sono degli operai che rischiano il posto di lavoro, anche se sono un’infima minoranza, è preciso dovere – morale prima che sindacale – degli altri, anche se il loro posto non è in discussione né in pericolo (anzi, a fortiori in questo caso), il mobilitarsi mantenendo l’unità per difendere il posto di tutti». Seguono righe di epopea sindacale come neanche in un film di Ken Loach. È il comunismo d’accatto, la rabbia scioperata, roba che puzzava già cento anni fa, ma che il falso destro Cardini ripesca come fosse una primizia appena colta nella maravigliosa profondità del suo animo guerriero. I problemi economici del Paese, l’impoverimento dovuto alla de-industrializzazione, l’assenza di una politica seria, di un’economia volta alla crescita non lo tangono affatto: l’importante sono i lavoratori che devono lavorare anche se per pagare loro - che peraltro possono trovarsi anche un altro lavoro come tutti, no? - deve magari andare in malora la stessa azienda. Ma no, figuriamoci: la colpa è del «padrone delle Ferriere», che con probabilità in questo caso ha pure anche delle colpe, ma che Cardini, in un delirio ottocentesco da socialismo utopista, accusa per la sua stessa essenza di entità padronale. Un ragazzino di dodici anni che si iscrive al partito di Vendola forse riuscirebbe a vedere la cosa con più realismo.
    Anche qui, vien da chiedersi se siamo in presenza di una persona che vive nel mondo reale o è assuefatto a quello dei soldatini e dei treni elettrici con i quali, tra mille effetti sonori di spari e bombe prodotti con la bocca, giuoca sommerso dai volumi sua ricca biblioteca. Immaginiamo che sia con questo stato mentale di minorenne incapace di discernere il ludico dal reale, che Cardini abbia dichiarato a Panorama lo scorso febbraio il suo amore per Nichi Vendola.
    Ma sul serio? Il neodestroide voterebbe Vendola? Se avete letto un po’ di quanto scritto sopra, la cosa proprio non fa una grinza.
    La gnosi cardiniana, da Adelphi al Forteto
    Se il lettore è colpito dalla strana ambivalenza del personaggio - sedicente cattolico ma abortista da RU486, “tradizionalista” ma indulgente con la massoneria, missino ma ammiratore dei Soviet, destroide ma bardo di imprese alla CGIL - non si preoccupi, diamo qualche altro ragguaglio per capirci qualcosa.
    Cardini non ha la fama del simpaticone. Don Gianni Baget Bozzo ricordava come Cardini in pubblico si dicesse grande amico dello scrittore e teologo fiorentino Attilio Mordini, mentre in privato, poi, lo disprezzava pesantemente. Il primo giro di amici di Cardini fu quello: Mordini, Silvano Panunzio, Adolfo Oxilia - personaggi della Firenze post-fascista e lapiriana del tempo, presso i quali il nostro cominciò giovanissimo ad accreditarsi.
    Poi, con gli anni, il Franco cresce e vola in cerca di nuovi sbocchi, di nuovi lidi dove poter vedere apprezzata la sua sterminata cultura medievistica. Così, il nostro riesce ad accreditarsi anche presso un certo giro milanese, e comincia a frequentare ben altre parrocchie, giri intarsiati da maggiori sciccoserie, amici più potenti ed oscuri del giro dei suoi padri fiorentini. I nuovi amici milanesi sono più inseriti, più possenti, finanche più fascinosi. Quando furono attaccati, lui riuscì quasi a difenderli. L’episodio è rivelatore, vale la pena di raccontare.
    All’inizio degli anni Novanta uno strano libro scuote il mondo cattolico italiano, e non solo quello. Si tratta de Gli Adelphi della dissoluzione. Un testo sconvolgente, più emozionante di un thriller, ma al contempo fatto di persone reali, tangibili, viventi, e scritto con la verve inarrivabile di quella che è forse la penna più ispirata d’Italia, Maurizio Blondet. Il contenuto, in sintesi, è potentemente attuale: dietro alla casa editrice Adelphi si nasconderebbe una società esoterica che interesserebbe uno spezzone molto importante del mondo bancario milanese. I libri degli Adelphi sarebbero dei vettori di una mentalità magica, neognostica, che nei programmi di questi potenti signori servirebbe a traghettare una cultura imbevuta di materialismo marxista in una sorta di materialismo stregonesco, demoniaco: non v’è infatti testo pubblicato dalla casa milanese dove non compaia, da qualche parte, uno stupro mistico, un assassinio gratuito, un’atmosfera esoterica, l’evocazione di uno spirito. Persino negli apparenti ed innocui libri di viaggio di Chatwin, uno scrittore che si acquista prima di andare in vacanza, compaiono improvvisamente riferimenti a sette che iniziano gli adepti facendogli uccidere il loro migliore amico o a vecchi sudanesi che sanno come si evoca un jinn.
    In questo incredibile saggio del 1994, Blondet scrive pagine superlative, in cui dimostra come l’interesse di un simile progetto - qui come in mille altri contesti, dalla guerra all’ecologia - sia rendere l’uomo una risorsa «spendibile». L’uomo non è un essere irripetibile come insegna la Chiesa; è un accidente in balìa della crudeltà degli dèi, come è stato per millenni prima che arrivasse sulla Terra il Cristo. Si tratta, in pratica, della diffusione di una filosofia magica che prepara l’umanità al suo sfruttamento finale (economico, organico, sessuale) e finanche al suo genocidio.
    Sul libro presto cala una cappa di silenzio totale. Chi decide di attaccarlo, lo fa senza nominare direttamente Blondet, come Umberto Eco sul Corriere: la RAI, in una trasmissione di misteri di qualche anno dopo, arriverà a nominare l’autore, ma rifiuterà dichiaratamente di fare il nome del libro. Si racconta anche di come le librerie rifiutassero di tenerlo in negozio: i rappresentanti dei libri Adelphi avrebbero ricevuto l’ordine di non dare un singolo libro delle edizioni color pastello a quei librai che avessero in casa il capolavoro blondetiano. E sì che non era mancato un precedente inquietante. Nel maggio 1993 l’editore di Adelphi Roberto Calasso va in RAI a notte fonda, e confida a Corrado Augias che la «via più diretta per avvicinarsi al divino sarebbe lo stupro e l'esperienza dell'orribile»[7]. Un deputato dell’MSI presenta una interrogazione parlamentare, ma i giornali non si appassionano alla cosa. Eppure nel testo si fanno nomi e cognomi piuttosto succosi: Roberto Calasso, Elémire Zolla, Massimo Cacciari, Enrico Cuccia, Raffaele Mattioli....
    Niente da fare, il libro praticamente sparisce, anche se nel mondo cattolico (per lo meno, quello più combattivo) se lo leggono in gran segreto proprio tutti.
    Il sedicente cattolico Cardini che fa? Più che difendere la Chiesa contro la possibilità di un simile nemico diabolico, si preoccupa di difendere i nuovi amichetti, che peraltro a Milano - per portafoglio e per contatti, nell’editoria e nel mondo dei miliardi bancari - contano parecchio….
    Così, in un articolo dell’Avvenire del 14 dicembre 1994 (ora raccolto nel volume Per essere Franco. Le rabbie di uno che non sta bene a nessuno, ovviamente in copertina un primo piano pensoso dell’autore) il Cardini dedica un capitolo a questo spiacevole evento. «La mia transculturalità mi è stata di nuovo contestata dai casi della vita. Maurizio Blondet con il suo saggio Gli Adelphi della dissoluzione mette a nudo un’altra delle mie contraddizioni e minaccia di spedire di infilata una parte di me, e non la peggiore, in rotta di collisione con altri amici che amo, che stimo e che ammiro: gente come Massimo Cacciari, Roberto Calasso e Sergio Quinzio - ma estranei non sono neppure Elémire Zolla, Pietro Citati -, che il Blondet accusa di collaborare ad un progetto iniziatico all’insegna della dissoluzione. Un progetto gnostico, radici del quale sarebbero mie vecchie care e vecchie conoscenze (care a me “cattolico”, che Dio mi perdoni...) quali Nietzsche e Guénon»[8]. Insomma, vanno difesi i propri amori di gioventù hitleriana - il pensatore del superuomo e quello della super-Tradizione maiuscola sono letture inevitabili per un cattolico, giusto? - ma soprattutto vanno difesi gli amiconi del giro dell’Adelphi, «la mia casa editrice prediletta».
    Si capisce quindi che non si tratta di un discorso di cavalleria. Cardini non riesce a non ammettere quale sia in realtà il suo pensiero: «mi era successo allora - e mi risuccede oggi - di chiedermi che cosa mai saremmo noi cattolici (a cominciare dal Vangelo di Giovanni e da Agostino) senza la gnosi».
    Confesso di aver riletto più volte la frase per vedere se avevamo inteso bene: in pratica, la Chiesa Cattolica sarebbe un risultato della gnosi? Il tono lascia intendere che della gnosi, così come del comunismo e del sindacalismo scioperato, della Giovane Europa e di Ceausescu, il Cardini potrebbe avere una immensa nostalgia.
    Di più, ne ha rispetto: è possibile, che come si narra per gli iniziati adelphici, la gnosi la abbia anche «vista»? Orge, stupri, sacrifici umani: tutto quello che viene descritto da quella letteratura, esiste davvero.
    Certo che esiste. Adelphi è del resto solo un laboratorio per il ritorno della Gnosi pagana: alcuni uomini sono più che pronti a farla rivivere nei propri spazi.
    Prendiamo, ad esempio, il Forteto. Una comune fondata in terra Toscana, da tale Rodolfo Fiesoli, nei programmi era una sorta di piccola capitale del donmilanismo: grandi e piccini, tutti insieme secondo degli ideali della comunità cristiana “originaria”. Nato come centro di recupero per minori sotto gli auspici di magistrati e politici locali, il Forteto divenne rapidamente un lager sessuale i cui episodi vanno oltre l’immaginazione più belluina: i minori venivano stuprati, vessati, obbligati a commettere atti di zoofilia. Il Forteto era un gulag dove l’incesto, la pedofilia, la zoogamia erano praticate con regolarità e violenza. Il giornale La Repubblica riporta le parole del guru Fiesoli, l’uomo a cui magistratura e coop mandavano in quantità fondi e carne fresca:
    «Tutti sono omosessuali, le donne sono tutte “maiale e puttane” e gli uomini devono stare con gli uomini. Questi, secondo le testimonianze di alcuni ragazzi andati al Forteto, erano i princìpi di Rodolfo Fiesoli, (...) “Tutti dobbiamo liberarci della nostra materialità, questo è affetto puro, vero amore (...) Non essere timido, ti tolgo tutta la merda che hai subìto, ti do il bene”. Frasi riferite da alcuni dei giovani che Fiesoli, secondo le accuse, portava nella sua camera, palpeggiava, baciava e induceva a rapporti sessuali. (...) Una ragazza entrata in comunità nel 1977 (...) ha detto che le fu imposto di non avere figli naturali, “perché farli era un atto egoistico”. E con il marito non doveva nemmeno incrociare lo sguardo»[9].
    Siamo nel piano del cosiddetto antinomismo: il divino raggiunto violando le leggi naturali una per una, scatenando una sessualità bestiale, lo stupro, evitando in ogni modo la procreazione (antico segno distintivo della setta gnostica dei Catari), negando incredibilmente a marito e moglie di avere relazioni - è il mondo al contrario, il mondo di Satana, a cui gli adepti, appunto, recitano il Pater Noster detto al contrario.
    Hanno notato Stefano Borselli e Piero Vassallo che nel caso del Forteto «la corrispondenza con la dottrina eretica gnostica è impressionante: le sette gnostiche adottarono la sessualità aberrante come tecnica ascetica: attraverso l'unione erotica contronatura si elimina la sofferenza e la finitezza. I soggetti si riassorbono in un omogeneo universale e disintegrandosi perdono la loro individualità».
    Arrestato dal magistrato Carlo Casini, nel 1979 Fiesoli viene subito scarcerato, e il giorno stesso gli viene affidato dal tribunale dei minori un bambino down. Il presidente del tribunale, Giampaolo Meucci, grande amico di don Milani e profondo ammiratore della Cina di Mao, non crede all’indagine di Casini e ritiene il Forteto una comunità «accogliente e idonea». La realtà è invece che si tratta di un Laogai pedofilo dove si sa di «minori che spesso divenivano o continuavano a essere prede (...) col consenso non solo collettivo, ma anche dei genitori affidatari (...) [di]abusi sessuali sui ragazzi da parte dei genitori affidatari, siano essi uomini o donne, e di un atteggiamento compiacente nei confronti delle “strane” attenzioni del Fiesoli su ragazzi»
    Fiesoli sarebbe poi stato condannato definitivamente nel 1985, «per diversi capi d’imputazione fra cui corruzione di minorenne e sottrazione consensuale di minore, questo “dopo aver scardinato, ricorrendo a forme di convincimento ossessive, aggressive e umilianti, ogni preesistente valore e le figure parentali, in modo da renderli del tutto dipendenti da loro, costretti ad accettare e a praticare il regime di vita da loro imposto e caratterizzato da promiscuità assoluta tra persone della stesso sesso, pratica dell’omosessualità, messa a disposizione della cooperativa di ogni risorsa»[10].
    Se pensate che tutto questo immondo ammasso di orrori possa aver in qualche modo fermato negli anni l’attività del Forteto vi sbagliate: l’ideologia è più forte della verità giudiziaria. Il progetto Forteto, le magnifiche sorti progressive del cattocomunismo gnostico-pedofilo, mica possono arrestare la propria marcia inarrestabile verso il bene assoluto.
    Così, nel 2003, esce per i tipi dell’editore Il Mulino (esatto, quello legato a Romano Prodi) il libro La Strada stretta. Storia del Forteto, di Nicola Casanova, dottore di ricerca in filosofia e giornalista pubblicista. Indovinate di chi è la presentazione? Sì, fuochino, di un fiorentino. Sì, fuocherello, di un cattolico con qualche idee un po’ eterodossa. Sì, fuoco, di uno con gli amichetti gnosticoni. State pensando a Franco Cardini? Bravi.
    Bingo: il «cattolico» Cardini, ha il suo nome associato ad una pubblicazione della comune di pedofili zoofili stupratori, eredi materiali e concreti del culto maligno della Gnosi[11]. Se siete senza parole perché state vomitando, sappiate che siete in buona compagnia.
    Gran finale: l’apostasia degli altri
    È stupendamente sintetico e borioso il finale del capolavoro cardiniano che abbiamo fin qui discusso. Il dotto fiorentino tuona in un tonitruante crescendo rossiniano: «quanto a voi, cari Fratelli in Cristo per i quali il nucleo del messaggio del Salvatore e della Sua Chiesa sta nella messa in latino, nella lotta contro aborto, eutanasia e matrimonio gay, ma che poi ve ne fregate dell’inquinamento e dello sfruttamento del mondo, della mercificazione della guerra e della violenza e perfino dell’“infanticidio differito” del quale si rendono responsabili le multinazionali che condannano alla fame o all’AIDS; a voi che considerate certe battaglie solo “criptocomuniste”; quel che vi auguro, cari Fratelli in Cristo, – oh, Signùr, Signùr, dove andremo a finire… - sono dieci, cento, mille Depalma, la depalmizzazione dell’intero Sacro Collegio e di tutta la Santa Romana Chiesa. Nella speranza che, seguendo il luminoso esempio di Magdi Allam, anche voi abbandoniate questa Chiesa cattolica criptocomunista e filomusulmana».
    Posso dire, innanzittutto, che, al di là del delirio dell’infanticidio differito (abbiamo capito che Cardini preferisce l’infanticidio tout court della RU486) e del ridicolo, demente pistolotto dell’inquinamento (come un Celentano fuori tempo massimo - a quando un piagnisteo sul buco dell’ozono e la foca monaca?), queste sono parole che offendono.
    Lo scrivente, come tanti altri, ama la messa in latino, ma per lo più va a quelle in italiano, lotta con ogni fibra del suo essere per eliminare l’aborto, considerandolo il massimo peccato possibile sulla Terra, non tollera che altri idoli o dèi (Allah, l’Europa Nazione, la Pace) siano sovrapposti all’Unico Vero Dio trinitario, e pure non si entusiasma davanti alle bolse ingenuità del cattocomunismo di ritorno, che sia fatto di vescovi in fabbrica o dell’Africa che muore di AIDS. Sì, questa potrebbe essere, in unione al credo niceno, un modo in cui potrei descrivere - in parte - il mio essere cristiano. Il quadretto sarcastico tratteggiato da Cardini potrebbe perfino ben raffigurarmi.
    In pratica a me - a noi, perché mica sono solo - il Cardini chiede di fare apostasia, di lasciare la Chiesa. Lo trovo inaccettabile, lo trovo perfino risibile, perché la tirata di Cardini è con evidenza frutto di un vizio cognitivo che rende conto sempre meglio della sua figura di vecchio bambinone. Si tratta di un frusto meccanismo mentale, in linea con la psicologia egoico-infantile da barone universitario, chiuso nella torre d’avorio delle sue certezze: apostati sono sempre gli altri. In psicoanalisi, questo meccanismo si chiama «proiezione», che è un meccanismo di difesa per il quale si spostano nell’altro tratti negativi che invece sono propri del proiettante. Il proverbio di riferimento è quello del bue che dice cornuto all’asino (peraltro Cardini con esseri cornuti, a quanto sembra, ci ha davvero a che fare).
    Quindi, dal nostro povero piano di cattolici inferiori, di cristiani incolti, di animule che dovrebbero fare apostasia, osiamo riproiettare, e dire al Cardini questa strana verità: apostata è lui, e lo è da sempre.
    Lo è quando difende l’introduzione della RU486, lo è quando fa la sua squallida apologia dell’Islam immigratorio, lo è quando si eccita al pensiero di presidenti massoni e di stati sovietici, lo è quando si associa agli empi di Adelphi, lo è quando fa lingua in bocca con i pedofili del Forteto, lo è perché tutta la sua vita parla di un cristianesimo immaginario piegato alle esigenze della sua fantasia di neofascista fallito, di un cattolicesimo immaginato secondo suoi onanistici castelli nell’aria a base di Nembo Kid guénoniani.
    Ha stupito molti il fatto che Papa Francesco, di cui Cardini vuole diventare tardivo e artificioso idolatra, in questi suoi pochi mesi di pontificato, spesso abbia parlato del diavolo.
    Cardini ci pensi un attimo - il diavolo di suo sta in quel luogo particolare che si chiama Inferno (dove peraltro Dante infilava Maometto…). Esso - un tempo la Chiesa lo spiegava davvero bene - è la destinazione finale degli eretici, degli ignavi, dei superbi, degli assassini.
    Può averlo letto in mille libri, ma al momento attuale non crediamo che lo possa sentire come vero: la possibilità del castigo non può toccare un uomo capace di scrivere simili cose. Un uomo che vive di queste posizioni ideologiche, prive di realtà, per quanto mi è dato di capire, non è considerabile «credente». Un uomo che non difende gli ultimi degli ultimi (come li chiamava Madre Teresa, gli innocenti indifesi nel grembo materno), un uomo che non sente questo richiamo del sangue e preferisce il plauso del mondo, non è un cristiano; forse non è neppure un uomo, è solo un bambino viziato invecchiato.
    A differenza di quanto fa lui, non chiedo quindi a Cardini di fare apostasia, al contrario: gli chiedo di convertirsi e credere nel Vangelo. Glielo domando per il suo bene. Sta scritto: «Vi mostrerò invece chi dovete temere: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete Costui» (Luca, 12, 5).
    A meno che egli non preferisca davvero la compagnia eterna dei diavoli; le frequentazioni di negromanti e pedofili potrebbero lasciarlo pensare, così come l’incontinente eccitazione per i suoi idoli giovanili e senili.
    Se così invece non fosse, se mi fossi sbagliato a scrivere quanto sopra, urge intimare a questo bimbone vecchio, onde non sparga ulteriormente i suoi errori per l’Italia, un concreto rimedio: il pannolone. È l’ora.
    [1] «Oriana Fallaci risponde», Panorama 15 agosto 2006.
    [2] «Etica, Legalità, demagogia», francocardini.net 1 aprile 2010.
    [3] Dell’epopea della Jeune Europe in Italia parla molto approfonditamente Giovanni Tarantino, Da Giovane Europa ai Campi Hobbit 1966-1986 Vent’anni di esperienze movimentiste al di là della destra e della sinistra, Controcorrente, Napoli 2011. Libro che per l’appunto ha la prefazione di Cardini.
    [4] La peronizzazione del vivace Papa argentino era del resto inevitabile. Ci casca subito anche Tornielli, che paragona il Papa al politico massone argentino per l’«obbligo quasi liturgico» della siesta pomeridiana. «Tra la gente, lontano dal potere, così il Papa riconquista i fedeli», La Stampa, 14 luglio 2013.
    [5] È tornato a parlarne in occasione dell’uscita di un nuovo libro di Pacepa Giulio Meotti, «Disinformatia», Il Foglio 6 luglio 2013.
    [6] «Il fascista Cardini: Viva l’URSS!», Il Corriere della Sera, 4 febbraio 1996.
    [7] «Istigazione allo stupro: il MSI contro Calasso», Il Corriere della Sera 18 maggio 1993.
    [8] Franco Cardini, Per essere Franco. Le rabbie di uno che non sta bene a nessuno, Guaraldi, Firenze 2003; p.61-63.
    [9] «Il Forteto Parte Seconda. La Dottrina. E qualche aggiornamento con l’arrivo dei bolognesi» Il Covile, dicembre 2012.
    [10] «Abusi e pedofilia: viaggio a Forteto, la comunità lager dei cattocomunisti», Libero quotidiano 21 gennaio 2013.
    [11] Il contenuto del libro dedicato dal Mulino al Forteto è sintetizzato recentemente dai compilatori di una lista di comunità di accoglienza Carla Chiappini e Brunello Brunocore: «“strada stretta” è quella percorsa dalla quarantina di ragazzi toscani che nel 1977 fondarono, con scarsissimi mezzi, una cooperativa agricola diventata oggi fra le più importanti aziende private del Mugello. Un'azienda di spicco nella produzione di pecorino toscano e carne chianina, ma i cui soci hanno espresso sin dai primi anni una vocazione solidaristica, accogliendo molti bambini, adolescenti ed adulti vittime di violenze e abbandono. Il libro, presentato dallo storico fiorentino Franco Cardini, è suddiviso in tre parti: la prima racconta la storia del Forteto dalla prospettiva di Rodolfo Fiesoli, il suo inquieto patriarca. La seconda parte spiega le originali soluzioni adottate fra le oltre venti famiglie che oggi vivono presso la cooperativa, caratterizzate da fitte relazioni affettive, e sulla cui base è stato possibile recuperare situazioni umane anche estremamente degradate. Due storie emblematiche per la terza parte: quella di un ex-violinista e di una bambina difficile, che hanno trovato al Forteto un terreno comune di realizzazione personale. Nell'appendice di Alessandro Simoni viene ricostruita e valutata la lunga vicenda giudiziaria che riguardò il Forteto nel corso degli anni Ottanta».
    LA FASCIO-PAPOLATRIA DI FRANCO CARDINI, DA PERÓN ALLA GNOSI PEDOFILA - di Roberto Dal Bosco


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Naturalmente cristiano, naturalmente umano
    Tempo, attesa e mistero. Queste le parole chiave che emergono dai testi dell'autore bellunese ricordato in un incontro al Caffè Fondagno di Roma. Ne hanno parlato il poeta Bernardo Pacini e il giornalista Piero Vietti
    di Anna Minghetti
    «Se nell’aldilà c’è qualcosa, nessuno più di Dino Buzzati se l’è meritato, perché l’ha interrogato tutti i giorni della sua vita». Con queste parole Indro Montanelli salutava il collega e amico, il giorno dopo la sua scomparsa. Parole che risuonano durante l’incontro che il Centro Culturale di Roma ha voluto dedicare all’autore, lo sorso 23 giugno presso il Caffè Fandango, nel cuore della capitale a pochi passi da Montecitorio. Parole che appaiono limpidamente vere nell’ambito di un momento in cui è emerso - prima ancora che la figura di un uomo che in una sola vita è riuscito ad essere giornalista, scrittore, poeta, pittore e molto altro - il suo rapporto col mistero e la sua instancabile ricerca di esso. Perché non si può parlare non superficialmente di Buzzati senza prendere in considerazione questo aspetto, l’aspetto che ha accompagnato la sua intera esistenza. Ad introdurre il dialogo con l’autore, Piero Vietti, accomunato a Buzzati dalla professione giornalistica, e Bernardo Pacini, che invece ne condivide la passione poetica.
    Entrambi, però, hanno preferito cedere la parola allo scrittore, lasciando che i temi a lui cari emergessero dai suoi stessi testi. Come quello del tempo perduto, presente già nel «Deserto dei Tartari», che un giovanissimo Buzzati scrive poco dopo essere approdato al Corriere della Sera: il tempo passa inesorabile e tutto quello che è andato non ritorna più. O come un’altra grande costante buzzatiana, che ciascuno può sperimentare nella propria vita, l’attesa. Perché tutti vivono come se da un momento all’altro dovesse arrivare qualcuno. Attesa che però non rimane semplicemente tale, «perché Buzzati non è Godot», non aspetta in eterno chi non giungerà mai. Qualcuno alla fine arriva ed ha le sembianze del mistero, che non è concetto vacuo e indefinito, ma è uno che è lì per te perché vuol farti felice. Tuttavia, l’uomo sembra sempre, per qualche assurda e incalcolabile coincidenza, mancare l’appuntamento col destino. Vietti notava, infatti, che in ogni racconto di Buzzati pare che il personaggio principale esca costantemente sconfitto. Però, girando pagina, eccolo tornare nuovamente all’attacco, magari con un altro nome. Buzzati è ancora lì che ricomincia la sua “interrogazione” al mistero.
    Lo stesso mistero torna anche nell’opera poetica dell’autore, definita da Pacini come la «zona d’ombra della produzione buzzatiana», per una sorta di rispetto e timore che egli nutre nei suoi confronti. Rispetto, perché si rende conto che c’è differenza tra chi prova a fare poesia - come lui riteneva di sé - e chi è stato toccato da un dono, chi è stato «visitato dagli Dei», come dice in un suo racconto parlando di un giovane che aveva avuto in sorte l’abilità poetica. Timore, perché capisce che non si può controllare la poesia come la prosa. Essa è capace di «trapanare il cuore della gente» come la narrativa non è in grado di fare, ma chiede anche di dare un nome alle cose, di uscire allo scoperto. Non ci si può nascondere nella poesia come ci si cela nella trama di un racconto. «A Buzzati è mancato il coraggio della parola, di dare un nome alle cose», ha chiosato Pacini.
    Ma la poesia di Buzzati porta in sé quella bellissima espressione in cui si dichiara, forse più esplicitamente che nella prosa, il suo dramma interiore: «Dio che non esisti, ti prego». «Ma se non esiste perché lo preghi?», gli domanda un ipotetico interlocutore. «Se io lo chiamo[…] Per la forza terribile dell'anima mia, forse vile, trascurabile in sé, però anima nella piena portata del termine, se lo chiamo, verrà.» Non sembrerebbe la descrizione di qualcuno a cui non si crede, quanto piuttosto quella di un Dio che è lì a pochi passi, a cui basta tendere la mano. Un Dio per il quale è sufficiente essere chiamato per farsi presente, senza bisogno di alcun merito da parte di chi lo invoca. Un Dio che ricorda il Padre paziente, che non si stanca di perdonare, mentre siamo noi che non dobbiamo stancarci di chiedergli perdono, di chiamarlo. Verrebbe, quindi, da unirsi a Montale nella definizione di Buzzati come «naturalmente cristiano». O forse si potrebbe semplicemente dire «naturalmente umano», «nella piena portata del termine».


    Luigi Einaudi, un cristiano liberal-conservatore. Un grande italiano di destra
    «La comunità dei credenti non è composta dei soli uomini viventi oggi. Essa vive nelle generazioni che si sono succedute da Cristo in poi. Ognuna di quelle generazioni ha trasmesso quella parola alle generazioni successive; ed ogni generazione ha sentito quella parola e vi ha creduto perché essa era stata sentita e in essa avevano creduto i suoi avi. [...] I canti, i cori e le parole in lingua latina che noi ascoltiamo o leggiamo o pro*nunciamo in chiesa non sono nostre. Esse sono il retaggio di sessanta genera*zioni che ci hanno preceduto; ed il toccarle sarebbe un rompere quella conti*nuità di comunione spirituale che lega i viventi a coloro che sono morti e che sono vissuti, errando e ravvedendosi, nella medesima comunità di uomini vissuti dopo che la parola di Cristo ha trasformato il mondo».
    Luigi Einaudi – Introduzione al libro di mons. Pietro Barbieri, L’ora presente alla luce del Vangelo, Roma, Cosmopolita, 1945
    Generazione Italia |



    Un eroe Intraprendente mazziato dallo Stato
    Walter Onichini è ai domiciliari con l’accusa di tentato omicidio per aver protetto la propria famiglia. Ha sparato a uno degli uomini che si erano introdotti in casa sua. Dopo lo ha portato in ospedale. Ribadiamo: è agli arresti. Siamo con lui
    di Nicolò Petrali
    Schiacciato dallo Stato
    Dopo aver ferito uno dei ladri che era entrato in casa sua, lo ha caricato in macchina per portarlo in ospedale. Ora, il malvivente, albanese irregolare, si trova ricoverato dopo aver subito un intervento alla milza, mentre lui, Walter Onichini, imprenditore trentaduenne residente nel padovano, è agli arresti domiciliari con l’accusa di tentato omicidio. L’intera vicenda potrebbe essere già riassunta così, tralasciando in toto la ricostruzione dei fatti. In casi come questi, e parlo per esperienza diretta, la reale dinamica dell’accaduto non viene a galla nemmeno dopo un numero esponenziale di perizie, figuriamoci prima. E a maggior ragione occorre prendere con le pinze anche quello che riportano i giornali. Se ci limitiamo ai fatti certi, in questa vicenda, così come in molte altre, abbiamo un gruppo di ladri che entra nella “proprietà privata” di un onesto lavoratore. Punto. E se è vero che la legge deve essere uguale per tutti, è altrettanto vero che il buon senso ci dice che “malvivente” e “persona onesta”, non possono stare giuridicamente sullo stesso piano.
    La proprietà privata è un diritto naturale, è una prosecuzione dell’individualità. Non è un caso che anche in questa vicenda Onichini dica “mi sono sentito violato nella mia intimità”. Il ladro non solo vive alle spalle della società, non solo viene a cercare di portare via ciò che è mio, ma viola un mio diritto sacro che è quello stesso di esistenza. Non solo la mia, ma anche quella dei miei familiari e dei beni che ho guadagnato lavorando. Il ladro, insomma, non “diventa” pericoloso in base a ciò che può o non può accadere, ma di fatto lo è già nel momento stesso in cui entra nella mia proprietà, perché in quel momento mi sta già in qualche modo uccidendo. “Ho sparato per difendere la mia famiglia e la casa”, sono state infatti le prime parole che l’uomo ha rivolto ai carabinieri. L’accostamento tra famiglia e casa rientra proprio in quello che abbiamo appena detto.
    Evidentemente però la Procura di Padova, così come molte altre nel nostro paese, purtroppo non parte da questo tipo di considerazioni e in base a ciò che momentaneamente è stato raccolto dagli inquirenti, ha deciso che ci fossero gli estremi per disporre una misura cautelare nei confronti dell'imprenditore. Sembra, e sottolineamo “sembra”, che l’uomo abbia sparato mentre i ladri erano già in fuga. Anche qui, e parlo sempre per esperienza diretta, come si può stabilire con certezza quando il pericolo non è più imminente? Proprio per questo esiste forse la “legittima difesa putativa”, che in ogni caso, secondo chi scrive non ha alcun senso di esistere perché dal momento in cui il ladro entra in una proprietà privata a quando esce un individuo ha sempre il diritto di sentirsi in pericolo. Che significa “putativa”? Io sono in pericolo, non solo ritengo di esserlo.
    Ma si potrebbe andare ancora oltre. Sentenze che hanno già fatto giurisprudenza hanno stabilito che si può ricorrere alle armi anche per ritornare in possesso dei beni che mi sono stati appena sottratti. Sentiamo già le accuse dei perbenisti radical-chic a questo tipo di osservazioni. “Sarebbe un far-west”, “si dovrebbe sparare alle gambe”, “nel momento in cui compri un’arma è perché già sai che la userai (male)”. Da costoro l’elemento psicologico non viene minimamente tenuto in considerazione. Lo stress mentale, la paura che si prova nel vedere puntare una pistola ad un proprio caro o anche semplicemente nel vedersi violare la propria proprietà. Ed è in qualche modo così anche il diritto, che tiene poco in considerazione l’aspetto umano.
    Sembra che durante il viaggio per andare in ospedale il ladro abbia minacciato Onichini con un cacciavite, intimandogli di lasciarlo sul posto per non correre il pericolo di essere arrestato. Oggi i vigili del fuoco sono impegnati nella ricerca di questo arnese per confermare la versione dell’uomo. A noi, invece, che lo trovino o no non ce ne frega niente. Certamente, non abbiamo bisogno di questa ulteriore conferma per stare dalla parte di chi lavora onestamente e di chi si difende. E contro i criminali.
    Un eroe Intraprendente mazziato dallo Stato | L'intraprendente

    Manifesto filosofico in difesa del Walter che sparò
    Il reo e il proprietario di una casa violata si trovano nello stato di natura, senza un giudice. Come nel caso di Onichini, quando si tratta di proteggere se stessi o i propri cari, lo Stato e i suoi burocrati scompaiono. I padroni del dibattito e delle leggi dovrebbero ripartire da qui
    di Marco Bassani
    Appena arrivato nella Facoltà di Giurisprudenza il giovane studente si sente ripetere in tutte le salse che il diritto non ha nulla a che vedere con la morale e con il senso comune. Se questi è dotato di un minimo di cervello considererà da principio tali affermazioni come un escamotage volto a creare una scienza astrusa e impenetrabile, il “diritto”, dalla quale una casta di conoscitori di professione potrà trarre profitto. E, confidando di poter un giorno diventare un ben pagato azzeccagarbugli, si metterà a studiare, dimenticandosi sciocchezzuole quali il rapporto fra diritto e morale. Tuttavia, nel corso del tempo si renderà conto che i suoi professori non avevano affatto esagerato: il diritto (l’ordinamento giuridico, ossia le centinaia di migliaia di leggi che costituiscono le corde lillipuziane che immobilizzano Paese e cittadini) è tendenzialmente immorale e contrario al senso comune. Esiste ormai una divaricazione fra senso comune e giustizia e non vi è caso maggiormente adatto ad illustrare tutto ciò di quel che è accaduto a Walter e che è già stato bene riassunto pochi giorni or sono dall’ottimo Nicolò Petrali.
    Giustizia
    Il diritto penale era uno dei pochi campi che fino a qualche decennio fa mantenevano una minima parvenza di coerenza e di rapporto con il sentire comune. L’omicidio è più grave del furto, la rapina a mano armata del borseggio e così via. Rimangono enormi problemi di fondo – la “scomparsa” delle vittime, la statizzazione del diritto di punire, la costituzionalizzazione della funzione “rieducativa” della pena e così via – ma leggendo il codice penale si potrebbe ancora pensare che i giudici siano chiamati a decidere als ob fossero individui per bene. Tutto ciò è finito da un pezzo e il problema non è affatto a valle, vale a dire nell’applicazione della pena, ma a monte, nella catalogazione stessa delle fattispecie di reato e nell’amministrazione della giustizia.
    In breve, negli ultimi decenni il diritto penale ha definitivamente abbandonato la logica comune, seguendo mode e passioni politiche del momento. Se si arriva, come nel caso di Walter Onichini, a negare la facoltà di difendersi in casa propria, sottoponendo a misure cautelari il protettore di sé e dei suoi cari, è evidente che si è passato il segno. Perché il primo principio dell’umana convivenza è il rischio che deve correre chi invade le proprietà altrui. Non il rischio di incorrere nei “rigori” del sistema penale di Pulcinella – quello è connaturato ai reati commessi sul suolo statizzato – ma il rischio di essere “mazzolato” duramente e ben legittimamente dal proprietario. E solo quest’ultimo, infatti, che può decidere l’entità del torto, la giusta riparazione, le misure adeguate a salvaguardare sé, i propri cari e i propri averi. Nessun giudice si potrà mai sostituire a lui compiendo le tipiche “operazioni mentali” del giurista, che pesa e soppesa. Il diritto si blocca sulla soglia di casa, tanto che il giudice deve solo appurare che il malcapitato non fosse stato colà invitato con l’inganno. Se questo non è, la morte o il ferimento del reo è come se fossero state causate da un fulmine o da una tegola che cade dal tetto. E il fatto che il buon Walter abbia portato all’ospedale il criminale dovrebbe valergli una menzione nel concorso “cuore d’oro” di Legnaro (il cui detto più famoso è “Legnaro un pugno e te sparo”, meglio di no, suggeriscono i giudici patavini).
    Qualche giorno fa negli Stati Uniti una donna si è vista invadere la casa da una torma scatenata di agenti federali con le armi in pugno alla ricerca di un sospetto. Cose di questo genere accadono nel Paese dei Di Pietro senza che nessuno protesti mai. Eppure, la sinistra illuminata (passatemi l’ossimoro) si rende conto dei pericoli di uno Stato di polizia e ritiene che per autorizzare l’ingresso delle forze dell’ordine nella casa di un cittadino ci debba essere (vivaddio) almeno la firma di un giudice. Allo stesso tempo, la stessa illuminatissima sinistra ritiene che la legittima difesa debba diventare invece un caso di scuola, nel quale il pericolo di vita sia misurabile e accertabile dal giudice. In breve, gli intellettuali e i giuristi che dominano il dibattito non si rendono conto che dove può entrare liberamente il malvivente nessuno potrà opporre più nulla alle forze dell’ordine. Uno Stato di polizia è proprio tale perché poliziotti e malfattori scorrazzano liberamente nelle case delle persone per bene. Ma la sinistra non può tollerare la “legittima difesa” da parte dei cittadini, o la deve assolutamente restringere, come concetto e come “fatto giuridico”. Il diritto di punire i colpevoli implica quello di stabilire chi è il colpevole. Da qualche secolo abbiamo deciso che solo lo Stato ha questo potere, e il cittadino deve abbandonare il proprio diritto all’autotutela. Sarebbe questo uno degli inevitabili prezzi da pagare per ottenere i vantaggi del vivere in “bene ordinata repubblica”.
    Ladro
    Tuttavia, così facendo tutti i reati diventano crimini generici, senza vittime particolari, ma rappresentabili come una ferita inferta all’intero corpo sociale. Ed è allora il corpo sociale, o meglio quel gruppo di uomini che agisce in nome e per conto dello Stato, a stabilire tutto ciò che riguarda questa ferita: la gravità della stessa, come questa debba essere rimarginata, se e in che misura le ragioni delle vittime possano trovar voce in un processo. È da questo processo storico plurisecolare – la pacificazione della società civile per mezzo del disarmo unilaterale (ossia solo lo Stato e i suoi agenti possono essere armati) – che nasce la situazione attuale nella quale un giudice arresta Walter, così, tanto per vederci chiaro. Cittadini disarmati affidano il pieno controllo della società e del diritto a chi agisce in nome e per conto dello Stato, il paladino unico e la condizione stessa di pensabilità della punizione. Ma questo può avvenire solo operando il nascondimento delle vittime. Così si crea un circuito nel quale la logica divorzia per forza dalla giustizia. Tutte le decisioni spettano ai corpi della burocrazia statuale: definizione dei reati, pene, carceri e indulti sono iscritte in un cerchio magico che i cittadini non possono né toccare, né realmente vedere. La legislazione penale non è più neanche nelle mani dei parlamenti e dei partiti, è affidata ad una casta di burocrati che tengono in piedi un sistema fragilissimo e immodificabile.
    Così lo Stato, che le pie illusioni classiche immaginavano come protettore della vita e della proprietà dei cittadini, non solo si è rivelato nel corso della storia il maggiore distruttore di vite e ricchezze, ma giunge a chiudere il cerchio. Ossia impedisce al privato cittadino di proteggere la sua vita e la sua proprietà da un malfattore. Làsciati uccidere, derubare, e poi noi, i padroni dell’ordinamento e del discorso, valuteremo l’accaduto.
    Nei casi di legittima difesa e segnatamente in quelli che avvengono dopo una violazione di domicilio lo Stato e i suoi burocrati scompaiono. Il reo e il proprietario si trovano nello stato di natura, senza un giudice. Ma la sinistra (illuminata o meno) predica da sempre il dominio di un gruppo di burocrati di professione sulla società intera. L’indifferenziato mondo della legittima difesa, nel quale vi sono vittime e carnefici, e individui che hanno veramente sete di giustizia, e la vogliono placare subito, e possono farlo da se medesimi, fuoriesce dagli schemi della società statizzata che son cari ai padroni del dibattito. E delle leggi.
    Manifesto filosofico in difesa del Walter che sparò | L'intraprendente

    NAPOLEONE
    Rino Cammilleri
    Scrive Aldo A. Mola su «Il Giornale del Piemonte» (9 giugno 2013) che Napoleone nel 1805 volle ricordare la sua vittoria di Marengo facendo erigere in quella città una piramide. Perché proprio una piramide? Nel 1798 era partito per la spedizione in Egitto e a Malta si era fatto iniziare nella massoneria, probabilmente nel rito «egizio» detto di Memphis e Misraim inventato dal «mago» Cagliostro. Dall’Egitto portò con sé il misterioso «Libro del destino». Dopo la battaglia delle Piramidi, volle trascorrere una notte nella Camera del Faraone nella piramide di Cheope, come si dice avessero fatto Alessandro e Cesare. In quell’occasione il suo generale Menou si fece musulmano e divenne, poi, il primo governatore francese del Piemonte. Forse non è un caso che proprio Torino abbia uno dei musei egizi più importanti del mondo.
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Una vita più grande, uno sguardo più profondo
    Pubblicato da Berlicche
    “…ho giurato che, tra gli altri doveri, pur con il cuore pesante, avrei assolto quello di essere spudoratamente sciocco, stravagante, perfino spudoratamente triviale e, per quanto possibile, divertente”.
    Gilbert Keith Chesterton a sua moglie Frances Blogg
    Ci sono certe persone, o momenti di persone, che ci spingono a dire: vorrei essere proprio come lui. Cambiare la nostra vita, buttare via almeno in parte quello che siamo, e cercare di assomigliare almeno un poco a chi capiamo essere migliore di noi, o più felice di noi, o comunque in possesso di qualcosa che a noi manca.
    Non è che non conoscessi Chesterton: ho letto una buona parte dei suoi libri, compresi quelli non tradotti, anche se data la sua straordinaria prolificità di scrittore molto ancora mi resta. Ma il vedere presentati così in successione tanti esempi del suo genio, del suo modo di vivere mi ha fatto sentire molto piccolo e limitato. Ordinario, se così si può dire.
    Chesterton era più che straordinario. Uno può essere straordinario in circostanze eccezionali. Chesterton era straordinario nell’ordinario, e questo è veramente qualcosa che lascia stupiti e ammirati.
    Ecco, il suo sguardo sul mondo è quello che mi piacerebbe avere. Il non fermarsi alla prima impressione, all’impatto istantaneo, ma andare un poco oltre, alla vera essenza, alla consistenza ultima delle cose. Faccio un piccolissimo esempio. Uno che si dichiara alla futura moglie dicendole “Sei davvero una stupida” è sicuramente da considerare strambo. Ma se continua “perché non hai la minima idea di quanto sei bella” allora, se non ci fermiamo all’immediato, capiamo che qui c’è un giudizio, c’è qualcosa che va oltre, e che indubbiamente per apprezzare il complimento bisogna in qualche maniera essere fatti per uno così.
    Uno che si presenta in chiesa il giorno del matrimonio con una pistola potrebbe essere da arrestare, ma se questo spiegasse che l’ha comprata per difendere la moglie dai pirati durante il viaggio di nozze nel Norfolk dovrebbe essere internato. O guardato con ammirazione sconfinata, una volta compreso.
    Vorrei quello sguardo. Quello sguardo che sa cogliere il vero oltre l’apparenza. E che sa descriverlo, perché possa essere colto anche dai tardi come me.
    So che non posso essere lui. Però posso cercare di capire. Provarci. Diventare un po’ come lui.
    Avere una vita più grande.
    Una vita più grande, uno sguardo più profondo | Berlicche


    "Il mio inno al matrimonio: un film che dura da 50 anni"
    Il regista Pupi Avati racconta la serie (sua prima vera regia tv) incentrata sulla vita di una coppia dai 20 ai 70 anni. Praticamente la sua...
    Paolo Scotti
    Un fenomeno curioso. Ma indicativo. «Ogni volta che dichiaro in pubblico d'essere sposato da 49 anni, dalla platea parte un applauso colossale. Quasi una standing ovation».
    Pupi Avati ride. L'essere da mezzo secolo convinto fruitore d'un istituto quasi fuori moda («Peggio: controcorrente») come il matrimonio, non lo fa sentire una sorta d'animale in via d'estinzione. Anzi. «Quelli che si entusiasmano non sono colleghi di nozze d'oro. Sono quelli che hanno mollato dopo sei o sette anni, al massimo. E che in me ammirano, con incredula stupefazione, il campione di pentathlon coniugale; l'eroe di tutte le discipline nuziali».
    E magari anche il regista di «Un matrimonio»: la fiction in sei puntate per Raiuno con cui, dopo trent'anni, in autunno Pupi Avati torna in tv...
    «E con cui celebro i due mestieri più difficili che esistano. Quello di regista e di marito. Il matrimonio che racconto, è infatti il mio; ma anche, in qualche modo, quello di tutti coloro la cui vita a due s'è intrecciata a quella del nostro Paese. In primo piano due sposi raccontati dal 1948 al 2005: gli amici, i figli, i nipoti, gli affanni, le consolazioni. E poi cinquant'anni d'Italia - il dopoguerra, il boom economico, il terrorismo - ma sempre come sullo sfondo. Un mattino d'estate del 1980 Francesca (la Ramazzotti) passa per via Irnerio a Bologna, e sente uno boato lontano. Pensa all'esplosione d'una caldaia. E invece è la bomba che ha appena distrutto la stazione».
    Un grande, attesissimo ritorno in tv. Ma, in fondo, con un film lungo 600 minuti.
    «Che mi ha concesso, come mai prima in 45 anni di carriera, di fondere vita a lavoro. Di veder vivere i miei personaggi per l'arco di un'esistenza intera, dai 20 ai 70 anni, con una quotidiana, appassionata intensità. E di riunire alcuni dei miei attori più cari - Christian De Sica, Andrea Roncato, Katia Ricciarelli - assieme ad altri 259, per un grande, ininterrotto romanzo di vita reale. Un'esperienza assolutamente unica».
    Con, al centro, un'esperienza non meno unica: il matrimonio.
    «Se penso alla magnifica incoscienza con cui mezzo secolo fa, trepidi giovinetti inconsapevoli, io e Carla ci inebriammo nel donarci l'uno all'altra, senza la minima idea di ciò che questo avrebbe significato, ancora sbalordisco. Abbiamo condiviso tutto. Anche la separazione. Già: perché io sono anche andato via di casa, a un certo punto. Ma poi ho trovato il coraggio di tornare. Ecco: il coraggio di tornare, di ricominciare da capo, per uscire rafforzati dall'errore, piuttosto che indeboliti, è uno dei temi centrali di Un matrimonio».
    E ora, dopo sei mesi di riprese (e 49 anni di vita di coppia) qual è il senso ultimo di «Un matrimonio»?
    «Senza tema d'apparire letterario o demagogico, dico che dopo cinquant'anni tu diventi per lei, e lei per te, la cassaforte del tuo stesso essere. Il computer del tuo io più intimo, di cui solo tu e lei avete la password. Nessun altro è parte di te come lei; nemmeno i figli. E questo è impagabile. È il risultato di una vita».
    Come mai la famiglia, rigettata dalla cultura attuale, raccontata in tv riscuote infallibilmente il successo?
    «Ma perché la famiglia fa parte del nostro DNA! Nonostante oggi si cerchi di distruggerla in tutti i modi. Compreso l'ultimo, il più indecente: quello di far adottare dei bambini alle coppie omosessuali. Mi auguro di non incrociare mai lo sguardo di uno di quei bambini. Spero di morire prima. Qualsiasi bambino ha il sacrosanto diritto d'avere un padre e una madre: cioè di due differenze che si completino fra loro. Per quanto ottime persone, due omosessuali questo non potranno mai offrirglielo. L'idea di privare una creatura di un diritto così ovvio, così elementare, così essenziale, è semplicemente insopportabile».
    "Il mio inno al matrimonio: un film che dura da 50 anni" - IlGiornale.it



    LETTURE/ Bottai, Lulli, Rossif, prigionieri "volontari" del silenzio
    Luciano Garibaldi
    Enzo Natta, giornalista, scrittore, uomo di cinema di lungo corso, ha deciso di rivelare le vicende sconosciute di tre straordinari personaggi che ha incontrato, frequentato e di cui è diventato amico nella sua tumultuosa esistenza intellettuale. I tre personaggi sono Giuseppe Bottai, uno dei massimi gerarchi fascisti che il 25 luglio '43 votò per il suicidio del fascismo, Folco Lulli, attore cinematografico, poi regista negli ultimi anni della sua vita, e Frédéric Rossif, regista e documentarista di fama, autore di celebri capolavori come Morire a Madrid.
    Che cos'hanno in comune, oltre al cinema, questi tre personaggi? Lo spiega Natta nella prefazione al libro Ombre sul sole: storie di uomini contro, che ha affidato alla casa editrice Tabula Fati (www.edizionitabulafati.it): "Li accomunano le loro storie rubate, mai raccontate perché scomode e tenute sotto chiave a vario titolo. Li accomunano il silenzio con cui hanno protetto il loro vissuto negli anni della seconda guerra mondiale, il passaggio sotto altre bandiere (Bottai e Rossif militarono nella Legione Straniera; Lulli, mazziniano convinto, combatté in una banda partigiana monarchica), il trauma che li spinse a chiudere alle loro spalle la porta di un passato che era meglio dimenticare e che li rese prigionieri di un volontario silenzio nel quale si erano chiusi".
    Quel silenzio è ora rotto dalla decisione di Enzo Natta di raccontare tre vicende e tre personaggi in tutto degni di una sceneggiatura da grande film. Ci limitiamo, in questo articolo, a raccontare la storia di Giuseppe Bottai, che ricoprì un ruolo di primo piano nell'Italia del Novecento. Nato a Roma nel 1895, volontario nella Grande guerra, nel 1921, come giornalista, assume la direzione della redazione romana del Popolo d'Italia, il quotidiano fondato a Milano da Benito Mussolini. Nel 1922 partecipa alla Marcia su Roma e l'anno dopo fonda la rivista Critica Fascista, che per vent'anni sarà l'organo d'informazione e di dibattito più importante del regime. Nel '29 diventa ministro delle Corporazioni ed entra a far parte del Gran Consiglio del fascismo. Nello stesso periodo vara la Carta del Lavoro. Dal '36 al '43 è ministro dell'Educazione Nazionale, il che non gli impedisce di partecipare, nel '41, alla campagna d'Albania al comando di un battaglione di Alpini impegnato in epiche battaglie. Nella storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943, vota per l'ordine del giorno Grandi (che ha contribuito a redigere) e determina così la caduta del regime e l'arresto di Mussolini. Dopo l'occupazione di Roma da parte dei tedeschi, sfugge alla cattura da parte loro grazie agli appoggi di cui gode in Vaticano specie ad opera di monsignor Montini, futuro papa Paolo VI. Nel gennaio 1944 il tribunale speciale di Verona lo condanna a morte per alto tradimento, assieme a Galeazzo Ciano e a tutti coloro che avevano votao l'Odg contro il Duce.
    A Bottai non rimaneva che la via dell'esilio. Scelse invece quella del riscatto, raggiunse Algeri e si arruolò nella Legione Straniera a Sidi Bel Abbes. Aveva 49 anni. Non ebbe bisogno di istruzione militare perché ne sapeva più di tutti gli altri. Ufficiale degli Arditi durante la prima guerra mondiale, combattente nella guerra d'Etiopia del '35-'36, colonnello degli Alpini sul fronte greco-albanese, per il suo livello di preparazione militare stupì gli alti comandi della Legione, che lo assegnarono immediatamente al primo Rec (Régiment étranger de Cavalerie), incaricato della più importante missione militare ideata e voluta dal governo in esilio agli ordini del generale de Gaulle: lo sbarco in Costa Azzurra.
    E qui ha inizio la pagina sconosciuta della vita di Bottai, svelata nell'affascinante libro di Enzo Natta. Pagina che prende il via dal momento dello sbarco dei legionari a Saint-Raphael, ai primi di settembre del '44. Gli ufficiali del Rec sono perfettamente consapevoli della missione che li attende: dimostrare al mondo intero che la Francia non sarà liberata soltanto dalle truppe anglo-americane sbarcate in Normandia, ma anche dai volontari della Legione impegnati in Provenza. Lo scopo è raggiunto grazie alle capacità tattiche e all'intelligenza superiore di Bottai, che diventa presto, tra i suoi
    compagni, "le professeur" ed escogita trovate come il presunto malfunzionamento delle radio militari.
    L'avanzata della Legione fu coronata da una serie di successi. "A questo punto", scrive Enzo Natta, "l'Alto comando francese si rese conto che il successo di un'operazione militare affidata alla Legione per evitare il sacrificio di soldati francesi avrebbe potuto diventare un boomerang e trasformarsi in una beffa. Poiché era ormai evidente che la Wehrmacht si stava ritirando su tutto il saliente e che un pugno di legionari stava liberando la Provenza, se il commando non fosse stato bloccato, il merito dell'operazione sarebbe spettato tutto ad una manciata di stranieri di dubbia reputazione. E di conseguenza chiunque, dagli Alleati alla propaganda nazista, avrebbe potuto dire che il Sud della Francia era stato liberato da mercenari".
    Ed ecco arrivare via radio, ai legionari, l'ordine di fermarsi. Ma Giuseppe Bottai suggerisce al comando del Rec di far finta che la radio sia fuori uso e di andare avanti lo stesso. L'avanzata prosegue così con una vittoria dietro l'altra, di molte delle quali è autore lo stesso Bottai.
    Di questa pagina di storia non vi è traccia nello stesso libro di Giuseppe Bottai Legione è il mio nome, scritto nei primi anni 50. Bottai aveva mantenuto fede al giuramento del silenzio anche quando il suo ingaggio nella Legione terminò nel luglio 1948 ed egli poté rientrare in Italia beneficiando dell'amnistia del novembre '47. Fu Frédéric Rossif, a sua volta arruolatosi nella Legione Straniera, a scoprire il segreto e a rivelarlo a Enzo Natta, che lo svela in maniera avvincente nel suo bel libro.
    LETTURE/ Bottai, Lulli, Rossif, prigionieri "volontari" del silenzio

























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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    La fine del comunismo in Europa. I miei incontri da Wojtyla al sopravvissuto che lesse Dante nel Gulag
    Emmanuele Michela
    L’inviato Luigi Geninazzi racconta i suoi incontri nell’Europa dell’Est: «La caduta del Muro di Berlino fu solo il punto di arrivo di un lungo processo»
    Non è un saggio storico, ma un romanzo. Quello di una vita da reporter come Luigi Geninazzi, giornalista per anni inviato da Il Sabato e da Avvenire Oltrecortina a raccontare la vita sotto il comunismo nell’Europa dell’Est. L’Atlantide Rossa, libro che esce oggi nelle librerie, è tutto costruito su racconti in prima persona: episodi, personaggi, momenti vissuti direttamente dal giornalista. «Ma è un romanzo anche perché la caduta stessa del Muro di Berlino è un susseguirsi di eventi che sa di romanzo vero», spiega a tempi.it l’autore. Una storia che va ben più indietro di quel 9 novembre 1989 con cui si è soliti identificare la fine del gigante sovietico. «Quella notte fu solo il punto di arrivo di un lungo processo».
    In che senso?
    Il crollo del Muro è diventato un’icona nel mondo. Ma questo avvenimento è il solo punto di arrivo di un processo più lungo, e come un po’ tutte le immagini iconizzate è un po’ falsa: il muro non è crollato, ma è stato tirato giù da tanta gente nel corso di un decennio. Ho scritto questo libro con l’idea di raccontare questa storia. Parte nell’80, con la prima crepa in questa cortina: lo sciopero degli operai polacchi di Danzica, quando nasce Solidarnosc. Da lì cominciò una serie di eventi che nei nove anni successivi portarono alla caduta del comunismo.
    Che appare come un romanzo vero e proprio…
    Sì, nessuno scrittore di fantapolitica avrebbe potuto immaginare in quel periodo che un sistema così potente e oppressivo potesse finire in quel modo. Chi ha più di 50 anni si ricorda bene la paura per la guerra nucleare e il comunismo. Per cambiarlo, si diceva, ci vuole una terza guerra mondiale, cosa che ovviamente nessuno voleva. Invece ci fu qualcuno che pensò che con le sue mani potesse essere più forte di questo sistema armato. Furono tante persone: Walesa, Havel, Giovanni Paolo II, ma anche tanti cittadini sconosciuti. All’inizio la lotta fu faticosa e dura, poi però nell’89 tutto si fece luminoso: i regimi dei vari stati crollarono come un domino, mese dopo mese. Ci fu un’accelerazione di colpi di scena.
    È stata una rivoluzione riuscita: il comunismo ha ceduto senza che «si rompesse neanche un vetro», come dice nel libro. Qual è stata allora la forza che ha fatto cadere il Muro?
    È un concetto che Walesa spiega bene nella prefazione: ad un certo punto è apparso sulla scena il Papa polacco. Era il ’79, anno del primo viaggio in Polonia di Wojtyla. Questo ha cambiato il cuore e la mente della gente. Con il suo grido «Non abbiate paura!», ha fatto capire che si poteva avere il coraggio di chiedere il rispetto dei propri diritti di libertà: sindacale, religiosa, politica, sociale. Tutto ciò poteva essere chiesto senza violenza perché si era già liberi interiormente. Walesa lo spiega in maniera pittoresca: racconta che ai primi scioperi di Danzica si trovava attorno dieci persone. Quando poi arrivò papa Wojtyla se ne trovò attorno dieci milioni!
    La connotazione religiosa di questo movimento emerge bene nelle pagine dedicate a Walesa e Solidarnosc, quando racconta dell’unità tra i cantieri di Danzica offerta proprio dalla fede comune. Che differenza vede rispetto alle rivoluzioni della Primavera araba?
    La religione è stato elemento decisivo di queste rivoluzioni non violente: i fatti di Danzica sono stati emblematici, con le Messe celebrate nei cantieri, gli operai che si scambiavano il pane in segno di solidarietà… La religione era rispettata in tutta la Polonia, anche dai non credenti, che vi vedevano un bastione della libertà. Si vede bene quello che diceva Tocqueville nell’Ottocento: la fede non è solo un riconoscimento di qualcosa che sta nell’aldilà, ma un elemento che pone dei limiti al potere terreno. È quindi anche una grande forza terrena. Quello che vediamo nelle rivoluzioni arabe invece è un islam che diventa benzina per l’integralismo. Non c’è una concezione basata sull’amore, ma sull’odio: è l’uso di Allah strumentale, è l’idea che gli uomini devono dare il loro braccio armato a Dio, che altrimenti rimane impotente. Per i cristiani invece Dio è potentissimo, può usare l’uomo, che resta però suo servo inutile.
    C’è un momento di questi viaggi nell’Est Europa che ricorda particolarmente?
    Mi sono commosso a ripensare ai miei incontri con Giovanni Paolo II: ho avuto questo grande dono di stare con lui a Castel Gandolfo per giorni, ed è stata grande emozione. Nel libro lo racconto. Però non vorrei dimenticare anche tanti altri personaggi: non posso scordare, per esempio, quella volta che in Lituania andai ad intervistare una suora clandestina. Avevo il problema dell’interprete e lei mi fece trovare un signore anziano che sapeva l’italiano alla perfezione. Non era mai stato in Italia: aveva studiato per 20 anni la nostra lingua nei gulag. Mi emoziono ancora al pensiero di ciò che mi disse: «Lei è il primo italiano che incontro». Fu per me l’esempio di una persona tutta animata dal desiderio: pur vivendo nei gulag, era riuscito a studiare la lingua di Dante.
    L'Atlantide Rossa, intervista a Luigi Geninazzi | Tempi.it

    L'accusa di Wajda: "Racconto il Walesa rimosso dalla storia"
    Nell'"Uomo della speranza" il regista narra la vita dell'elettricista che vinse il comunismo: "Purtroppo spesso si dimentica la verità"
    Maurizio Caverzan
    Con Walesa, l'uomo della speranza, terzo film della trilogia di Andrzej Wajda (dopo L'uomo di marmo e L'uomo di ferro che già raccontava del leader di Solidarnosc, Palma d'oro a Cannes e Oscar) presentato ieri fuori concorso, un po' di storia ha fatto irruzione alla 70esima Mostra di Venezia, con pochissime eccezioni tutta ripiegata sul minimalismo privato, tormentato e scandaloso anzichenò.
    Lo stesso arrivo del Nobel per la pace, ha portato una ventata di novità su un red carpet che negli ultimi giorni si stava ammosciando. Il film del regista polacco narra lo sviluppo del movimento di Solidarnosc dai prodromi dei primi scioperi di Danzica nel 1970, con gli arresti e la minacciosa sorveglianza della milizia comunista, fino alla caduta del muro di Berlino. Sfruttando come pretesto e fonte narrativa la celebre intervista a Walesa di Oriana Fallaci (una somigliantissima Maria Rosaria Omaggio), al centro della scena c'è un leader insolito e di grande temperamento (interpretato da Robert Wieckiewicz), sostenuto dalla splendida moglie Danuta (Agnieszka Grochowska) e dalla numerosa famiglia: tutti diversamente partecipi di cambiamenti di portata mondiale.
    Chi è Lech Walesa per i giovani d'oggi?
    «I giovani di oggi non sanno chi sia. All'epoca era molto popolare, tanti si facevano crescere i baffi come lui. Ma si tende a dimenticare la storia».
    Per lei chi è Walesa?
    «Io ho visto la Polonia prima sotto l'occupazione tedesca, poi invasa dalla Russia e so quanto sia difficile valutare chi sia davvero il colpevole. Invece non è difficile capire chi è il nostro eroe. Prima di lui, i tentativi di liberare la Polonia diretti dagli intellettuali e dall'aristocrazia finivano con l'insuccesso. Ci è voluto questo elettricista per portarci alla liberazione dal regime comunista senza spargimento di sangue».
    Lei conosce bene Walesa: con questo film ha scoperto qualche lato inedito? Appare più presuntuoso di quanto sia in realtà...
    «Non ho scoperto nulla che già non conoscessi. Una sorpresa è venuta dalla lettura dell'intervista di Oriana Fallaci rimasta a lungo nella stampa clandestina. Lech vuole apparire nel suo lato migliore per fare buona impressione su una bella donna. È una cosa molto polacca. L'intervista, che mi hanno suggerito i miei collaboratori e io ho subito approvato, doveva essere uno spunto. Invece s'intreccia con tutta la narrazione mostrandoci Lech come uomo e come politico».
    Il film mostra anche l'autorevolezza della moglie Danuta...
    «È stata una figura fondamentale come fa vedere l'interpretazione di Agnieszka Grochowska. Era una donna che governava la famiglia sapendo ciò che stava accadendo nel mondo. Da poco è uscito un suo libro e spero che ne sarà tratto presto un film».
    Nel suo film non si vede mai il cardinal Wyszynski.
    «Avevamo girato una scena con il cardinale e Walesa in auto, ma è stata tolta in fase di montaggio. Wyszynski si vede nel filmato della messa di Wojtyla».
    Lì il Papa dice: «Scenda il tuo spirito e rinnovi la faccia della terra, di questa terra». Ma nel film il ruolo della Chiesa non sembra decisivo.
    «Questo è già stato mostrato in altri film. Il Papa era il miglior rappresentante polacco nel mondo, molto più dei nostri ambasciatori a Mosca. Fu fondamentale per far togliere la legge marziale. E prima ancora fu decisiva la sua visita del giugno 1979. Nel film si vede un addetto della milizia che s'inginocchia. Tutti, a cominciare dai dirigenti comunisti, speravano in disordini. Invece non accadde nulla, il popolo dei credenti era capace di autocontrollo e disciplina».
    Walesa non temeva possibili scontri o l'intervento dei russi?
    «Nei primi giorni dello sciopero sono andato al cantiere e ho incontrato Walesa come presidente del cinema polacco. Grazie a questa associazione siamo riusciti ad avere le telecamere. Lui era sicuro che sarebbe andata bene. La genialità di Solidarnosc è stata non riversarsi nelle strade con le armi. La loro arma era la parola. Anch'io partecipavo alle riunioni. Un operaio mi chiese perché non ne facessi un film. E così eccomi qui».
    L'accusa di Wajda: "Racconto il Walesa rimosso dalla storia" - IlGiornale.it






    A casa Chesterton per tornare uomini
    Alla riscoperta dello scrittore inglese: ricostruita anche la sua abitazione. Per abbracciare il mondo in una stanza
    di Enrico Tamburrini
    Un’incursione da ladri, nel cuore della notte, nella casa di Gilbert Keith Chesterton, scrittore e polemista inglese, già protagonista lunedì e martedì al Meeting con la messa in scena, al Teatro Novelli, di Manalive – Un uomo vivo. Con l’obiettivo di sedersi alla sua scrivania, guardare nel suo armadio, bere una birra in cucina, scendere in cantina e infine uscire in giardino, davanti a quel lampione verde che Innocenzo Smith, protagonista di Uomo vivo, ritroverà alla fine del suo giro del mondo, di fronte alla sua casa nel Kent e anche alla sua casa in cielo. Perché «il Paradiso è in una data località e non dappertutto: è qualche cosa di preciso e non già qualsiasi cosa».
    È ciò che propone la mostra “Il Cielo in una stanza: benvenuti a casa Chesterton”, che, più che rievocare la canzone di Gino Paoli, vuol far toccare con mano un’idea fondamentale dello scrittore inglese: che è solo una cornice, un punto di osservazione limitato e permette di abbracciare tutto il mondo, grazie all’apertura verso il cielo...
    Si parte dallo studio, il luogo più personale, dove il singolo uomo si confronta con il mondo dalla propria “finestra”, per poi passare alla camera da letto, il luogo dell’incontro con l’altro. Nel caso di Chesterton, che vedeva il matrimonio come una grande avventura (tanto da presentarsi sull’altare con una rivoltella alla cintura: certo non da usare contro la consorte, ma «per difenderla dai pirati»), con la moglie Frances Blogg, fedele compagna di una vita intera.
    C’è poi il bagno, dove ci si confronta con la propria sporcizia, cioè il peccato originale. Ma senza l’idolatria dell’igiene: sono gli uomini all’opera che si sporcano, mentre chi ha qualcosa da nascondere è pulitissimo.
    Quindi il salotto, luogo di incontro-scontro tra Chesterton e i suoi ospiti: amici che ti aiutano a essere te stesso, come Hilaire Belloc, o nemici che però ti aiutano a rendere ragione dei tuoi ideali, come G. B. Shaw. E luogo di grandi letture (da Chaucer a Shakespeare e Dickens), che restituiscono la gratitudine per ciò che c’è di interessante nel mondo.
    La cucina, o meglio il focolare domestico, luogo per eccellenza della famiglia: il nucleo fondamentale della società, secondo la dottrina del «distributismo», elaborata da Chesterton e Belloc.
    La cantina, cioè il posto dove conservare tutte le cose «strappate al naufragio», come Robinson Crusoe, e cioè strappate al nulla, e meravigliarsi del fatto che ci sono.
    E poi il giardino, dove tutto è iniziato (nell’Eden) e dove tutto finirà: per Chesterton, non con una pace dei sensi, ma con un eterno inizio, dove ogni giorno si rinnoverà lo stupore per l’essere.
    Si può uscire infine da casa Chesterton, e dalla mostra, con un “bottino” preziosissimo: grazie allo sguardo sulla realtà di GKC essere di nuovo autenticamente uomini, autenticamente vivi.
    NEWS



    HALVARD
    Rino Cammilleri
    Il patrono di Oslo, Halvard Vebjørnsson, era l’unico figlio di un possidente violento e brutale, e di Torny, cugina del re Olaf il Santo di Norvegia. Nel 1043 aveva ventitré anni e percorreva in barca il fiordo di Drammen, quando una donna gli chiese aiuto. Tre uomini, accusandola di furto, volevano annegarla. Lui la difese e quelli lo uccisero a colpi di freccia, poi affondarono il corpo legandolo a una mola. Ma il cadavere miracolosamente tornò a galla. E i rami di salice con cui venne recuperato fiorirono.
    La scrittrice Sigrid Undset, premio Nobel per la letteratura, ne scrisse la biografia («Vita di sant’Halvard», Solfanelli). La Undset scrisse il romanzo biografico nel 1925, anno in cui la capitale della Norvegia. Kristiania, aveva ripreso l’antico nome di Oslo. L’anno prima si era convertita al cattolicesimo. Stranamente, malgrado ciò, nel 1928 le venne assegnato il Nobel per la letteratura.
    Oggi la cattedrale dedicata a Sant’Halvard non esiste più. Quello che era il principale pellegrinaggio nazionale fu cancellato dal passaggio della Norvegia al luteranesimo per opera del re Cristiano III di Danimarca, che impose il protestantesimo con la forza e la pena di morte. Col successore, Cristiano IV, chiese e monasteri vennero distrutti, e gli affreschi di soggetto sacro ricoperti di calce. Per chi non si adeguava c’era il rogo.
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    Ultima modifica di Melchisedec; 07-10-13 alle 01:12

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Piero Nicola, narratore anticonformista
    di Piero Vassallo
    Il visitatore elettronico dell’intrepido e vasto catalogo di Solfanelli, editore carsico in Chieti, può contare l’alto numero dei creativi, che scelgono la scomoda collocazione nell’area dei refrattari all’eversione nichilista e subiscono senza piagnucolare la canonica esclusione dai vantaggi elargiti dalla folla dei clienti medi, uditori degli squilli alzati dagli impellenti e obbediti persuasori.
    Nel solo anno in corso, Solfanelli si avvia, intanto, a realizzare la stampa e la diffusione di ben cento testi di eccellente qualità: saggi, che rivelano l’esuberanza del pensiero proibito dai superiori incogniti, e romanzi, che attestano la presenza di una vivace comunità di scrittori irriducibili alla corrente porno-thanatofila.
    La vitalità di Solfanelli e degli altri qualificati editori d’area, rappresenta lo scisma in atto fra la cultura della chiacchiera al bar dell’ex progresso – decomposizione del non pensiero, trionfante fra gli eterodiretti – e la cultura che interpreta la sfida lanciata della tradizionale normalità in faccia agli anormali poteri del caos pansessualista e suicidario.
    Frutto di una scelta meditata è la speciale attenzione che Marco Solfanelli e i suoi collaboratori dedicano alla narrativa, concepita dagli autori selezionati e pubblicati come elezione della virtù e del buon gusto in guerra contro i prodotti del decadentismo osceno e sgrammaticato, che inondano i banchi delle librerie “in” e gli scaffali del lettori obbedienti ai suggerimenti dei maestri.
    Fra i narratori proposti da Solfanelli merita una speciale attenzione Piero Nicola, testimone delle verità di ragione e di fede e colto difensore delle virtù aggredite dall’onda limacciosa, che è sollevata dagli orfani della rivoluzione comunista.
    Nicola, oltre a scrivere avvincenti romanzi, lavora in solitudine al restauro della memoria intorno alla letteratura del Novecento cattolico, un patrimonio avviato all’oblio dal furore iconoclastico dei vu’ inizià e dei neomodernisti.
    Una vandalica passione, purtroppo, ha cancellato le tracce delle riviste (“Humanitas”, “Renovatio”, “La fiera letteraria”, “Letture”, “Rivista cattolica del cinema” ecc.) che, nei primi decenni del secondo dopoguerra affermavano i valori dell’estetica tradizionale e propagandavano le opere dei numerosi autori ispirati dal sentimento religioso e dalla fede cattolica.
    In questi giorni Nicola ha pubblicato per i tipi di Tabula fati, collana gestita da Solfanelli, un romanzo, “Il bacio”, in cui la testimonianza dei princìpi della morale cristiana è formulata attraverso una vicenda narrata con stile elegante/intrigante.
    L’avvincente scrittura di Nicola è il gradevole risultato della assidua frequentazione, meditazione e reinterpretazione dello stile sfoggiato dagli autori, che hanno segnato il migliore Novecento italiano e francese.
    Argomento de “Il bacio” è l’insostenibile storia d’amore vissuta da un credente, in difficoltà a causa del vissuto e contemplato contrasto tra la vita oggi normale e le virtù predicate negli scritti del venerato Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
    Comprimaria è l’incantevole Alessandra, appartenente a una famiglia benestante e, quasi per dovere di stato, sequestrata e forse docilmente abbandonata ai pensieri emanati dalle agenzie della disinibizione banalizzante e agitata dai tic dal cinismo spicciolo e spiritoso.
    Sullo sfondo della contrastata vicenda amorosa si consuma il dramma dei marginali assistiti dalla comunità cattolica, in cui milita il protagonista, il quale si occupa di loro generosamente, tentando, non senza correre rischi, di sottrarre i più piccoli alla corruzione e al degrado promossi dalle suggestioni in caduta dalle alte sfere della mondanità.
    Il racconto si può interpretare come allegoria dell’insanabile conflitto che, malgrado gli ecumenici sforzi dei teologi della liberazione & della mano tesa all’errore, oppone la cristianità allo squallido, residuale universo dell’ideologia, la massa dei radicali.
    Simbolo della sapienza oggi trionfante è un borghese estenuato, che si è convertito al buddismo, abbandonandosi a quella parodia della religione, che Nicola definisce puntualmente calunnia della nascita, disprezzo delle opere di misericordia corporale e stravagante distacco dalla vita.
    Infine la vicenda amorosa si estingue affondando nelle sabbie mobili dell’irriducibilità della fede del protagonista al volatile pensiero della giovane inutilmente amata.
    Senza cedere mai alla tentazione della pagina edificante, Nicola racconta la disperata/disprezzata opposizione del fedele alla pressante/esangue sicumera degli apostati e dei trans-fedeli. Un conflitto che può esser sciolto solo dalla rinuncia al saltarello tra la virtù tradizionale e l’estenuazione contemporanea.
    Piero Nicola, narratore anticonformista ? di Piero Vassallo | Riscossa Cristiana



    La massoneria premia Franco Cardini
    Redazione Riscossa Cristiana
    Il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani ha conferito a Franco Cardini l’onorificenza “ Galileo Galilei”. Si tratta di un’importante onorificenza massonica “…istituita nel 1995 dal Grande Oriente d’Italia, quale riconoscimento per i non massoni che si siano distinti ‘per l’impegno nella ricerca del vero e del giusto, nell’attuazione e nella difesa dei principi e degli ideali massonici, nel perseguimento dei valori tesi alla realizzazione di un’Umanità migliore e scevra da pregiudizi’ ”.
    Come volevasi dimostrare.

    TOTALITÀ, O LE «BURRATE» DEL FORTETO. UTILI PRECISAZIONI SUL VENERATO MAESTRO FRANCO CARDINI, E DINTORNI
    di Roberto Dal Bosco
    Premessa
    L’articolo del nostro collaboratore Roberto Dal Bosco, “La fascio-papolatria di Franco Cardini…”, pubblicato il 18 luglio su Riscossa Cristiana ha suscitato molto interesse, come ci attesta il freddo ma indiscutibile linguaggio dei numeri, fornito dal contatore di accessi. Pochi giorni fa sul sito “Totalità”, Magazine online di Cultura e Politica è stata pubblicata una critica a tale articolo, con toni garbati che subito ci hanno favorevolmente colpito. Si parte bene subito, dal titolo: “Polemiche imbecilli”. Grazie, ricambiamo con gratitudine. Nel sottotitolo Riscossa Cristiana viene definita “un sito di sedicenti cattolici”. Amen. Fin qui ci eravamo accontentati del Confessore e del Padre spirituale, d’ora in poi ci rivolgeremo anche a “Totalità” per cercare di salvare la nostra anima. Sempre nel sottotitolo l’articolo di Dal Bosco viene definito “degno di una denuncia per diffamazione e per omofobia (secondo la nuova legge)”. Ora, per la diffamazione, ok, con la sola avvertenza di denunciare anche il sottoscritto, che decide giornalmente cosa pubblicare su Riscossa Cristiana e che apprezza molto i lavori di Dal Bosco. Chiedo solo le sigarette, per il resto mi accontento del rancio carcerario. Per l’omofobia, pregheremmo l’estensore dell’appassionata difesa di Cardini di avere almeno la pazienza di aspettare: la legge non è stata ancora approvata! E’ comprensibile l’ansia, quando si è vicini a un traguardo, evidentemente, assai desiderato, ma un po’ di compostezza non guasta, anche per non suscitare dubbi sulla terzietà in una materia così… delicata (in tutti i sensi). Prima di lasciare la parola a Roberto Dal Bosco, mi pare grazioso, visto che nella polemica si parla anche di quella autentica schifezza che è il Forteto, di cui, dopo qualche decennio, si stanno accorgendo anche i suoi acutissimi sostenitori e la “giustizia” italiana, riportare le parole di Cardini nella prefazione al libro sul Forteto: “In un mondo sempre più violento e disumanizzato, che sembra dominato dai fondamentalismi ma nel quale appare cancellato ogni sistema morale, nel quale i poveri e i deboli — gli «ultimi» — sono sempre più umiliati e conculcati, emerge come una piccola luce nella tempesta la buona volontà d'un gruppo di uomini e di donne che rifiutano la logica del potere e del denaro; che colgono la realtà profonda della crisi del nostro tempo, che sta nella distruzione di qualunque forma di solidarietà comunitaria”. (Cardini, pp. 9–10). Ogni commento sarebbe superfluo… e ora, la parola a Roberto Dal Bosco.
    Paolo Deotto
    Direttore di Riscossa Cristiana
    *****************************
    TOTALITÀ, O LE «BURRATE» DEL FORTETO. UTILI PRECISAZIONI SUL VENERATO MAESTRO FRANCO CARDINI, E DINTORNI
    di Roberto Dal Bosco
    Tirato in ballo da un articolo pubblicato dal sito Totalità , intendo qui rispondere sulle questioni trattate punto per punto. Benintenso, scrivo senza la minima intenzione di dialogare con l’autore del pezzo, tale Domenico Del Nero, che peraltro ha ben poco da dire. Scrivo, ancora una volta, per rivolgere a tutti il mio sdegno per l’immane sòla rifilata alla destra italiana con il «venerato maestro» Franco Cardini. Al quale magari qualche valvassino porterà anche questo pizzino - non che la cosa mi importi, perché il giudizio del barone toscano non è valso mai nulla per chi non è tra i derivativi accoliti che lo seguono sgomitando nel sogno di divenir suoi scagnozzi e sniffar così, pateticamente, un po’ della sua fama televisiva.
    Ordunque.
    1 - Prendiamo atto di aver centrato il bersaglio: come noto, i canali cui il barone Cardini affida il lavoro di replica alle polemiche per interposta persona sono vari: a quanto sembra la mezzadria, sparita dal mondo agricolo, è stata, come in un pregevole revival medievistico, reintrodotta dal Cardini nel mondo intellettuale. Il Del Nero - che in varie sedi ha rivendicato che essere studenti di Cardini è la cosa più bella del mondo («ci ha insegnato la tolleranza, la necessità di essere liberi ed intellettualmente onesti») - purtroppo degli infeudati cardiniani è quello con meno argomenti di tutti, e chiaramente anche il meno acuto, perché la scarsezza della risposta è imbarazzante più per il povero Cardini (che non ne esce difeso a dovere) che per il Del Nero stesso. Di fatto, nessuno dei punti toccati dallo scritto pubblicato a suo tempo su Riscossa Cristiana ha trovato una qualche replica degna di essere considerata seriamente, e ciò dispiace molto. A dire il vero, vari altri punti che furono tirati fuori in merito alla controversa figura di Cardini, come elenchiamo sotto, neppure sono stati presi in considerazione, venendo fischiettosamente evitati.
    2 - Ci rallegriamo di sapere che Cardini stia scrivendo una postfazione (strano, non ne aveva mai scritte) ad un libro sulla indimenticabile Evita. Ringraziamo Del Nero per farci partecipi di questo segreto che apprendiamo giungerci dalla sua sfera di intimità col Cardini, come pure di averci finalmente informato del fatto che «Cardini ha sempre avuto molta più ammirazione per Evita che per il consorte». Grazie, ora che sappiamo di queste edificanti passioni segrete, siamo più tranquilli per le sorti della destra italiana.
    Consigliamo quindi a Del Nero e Cardini un musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, il leggendario «Evita», il quale piace sicuramente molto agli «allegri». Soprattutto nella versione cinematografica di Alan Parker, magistralmente interpretata dalla cantante statunitense Louise Ciccone detta Madonna, grande punto di riferimento di quelli che - sempre gaiamente «allegri» - desiderano anche loro la legge sull'omofobia (ricordiamo però al nostro duo destro-feudale che l’apparizione di Madonna-Evita dovranno averla qui in qualche paese occidentale omofilo, perché nella omofoba Russia Madonna non può più entrare).
    3 - Del Nero purtroppo non osa toccare - del resto, non ne ha la competenza, visto che il suo scritto è privo di qualsiasi riferimento - il tema del Perón massone. Peccato. Anche questa rimarrà una cosa da spiegare. Parimenti, il discorso sul filosovietismo cardinico resta senza risposta. Peccato, ci saremmo aspettati qualcosa di più, ma questo è vero in un senso assolutamente più generale: mica tutti sono valorosi cavalieri alla corte del signore del castello. In ispecie se il castello è un postribolo neodestro.
    4- Siamo felici di apprendere dallo scolaro Del Nero che le pregiate opere del suo prof. Cardini su Barbarossa e Francesco d'Assisi siano testi-manifesto del Cattolicesimo politico e civile. Francamente non ci eravamo arrivati. D’ora innanzi, per capire l'ora presente e le sue vertigini spirituali, invece che perdere tempo con le opere di Del Noce, Thibon e compagni, ci butteremo a leggere le imperdibili biografie storiche del «maestro». Ma siamo comunque grati che Del Nero non abbia citato, come esempio di testo memorabile per la civiltà cristiana, il libro sulle Crociate da lui stesso compilato con il suo caro mentore Cardini.
    5 - Bello che non si dia risposta alla questione riguardante il giro degli Adelphi, e del debito verso lo gnosticismo che il Cardini ha dichiarato di avere un ventina di anni or sono - il tutto, addirittura, sulle colonne di Avvenire.
    6 - Parimenti stupendo che non si faccia parola delle impresentabili posizioni immigrazioniste e filoislamiste di cui si accusa Cardini. Ci mancherebbe, uomini e pubblicazioni di destra si devono occupare di altro.
    7 - Interessantissimo che Del Nero non spenda una parola - non una! - per confutare l'accusa forse più grave rivolta al suo professorone, ossia il dichiarato e criminale appoggio alla RU486, il pesticida umano. Immaginiamo quindi che, sino a precisa smentita, il Del Nero e magari anche altre firme di Totalità (ci sono certi grandi nomi...) siano parimenti iper-abortisti da pillola figlicida, inneggiatori dell'infanticidio chimico. Complimenti. Con una destra così, il futuro dell'Italia - i suoi figli - sono in buone mani.
    8 - È inaccettabile, e davvero grave, la disarticolata, goffa difesa tentata dal Del Nero sulla questione del Forteto: «si tratta di un testo di ben 10 anni fa, non si deve dimenticare che in molti hanno creduto nell’efficacia delle comunità di recupero: non solo il Forteto , ma anche Don Gelmini e soprattutto San Patrignano». Innanzitutto, va detto che è squallido questo nascondersi («mal comune mezzo gaudio») tra le comunità oggetto di indagini da parte della magistratura, soprattutto perché va ricordato che né Don Gelmini né San Patrignano sono mai state messe sotto inchiesta per crimini multipli ed efferati come quelli del Forteto. Ma veniamo alla parte più stringente dell'obiezione di Del Nero, che è questa stramba teoria della decorrenza dei termini: il libro in questione è del 2003, ma chiunque, specialmente in Toscana, sa che la tragedia pedosessuale del Forteto va avanti almeno dal 1978, cioè da quando il giudice fiorentino Carlo Casini arrestò per la prima volta il guru Fiesoli. Se qualcuno ha dei dubbi, può seguire la cronologia del Forteto stilata da una fonte autorevole come Sandro Magister. Non ci pare poi che anche con le ultime rivelazioni, Cardini abbia mai preso pubblicamente posizione contro il Forteto, rinnegando le parole del passato. Se l'intenzione di Del Nero è quella di coprire una connivenza alla quale moltissimi papaveri del potere in Toscana si sono prestati, purtroppo Del Nero ha fallito, perché la turpe associazione anche solo nominale con il Forteto - e forse con il vasto potere che lo ha coperto per tre decadi - è sotto gli occhi di tutti.
    Obbiettiamo inoltre a Del Nero che anche il solo comprare i prodotti del Forteto è un atto dubbio, perché tutto ciò che esce da quell'immondo pedo-gulag dovrebbe essere boicottato, così come si fa verso altri prodotti provenienti da realtà discutibili. A ciascuno il suo - c'è chi ha boicottato la Nestle, c'è chi ha boicottato i pompelmi Jaffa, i prodotti del Sudafrica dell’Apartheid, chi i diamanti della guerriglia centrafricana, ora certi fan di Madonna vorrebbero boicottare la vodka. Noi, da cattolici, ci sentiremmo davvero di non comperare mai anche solo una delle mozzarella prodotte dal Forteto, mozzarelle il cui acquisto finanzierebbe direttamente questo osceno tempio del male. Dicono i Salmi, 25, 5: «Odio l'alleanza dei malvagi, non mi associo con gli empi». Credo che la cosa, oltre che per le prefazioni, valga anche per le cibarie.
    Un parola anche per il direttore di Totalità (immaginiamo che si tratti della figlia di Sigfrido Bartolini) che aveva ricordato in nota quanto buone fossero le burrate tartufate del Forteto: signora, chissà cosa ci mettevano dentro, a quelle burrate. In caso può farselo spiegare dal Del Nero: guardando in internet, apprendiamo che oltre che discusso insegnante di scuola superiore («sadico e fascista», dissero delle malelingue finite sui giornali locali) il mastino cardiniano è anche grande esperto di satanismo (!); egli saprà di certo raccontare quali prelibatezze caratterizzino a livello alimentare certi riti gnostico-diabolici. Non arriviamo a dire che la burrata tartufata finita in bocca alla Bartolini e Del Nero contenesse chissà che, ma certo, trattandosi di questo frangente un po' estremo... Sconsiglieremmo un po' a chiunque di assaggiare. Se poi a loro piace, de gustibus non est disputandum.
    9 - Troviamo osceno che una testata come Totalità che dovrebbe rappresentare una qualche destra italiana si nasconda dietro il reato di omofobia, inneggiando (forse in modo un po’ avventato, o forse in modo un po’ ignorante) ad una legge non ancora in atto nel paese.
    Ciò sta a significare, dunque, che Totalità appoggia l'omofilia e il liberticida e anticattolico ddl Scalfarotto, il quale sarà a breve discusso e votato in Parlamento. Ne prendiamo atto, anche se ci piacerebbe sapere cosa ne pensano alcuni membri del Comitato Direttivo come Gennaro Malgieri e Marcello Veneziani (Cardini abbiamo capito come la pensa, ci mettiamo una pietra sopra). Tutti d'accordo con la sodomizzazione della legge italiana?
    10 - Nessuno qui ha il «cellulare del Padreterno», come dice Del Nero. Però se chiedesse a Cardini di darci quello di Allah gliene saremmo grati.
    11 - Restiamo comunque ammirati dal più fulgido esempio di sudditanza a cui si è potuto assistere in tanti anni. Abbiamo parlato di «mezzadria» ma la realtà di succubato che ci si para innanzi davvero non ha vocaboli adatti.
    Citiamo qualche esempio: «Franco Cardini, oltre che studioso e medievista insigne, fosse anche uno dei quei rari personaggi che con il loro pensiero, anche se spesso sanamente provocatorio, (...) un punto di riferimento in un mondo che ne offre ben pochi» «Discorso, come sempre quelli di Cardini, molto ampio e articolato» «Cardini “il culo” (...) lo faceva solo agli esami (a scanso di equivoci …. boscherecci: si tratta di una vecchissima e arcinota metafora) e pertanto a gente ampiamente maggiorenne, che ancora oggi ne serba grata memoria non per masochismo o peggio» «è peraltro un maestro nel senso pieno di questa parola».
    La salivazione del Del Nero, a sentire il nome del barone Franco, parte a razzo, come neanche il cane di Pavlov. Comprendiamo che la realtà di Del Nero, e di tanti suoi simili, sia quella di vivere di luce riflessa, concessa con oculata parsimonia dal professorone di successo (ecco una prefazione, ecco un libro a quattro mani, ecco una presentazione insieme, ecco una buona parola con un editore…). Ci dispiace, compatiamo questo stato di prostrazione, ma non abbiamo colpe in merito. La lingua mandarina ha una parola molto precisa, 走狗, zǒugǒu. Sta a significare «lacché», ma letteralmente può leggersi come «cammina-cane» «cane da passeggio». Diamo qui una parola di speranza: il guinzaglio si può recidere. Così magari si evita di abbaiare a comando, rischiando di fare una figura da cani.
    12 - Per ricordare da dove deriva il tono di tutto questo, ricordiamo che il prof. Cardini aveva invitato chiunque non condividesse le sue posizioni filo-islamiche, filo-bergoglio, filo-gay, filo-sindacati ed anti-tridentine a fare apostasia e cambiare religione.
    Purtroppo per gli zǒugǒu cardinici, c’è ancora chi tiene davvero alla propria religione - cioè chi, a differenza dei molti vacui paroliberisti che visibilmente infestano il discorso pubblico, «crede». E chi crede, certo non può lasciar correre come niente fosse un simile affronto.
    Dunque chi insulta la Fede di qualcuno - e il tronfio Cardini lo fa con leggerezza - non può non aspettarsi una naturale, giusta reazione. Assicuriamo che questa reazione non è finita. Perché la sua fonte è eterna. E, talvolta, capace di grande, immensa ira.
    Riscossa Cristiana


 

 
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