La guerra dei 50 anni (della sinistra) contro l’antimoderno JRR Tolkien
Gianfranco de Turris
La guerra di Tolkien.....vale a dire la guerra ideologica che da mezzo secolo la nostra Sinistra, sotto vari camuffamenti, conduce contro il grande scrittore e la sua opera. Guerra che ha due fasi opposte e complementari spesso denunciate e sempre rimosse, la prima volta ad escluderlo per principio, la seconda volta a includerlo manipolandolo.
La prima scoppio' subito, appena l’editore Rusconi pubblico' i tre tomi del romanzo tutti in unvolume nel 1970. L’intellettualità impegnata, con in testa Umberto Eco, respinse compatto Il Signore degli Anelli e il suo autore definendoli reazionari, conservatori, oscurantisti e, ça va sans dire, fascisti: per le tesi espresse, per l’ambientazione, per i personaggi, ma anche per la connotazione che veniva data all’editore ed ai curatori italiani. Tolkien divenne un vero tabù e la sua opera era letteralmente proibita: nelle sezioni della Fgci e del Pci era vietato leggerla, come poi alcuni hanno apertamente confessato (tra essi Oliviero Beha, se ricordo bene). Tutto questo è rimosso dalla attuale “Sinistra tolkieniana”, non viene mai ricordato quasi non fosse avvenuto, ma carta canta: basta leggere il libro di Oronzo Cilli Tolkien e l’Italia (il Cerchio, 2017) e la mia presentazione de La vita di J.R.R.Tolkien di H. Carpenter (Ares, 1990) dove tutto viene precisamente citato. L’ipocrisia dei compagni si scontra con la realtà dei fatti.
Tolkien icona della sinistra?
Unico Paese al mondo in cui avvenne questo scandalo. Dopo oltre trent’anni si apre la seconda fase. La guerra per recuperare a sinistra Tolkien. Il successo della trilogia filmica di Jackson (201-2003) fu il primo svegliarino per una generazione di neocomunisti successiva alla cariatidi intellettuali progressiste degli anni Settanta. Poi nel 2004 spunta un talo Federico Guglielmi (che ama definirsi Wu Ming alla Quarta, ma più noto come il Censore Bolognese) che suggestionato dal film scrive un romanzo che falsifica la figura di Tolkien e poco dopo inizia a prendersela con le interpretazioni “tradizionaliste”, poi nel 2014 nasce l’Aist da lui fondata col giornalista dell’Unità Roberto Arduini, e la guerra per recuperare il professore continua cercando di denigrare con accuse puramente ideologiche gli avversari, cioè coloro che se ne erano interessati mentre la Sinistra lo denigrava. Ma Tolkien ha idee ben chiare e precise che non si possono negare se con contraffacendole e capovolgendole, sicché certe presunte denunce contro i suoi interpreti accusati di essere “di destra” non bastano più. Non basta che il Guglielmi ne abbia straolto pacchianamente la psicologia in due suoi romanzi. Occorre intervenire in corpore vili, incidere sulle parole (e quindi il pensiero) di Tolkien a proprio uso e consumo, presentandolo in modo adatto al tipo di interpretazione banalizzante e terra-terra, piatta, priva di ogni afflato mitico, offerto a una Sinistra che ha letteralmente paura di tutto questo. E’ quindi indispensabile per condurre in porto l’operazione ri-tradurlo in un certo modo, rimodularlo, stravolgendo concetti e termini, andando contro i precetti di Tolkien stesso, aggiornalo come costoro senza pudore ammettono, vale a dire mettere in atto una operazione che il professore, linguista ed esperto di mitologia, respingeva sdegnosamente senza mezzi termini: le favole non si possono aggiornare e adeguare ai tempi! E Il Signore degli Aneli è o non è, come è stato definito, “la favola più lunga del mondo?… E’ sufficiente leggere il suo straordinario saggio-conferenza Sulle fiabe per non aver dubbi in proposito.
La nostra Sinistra neo-comunista se non vetero-maoista tutto cio' lo vuole ignorare e mette in pratica le regole del Grande Fratello orwelliano: modifica il passato per conquistare il presente e accreditarsi il futuro manipolando la lingua e le parole, fa il suo solito gioco delle tre carte e si pone sul banco degli inquisitori, mentre dovrebbe essere mandata da un bravo psichiatra per curarsi della sindrome paranoide epidemica di cui soffre.
Focus. La guerra dei 50 anni (della sinistra) contro l'antimoderno JRR Tolkien | Barbadillo
Nostalgia degli dei, una visione del mondo in dieci idee: la recensione sul Corriere della Sera di Pierluigi Panza
Intorno al diecimila avanti Cristo i nostri antenati cacciatori/raccoglitori incominciarono a stanziarsi in villaggi di pescatori, allevare animali, coltivare il grano e difendere il territorio circoscritto da una recinzione avviando un’idea di organizzazione perfezionatasi con lo sviluppo della scrittura, che tramando' su pietre o rotoli i nomi degli dei, i miti e le leggi della comunità. Gli dei — ogni civiltà ebbe i propri, ma sono comparabili — possono essere interpretati come archetipi che sintetizzano identità, leggi, usi, costumi di queste società stanziali e che indicano i limiti invalicabili della conoscenza e delle applicazioni tecniche, oltre i quali c’è la hybris, ovvero la tracotante sfida degli uomini all’infinito. La domanda che l’ultimo libro di Marcello Veneziani innesca è questa: con quale allegra inconsapevolezza la società contemporanea ha abbandonato questo tipo di sviluppo umano iniziato 12 mila anni fa?
Questo saggio sulle «cose essenziali, decisive» (Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee), riassume un po’ tutto il percorso di critico della cultura di Marcello Veneziani. Per l’autore di La rivoluzione conservatrice in Italia (SugarCo, 1987) tradizione, comunità e un certo valore spirituale della vita sono condizioni — simbolizzate dagli dei — che si pongono come rivoluzionarie per la contemporanea società nichilista, pragmatica, individualista e unificata solo dal denaro come strumento del globalismo: chi non crede negli stessi valori crede nel denaro come mezzo di scambio unificante, più delle religioni e degli imperi.
Gli dei, ovvero le dieci parole-chiave del Decalogo alle quali Veneziani guarda con nostalgia, sono steli che possono orientare un futuro sviluppo antico del mondo. Questi archetipi sono: Civiltà, Destino, Patria, Famiglia, Comunità, Tradizione, Mito, Anima, Dio, Ritorno. Gli dei che simbolizzano queste parole-chiave vanno intesi come archetipi dotati di apertura di senso. La Civiltà, ad esempio, è la dea che connette i popoli; la Famiglia quella che genera e procrea; cio' che trasmette i valori è la Tradizione; il dio del luogo è la Patria mentre la Comunità (che si oppone alla cultura utilitaristica e contrattualistica contemporanea) è la dea del legame sociale. Questi archetipi stanno dall’Inizio, prima della nascita delle idee filosofiche che si trasformano, poi, in ideologie con catastrofiche conseguenze pratiche o si semplificano, oggi, in algoritmi. Sono richiami stabili, alternativi alla visione pragmatica del mondo dove «il vero è cio' che funziona» (Richard Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli). La Comunità non puo' essere estesa universalmente come sui social, poiché è fondata su un’etica dell’onore che sigla l’appartenenza a valori condivisi. La Tradizione come senso di continuità, fedeltà e rispetto per chi ci ha preceduto è l’opposto della formazione che si dà a quel chierico vagante chiamato Erasmus e in quelle contemporanee fabbriche diseducative dell’opinione pubblica che sono i social. Questi ultimi appaiono quasi una rivisitazione dell’Intellettuale collettivo, punto sul quale la storia si ripete oggi come farsa con l’affermarsi della figura dell’influencer: Chiara Ferragni ha preso il posto di Michel Foucault.
Tutto è stato destrutturato: la storia è andata fuori servizio, il vecchio è solo una oscenità da nascondere, si allontana il vicino ma si vuole avvicinare il lontano, si moltiplicano «i domini senza domus», non c’è più la casa ma c’è l’account, trionfa una cultura che ha puntato su finanza, comunicazione globale e sistema rete, smaterializzando la Terra e i rapporti umani. Questa società degli apolidi, dell’incessante, della comunità senza confini e del mondo delle false ricostruzioni è il trionfo di quello che lo studioso americano Yuri Slezkine, nel saggio Il secolo ebraico (Neri Pozza), ha chiamato l’ebraismo mercuriale, movimento che ha forgiato la «stupefacente» modernità globalista, rete, finanziaria e senza luoghi. Hermes è il padre mitologico del web e Mercurio la divinità del capitalismo spregiudicato.
«Ormai soltanto un dio ci puo' salvare» (come scrisse, metaforicamente, Martin Heidegger) dall’infotainment, dalla tecnoscienza, dai deliri paralleli del digitale, dal biologismo estetico per cui tutti credono interessante cio' che è imposto dai grandi operatori della comunicazione? Se cio' accadesse, conoscenza e contemplazione tornerebbero a prevalere sulla trasformazione, l’educazione sulla ricerca, il Cosmo — ovvero una civiltà con confini e connessioni — sul Caos. Muterebbe la predilezione per tutto cio' che è nuovo e globale e il disinteresse verso cio' che tradizionale e locale.
Per alcuni critici, lo scenario di Veneziani è solo espressione nostalgica e reazionaria per il ritorno a una civiltà chiusa (da qui le ripetute citazioni di Platone) rispetto a una aperta, a-fondazionale e determinata solo dall’efficacia cogente delle sue trasformazioni. Il saggio erudito e ben scritto di Veneziani inocula, tuttavia, il dubbio che con la morte degli dei e della storia si stia proprio tornando alla preistoria, quella dei cacciatori/raccoglitori senza lavoro, senza casa, senza tradizione, esposti al caso e capaci solo di condividere cibo d’occasione in micro-comunità instabili: un cupio dissolvi, insomma! Una civiltà, infatti, e questo è il richiamo del libro, «non si esprime nell’evoluzione della tecnica e dell’economia ma nello sviluppo di tecnica ed economia in rapporto alla cultura e alla vita dei popoli singoli».
Il decalogo dimenticato - Marcello Veneziani
IL FILM PRO-LIFE
"Unplanned" sfida la censura e mostra l'orrore dell'aborto
Si intitola Unplanned ed è la cosa peggiore del mondo: va in scena l'aborto. Il film è tratto dall'omonimo libro di una ex dirigente di una clinica di Planned Parenthood, convertitasi alla causa pro-vita dopo aver realizzato quel che stava facendo. La pellicola, pur subdolamente boicottata (anche da Twitter) è un successo di pubblico.
Calano le luci. Immagini di amena vita familiare. Poi, a pochi quadri dall’inizio, il pugno arriva diritto nello stomaco. Assisti a un aborto. Ricreato per il cinema, lo sai, ma in quel momento lo dimentichi apposta, hai già sospeso la tua incredulità, sei totalmente dentro, sei là dove e mentre sta accadendo. Ti dimeni sulla poltroncina, incapace di resistere. Vorresti strapparti le vesti, vuoi vomitare. Boccheggi, ti manca l’aria, pensi di mandare tutti alla malora e scappare lontano. La testa ti gira. Lo odi quel film, lo maledici, specie il momento in cui hai deciso di entrare in sala. Chiudi orecchi e occhi, non vuoi sapere nulla, niente di niente, risvegliarti dall’incubo a mille miglia di distanza. Senti invece le immagini scenderti nella carne, entrarti dentro. “Basta!”, sbotti dentro di te, e quasi lo dici ad alta voce. Vuoi accendere la luce, uscire dal tunnel, liberarti dagli spettri. Si', è proprio un film adatto a tutti nonostante la censura, un film da far vedere a tutti.
Si intitola Unplanned ed è la cosa peggiore del mondo. Tratto dal libro omonimo del 2011, è la storia vera e nota di Abby Johnson, che oggi ha 39 anni. Quando ne aveva 29 ha visto un aborto monitorato agli ultrasuoni. Cercando il modo migliore per tradurre questa espressione dall’inglese, mi imbatto in una fantastica geremiade della NARAL Pro-Choice America, una delle costole storiche della lobby abortista statunitense: «Costringere una paziente a sottoporsi a una procedura medicalmente non necessaria non è etico ed è avvilente, ma questo è esattamente cio' che le leggi sull’ecografia obbligatoria impongono alle donne che chiedono interventi abortivi». L’originale, ipocrita, falso e infingardo, dice «abortion care», un ossimoro per «cura abortiva». Prosegue: «Per la maggior parte delle donne che cercano abortion care, l’ecografia non è necessaria dal punto di vista medico. Tuttavia, diversi Stati del Paese impongono ai medici di fare l’ecografia prima di eseguire un aborto. Alcuni di questi Stati costringono anche le donne a visualizzare gli ultrasuoni o ad ascoltare il battito cardiaco, anche se la donna vi si oppone con decisione». A parte la ricostruzione caricaturale della faccenda, il punto è che agli abortisti fa scandalo che una donna possa vedere e sentire il figlio che sta per sopprimere. Il NARAL lo dice apertamente: «Le leggi sull’obbligatorietà degli ultrasuoni non hanno giustificazione medica e sono pensate dai politici anti-choice solo per intimidire, vergognare e molestare le donne che vogliono l’aborto». Qui la ricostruzione caricaturale si fa grottesca, ma il punto è detto con chiarezza (in mezzo c’è un passaggio ridicolo: «Vale la pena notare che, per ragioni di sicurezza, l’American College of Obstetricians and Gynecologists raccomanda che gli ultrasuoni vengano eseguiti solo per scopi medici da un operatore sanitario qualificato». Ragioni di sicurezza mentre si sta letteralmente disintegrando una vita umana?).
C’era una volta Bernard Nathanson (1926-2011), il medico che trucco' le carte dell’aborto clandestino e che si vantava di essere stato responsabile di 75mila aborti. Poi venne l’ecografia e a Nathanson cadde la mascella. Si converti' (alla fine anche al cattolicesimo) e divenne un eroe pro-life con pochi eguali anche realizzando lo scioccante documentario L’urlo silenzioso, che un altro eroe, donna, convertita cattolica pure lei, Faith Whittlesay (1939-2018), regalo' in videocassetta a ciascuno dei parlamentari americani.
Anche Abby Johnson è stata folgorata dagli ultrasuoni. Di aborti ne aveva avuti lei stessa, due. Aveva patito fisicamente le pene dell’inferno, ma non aveva mai visto cosa succede fisicamente a un bambino nel ventre di sua madre quando viene annientato per suzione. Un giorno, per caso, ma il caso non esiste, fu chiamata in sala operatoria. Svolgeva mansioni amministrative, aveva fatto carriera: da hostess on the road, di quelle che si prendono “cura” delle abortende per sottrarle ai pro lifer che cercano di dissuaderle, a dirigente di una clinica della Planned Parenthood. Ma un aborto in diretta non lo aveva ancora mai visto, benché alle turpitudini non fosse certo nuova. Fu allora che pianto' tutto.
La sua conversione è stata la notizia peggiore che la Planned Parenthood abbia mai avuto. Perché ovviamente poi Abby Johnson non se n’è rimasta zitta. Ecco, Unplanned è il film della sua storia. Unplanned è la cosa più cruda che possiate vedere. La cosa più greve. E pure la più grave. Uno scannatoio ributtante. Ma ad Unplanned non si puo' sfuggire: perché racconta esattamente quanto accade tutti i giorni, da decenni, in migliaia di luoghi del mondo.
L’attrice Ashley Bratcher interpreta Abby alla perfezione ed Abby ha approvato la sceneggiatura. Diretto da Chuck Konzelman e Cary Solomon, il film è costato 6 milioni dollari alla Pure Flix e le sue riprese si sono svolte in segreto. Quando lo vedrete, capirete perché. Unplanned ha un vantaggio enorme. E' fatto benissimo, roba da grandi major. Nei 110 “interminabili” minuti della sua cavalcata sciorina scene da fare accapponare la pelle per lo sdegno e per la compassione.
Venerdi' 29 marzo è uscito in 1059 sale americane e ha incassato 3 milioni di dollari. Nei due giorni seguenti è salito a 6,4 milioni, più di quello che è costato, piazzandosi al quarto posto delle vendite del week end nel momento del trionfo di Dumbo. La Motion Picture Association of America, quella che dà le patenti ai film, lo ha marchiato “R”: con meno di 17 anni va visto solo se accompagnati. Pero' gli aborti si possono anche se più giovani. Quindi, mentre Unplanned sbancava, Twitter ne sospendava l’account. Per un errore, dicono. Poi l’hanno riconnesso: ovvio, s’è sollevato mezzo mondo, e tra i fan della pellicola ci sono anche Donald J. Trump e il suo vice Mike Pence.
L’ho visto in anteprima privata in margine al Congresso mondiale delle famiglie. Arriverà anche in Italia. Andremo tutti a vederlo, e soffriremo, piangeremo, urleremo, picchieremo i pugni, ma sarà fondamentale farlo vedere a chi l’aborto lo predica e lo pratica. Perché Unplanned cambia davvero la vita. Si raccolgono idee su come convincere gli abortisti a vedere questo piccolo, grande capolavoro che amiamo e odiamo allo stesso tempo.
"Unplanned" sfida la censura e mostra l'orrore dell'aborto - La Nuova Bussola Quotidiana
Basta con i sensi di colpa per gli immigrati e l'islam
Due interessanti articoli su un nuovo libro uscito in questi giorni: ‘ Il complesso occidentale – Piccolo trattato di de-colpevolizzazione’, per la Paesi Edizioni, scritto dal politologo e saggista francese Alexandre Del Valle (prefazione di Marcello Vaneziani), che contrasta il “terrorismo intellettuale” nato intorno ad un malsano senso di colpa dell’Occidente.
Una linea critica, decisamente minoritaria in campo intellettuale, che approfondisce il tema del senso di colpa europeo, secondo una visione originale e nuova: dopo il successo ottenuto in Francia (L’Artilleur editore) esce anche in Italia, per Paesi Edizioni, ‘Il complesso occidentale – Piccolo trattato di de-colpevolizzazione’, il libro del politologo e saggista francese Alexandre Del Valle che contrasta il “terrorismo intellettuale” nato intorno al senso di colpa dell’Occidente, trovando per la strada compagni di peso quali Alain Fienkelkraut, Pascal Bruckner, Marcello Pera, Magdi C. Allam, Giovanni Sartori e Oriana Fallaci.
Secondo l’autore il senso di colpa europeo per la mancata integrazione sociale e il fallimento del multiculturalismo è una malattia mortale, di essenza masochista, che puo' colpire tutti quelli che non hanno gli anticorpi. Per smontarlo Alexandre Del Valle usa nel libro ragionamenti fondati che contrastano quel complesso occidentale che riesce a colpevolizzare più la vittima che il carnefice.
«Fa bene Alexandre Del Valle – scrive Marcello Veneziani nella prefazione – a smontare con argomenti convincenti, quel diffuso, pervasivo senso di colpa dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, in particolare dell’Islam, del sud del pianeta e di quelle terre che furono un tempo colonizzate. È un complesso indecente quanto ingiustificato, la vergogna di essere quel che noi siamo e figli di quella storia, di quella civiltà, di quel modo di essere. Una forma di auto-colpevolizzazione, a volte grottesca, che poi coincide con il canone occidentale presente, quello che viene definito politically correct e con il dogma umanitario dell’accoglienza, dell’apertura senza limiti ai migranti».
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Basta avere sensi di colpa per gli immigrati e l'islam
Per cambiare la politica, è stato trasformato il passato. Cosi' la civiltà è stata letta come colonizzazione, l'evangelizzazione ha finito per equivalere a cancellazione delle culture autoctone. E chi si è opposto è stato inserito suo malgrado nella categoria dei "medioevali", rimasta oramai l'unica che è lecito discriminare secondo il nuovo catechismo politicamente corretto. Tutti gli altri al contrario non possono essere offesi, se no scatta la censura, che agisce come «una camicia di forza lessicale». Percio' i gay pride sono divenuti eventi meritori del patrocinio istituzionale, durante i quali è ben accetta la partecipazione di eterosessuali, mentre la marcia per la famiglia finisce nel contenitore dei rifiuti ideologici e guai se un divorziato o una madre single osano aderirvi.
Se un fenomeno di tale portata è potuto accadere, la causa è l'imposizione alla società, da parte di alcune minoranze, di un senso di colpa ideologico dal quale ci insegna a liberarci il politologo francese Alexandre Del Valle, con l'opera Il complesso occidentale. Piccolo trattato di decolpevolizzazione, (Paesi edizioni, pp. 432, 15 euro), che esce oggi in traduzione italiana. Sarà un processo complesso e doloroso, tanto quanto lo è stata l'avanzata della rivoluzione culturale che ha invaso le scuole, i mezzi d'informazione, il cinema e le serie tv, la musica pop, la moda e il design e perfino l'alimentazione. Non si riesce più a sfuggire alla dittatura dell'etnico né in occasione del Festival di Sanremo né al ristorante né dal mobiliere né nelle competizioni sportive, mentre ogni forma d'espressione artistica deve obbligatoriamente passare attraverso l'accettazione acritica del modello Lgbt. L'obiettivo è condurci al suicidio demografico per scontare i peccati commessi nei secoli in cui nel frattempo abbiamo abolito la schiavitù, inventato gli ospedali e le università, introdotto la distinzione fra lo Stato e la religione. Lo abbiamo dimenticato e «l'Europa è dunque soprattutto vittima della propria demoralizzazione e della propria "volontà d'impotenza" che ne deriva».
LA MANIPOLAZIONE
Qualsiasi resistenza superficiale si rivela inefficace, anzi pure dannosa e controproducente. A scoraggiarci è una manipolazione dei concetti di verità, di libertà e di giustizia per cui «oggi il razzismo viene utilizzato anche per denunciare il sessismo, il maschilismo, il rifiuto dell'immigrazione incontrollata, l'omofobia e persino la critica delle religioni e in particolare l'islamofobia. La denuncia del razzismo è dunque divenuta una temibile arma retorica che serve a "imbavagliare il dissenziente importuno", l'avversario, ostracizzato per il mero fatto di essere etichettato come razzista. Privato del diritto di esprimersi, l'accusato non puo' nemmeno difendersi ed essere creduto, ed è letteralmente vittima di una morte sociale».
LA REAZIONE
L'unica via d'uscita è una reazione. Intellettuale, innanzitutto. Vanno sfatati i miti fondativi della modernità, che Del Valle enumera uno per uno: l'odio per la civiltà cristiana si nutre della demonizzazione delle Crociate e della Chiesa cattolica, del presunto debito nei confronti della scienza arabo-islamica. Cosi' si smonta il meccanismo che ha convinto perfino il clero di aver fregato il mondo, inducendo preti e vescovi a un atto penitenziale, non tanto rivolto a Dio Onnipotente quanto verso il nuovo idolo buonista: il dialogo come fine e non più come mezzo per la conversione a Cristo.
Se vi fosse una rivolta interiore, spirituale, sarebbe l'inizio di una contro-rivoluzione, un agere contra, secondo le indicazioni degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Loyola. Da qualche parte, nel mondo, l'autore ne vede qualche premessa, come in Russia. Percio' propone che «gli strateghi americani e i Paesi europei della Nato ridefiniscano la loro teoria strategica e cessino di vedere nelle petromonarchie islamiste del Golfo e nella Turchia i loro migliori alleati La coerenza geo-culturale passerà al contrario attraverso l'integrazione del mondo slavo ortodosso nello spazio "panoccidentale", il che richiederà ovviamente seri sforzi da una parte e dall'altra». In effetti la Russia non ha conosciuto «la Riforma, il Rinascimento e la Rivoluzione Francese, "le tre R dell'Occidente"», ma soltanto la loro conseguenza più nefasta, il socialcomunismo. E se n'è sbarazzata.
Chiesa e post concilio: Basta con i sensi di colpa per gli immigrati e l'islam