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Discussione: Scrittori conservatori

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    Predefinito Scrittori conservatori

    Il rosso e il Negri. Un dialogo con Luca Negri, scrittore cattolico, su sacro e profano
    IL ROSSO E IL NEGRI
    Giornalista, scrittore, biografo di Fini e di Giovanni Lindo Ferretti, uomo di destra. E prima di essere tutto questo: comunista di Autonomia Operaia, insegnante, dj, musicista punk, ateo, e persino ammiratore uno dopo l’altro di: buddismo, gnosticismo, esoterismo, islamismo. Infine la conversione: sulle pagine di Joseph Ratzinger.
    Io, comunista che non ero altro! L’ateo che credette a qualunque cosa… e poi finalmente a Benedetto XVI. Il nipotino di nonno Chesterton. “Non sono un giornalista, sono uno che scrive”. Flaubert voleva scrivere un libro su “nulla”: non ci riuscì; Negri sì: scrivendolo su Fini. I cattolici dovrebbero alzare un po’ i toni.

    Sono molto poco piemontese, e non ho particolari imbarazzi nel toccare l’argomento religioso. Prego, ed è la pratica che esercito da più tempo, la prima che ho cominciato. Credo fortemente nella preghiera. Cerco di andare a messa almeno una volta a settimana. Con la formazione guenoniana che mi portavo appresso, era abbastanza inevitabile qualche attenzione per i tradizionalisti. Sono molto interessato alla liturgia, e mi infastidiscono, anzi mi offendono le sciatterie di molti sacerdoti, le chiese brutte come capannoni, le censure contro il rito antico. Il mio giudizio sul Concilio, grazie alla studio e all’insegnamento di Ratzinger, è meno critico che in passato. L’unica vera arma legittima che avevano in mano i lefebvriani era la questione del rito. Mi pare che Benedetto XVI abbia risolto egregiamente. Certo, molti sacerdoti disattendono le sue indicazioni, ma spesso sono anziani, di un’altra epoca. Le nuove generazioni saranno più assennate.
    Intervista di
    Antonio Margheriti Mastino

    IO, COMUNISTA CHE NON ERO ALTRO!
    Com’è questa storia che saresti romano? Ma dai: nessun romano andrebbe a vivere in Piemonte, ad Asti addirittura… e namo!

    Eppure io l’ho fatto. Però avevo solo tre anni quando sono salito con la famiglia a Torino, dove sono cresciuto e ho abitato fino a due anni fa. Ora vivo in un borgo di campagna fra torinese e astigiano, per scelta. Eppure, ripeto, sono romano. Nato a Roma, da padre romano. Anche se il mio sangue è per tre quarti veneto. Diciamo che son poco torinese, nel senso che mi sento abbastanza immune da tendenze calviniste…

    Dice però che eri pure comunista trinariciuto. “Autonomia Operaia”, addirittura. Devi essere un sentimentale tu, no? Ma poi che c’entravi te con gli “operai”? Quando ci hai mai avuto a che fare? Soprattutto: è così poco originale diventa’ comunista a vent’anni! Questo, tutto questo, non è da te. Prova a trova’ delle scuse per ogni contestazione.

    Fu il mio periodo romantico, o meglio surrealista. Non tanto per la questione degli operai. Non ho lavorato un’ora della mia vita in fabbrica, le officine Fiat le ho viste solo da bambino in gita scolastica. Però per Aut.Op., almeno nei testi teorici di riferimento (quelli di Toni Negri, Franco Berardi, per intenderci), l’operaio era ormai una figura estesa a tutto “il corpo sociale”: anche un insegnante, un giornalista, un telefonista è un operaio, se sfruttato, sottopagato, alienato. Dunque, ci sentivamo del tutto operai. Era un marxismo eretico, anarcoide, felice per la caduta del Muro di Berlino perché non si riconosceva in nessuna realizzazione storica del comunismo. Ci menavamo più con il servizio d’ordine del Pds che con i pochissimi fascisti che comparivano nell’atrio dell’università solo per l’anniversario della marcia su Roma. Fu in effetti poco originale fare il comunista a vent’anni, ma vissi tutto quel periodo, cinque anni circa, con puro spirito surrealista. Nel senso che a me interessava già altro, ma pensavo che la soluzione immediata e definitiva degli squilibri economici fosse la base minima per potersi occupare di cose più serie. Appunto, ero molto romantico.

    Boccalone se direbbe a Roma… Ma annamo avanti. Com’era dall’interno il mondo comunista degli spasimi, del comunismo senza comunismo, dell’operaismo senza operai, dell’utopia in un mondo ormai disilluso ma che tuttavia ogni mattina si risvegliava a nuove illusioni, nuove follie, nuove ideologie. Tutte rigorosamente politically correctness. Insomma, che tipi umani c’erano fra i tuoi compagni, quali pregiudizi, quali chimere, che sogni gli restavano… ammesso fossero ancora capaci di sognare qualcosa? Tu per esempio, di che illusioni eri portatore?

    Quel tipo di comunismo rifiutava utopie ed illusioni. Ricordo che durante una riunione politica litigai con una tizia, tra l’altro femminista, perché aveva usato il temine “valori”. Risposi che non dovevamo parlare di valori ma di “bisogni”. Considera che ero approdato da quelle parti dopo aver letto più Nietzsche e Stirner che Marx. La decomposizione del comunismo novecentesco, in quel senso, la sentivamo tutta. Incarnavamo l’inevitabile esito nichilista del comunismo. Ovviamente, questi discorsi si facevano alle riunioni serie, roba elitaria, di gente che leggeva e già scribacchiava. La manovalanza dei centri sociali aveva solo qualche slogan appiccicato in testa e tanta buona volontà. O meglio cattiva volontà, quando si trattava di avere a che fare con le forze dell’ordine.

    Mi si dice che sei stato tra i fondatori del, cito testuale, collettivo SparaJurijLab. Che è ‘sta roba sovietica… de zecche?

    Quando ne ebbi abbastanza di teorie politiche e riunioni fumose, fondai con altri quattro disperati il laboratorio SparaJurij, con la pretesa di intervenire nella realtà attraverso la scrittura. Scegliemmo di chiamarci con il nome della canzone dei Cccp proprio per distanziarci ironicamente dall’impegno politico e richiamarci alle avanguardie punk e situazioniste. Con lo SparaJurijLab ho anche pubblicato diverse cose. Sebbene oggi il mio coinvolgimento sia abbastanza marginale, è ancora vivo e vegeto e produce una raffinata rivista letteraria battezzata pasolinianamente “Atti impuri”.

    Come dire: le solite pippe mentali! Da nerd, per giunta. A suo tempo io sono stato a lungo militante di sinistra, come gentilmente hai fatto sapere a tutti, sul tuo articolo su “Il Giornale” -proprio il giornale del Berlusca- che parlava di questo sito. Diessino, prima del mio berlusconismo e ratzingerismo. Ho oggi un po’ il complesso del “pentito”: un complesso, diciamo, che volenterosamente e con generosità contribuiscono ad alimentare gli ex compagni, che nel loro linguaggio “umanitarista”, e va da sé sovietico e sanguinoso, chiamano “tradimento”. A me è capitato non dico di vergognarmi ma di provare imbarazzo per l’abiura, incrociando gli ex compagni… di partito, strada, merende. A te no? A te non ti considerano oltre che un “pentito”, “traditore”, un, come minimo, mentecatto, che proprio in quanto tale ha abiurato?

    Ti capisco. È abbastanza naturale che ci considerino dei casi clinici o degli sporchi avventurieri. Ad essere sincero, la cosa non mi mette troppo in imbarazzo. Già quando stavo in mezzo a loro sentivo che prima o poi sarebbero diventati in un certo senso miei avversari. La sinistra in genere è spesso talmente convinta di aver ragione, di aver capito tutto, di rappresentare il culmine della civiltà, che vive un vero e proprio lutto quando scopre diserzioni al suo interno.

    L’ATEO CHE CREDETTE A QUALUNQUE COSA. POI FINALMENTE A BENEDETTO XVI
    Ma mentre eri comunista al contempo eri anche credente?
    No. Ero sistematicamente ateo. Al massimo credevo nella liberazione della psiche. Almeno coscientemente.

    Poi pare sei diventato berlusconiano e cattolico. Come è successo? A me dissero che avevo avuto un “colpo di… imbecillità”

    In tutta onestà, non sono mai stato un berlusconiano. Fortunatamente, neanche un antiberlusconiano, visto che ai tempi di Aut.Op. non lo ritenevo il peggior flagello d’Italia. Poi sono diventato un anti-antiberlusconiano, nauseato dalla propaganda azionista e azionaria de La Repubblica, dal puritanesimo girontodino e giustizialista, dalla retorica sulla sacralità della costituzione, dal razzismo antropologico contro gli elettori di centrodestra. Direi che non ho nulla in comune con Berlusconi a parte i nemici. Che poi sia finito a scrivere su testate che gravitano intorno alla sua parte politica mi è parso inevitabile: con le idee che avevo maturato, sarebbe stato difficile rivolgermi altrove.

    E la fede cattolica, dunque?

    Il ritorno al cattolicesimo è invece stato un percorso più complesso. Poco a poco mi sono liberato di superstizioni materialiste e illuministe.
    …lo dico sempre, quando uno si allontana dal cattolicesimo per non essere, secondo la vulgata razionalista, “superstizioso”, diventa immediatamente un credulone; e se gli va bene finisce seguace di un santone indiano o, se gli va male, di un santone di Bruxelles tipo Monti; o per dirla col tuo nonno intellettuale, Chesterton, “quando gli uomini cessano di credere in Dio, non è per non credere in nulla, ma a qualsiasi cosa”…

    E infatti ho subito il fascino del buddismo e di tutte le religioni orientali, perfino dell’islam. Ho letto praticamente tutto Evola e Guènon e sono diventato un cristiano gnostico, attratto dall’esoterismo e poi dagli ortodossi d’Oriente.

    … Molte idee e tutte belle confuse, mi pare…

    Ma poi l’elezione di Ratzinger, lo studio delle sue opere e la passione per figure come Papini



    Cristina Campo



    Testori



    per citarne pochi, mi hanno riavvicinato al cattolicesimo. Per un po’ si è trattato di un’adesione molto intellettuale, estetica, politica. Ormai è qualcosa di molto più profondo, radicale. Per dirla con termini marxisti, dalla teoria sono passato alla prassi.

    O per dirla in termini cattolici: dalla conversione del cervello sei passato alla conversione del cuore.

    Ecco.

    IL NIPOTINO DI NONNO CHESTERTON
    Mi è parso di notare nei tuoi articoli delle costanti, delle indoli. La prima costante è che stai in fissa con autori e intellettuali che si collocano soprattutto nell’800. Perché, che ci hanno di particolare? Che hanno in comune con te? A che te servono?

    Vero. Sono molto legato ad autori dell’800 e del primo ‘900. Forse perché ai loro tempi la crisi era pienamente consumata, la scristianizzazione era evidente. Gli effetti nefasti si videro chiaramente con la seconda guerra mondiale, ma tutto fu preparato prima…

    …Quando la rivoluzione scoppia è perchè è già terminata… Scusa l’interruzione, prosegui…

    …Gli scrittori di quel periodo, soprattutto i cattolici, sono interessanti perché indicano il male nel momento del suo sbocciare.

    Fra quegli autori di anticaje e petrella, come diciamo a Roma, il più “moderno” che citi quasi sempre e del quale quasi sempre scrivi è Chesterton.



    Ancora una volta: perché? Che ci ha di speciale? Che cos’è poi ‘sta moda ultima dei nuovi cattolici ortodossi e di stampo ratzingeriano di infilare Chesterton (i più conservatori ci aggiungono Gomez Davila, il Pascal dei poveri e de noantri) ovunque: post facebook, citazioni, articoli?
    Considero provvidenziale questa riscoperta di Chesterton, anche se è dovuta, ovviamente, alla caparbietà di precise case editrici. Per anni non si trovavano in giro cose sue. Un peccato, perché il Chesterton romanziere è un ottima lettura anche per chi non è credente. Prima di tutto, è un grande scrittore. Poi è un brillantissimo apologeta, riesce a rendere comprensibili al grande pubblico verità profonde. Secondo Gilson, forse il più grande studioso di filosofia medioevale



    Chesterton ha scritto le pagine più chiare per comprendere il tomismo, nella sua biografia su San Tommaso, di tutti gli altri esegeti. E poi, se Pio XI lo salutò alla dipartita come “Defenson fidei”, si può trascurare la sua opera? Ti dirò di più, Chesterton è utile soprattutto ai cattolici reazionari, agli estremisti tradizionalisti. Come antidoto. Politicamente era un conservatore, niente a che vedere con i reazionari estremisti. Si richiamava al medioevo democratico della corporazioni





    e non al medioevo imperiale, come Evola o Attilio Mordini. Essendo britannico, non si trascinava dietro alcune ossessioni tipiche di noi continentali. Se non lo frequentassi, propenderei troppo per lo stile cattolico tragico e gotico dei miei amati Bloy



    e Bernanos.



    Davila mi piace molto



    certo non è Pascal, al massimo è il Pascal che ci meritiamo oggi. Infastidisce anche me la riduzione dei suoi aforismi a slogan cattoreazionari.

    Quanno parli de Chesterton, veramente, sembra stai a parlà de tu nonno, che ti raccontava storie sotto al caminetto. Prendila come un complimento.

    Come tu quando parli de Messori. Prendila come un complimento.

    Io più vado e più mi convinco che sottosotto non sei tanto giornalista. Non solo perchè forse sei l’unico dell’ambiente a conoscere l’umiltà (ma forse perché stai all’inizio: hai ancora tempo per guastarti). Credo che lo fai perché bisogna pur farlo, per cassetta diciamo, ma che tale non ti senti. Sottosotto ti senti per quello che non hai ancora avuto il coraggio di rivelarti: un aspirante scrittore, un narratore, un romanziere. Oltretutto hai studiato pure lettere, in quel di Torino. E scrivi sempre di scrittori. Vuoi fare outing con me? Non sei stato capace di farlo nemmeno con i tuoi primi e ultimi due libri, che tutto sono tranne che letteratura: anche se nella semi-biografia di Ferretti, qualche struggimento, suggestione, condiscendenza letteraria c’era. Sembra che hai usato la vita di Ferretti per sondare pubblicamente le tue tentazioni letterarie. Illuminaci con ciò che il tuo cuore sa.

    Come sei arrivato, ultimamente, pure a scrivere per “Il Giornale” di Berlusconi fu di Montanelli? Sembra che il Cavaliere non possa proprio fare a meno di assoldare ex comunisti: sono la sua passionaccia e la colonna portante di ogni suo pensiero opera omissione. Dai, raccontaci un poco delle tue traversie e traversate in questo mondo strano, metafisico, incertissimo, sempre in crisi ma che mai muore, che è il giornalismo. Dove stai mirando?

    Come ho detto, fu la necessità ad obbligarmi. Esordii su Il Foglio, proprio con un pezzo su Ferretti. L’uscita del libro mi ha aperto altre porte: quella dell’Occidentale.it e poi quella delle pagine culturali di Libero. Dopo il mio pamphlet contro Gianfranco Fini sono arrivato a RagionPolitica e qualche comparsata altrove. Alla fine delle scorsa estate mi sono proposto come collaboratore alla sezione cultura de il Giornale. Ovviamente sono orgoglioso di comparire su quelle pagine. E’ una testata con una storia gloriosa, ci scrive gente che stimo parecchio. Posso ritenermi soddisfatto, anche perché non ho beneficiato di alcun tipo di “segnalazione”, nel senso che non conoscevo nessuno. Tre anni fa passavo le mie mattinate in classe a fare lezione, mai avrei immaginato di approdare al quotidiano fondato da Montanelli. Evidentemente piace come scrivo. O almeno, non scrivo peggio di altri colleghi.

    Comunque, a proposito di giornalisti e iene dattilografe, Renato Farina mi disse che tutti i giornali, di più: il giornalismo tutto, è l’ambiente più nichilista (e “con venature marxistoidi”) del mondo. Come se dice a Roma: te arisurta? Chi so’ i tuoi giornalisti preferiti?

    Lavoro in casa mia, nelle redazioni ho messo piede poche volte. Non saprei quanto nichilismo o veteromarxismo vi sia, mi fido di Farina che ha molta più esperienza di me. Ho solo capito che l’ambiente è una giungla, e non tutti sono gentiluomini.
    I giornalisti preferiti, quelli che secondo me scrivono meglio, sono Camillo Langone e Pietrangelo Buttafuoco. Poi considero Giuliano Ferrara un maestro. Certo che ho qualche lettura in comune con quelli che vanno a CasaPound, ma non siamo d’accordo sui loro fondamentali: Marinetti e Mussolini. Secondo me hanno fatto solo danni. Preferisco il Pound poeta a quello economista. E a Pound preferisco Eliot.



    Il cattolicesimo è: sapere delle cose, accettare e credere delle cose, fare delle cose (non farne altre). Do per scontato che “sapere” sai, che “accettare” accetti: quanto al “fare”, questo vorrei sapere, ché qua so cazzi amari per tanti: fai? pratichi? Ti evito l’imbarazzo di domande sul tuo fare e non fare circa il de sextu, andiamo su cose meno compromettenti: pregare? messa? precetti? evitazioni (tipo: non mangiare carne al venerdì)?… su tutto questo fai o non fai? Entra nel dettaglio. Insomma: come vivi praticamente il tuo essere cattolico? Non vorrei, visto che vivi in Piemonte, visto che hai studiato a Torino, che magari sei pure come tutti i soloni e i grandi sacerdoti del laicismo torinese, alla Bobbio e alla Galante Garrone, che consideravano tali argomenti tanto intimi da vergognarsi di parlarne in pubblico, di parlarne proprio. Se non sei così, allora rivendica: dopotutto sei piemontese per finta… e sei romano!

    Infatti, sono molto poco piemontese, e non ho particolari imbarazzi nel toccare l’argomento. Prego, ed è la pratica che esercito da più tempo, la prima che ho cominciato. Credo fortemente nella preghiera. Cerco di andare a messa almeno una volta a settimana, non mi comunico perché non ho ancora potuto sposare la donna con cui vivo e che amo, madre di mia figlia. E non sono uno di quelli che pretendono comunque l’eucaristia. A parte questo, cerco di rispettare tutti i precetti, ma sulle evitazioni ho ancora da lavorare.

    Mi pare che la tua visione del Concilio sia piuttosto severa, sicuramente è contraria alla visione dossettiana. Qua e là accenni con molta clemenza, persino condiscendenza, massì diciamolo… con aperta simpatia, ai cosiddetti “tradizionalisti”… e alla messa in rito antico, che sta conoscendo una così improvvisa fortuna fra giovani laici e una guerriglia sporca, un cecchinaggio da parte del laicato clericalizzato progressista, dal clero secolarizzato e dall’episcopato modaiolo. Parlacene.

    Con la formazione guenoniana che mi portavo appresso, era abbastanza inevitabile qualche attenzione per i tradizionalisti. Sono molto interessato alla liturgia, e mi infastidiscono, anzi mi offendono le sciatterie di molti sacerdoti, le chiese brutte come capannoni, le censure contro il rito antico. Il mio giudizio sul Concilio, grazie alla studio e all’insegnamento di Ratzinger, è meno critico che in passato. L’unica vera arma legittima che avevano in mano i lefebvriani era la questione del rito. Mi pare che Benedetto XVI abbia risolto egregiamente. Certo, molti sacerdoti disattendono le sue indicazioni, ma spesso sono anziani, di un’altra epoca. Le nuove generazioni saranno più assennate. Comunque, in questo momento non partecipo a messe tridentine (non che, in caso, ve ne fossero nei dintorni, avrei difficoltà a parteciparvi, anzi!). Col tempo, l’umiltà e grazie al carisma del mio parroco, partecipo a quella del borgo in cui vivo, dove un coro di signore trasforma “Tu sei la mia vita” in un canto da alpini. Tutto è grazia, scriveva Bernanos, citando Teresa di Lisieux.

    Hai conosciuto da comunista Giovanni Paolo II, hai conosciuto da anticomunista Benedetto XVI… e hai fatto in tempo pure a vedere Paolo VI. Chi ti piace di più fra questi? Quali sono le differenze fra loro? Quali gli errori? Dove vuol portare la Chiesa Benedetto XVI…e dove effettivamente sta andando?

    Non ricordo nulla di Paolo VI. Ho invece bene impresso nella memoria il giorno dell’attentato a Giovanni Paolo II, avevo nove anni. Ovviamente sono molto legato al pontefice regnante. Devo a lui, in particolare alla lettura di “Introduzione alla spirito della Liturgia”, il mio ritorno convinto nella Chiesa.



    Mi pare che gran parte del suo impegno sia dedicato a riportare ordine ed armonia nel caotico cantiere postconciliare, riavvicinare a Roma i cristiani dispersi, difendere la ragione contro la sua riduzione a razionalismo. Tutti compiti urgenti e benemeriti.

    FLAUBERT VOLEVA SCRIVERE UN LIBRO SU “NULLA”. NON CI RIUSCÌ. NEGRI SÌ: SCRIVENDOLO SU FINI
    Ma come ti è saltato in mente di scrivere un libro su Fini?



    Cioè: ma di uno così che racconti? Soprattutto: come fai a non morire di noia scrivendone? Flaubert diceva che il suo sogno era di scrivere un romanzo sul nulla, sul niente, ma che non c’era mai riuscito. Tu ci sei riuscito. Ma non ti sei disgustato scrivendolo? Che sensazione ti dà Fini? Come andrà a finire, secondo te? Dato che ce semo… te che sei abituato a recensire libri altrui: qual è la tesi di fondo del tuo libro?… sii chiaro e preciso: per tutti quelli che non hanno alcuna intenzione di acquistarlo…

    Non ci crederai, ma mi sono divertito moltissimo a scrivere “DoppiFini”.

    Contento tu…

    Lo ritengo, almeno sul piano stilistico, molto più riuscito del libro su Ferretti. L’odierno presidente della Camera non è un personaggio meno romanzesco del punk filosovietico che torna cattolico. A me Fini ricorda quelle figure della letteratura francese ottocentesca, come il Bel Ami di Maupassant: un uomo senza qualità che riesce a diventare qualcuno grazie al destino favorevole e al cinismo. Con la differenza che Fini è quasi caduto nel dimenticatoio per aver preteso troppo. L’idea del libro venne a me e a Camillo Langone (che mi aveva già fatto esordire con il glorioso marchio Vallecchi) dopo una lunga conversazione via mail. Fini in persona e il neofuturismo ci sembravano rappresentare il peggio dell’Italia. Eppure quando iniziai a scrivere il libro conoscevo gente di sinistra (oltre che di destra) che apprezzava Fini. La cosa mi allarmava. Volevo dimostrare che si tratta di un grande bluff, di un politico senza uno straccio di un’idea, di un rimasuglio della Prima Repubblica che cerca di farsi passare per novità. È bastato raccontare la sua storia politica e approfondire un poco le sue contraddittorie parole d’ordine. Se nel libro su Ferretti ho fatto i conti con il mio passato di sinistra, con quest’ultimo mi sono liberato da ogni tentazione fascio-comunista.

    E POI GIOVANNI LINDO FERRETTI: “PARTIGIANO DELL’INFINITO”
    Quindi arriviamo alla domanda d’obbligo quando si parla con te: sei il biografo di Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP, “partigiano dell’infinito, da Togliatti a Benedetto XVI”… non s’è fatto mancare niente, dunque. Qui pure: come ti è saltato in mente? Che ti ha detto del libro? Avete rapporti? Insomma racconta un po’… cose che non hai raccontato troppo in giro.

    Avevo un debito con Ferretti: la sua musica e i suoi scritti hanno accompagnato la mia maturazione culturale. Inoltre la sua storia mi sembrava un ottimo romanzo con sullo sfondo le trasformazioni della società italiana dagli anni ’50 ad oggi e le vicende delle due grandi chiese italiane: quella di Peppone e quella di Don Camillo. Poi ne avevo le palle piene di tutte le critiche piovutegli addosso da parte di vecchi fan dopo la conversione religiosa e politica. Gente che gli dava del traditore, del venduto, del rincoglionito.

    Tipico del “monachesimo” comunista. Capitò a tanti, in primis, nel dopoguerra, a Ignazio Silone, che si dissociò dalla “chiesa comunista” che a forza lo aveva spinto ad abiurare la sua fede cristiana e ritornò a credere nel Cristo che immaginava. 40 anni dopo l’abiura del comunismo, ancora i giornali dell’orbita PCI, come tutta l’intellighezia comunista, gli sputava addosso, lo insolentiva, gli dava dello psicopatico. Anche da morto. Nulla di nuovo sotto il sole rosso. Ma torniamo al tuo libro…

    Nel libro ho cercato di dimostrare che Ferretti non è mai stato ateo, che c’è un filo rosso in tutta la sua carriera. Filo che porta al cattolicesimo. Chi lo critica non sa o non capisce, o preferisce non capire. Comunque, lui ha gradito il libro. E non solo lui, fortunatamente. Anni fa noi di SparaJurij avevamo in progetto una rivista con lui. Poi le sue vicende personali, soprattutto la cura della madre, non gli hanno concesso il tempo.



    Si sa niente su come la pensi a proposito di messa antica il Ferretti? …Pare che all’inizio lui fosse un corista della parrocchietta, di gregoriano… e molto è rimasto di quell’esperienza nel suo modo di cantare, a mio parere.

    Già dai tempi dei Cccp il suo modo di cantare deve molto a quell’impronta gregoriana, e nel suo caso anche alpina, o meglio appenninica. Anche lui ama la Messa come Dio comanda e sente un profondo rispetto per i luoghi di culto. Ricordo un suo concerto, solo voce e violino, in una chiesetta in alta Val Susa, dentro una chiesa, invitato dal parroco. All’inizio, pregò il pubblico di non applaudire: dato il luogo, non era il caso.

    IL MUSICOPATA
    Soffri e si vede, specie su fb, di musicopatia. Dal peggiore kitsch anni ’80 alle composizioni di lusso e culturalmente stimolanti degli ultimi 20 anni (tipo, appunto, Ferretti)… avesse inciso sulla tua scelta di campo religiosa?

    Eh già, ho un passato da cantante sguaiato in qualche gruppo punk e per un paio di anni ho lavorato come dj facendo ballar con roba anni ’80, quella della mia adolescenza. Su fb continuo un po’ a fare il dj. Di cantare, meno male, ho smesso. La musica non è stata del tutto estranea al mio percorso religioso: da ragazzino, prima della fase sinistroide, mi sentivo cristiano per le canzoni degli U2, non per l’ora di religione a scuola.





    Poi ci ho pure un’altra antica curiosità e mi rivolgo al musicopata che sei: perchè i cantanti degli anni ’60-’90 hanno cominciato a considerare irrinunciabile l’accoppiata fare musica e autodistruggersi? Suonare, cantare e farsi, strafarsi e suicidarsi? Di che castigo divino si tratta?

    Il rock si porta dietro il peccato originale di cercare la trascendenza fuori dai giusti ambiti, come tutto il mondo moderno. Per certi versi è il culmine del mondo moderno stesso e dunque tende a dare il giro, insomma torna dalla parti di Cristo. Per quanto riguarda le droghe ci sono due discorsi differenti: o dovevano aprire le porte della percezione per garantire un misticismo caotico e a buon mercato oppure accellerare l’autodistruzione. Il tutto è molto gnostico. Ma dicevo che sì può dare il giro. Lo sai che Keith Richards dei Rolling Stones, per molti anni l’icona vivente del rocker maledetto e tossico, è cattolico?

    Non me ne frega niente: pure Hitler lo era…

    I CATTOLICI DOVREBBERO ALZARE UN PO’ I TONI
    Hai detto di Ferretti che lui pure quando parteggiava per un URSS già vistosamente (tranne che per i soliti “esperti” della mazza, i soloni, gli opinion-maker e i cattedratici radical-chic) in decomposizione, in fondo lo faceva per “spirito conservatore”. La stessa ragione che lo spinge oggi a essere se non esattamente berlusconiano certamente a destra e dalla parte di papa Benedetto. Fosse la stessa cosa per te?

    Ma sei sicuro che alla gente gliene freghi?

    Nu me ne po’ frega’ de meno!

    No, per me non è stata la stessa cosa. Piuttosto ritorno su Lindo. Ferretti è sempre stato un conservatore, prima berlingueriano, poi dossettiano, ora – non senza traumi – un reduce che vota centrodestra perché, come tanti, sente di poter fare altro. Io quando ero comunista mi sentivo all’avanguardia e scrivevo poesie “d’avanguardia”. E adesso? Certo non sono un futurista, meno che mai un comunista. Non posso dirmi reazionario perché non credo nelle utopie, e sono conservatore su molte cose, su altre meno. Non reggono più le categorie ereditate dalla modernità: destra, sinistra, ismi vari.

    Sai ‘na cosa?… io ho un sospetto su di te: appari mite, ben educato, amabile… un antipersonaggio per antonomasia. Ma dentro di te si nasconde, e molto bene, uno sgargiante ed eccentrico dandy che non osa dire il suo nome, che nega se stesso. Ancora una volta: te arisurta?

    Forse sono uno dandy sgargiante ma ben educato. Amabile non tanto, visto che con “DoppiFini” e qualche articolo un po’ di nemici me li son fatti.

    Cosa ti disturba del cattolicesimo scrivente, virtuale o stampato? E prima di dirmelo: come te pare sto sito qua?

    Del giornalismo cattolico odierno mi disturba una certa prudenza, un tenere i toni bassi. Giusto che spesso sia la Chiesa come istituzione a farlo. Ma i laici cattolici possono permettersi di alzare un po’ i toni, non giocare sempre in difesa. Negli ultimi anni mi pare che qualcosa si stia movendo, finalmente. Papalepapale.com per esempio: è un ottimo esempio di questa riscossa. Già solo per il linguaggio che usate, date un’immagine del giovane cattolico non da parrocchietta. Sai, agli anticlericali in fondo piace pensarci tutti dei Don Abbondio.

    Che libro stai scrivendo?

    Il libro che i fan dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti ameranno odiare e che mira a mettere in imbarazzo i lettori di Famiglia Cristiana. Ma questa è tutta gente che non lo leggerà. Dunque miro a un pubblico cattolico...
    http://www.papalepapale.com/

  2. #2
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Baader, cristiano e liberale
    Vito Punzi
    Tra le sue aspirazioni c’era quella di rendere “popolare” la dottrina ispirata alla libertà elaborata dai grandi teorici Ludwig von Mises e Friedrich August von Hayek.
    Roland Baader, che con von Hayek discusse una tesi d’economia politica all’università di Friburgo, si è spento l’8 gennaio (era nato nel 1940 vicino a Spira). Pubblicista e autore di numerosi studi dedicati al liberalismo classico e all’analisi dell’attualità economico finanziaria, Baader, andrà ricordato anzitutto come un uomo che ha tentato di unire nella propria persona, prima che nella realtà sociale, il pensiero liberale e il cristianesimo.
    Baader intendeva i Dieci Comandamenti come “statuto della libertà”, come il messaggio dell’amore al prossimo liberamente scelto da contrapporre alla statolatria e alla mortale etica rapinatrice del socialismo, per sua natura così pseudo-morale.



    Del cristianesimo non parlava in astratto, facendone lui stesso esperienza come marito, come padre e come amico.
    Cristo, era solito dire, invitava a donare per libero convincimento, non a sottrarre all’altro con violenza. A partire da questa posizione Baader si contrapponeva al totalitario socialismo di Stato come pure al “socialismo con i guanti di velluto” proprio dello Stato assistenziale: entrambi erano per lui causa del decadimento della civiltà moderna, con la sola distinzione che il secondo produce lo stesso effetto più lentamente.
    Come nessun altro ha sviscerato la relazione tra il denaro “sano” prodotto dal lavoro (contrapposto a quello “fittizio” in carta), la morale e la sopravvivenza della cultura e della civiltà. Come pure ha preconizzato la crisi finanziaria e morale quando non vi erano altri in grado neppure di ipotizzarlo: «Già durante le allegre feste d’estate i più sensibili iniziano a infreddolirsi», era solito dire. Baader non è stato tenero neppure con alcune chiese, che criticò duramente per lo stretto vincolo con il quale si sono legate allo stato assistenziale: così facendo quelle chiese vengono meno al loro compito morale.
    Baader si considerava uno “statista minimalista”, ma le sue convinzioni recenti andavano più nella direzione dell’anarchismo libertarian: «Sebbene mi ritenga uno statista minimalista e non mi annoveri tra gli anarco-capitalisti, devo ammettere che ultimamente questi ultimi sostengono gli argomenti migliori».
    A proposito della sua produzione di studioso, colpiscono i titoli di alcuni libri (del tutto ignorati in Italia): L’illusione del socialismo sconfitto, del 1991, La catastrofe Euro. Per un Europa al plurale, contro l’univocità di Bruxelles, del 1993, fino al suo ultimo, pubblicato nel 2010, Il socialismo del denaro. Sulle vere cause della nuova depressione globale.
    Pensatore raro per lucidità d’analisi e visione prospettica, di Baader proponiamo una riflessione del 27 dicembre scorso sull'attuale Germania: «Se osserviamo la Germania con gli "occhi del capitalista", ci accorgiamo di un Paese con un sistema pensionistico statale (cioè socialista), con un sistema sanitario statale, con un sistema educativo statale, con un mercato del lavoro vincolato dallo stato e dai sindacati, con un sistema fiscale confiscatorio (con una quota riservata allo stato superiore al 50%), con un mercato immobiliare pesantemente condizionato, con un comparto agrario massicciamente regolato e sovvenzionato e con un’industria energetica condizionato da un complicato intreccio di mercato e stato, e con un monopolio statale della cartamoneta, perfino con una televisione di stato da sostenere con tassa obbligatoria».
    Così «ci accorgiamo di un Paese nel quale quasi il 40% della popolazione vive interamente o prevalentemente di soldi provenienti dallo stato e nel quale l’intera vita dei cittadini viene determinata dalle regole dello Stato. Chi chiama capitalismo questo 80% di realtà socialista dev’essere accusato di cecità ideologica. E chi parla di turbo capitalismo o di capitalismo predatore deve aver perso del tutto il lume della ragione (o dev’essergli venuto il timor panico per la perdita di potere sopraggiuntagli per i balli di San Vito praticati verbalmente)».




    Ortega y Gasset La buona novella è nella missione individuale
    di Redazione -
    È comunemente accettato che alla base di un sano pensiero liberale si debba porre la cultura cristiana. Ne troviamo conferma studiando le opere di quello che probabilmente è stato il filosofo che ha difeso il liberalismo con argomenti più solidi, lo spagnolo Josè Ortega y Gasset (1883-1955). Non solo perchè rappresentava per lui l'ancoraggio al culmine della civiltà europea mentre la novecentesca e ideologica «ribellione delle masse» (evento che diede titolo alla sua opera più nota) edificava nuove sottili forme di schiavitù. Lo stesso rapporto fra l'io e il mondo circostante, ovvero il nucleo esistenziale della filosofia orteghiana, porta l'eredità della buona novella: l'incarnazione di Dio nell'uomo, l'eterno che si fa storia e diventa la parte più intima di noi.
    Queste sono le conclusioni cui giunge il giovane filosofo milanese Maximiliano Cattaneo nella sua prima opera, dedicata appunto al grande maestro ispanico: Josè Ortega y Gasset. L'io e la circostanza (Cantagalli, pag. 222, euro 16). Il saggio si concentra proprio sul valore che lo spagnolo attribuiva alla missione personale, il talento specifico di ognuno di noi, quella che religiosamente chiamiamo «vocazione». L'unica efficace arma contro standardizzazione e massificazione della modernità è proprio cercare questo punto di incontro equilibrato e armonico fra soggetto e mondo circostante. Quest'ultimo però non va confinato nella realtà visibile o nelle astrazioni del razionalismo. Solo coloro che Ortega y Gasset chiamava «invertebrati» non cercano risposte riguardo alle cose ultime e si chiudono ogni via di accesso al trascendente. Ignorare che un individuo è fatto di anima e corpo significa privarlo della vera e unica libertà, dare vita a un'umanità che in ultima istanza nega l'uomo reale.
    Salvaguardare l'io significa scoprirlo, e di conseguenza scoprire il Dio che ha reso possibile quell'io, il Dio cristiano che fa udire la propria voce e edifica il ponte fra la sua azione creativa e la nostra. Col cristianesimo abbiamo la vera nascita della responsabilità individuale, del giusto rapporto fra gli abitanti della Terra.
    Sant'Agostino



    scrive le Confessioni, inaugurando l'esame della interiorità umana, San Tommaso



    offre con la filosofia un perfetto equilibrio tra fede e ragione, cibo forte che teneva in piedi l'hombre gótico poi buttato a terra dal divorzio fra corpo e anima sancito dal Rinascimento neopagano.
    Ortega y Gasset La buona novella è nella missione individuale - Cultura - ilGiornale.it


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    LINO DI STEFANO, STUDIOSO DOPO LA DESTRA
    Piero Vassallo
    Prima di adagiarsi nell'anticamera del salotto crepuscolare, la cieca agitazione della cosa sedicente "destra nazionale" fu incalzata e pungolata (invano) da uomini invisi alli superiori a causa della loro sospetta intelligenza e del loro disturbante sapere.
    Guastatori indesiderati da Giorgio Almirante e dal suo azzimato successore



    furono, ad esempio, Attilio Mordini, Giovanni Volpe, Vittorio Vettori, Francesco Grisi, Pino Tosca, Giuseppe Tricoli, Silvio Vitale, Giano Accame, Enzo Erra e Gabriele Fergola.
    Dopo di loro la compagnia studiosa e senza guinzaglio ha trovato rifugio e felicità nella diaspora a destra, mentre i Bocchino e i Granata, surreali trombettieri della guerra contro la buona cultura, giubilavano nel fracasso del teleschermo.



    Nel felice circolo dell'emigrazione sans papier politique, si è stabilito Lino Di Stefano, uomo di vasta erudizione e di rara modestia [a questo punto si è purtroppo obbligati a rammentare che la modestia è una virtù, non un vizio di mente].
    Di Stefano, infatti, si dedica imperterrito alla lettura e al commento provocatorio di opere nascoste o screditate dai poteri della rombante inciviltà.
    Frutto recente della preziosa fatica di Di Stefano è Divagazioni culturali, raffinata raccolta di saggi critici, edita dalla casa editrice Eva in Venafro (Edizioni Eva).
    La finalità del lavoro è pedagogica: "mettere in rilievo che, in una società come la nostra - dominata dal relativismo, dallo scetticismo, dal consumismo e dalla totale mancanza di valori - la letteratura, nella fattispecie la filosofia e le rimanenti discipline spirituali, possono ancora insegnare qualcosa a colui che il pensatore Gabriel Marcel chiama giustamente Homo viator su questa terra".
    Dall'intenzione di diffondere l'amore per la letteratura spirituale discende l'interesse per la Commedia di Dante, che, in un'altra Italia, fu efficace strumento dell'educazione popolare alla filosofia e alla teologia ed è oggi relegata nel margine di programmi scolastici indirizzati all'irreligione e al disamor di patria.
    A Dante inattuale e alla critica dantesca Di Stefano dedica cinque saggi brevi, nei quali la singolare conoscenza dei commentatori della Commedia (da Croce a Gentile, da Petrobono a Vettori) è accompagnata dalla piacevole levità della scrittura.
    Specialmente interessante è il commento alla recente versione tedesca della Commedia pubblicata da un editor popolare.
    Di Stefano, profondo conoscitore della lingua tedesca, informa il distratto pubblico italiano che l'autore dell'impegnativa traduzione e del puntuale commento, Hermann Gmelin, "non solo ha reso nella propria lingua il potente capolavoro dell'Alighieri, ma ha pure rispettato la cadenza ascritta dal Fiorentino al proprio poema, nel senso che egli ha mantenuto il ritmo dell'endecasillabo, notoriamente verso nobile, non solo della lingua italiana".
    Tra le righe di Di Stefano si legge l'ammirazione per l'ardimentosa editoria tedesca, capace di pubblicare un testo impegnativo, e il rammarico per la cultura popolare italiana, che sta dimenticando il Sommo Poema .



    Preziose informazioni si leggono anche nelle note dedicate all'Ariosto, a Leopardi, a Manzoni e a Pirandello. Puntuali le osservazioni sulla narrativa di Alberto Moravia: pur riconoscendo il valore stilistico dell'opera di Moravia, Di Stefano formula un pesante giudizio sul "paganesimo moraviano, messaggio senza speranza, che ben si adatta alla società contemporanea priva di identità e orba di valori che rendono la vita degna di essere vissuta".



    Incontro al reale
    Parla del cristianesimo con i tratti di un’avventura sconosciuta al mondo contemporaneo. Non una dottrina e nemmeno un avvenimento di duemila anni fa, ma qualcosa che accade nel presente e raggiunge l’uomo tramite volti e parole
    Antonio Socci
    C’è una bellissima terzina della Divina Commedia che descrive l’attimo dell’Annunciazione



    come il momento in cui finalmente il Cielo si apre e sul mondo piove una pace sconosciuta alla storia umana: «L’angel che venne in terra col decreto/ de la molt’anni lagrimata pace,/ ch’aperse il ciel del suo lungo divieto…» (si noti la serie degli accenti, nell’endecasillabo centrale, tutti sulle “a”, fino a quello finale su “pace”, che dà la sensazione musicale del riposo e dell’abbandono fiducioso).
    È l’annuncio cristiano, la notizia di un evento, della nascita del Figlio di Dio.



    Ma il cristianesimo, per Dante, non è solo l’annuncio di un fatto storico accaduto 2000 anni fa, è per lui qualcosa che accade nel presente, che raggiunge un uomo tramite volti e parole e occhi veri e lo riempie di meraviglia.
    Appare chiaramente in quel passo della Commedia in cui Dante incontra finalmente Beatrice e il suo sguardo (Purg XXXI). Dante è l’uomo che si era perduto, che era sprofondato nel buio di un’esistenza braccata e angosciante, senza senso, pur essendo un fiorentino del Trecento, quindi un cristiano. La sua, quella della foresta oscura, era dunque una disperazione post-cristiana, non pre-cristiana, la disperazione di un uomo che “sapeva” il cristianesimo e i suoi dogmi e tutto il resto e cionondimeno era finito nella disperazione. Forse per questo era ancor più terribile: perché la bontà e la bellezza di una storia passata, dell’aver “visto”, dell’essere stato cristiano, non lo salvava dal vertiginoso smarrimento del presente e questa è una disperazione molto più grande di quella che vive chi non ha conosciuto Cristo.

    Catena umana
    È dunque in questa condizione da uomo perduto e impaurito dalla vita, finché non viene raggiunto e afferrato in quella foresta oscura da un incontro imprevisto



    e tramite lui da una sorta di “catena umana” che gli propone di “tenere altro viaggio”, e lo prende per mano, accompagnandolo con paterno affetto a guardare in faccia, fino in fondo, il male in cui è sprofondato e poi ad alzare gli occhi e il cuore verso la salvezza.
    Quando Dante, in cima al monte del Purgatorio, verrà consegnato a Beatrice - per intercessione della quale è stata costruita quella “catena umana” che l’ha raggiunto - e guarda i suoi occhi, troviamo un passo enigmatico che mi pare non abbia mai avuto una spiegazione esauriente nei commenti dei dantisti. È il punto in cui Dante si dice pieno di meraviglia per ciò che vede negli occhi di Beatrice.
    Ne parleremo. Ma prima vorrei dire che si dovrebbe riflettere a lungo sui commenti insoddisfacenti di certi passi della Commedia come questo. In genere quando non si è saputo chiarire i punti oscuri del poema dantesco si è finito per ricorrere a ipotesi cervellotiche o esoteriche. Ultimamente si è arrivati addirittura a fare di Dante un islamico (e prim’ancora un “iniziato”, addirittura un templare e molto altro…).

    Ipotesi esclusa
    Insomma si tenta di tutto, ma escludendo in partenza o sottovalutando drasticamente l’ipotesi più razionale e filologicamente corretta: il cristianesimo. Tutto questo accade perché - com’è tipico della cultura moderna - il cristianesimo è archiviato nella polverosa biblioteca del “già saputo”. Si crede di sapere già cosa sia e certi di saperne tutta la sostanza si esclude che contenga le risposte per comprendere Dante. Infatti si presume - ancor più scorrettamente - che per Dante e per i cristiani del Trecento, il cristianesimo corrispondesse a quell’idea (assurda, banale e insopportabile) che ne ha l’uomo medio di oggi, soprattutto l’intellettuale, che infatti non sa nulla del cristianesimo; nonostante la sua infinita presunzione non sa neanche di cosa si parli quando si dice “cristianesimo”, quando si accenna a ciò che Péguy definiva «quel mirabile congegno».
    Basterebbe, in realtà, un po’ di lealtà intellettuale, un po’ di correttezza filologica, per capire che Dante parla del cristianesimo con i tratti di un’avventura ai nostri contemporanei sconosciuta. Nell’Epistola a Cangrande, per esempio, egli scrive esplicitamente che il suo poema (ovvero l’avventura cristiana) ha come scopo di «rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità».
    In questa vita.
    Alla felicità.
    E «per cosa si fanno le rivoluzioni se non per la felicità?», osservava Pier Paolo Pasolini. Cos’altro muove tutto l’agitarsi umano se non il desiderio della felicità?

    Fine pratico
    Ebbene proprio questo mette in gioco il poema dantesco. «Non ha un fine speculativo, ma pratico», sottolinea Dante stesso nella sopra citata Epistola a Cangrande.
    Più chiaro di così… Eppure non lo si è capito. Non lo si è voluto capire.
    Basterebbe una simile pretesa per capire che con il cristianesimo di Dante siamo di fronte a qualcosa di impensabile e oggi sconosciuto. Solo grandi filologi come Erich Auerbach lo hanno intuito e si sono messi in ascolto laborioso della misconosciuta tradizione cristiana per trovare la spiegazione di quel mirabile e grandioso capolavoro dantesco.
    Dante, infatti, chiede addirittura al lettore una disponibilità concreta (“pratica”) a fare un vero cammino, quello stesso di Dante, quindi un’esperienza personale di conversione. Senza la quale, fa capire, sfugge l’orizzonte ermeneutico del poema. Credo sia un caso unico nella storia della letteratura: un libro dentro il quale il lettore entra come secondo protagonista. Dove addirittura il protagonista principale parla con lui come fosse lì presente, accanto a lui. Ci sono infatti nella Commedia una ventina di passi cruciali in cui Dante interrompe il racconto e si rivolge al lettore per «chiedergli di partecipare alle esperienze e ai sentimenti del poeta». Si tratta di qualcosa di inedito e - nota Auerbach - «di una relazione “nuova” tra lettore e poeta». Per esempio, «si è tentati di interpretare l’apostrofe “O voi che siete in piccioletta barca…” come un appello indirizzato a veri compagni di viaggio, non a lettori d’un libro».
    Del resto Dante lo dichiara apertamente, proprio all’inizio del Paradiso, all’inizio di quella esperienza di grazia: «Trasumanar significar per verba/ non si porìa; però l’esemplo basti/ a cui esperienza grazia serba». Intende dire che non ci sono parole che possano raccontare quella esperienza di Grazia che esalta l’umanità, ma chi fa la stessa esperienza capirà ciò che sta per riferire.

    Tomismo in versi
    Ma di cosa mai starà parlando? Tutti gli studiosi credono di “sapere” perfettamente, sanno citare tutte le definizioni della teologia tomista e ti inducono a credere che la Commedia in fondo non sia che il tomismo messo in versi. Ma è Dante stesso che chiarisce. Quando in cima al Purgatorio in una grande scena dominata dalla figura del grifone, che è per metà aquila e per metà leone, tutti i commentatori spiegano - giustamente - che si tratta di una metafora delle due nature di Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio.



    Accade che gli occhi di Dante «vider Beatrice volta in su la fiera/ch’è sola una persona in due nature». E qui si verifica qualcosa di straordinario. Dante, infatti, guardando direttamente il grifone vede le sue due nature, così come appaiono nella definizione dogmatica della Chiesa. Vede cioè la dottrina della Chiesa. Ma guardando negli occhi di Beatrice, Dante si accorge che avviene qualcosa di stupefacente: infatti nella sua immagine riflessa in quegli occhi il grifone mostrava ora l’una ora l’altra delle sue nature.
    Ed è questa scena che i commentatori non riescono a spiegare nel suo significato profondo. Che, invece, appare chiaro a chi faccia esperienza del cristianesimo. Esso, infatti, raggiunge un uomo del Trecento o del 2000 non solo come una serie di definizioni dottrinali custodite e tramandate dalla Chiesa, non solo come dottrina, ma come un volto amato (Beatrice) attraverso i cui occhi ti raggiunge pienamente l’eccezionale umanità di Gesù e - facendo esperienza di essa - l’evidenza della sua piena divinità. Esattamente come accadde a Giovanni e Andrea, poi a Simon/Pietro, a Filippo e agli altri discepoli.



    È questo che Dante vuole comunicare, e che la cultura moderna non vuol intendere: che, cioè, il cristianesimo non è (solo) una definizione dottrinale, né (solo) un avvenimento di 2000 anni fa, ma oggi l’incontro con una umanità speciale, in cui si fa letteralmente esperienza del divino, della divinità di Cristo. «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» annota Dante davanti a ciò che vedeva negli occhi di Beatrice. Infatti, «piena di stupore e lieta/ l’anima mia gustava di quel cibo/ che, saziando di sé, di sé asseta».


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Alla scoperta di un altro Dickens
    Marco Respinti
    Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), «il medioevalista che rifiutava quel tipico medioevalismo estetizzante che è una forma di escapismo e che preferisce l’ombra alla sostanza (dei secoli di mezzo esso conserva tutto tranne l’altare, e indugia su un’epoca passata in modo sentimentale e non dinamico), giudicava Dickens come un continuatore inconscio delle tradizioni della lieta Inghilterra [merry England] e del più antico umorismo cristiano inglese». Così afferma il critico letterario Peter Rae Hunt (The Background of G.K. Chesterton’s Charles Dickens, in The Chesterton Review, vol. XI, n. 4, novembre 1985, «The Charles Dickens Special Issue»).
    Di Charles John Huffam Dickens - venuto al mondo a Portsmouth, in Inghilterra, il 7 febbraio 1812 e morto a Gadsh Hill Place (o Gadshill Place o ancora Gad's Hill Place), sempre in Inghilterra, il 9 giugno 1870 - ricorre oggi il bicentenario esatto della nascita. Il mondo lo ricorda per libri che sin dai banchi di scuola hanno letto più o meno tutti (e gli altri fingono di averlo fatto) quali Le avventure di Oliver Twist, David Copperfield, Tempi difficili, Grandi speranze e Il nostro amico comune (già l'umoristico Il Circolo Pickwick appartiene a un club di lettori più esclusivo): cioè per i suoi "romanzi sociali" dove, con la bieca "rivoluzione industriale" che fa da sfondo a una Londra vittoriana implacabile e dura, solo l'utopismo e i buoni sentimenti riescono, quando riescono, a consolare l'uomo per la sua cattiva sorte. Altrimenti lo si rammenta per Canto di Natale, arcifamoso, ma più per le sue mille e una riduzioni televisive o cinematografiche che per l'originale cartaceo. De gustibus. Epperò, come suggerisce Chesterton, Dickens non finisce qui.
    Nel 1906, Chesterton gli dedicò un intero volume, laconicamente intitolato Charles Dickens, che, secondo il citato Hunt, non è «semplicemente un’opera di critica letteraria». È «un'opera di critica letteraria chestertoniana, e ciò significa intrisa di una fede viva e militante nel fatto che la critica letteraria priva della dimensione religiosa e morale della tradizione europea e inglese è gretta, e davvero costituisce solo un incoraggiamento all’arte per amore dell’arte, cosa che Chesterton aborriva. Egli voleva contribuire a recuperare Dickens sia dal momentaneo oblio che gli avrebbero imposto gli iperaffinati, sia dall’abbraccio dei modernisti a cui dello scrittore piacevano solo quelle fettine che sembravano adatte al loro gusto».

    DICKENS "EVANGELISTA"
    Di questo Dickens vi è prezioso esempio. S'intitola The Life of Our Lord, tradotto in italiano con il titolo La storia di Gesù (Gribaudi, Milano 1997). «Questo libro - scrive Mary "Mamie" Angela Dickens (1838-1896), la primogenita dello scrittore, firmando, nell'aprile 1934, la prefazione alla prima edizione del testo -, possiede un interesse e uno scopo specifici, che lo diversificano totalmente da qualsiasi altra cosa egli abbia scritto. A parte l’argomento religioso, il manoscritto è legato in modo davvero intimo al romanziere e non costituisce solo una spiegazione del suo pensiero ma anche un tributo al suo cuore e alla sua umanità e alla sua profonda devozione verso Nostro Signore. Fu scritto nel 1849, ventuno anni prima della morte, espressamente per i suoi figli».
    Il manoscritto originale, prosegue la figlia, «è interamente vergato a mano. [...] Charles Dickens raccontava spesso ai suoi figli la Storia del Vangelo e nelle lettere che indirizzava loro faceva uso di esempi religiosi. Questa vita di Nostro Signore fu scritta per lasciare alla famiglia una testimonianza duratura dei pensieri del padre». Dickens «aveva precisato di aver scritto La storia di Gesù in una forma che riteneva adatta soprattutto ai propri figli e non per la pubblicazione».
    Dopo la morte dello scrittore, il testo restò proprietà della cognata, Georgina Hogarth (1827-1917) e quindi passò a Sir Henry Fielding Dickens (1839-1833), l'ottavo dei dieci figli che Dickens ebbe dalla moglie Catherine "Kate" Thomson Dickens (nata Hogarth, 1815-1879).
    Il figlio, precisa "Mamie" Dickens, «fu contrario a pubblicare l’opera da vivo, ma non vide alcun motivo per impedire che ciò avvenisse una volta che egli fosse scomparso. Il testamento di Sir Henry stabilì così che se la maggioranza della sua famiglia fosse stata favorevole alla pubblicazione, La vita di Gesù avrebbe dovuto essere divulgato: fu dunque pubblicato per la prima volta, a puntate, nel marzo 1934».
    In questo libretto Dickens affronta direttamente la «questione Gesù Cristo».
    Lo chiama sempre «Our Saviour», in traduzione «il Nostro Salvatore »: non "il primo rivoluzionario della storia", cioè; non "l'amico di tutti" o il "buonista per eccellenza". No: il Cristo dickensiano di quelle pagine non è un Gesù umano troppo umano, seppur umano certamente Egli è. Parimenti, non si tratta di uno spirito disincarnato che - come ha sapientemente ironizzato in pagine memorabili Clive Staples Lewis (1898-1963) - aleggia in qualche angolo dei nostri soffitti. È il Figlio di Dio, davvero il Figlio di Dio (nome proprio - come ripete bene Papa Benedetto XVI nei due tomi di cui si compone il suo Gesù di Nazaret - non "un dio" qualsiasi...). Incarnato, morto e risorto per la redenzione del mondo, punto e basta.
    La storia di Gesù è una parafrasi dei quattro Vangeli e di alcune pagine degli Atti degli Apostoli: una sintesi della Buona Novella, che Dickens pensò, volle e realizzò appunto per i suoi piccoli: coloro che incarnavano fisicamente e visivamente il suo futuro, il suo domani. Quel testo lo scrittore inglese lo adoperava come un canovaccio per raccontare loro di Gesù, magari dopo le preghiere della sera di cui egli stesso ci parla nel testo. È come se davanti a ciò che sul serio conta, davanti ai propri figli - di fronte ai quali un uomo si gioca tutto e per i quali gioca tutto -, non si potessero tratteggiare caricature o scarabocchiare meri vezzi estetici.
    Aveva proprio ragione Chesterton. Ci vuole la massima serietà; e solo chi altrove ha dimostrato di possedere il dono dell’ironia e dell’umorismo costruttivi, direbbe lo stesso Chesterton, potrà dimostrarsi all’occorrenza - per esempio ne La storia di Gesù - davvero serio.
    Di Dickens tutti ricordiamo almeno il citato, magico Canto di Natale, una straordinaria novella che, se letta con occhi attenti, non è affatto solo un apologo un po’ sdolcinato per "tener buoni" i bimbi schiamazzanti. Nel Canto di Natale ci sono il peccato, il giudizio e l'inferno; c’è il tempus fugit e c’è una versione particolare della danse macabre medioevale; ci sono il pentimento, il perdono e il mutamento radicale di vita; ma soprattutto quella che Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) chiama «eucatastrofe».
    Tolkien si spiega bene nell’Epilogo del notissimo saggio Sulle fiabe (1939). L'«eucatastrofe» è la «Consolazione del Lieto Fine», «l’improvviso capovolgimento gioioso» di una storia: «tutte le fiabe completamente tali dovrebbero averlo». Così, per Tolkien, «il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione», senza che peraltro questo smentisca «l’esistenza della discatastrofe, del dolore e del fallimento: la loro possibilità è anzi necessaria alla gioia della salvazione; smentisce però, nonostante le molte apparenza del contrario, l’universale sconfitta finale, e pertanto è evangelium [buona novella, lieto annuncio] in quanto permette una futura visione della Gioia, Gioia al di là delle mura del mondo, acuta come un dolore».
    E infatti è «la nascita del Cristo l’eucatastrofe della storia dell’Uomo»



    e «la Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione.



    Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la "intima consistenza della realtà".
    Consapevole o no, in questi profondi pensieri tolkieniani c'è dentro tutto, ma proprio tutto il Dickens de La storia di Gesù. I bambini che leggono (o che vedono...) Canto di Natale sembrano capaci di sopportare benissimo le tinte forti di una vicenda non censurata e di coglierne adeguatamente il significato: la pedagogia decisa, non "corretta" né annacquata fino a scipidire, è del resto la stessa che la Santa Vergine usò con i fanciulli di Fatima nel 1917, quando, senza mezzi termini o escamotage di sorta, mostrò l’orrore dell’inferno in cui essi sarebbero andati qualora non si fossero affidati a Cristo.
    Tutto insomma torna sempre a Gesù, anche in Dickens. Ed è un Dickens caldo, vero, accattivante quello che racconta di Gesù. Nel bicenteneraio della nascita di questo grande scrittore di caratura mondiale, di cui però il mondo non ricorda mai quest'altro volto tanto preziosamente particolare, a noi piace sottolinearne il tratto tenero di padre ed educatore attento al punto d’insegnare alle creature che più aveva care la Storia più Bella, il compendio e il compimento di ogni sapienza e di ogni verità, la Grande Storia Vera del Figlio di Dio, bambino e poi adulto come erano e come sarebbero diventati anche i piccoli rampolli di casa Dickens.



    TOLKIEN FRA EVOLA, SPENGLER E LE ANARCHIE DEL NOVECENTO
    DIEGO GABUTTI
    Accanto al Signore degli Anelli – minaccioso come un cattivo pensiero, di fronte bassa come un orchetto – c’è un romanzo secondo, e di gran lunga più fantasy del primo: la saga infinita delle interpretazioni tolkieniane che si sono accumulate via via, col tempo e le ristampe…
    In Italia, dove Il Signore degli Anelli era poco letto dai militanti studenteschi di sinistra, che gli preferivano (sa il cielo perché) il Che fare? di Lenin e financo Storia e coscienza di classe di Lukacs, l’opera di Tolkien fu notata dai giovani di destra, che avevano pochi santi cuturali, allora e oggi, ai quali votarsi, e che saltarono sul Signore degli anelli come attraverso un cerchio di fuoco. Fu da noi e da noi soltanto che prese forma la più stravagante, la più provinciale e volendo anche la più straordinaria delle interpretazioni tolkieniane: la lettura critica del Signore degli Anelli in chiave evoliana. Si sosteneva, in soldoni, che la saga di Tolkien, lungi dall’essere una semplice per quanto signorile opera letteraria, era in realtà un inno d’amore alla Tradizione (parola da scrivere immancabilmente con la maiuscola) e un guanto di sfida picchiato sul muso della Modernità (parolone anche questo da scrivere in maiuscolo, però a denti stretti, con l’occhio che lampeggia d’indignazione e le mani nei capelli al pensiero di tutti quei tostapane, quelle lattine di Coca-Cola, quei telefoni cellulari). Tolkien, affermavano con sicurezza i suoi fan evoliani, da un lato detestava con tutte le sue forze il frigorifero, l’aereoplano, la carta igienica morbida e i jukebox, tutta roba modernista e profana, mentre dall’altro lato smaniava per una visione sacrale (sacrale?) del mondo, per la società gerarchica e per la Tripartizione di Georges Dumézil. Tolkien era un profeta del puro arianesimo, nonché un pagano fatto e finito, lui cattolicissimo. E per quanto fosse nato suddito della corona inglese, e immediatamente iscritto all’anagrafe della Perfida Albione, ai tempi della Battaglia d’Inghilterra doveva certo parteggiare (dentro di sé, nel segreto del suo cuore, là dove gli evoliani penetravano col loro terzo occhio) per le SS e per la guerra-lampo dei generalissimi hitleriani. Negli anni settanta, mentre la bella gioventù di sinistra s’entusiasiasmava per gli orchetti e i Balrog di Toni Negri col passamontagna calato pittorescamente sul viso, i giovani fascisti fedeli al verbo evoliano, una bizzarra tribù perdutasi sulle tracce del Grande Spirito, organizzavano i Campi Hobbit, che erano poi picnic evoliani dove il povero Tolkien non faceva solo da cavolo a merenda ma anche un po’ da guru, come Rajneesh con i Beatles, ai lettori delle opere complete di Mussolini Dux.
    Questo Tolkien fascistissimo e persino un po’ Vate, come Gabriele D’Annunzio a Fiume, è diventato ormai un cliché delle terze pagine italiane, dove si stampano molte recensioni ma si leggono pochi libri, specie quelli lunghi più di 1.200 pagine, come Il Signore degli Anelli. Tolkien figura qui, tra un elzeviro e una novità in libreria, come una di quelle statuette voodoo che si sottraggono periodicamente alla naftalina, un idolo facile facile da infilzare. Più di recente non è stata la destra ma la sinistra, anche questa nella sua variante più estrema e trullera, ad allungare le mani su Tolkien. Il signore degli anelli è diventato la «Torre di guardia» della più sconclusionata ciurma di venditori porta-a-porta d’utopie, l’esercito variopinto degli ecologisti e dei no global, quelli verdi e quelli bordò, i quali ripetono, alzando il pugno chiuso, la stessa cantilena dei loro predecessori, che onoravano Tolkien col saluto romano. Ma siamo sempre lì: Il signore degli anelli è daccapo la versione romanzata e orecchiabile di quella «rivolta contro il mondo moderno» che unisce Evola e il Club di Roma, i Campi Hobbit e i guerriglieri noglobalisti.
    Tutto nasce da un fraintendimento un po’ banale, della serie «ai no spik inglisc». Che a Tolkien la «modernità» (emme minuscola, e tra virgolette) non piacesse molto, è un dato di fatto, ma il punto è che cosa lui intendesse per modernità. Forse i gas di scarico e le piadine geneticamente modificate, che probabilmente non gli andavano giù, come non vanno giù a nessuno, ma senza nessuna ragione recondita e ideologica, semplicemente perché alieni, lontani dalla tranquillizzante routine di quella Koenisberg che per Tolkien, il Kant della fantasy, era Oxford. Orchettistico e sauroniano, ai suoi occhi, come del resto anche agli occhi di Orwell e di qualsiasi altro scrittore del XX secolo con la testa sul collo, era l’ordine moderno, cioè quell’insieme di istituzioni che nasce con l’assolutismo, si perfeziona con la rivoluzione francese e raggiunge il suo sanguinoso apogeo in quel Signore degli anelli al contrario, con gli orchetti statalisti che vincono la partita e gli eroi invece tutti al muro, che è stato il Novecento. Sarà anche una tautologia, farà ridere dirlo, ma il fatto è che l’Unico Anello, l’Anello del Potere, è proprio quel che dice di essere: una metafora del Potere, che non è malvagio (come si dice) solo se viene usato per fare cose malvagie, ma è malvagio in sé, e causa eterna di sventure. Così è l’Anello, e per questo abbrutisce chiunque si fidanzi col Potere mettendoselo al dito. Perché si sa che, «se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente», come ha scritto un altro cattolico inglese, Lord Acton.



    Tolkien ha sbriciolato questa riflessione sulla natura del mondo (magari banale, però vera) in ogni riga del suo romanzo. Se Tolkien va interpretato, probabilmente è così che va interpretato, inquadrando lui e la sua opera nel loro tempo. Tolkien, con buona pace degli evoliani e dei no global, era uno di quegli intellettuali cattolici che hanno scritto pagine di libertà nell’Inghilterra a cavallo fra i due secoli. Lord Acton, Hillaire Belloc, G.K. Chesterton: politicamente scorretti antemarcia, nonché scrittori coraggiosi se, come scrisse Chesterton, «la persona veramente coraggiosa è quella che sfida le tirannie giovani come il mattino e le superstizioni fresche come i fiori novelli».
    Tolkien, come Belloc, come Acton, come Chesterton, scrutava nel buio dell’ordine «moderno», l’ordine dei Gulag e delle SS, del disumanesimo, che ha per musa la violenza politica, anzi la politica in sé e per sé, il cui segreto è il disprezzo per ogni vita umana. «Se potessimo tornare ai nomi propri sarebbe molto meglio», scrisse Tolkien in una lettera a un amico. «Governo è un sostantivo astratto che indica l’arte e il modo di governare, e sarebbe offensivo scriverlo con una G maiuscola. Se la gente avesse l’abitudine di riferirsi al Consiglio di Re Giorgio V, oppure a Winston e la sua banda, si farebbero dei grandi passi avanti e rallenterebbe questo pericoloso scivolare verso la Lorocrazia».
    Meglio il re, anzi il Re maiuscolo, come l’Erede d’Isildur nel Signore degli Anelli?



    Sì, dovendo proprio scegliere: perché la monarchia tradizionale, ai tempi suoi, prevedeva sempre un ultimo ricorso: l’«appello al cielo» di Locke, volgarmente detto tirannicidio. C’era, in quella legge eterna scritta nel Cielo cui era devoto il Medioevo, una qualche clausola nascosta, un protocollo segreto che permetteva a un popolo oppresso di ribellarsi a un re oppressore. «Disobbedire ai tiranni è obbedire a Dio», si diceva.
    Adesso i tiranni non s’ammazzano più. È difficile, anzi è impossibile, persino liberarsene alle prossime elezioni. «Le mie opinioni», ha scritto ancora Tolkien, «inclinano sempre più verso l’anarchia (intesa filosoficamente come abolizione d’ogni controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe)». Niente anelli, nessun potere. Qualcosa, cioè, che supera la democrazia: il sistema che risparmia la vita ai tiranni e ce li appioppa all’infinito in tivù, come angeli scesi dal cielo.
    TOLKIEN FRA EVOLA, SPRENGLER E LE ANARCHIE DEL NOVECENTO | L'Indipendenza


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    e se la dottrina di Agostino e di Tommaso d'Aquino non fossero conformi all'autentico messaggio evangelico ?

  6. #6
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Citazione Originariamente Scritto da DanielGi. Visualizza Messaggio
    e se la dottrina di Agostino e di Tommaso d'Aquino non fossero conformi all'autentico messaggio evangelico ?
    L’importante è che siano conformi al Magistero della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, unica vera interprete e custode dell'autentico messaggio evangelico.


    Viva la sposa!
    di Camillo Langone
    Sottomettersi al marito e fare figli, secondo il precetto di San Paolo. Le istruzioni di Costanza Miriano
    E’ bellissima e bravissima ed è una moglie sottomessa e ha scritto un libro per convincere altre mogli a sottomettersi, per la gioia di mogli e mariti e figli e l’armonia del mondo intero. “Sposati e sii sottomessa” (Vallecchi) non è un volgare pamphlet provocatorio ma un quaderno di istruzioni serio nel contenuto quanto spiritoso nella forma, opera di una donna che io chiamo Miss Umbria da quanto è splendida e da quanto è nata a Perugia, madre di quattro figli quattro e incredibilmente giornalista del Tg3, la mosca bianca, l’unica papista dell’intera redazione di Bianca Berlinguer. Costanza, che nome meraviglioso, è il cacio sui maccheroni in questi tempi di guerra dei sessi, ripicche e sciarpe bianche. E’ un dono che Dio ci manda per ricondurci sulla retta via e sebbene pensi che gli italiani non siano capaci nemmeno di scartarlo, un regalo del genere, la intervisto perché dovere e ammirazione me lo impongono.

    “Distribuire consigli, attività massimamente gratificante”, scrivi. Mi sembra di capire che il libro sia scaturito dalla tua attività di consigliera sentimentale, o sbaglio?
    Dare consigli piace a tutte le donne (per verificarlo basta entrare con un pancione, o un neonato, in una stanza popolata da femmine: tutte sentiranno il dovere di regalare una perla di saggezza all’incauta). Le donne, per abitudine, per pigrizia (è più facile tenere un ruolo fisso) fanno le educatrici a tempo pieno. Una vocazione che può essere devastante se esercitata su esseri umani che hanno superato l’adolescenza. Mio marito, le rare volte in cui non esce dalla stanza mentre gli parlo, sostiene conversazioni con me (ormai ha imparato…) utilizzando una zona molto superficiale del cervello. Ogni tanto dice: “Ah” oppure, “mia cara, hai ragione”. A volte ci prende anche, lo dice persino a proposito. Detto questo, qualche volta può anche capitare di prenderci, a dare i consigli. E’ un fatto statistico. E questo libro è nato dalle lettere accorate che scrivevo davvero a una mia carissima amica, per convincerla a sposarsi. Alla fine ce l’ho fatta, conquistando l’ambito trofeo di testimone della sposa.

    “La mia risposta a qualsiasi problema è una a scelta tra le seguenti: ha ragione lui; sposalo; fate un figlio; obbediscigli; fate un altro figlio; trasferisciti nella sua città; perdonalo; cerca di capirlo; e infine fate un figlio”. Non vorrei fare una domanda per non spezzare l’incanto di queste frasi sublimi ma devo: a parte l’amica che si è sposata, le altre ti danno retta?
    Ovviamente no. Devo avere pochissimo carisma, non convinco quasi mai nessuno. Eppure credo che le donne avrebbero tutto da guadagnare nel recuperare il loro ruolo, la loro vocazione all’accoglienza (quello che Wojtyla chiamava il genio femminile). Noi donne siamo fatte per questo, per accogliere la vita innanzitutto: lo dice la nostra conformazione fisica siamo fatte per fare spazio tra le viscere, e quella mentale: solo noi possiamo fare sei o sette cose insieme. Chi di noi non si è mai mossa a pietà per quel poveraccio che si ritrova accanto, il quale, lucidissimo nell’analizzare la strategia politica statunitense in medio oriente, si intreccia se deve prepararsi un tè e insieme rispondere a una domanda elaborata e complessa come “Che ore sono?”. “Non vedi che sto facendo una cosa?” risponderà sinceramente indignato per l’indelicatezza della consorte, la quale nel frattempo allatta, parla al telefono, assaggia il minestrone e ascolta l’elenco delle province della Lombardia. Non è che gli uomini siano meno bravi, è che sanno fare cose diverse.

    Ma insomma, perché sposarsi nel 2012? Sembra che tutti la considerino una pratica desueta.
    Mi chiederei piuttosto come sia pensabile non sposarsi, se si vuole costruire qualcosa che superi la nostra incostanza, la nostra emotività. Io chiaramente penso al matrimonio cristiano, dove gli sposi sono tre, lui, lei e Dio. Solo così è pensabile provare a reggere per tutta la vita, perché uno ha un aiuto super, la Grazia (noi peccatori senza quella siamo fritti, magari i perfetti possono anche sposarsi in municipio). L’idea comune dell’amore è tutto uno scintillio di batticuore, un svolazzo di emozioni rosa, un fru fru di occhiate e messaggini. Ma l’amore ha poco a che fare con questo e molto di più con una scelta volontaria e una decisione intelligente. E definitiva.

    E perché fare figli? Per una donna sono davvero la medicina di tutti i mali?
    Sul tema tenderei ad avere un’idea ancora più obsoleta delle precedenti. Uno i figli non è che li programma più di tanto. E’ vero, la maternità e la paternità devono essere responsabili, è intelligente e prudente fare i conti con le proprie forze, ma la coppia deve anche essere aperta alla vita. Non è che tutto si può programmare, tanto quella del controllo è un’illusione. Non controlliamo niente, veramente. E quindi i figli non sono un diritto, e non sono neanche una medicina per la donna, per carità, che egoismo. I figli sono un dono. Quando arrivano, la famiglia si attrezza e fa fronte alla nuova realtà. Magari se ne arriva qualcuno in più si rinuncia a qualcosa di materiale, e si impara anche a tenere un po’ l’ordine, in base al sano principio educativo “Noi siamo più grossi di voi e questa è casa nostra”.

    A me, che pure sono a favore del quoziente familiare, i bambini fanno senso come fanno senso gli animali, a cui somigliano moltissimo. Io sono un caso patologico mentre gli altri uomini non vedono l’ora di ricevere simili regali?
    Certo, nei primi mesi, quando il bambino è tutto poppate e pannolini, e allarga qualche sorriso bavoso per lo più a caso, credo che attaccarsi a lui sia più immediato per le mamme. Non per niente si parla di istinto materno, che ha anche una base ormonale, checché ne dicano alcune femministe. E’ quella forza potentissima che ti permette di saltare ore di sonno e pasti e ancora trovare la forza di sorridere ad altri due o tre figli che ti vogliono raccontare un episodio di “Star Wars” o coinvolgere nella scelta del dress code per la Barbie. Quella forza animale che ti permette di stare sveglia tutta la notte dopo una zuccata più forte delle altre, perché la pediatra ti dice di svegliarlo ogni tanto per vedere se reagisce, e tu venderesti la casa in cambio di tre ore di sonno, ma non appoggerai la testa neanche morta. Ecco, questo tipo di amore viscerale secondo me è più materno.

    Bene, quindi non sono un malato, sono semplicemente un uomo.
    I padri amano diversamente, ed è meraviglioso che sia così. I padri sono la guida, mantengono la lucidità, sono autorevoli. Non si angosciano se non è necessario. Montano i giochi e spiegano la storia dell’antica Roma. Danno sicurezza al figlio, con la loro forza e l’essere punti fermi. Mettono le regole. Un giorno, quando sarà il momento di stare in panchina e lasciare andare i ragazzi nel mondo, sarà il padre a dare il coraggio di partire per l’avventura. Io i miei figli li vorrei tutti sotto la mia gonna, e sono certa che sarò una suocera insopportabile. I figli hanno bisogno di entrambi i tipi di amore, per la loro crescita equilibrata. L’amore di un uomo e l’amore di una donna. Diversi e insostituibili e mai in nessun modo intercambiabili.

    Ti rileggo il passaggio cruciale: “Dovrai imparare a essere sottomessa, come dice san Paolo. Cioè messa sotto, perché tu sarai la base della vostra famiglia. Tu sarai le fondamenta. Tu sosterrai tutti, tuo marito e i figli, adattandoti, accettando, abbozzando, indirizzando dolcemente. E’ chi sta sotto che regge il mondo, non chi si mette sopra gli altri”. Non temi che qualche sciarpa bianca ti aspetti sotto casa per strangolarti?
    Al contrario! Non credo che ci sia un complimento migliore da fare a una donna. Cosa c’è di più difficile da fare che sostenere, aiutare, sorreggere? Quando tu hai bisogno di aiuto lo chiedi a chi è più debole o a chi è più forte di te? Io a chi è più forte. E infatti il racconto della creazione mi mette ogni volta un gran senso di orgoglio. La donna è un aiuto, simile all’uomo, dice la Genesi. Non una schiava, ma un aiuto. Chi aiuta è più robusto, più grande. E se una si offende è perché è accecata dall’ideologia.

    Il tuo titolo è ricavato dalla Bibbia. Chi come noi considera Antico e Nuovo Testamento non vecchi libri bensì la viva voce di Dio che ci parla oggi, viene detto esaltato, e combattuto oppure compatito. Io ne soffro, e tu?
    Dico la verità, non mi interessa proprio niente dell’incomprensione. Anzi, non ci avevo mai pensato. Per fortuna noi cristiani europei non veniamo perseguitati con la violenza come in gran parte del mondo islamico, e in Asia. Lì sì che si soffre. A me invece dispiace per i non cristiani: non ho mai conosciuto una persona profondamente felice che non fosse cristiana. La vera sfida per noi cattolici è spiegare che, come dice Chesterton, “non c’è niente di più eccitante dell’ortodossia”. Superare la contrapposizione peccato/divertimento versus virtù/noia. La vulgata del mondo vuole invece che i limiti morali che la fede impone tarpino le ali, impediscano di vivere felici e autodeterminati. Io mi vedo intorno un sacco di persone che vivono completamente autodeterminate e completamente, o almeno moderatamente, infelici. Il peccato etimologicamente viene da una radice che significa “sbagliare mira”. E’ un colpo sbagliato, è fare cilecca.

    Questa etimologia mi mancava.
    Aiuta a capire che non si tratta di limiti morali, ma riguarda ciò che davvero fa il nostro vero bene. Con la testa capiamo che quello che la fede ci invita a fare in qualche modo ci conviene, ci custodisce davvero felici. Non c’è nessuna fregatura dietro. Noi cattolici sappiamo di avere bisogno di Dio perché ammettiamo che l’uomo è una creatura misteriosa, un impasto inscindibile di peccato e carne e sublime. Ogni volta che tendo a sentirmi molto buona mi ricordo di quello che dice il mio padre spirituale: le persone si dividono tra quelle cattive e quelle che riescono a nascondersi bene. Per questo, perché sa che siamo così, la Chiesa non permette niente ma perdona tutto, mentre il mondo permette tutto ma non ti perdona niente (neanche questa è mia).

    Davvero fra lavoro fuori casa e lavoro a casa puoi dormire quattro ore per notte? A me non ne bastano otto. Le donne hanno un fisico superiore o di superiore hanno la forza di volontà?
    Usciamo per favore dalla logica del superiore e dell’inferiore. A parte che io non faccio testo, sono una maratoneta, ma non mi stanco mai di dire che siamo solo diversi. E’ vero, forse noi abbiamo una maggiore resistenza al dolore, anche perché abbiamo il compito di partorire (non è il massimo far passare un pollo arrosto da una narice, come si dice) ma in tante altre cose siamo incapaci. Io sono in grado di perdermi pressoché ovunque, e se devo programmare un decoder mi butto dalla finestra. Mio marito se deve andare a parlare con la maestra sviluppa un improvviso e sincero attacco di mal di testa. Lui si entusiasma come un ragazzino di fronte a un documentario sullo sfondamento della Slesia nel ’39, io che pure a scuola ci sarei anche andata, non riesco ancora a ricordarmi chi ha vinto la Seconda guerra mondiale, anzi non me lo dire che mi rovini la sorpresa, prima o poi la studierò con qualche figlio.

    Sbaglio o ti sei definita maratoneta? Spiega a un accidioso qual sono come sia possibile avere quattro figli e un lavoro all’altro capo della città e andare a Messa tutti i giorni e correre.
    La Messa è un’esigenza esistenziale, basta avere una mappa delle chiese della città, gli orari, e una disciplina da generale Patton. Se una cosa ti piace il modo di farla lo trovi. La passione per la maratona (correre per 42 chilometri e 195 metri senza alcun motivo apparente) non si può spiegare con le parole.

    Proviamoci lo stesso.
    Credo che sia al limite della patologia. Un limite superato ampiamente quando andavo a correre in piena notte perché lavoravo al Tg dell’alba, o con i piedi fasciati, insanguinati dai troppi “lunghi” (in gergo, le corse più lunghe di due ore), o anche con i pancioni fino all’ultimo giorno di gravidanza (non seguite il mio esempio, adesso che sono una saggia signora di quarant’anni non lo rifarei mai). Di certo nei giorni in cui corro ho molte più energie per tutto il resto. In più credo che per una sposa curare anche un po’ l’aspetto fisico sia un dovere. Certo da quando ho quattro figli non faccio più gare né gli allenamenti di un tempo. Però ogni giorno provo a incastrare qualche chilometro. Ma la cosa che faccio più spesso, poiché il senso di colpa è la cifra esistenziale della madre lavoratrice e non mi sognerei mai di lasciare i bambini con la tata per il mio piacere, è correre a tarda sera in casa sul tapis roulant. Ah, dimenticavo, ho un dignitoso personale di 3 ore e 15, che conterei di migliorare quando i figli saranno cresciuti. Taglia tutto quello che vuoi di questa intervista, ma non il mio tempo!

    A pagina 39 leggo le seguenti melodiose parole: “Quando lo devi criticare fallo con rispetto, e senza umiliarlo, se proprio sei sicura che la critica sia indispensabile. Se puoi aspettare domattina è meglio”. E’ un consiglio che ritieni valido solo nell’ambito privato o anche in quello pubblico?
    Purtroppo nel dibattito pubblico non è questo lo stile prevalente, eppure porterebbe un gran bene. Ti immagini se una, nel mezzo di un talk show urlato, dicesse a suo marito: “Guarda, non lo so, forse hai ragione tu.. Al momento non mi sembra. però, poiché ti stimo sinceramente, provo a rifletterci”? Che succederebbe? Qualcuno sverrebbe per lo sgomento, forse. Gli ascolti crollerebbero, forse. Ma il tasso di civiltà si alzerebbe nettamente.

    Di “Sposati e sii sottomessa” condivido ogni virgola. Rimango perplesso solo di fronte all’incrollabile ottimismo, l’idea che cattolicesimo e buonumore siano quasi sinonimi. Forse le mamme non sanno che Satana è il principe di questo mondo?
    Che Satana sia il principe lo vediamo tutti. Non si può negare, e anzi la Madonna a Medjugorje ha detto che in questi anni è slegato dalle catene, come aveva previsto per esempio Anna Caterina Emmerick. Ma “ianua inferi non praevalebunt”! Non ti fidi di Gesù che l’ha detto a Pietro? Io, si, mi fido, sennò non avrei fatto quattro figli. Se l’obiettivo è la vita eterna si può stare serenamente abbandonati. Se l’Onnipotente decide di farsi uomo e di morire per noi, per amore nostro, di
    che ti preoccupi? A me questa notizia mette un irresistibile buonumore. E’ come vedere una commedia americana con Cary Grant. Anche quando le cose sembrano mettersi male lo sai, ne sei certa, che in qualche modo finiranno bene.
    01 « marzo « 2011 « Libertà e Persona



    Gwyneth Paltrow la pensa come Costanza Miriano, "Sposati e sii sottomessa"
    L'attrice di Sliding Doors ne è convinta: nella vita la cosa più importante è la famiglia e per tenerla unita e felice bisogna fare di tutto, anche smettere di lavorare. Forse Gwyneth ha letto il libro di Costanza Miriano che a tempi.it esclama soddisfatta: «Finalmente anche le donne famose rimettono in discussione le loro priorità»
    Di Elisabetta Longo
    Bionda, bella, perfetta. Gwyneth Paltrow è un'attrice per hobby, mamma di professione di Apple e Moses, due bambini talmente belli che sembrano disegnati, avuti da Chris Martin, cantante dei Coldplay anche lui biondo, bello e perfetto, con cui è sposata da 8 anni. Pochi i film in cui Gwynny sceglie di recitare, ormai preferisce dedicarsi ad altri progetti, come quello della cucina o dei consigli di bellezza della sua chicchissima newsletter, Goop. Intervistata dalla rivista americana Harper's Bazaar, che l'ha anche messa in copertina con un bellissimo vestito nero, l'attrice spiega il suo punto di vista sulla famiglia: le donne devono stare a casa il più possibile e che se si vuole mantenere stabile il proprio matrimonio bisogna passare più tempo a casa, e che anche lei ama essere a casa quando Chris torna dal lavoro (dal tour, ndr).
    «Non è un discorso femminista da ventunesimo secolo, ma è il consiglio che do sempre alle mie amiche. Bisogna scendere a compromessi. Se vuoi una famiglia, devi essere una moglie». Una tesi sposata e illustrata già da Costanza Miriano, giornalista della Rai, mamma di quattro bambini e scrittrice del libro “Sposati e sii sottomessa”, 280 pagine di racconto brillante sulle gioie dell'essere casalinga, sul saper dare all'uomo la possibilità di dargli lo spazio per essere marito, padre e capofamiglia, secondo il monito di San Paolo “Siate sottomesse ai vostri mariti”.

    Sei decisamente d'accordo con Gwyneth quindi?
    Sarebbe bellissimo riuscire a stare a casa il più possibile dal lavoro, specie quando i bambini sono piccoli. Vedo mamme che dopo aver portato i figli all'asilo con i lucciconi agli occhi e soffro per loro. È che l'impegno lavorativo andrebbe modulato in virtù dell'età della prole, sappiamo quanto è importante per i bambini avere la propria mamma accanto. È la verità, anche se di certo come dice la Paltrow non sarà un concetto femminista, di certo non sarà concesso a tutte il lusso di un permesso lungo dal lavoro.

    Avere figli è quasi diventato una moda, basti vedere la tribù di Angelina Jolie.
    Ma finalmente la pensano così donne famose (e non) che hanno cambiato i loro obiettivi. Sono passate dal fare carriera e non pensare alla maternità prima di certi step lavorativi, arrivando ai 40 anni senza aver mai pensato a una famiglia, a fare figli in un'età più giovane, senza troppi sensi di colpa per aver tralasciato qualche riunione in ufficio.

    A proposito di sensi di colpa, Gwyneth dice anche che preferirebbe morire piuttosto che dare ai suoi figli della zuppa in scatola. Anche lei?
    Diciamo che io non sono così talebana. Scongelo senza pensarci troppo e magari, se il tempo libero dopo il lavoro che mi rimane è poco, preferisco occuparlo raccontando una favola in più ai due maschietti e inventare un gioco con le Barbie in più alle due bambine. Ed è sempre la cosa che mi soddisfa di più, più di qualsiasi gioia lavorativa.
    Gwyneth Paltrow la pensa come Costanza Miriano, "Sposati e sii sottomessa" | Tempi




    Libreria Theseus

    "Dodici" (un libro) più nove (figli) fa una famiglia benedettina e una compagnia libera
    Siamo entrati nel mondo di Giovanni Donna d’Oldenico, medico del lavoro, sposato con Carmina, padrone di una coppia di border collie e padre di un'allegra brigata che dorme in sacchi a pelo su un soppalco. La targhetta sulla porta, un romanzo bensoniano e la consapevolezza che, persino a Torino, esistono ancora barbari che custodiscono certi territori.
    Di Luigi Amicone
    Metti una sera a Torino, per partecipare alla presentazione del terzo romanzo di Giovanni Donna d’Oldenico, medico del lavoro, sposato con Carmina, padrone di una coppia di border collie. E papà di nove pargoli, dai 22 ai 2 anni. Sei maschi che dormono su un soppalco, stesi con il loro saccopelo, pancia e schiena a terra, magnifica camerata di soldati freschi di leva. E tre ragazze, privilegiate da una cameretta tutta per loro. Suonano i ragazzi e a ciascuno il suo strumento. C’è chi si esercita al pianoforte a coda, chi alla viola, chi al flauto traverso. Giuseppe, il numero 6, è anche dotato di un singolare genio matematico: ti sa dire in un attimo se il 27 di aprile del 2058 sarà un lunedì o un giovedi.
    Sulla porta di casa uno di solito ci appende il suo patronimico. O se proprio non ci tiene, ci mette un numero. Sulla porta di casa d’Oldenico, invece, nessun numero e niente nome. Bensì, leggiamo, “DOMINICI SCHOLA SERVITII”, SCUOLA DI SERVIZIO DEL SIGNORE, una frase della regola di san Benedetto.
    Ma è una casa o un monastero? Decisamente il secondo. Un monastero laico, allegro, pimpante, dove un uomo, una donna e il resto della grande tribù aprono le loro affaccendate e gloriose giornate con la sveglia alle sei del mattino, la colazione, l’Angelus, e poi via, ciascuno al suo lavoro. Altro momento fisso è la sera, attorno alle 22, quando gli undici (più eventuali ospiti) si ritrovano a recitare compieta (in latino), a leggere un articolo di giornale (spesso tratto dal Foglio, talvolta da Tempi, e, può capitare, perfino dalla Stampa) e a compulsare l’immancabile pagina di storia della Chiesa.
    Ma dicevamo del romanzo: “Dodici”, edito da Marietti 1820, è il terzo pubblicato dal nostro pater familias di antica casata piemontese. Dotata di arguzia sopraffina e genio fantasy, la narrazione ci immerge in sacri riti e profani macelli, che avvengono in un mondo diviso in due regni: quello dei Territori, abitato da Barbari che vivono innamorandosi e facendo figli nel letto invece che nelle macchine per la riproduzione, come succedeva ancora ai tempi dell’Antica Leggenda (e un monastero benedettino nasconde forse l’ultimo Papa); e Repubblica, moderna “civiltà” prometeica, dove anche il piacere è graziosa concessione di Stato e ciascuno ha un’identità elettronica passibile di essere revocata da un potere sempre incombente, all’apparenza democratico e in realtà ferocemente oligarchico. Lo stesso grigio potere che si accinge a creare il primo uomo prodotto interamente in laboratorio, lo spirito dell’Anticristo.
    Insomma, una godibilissima miscela di bensoniano “Padrone del mondo” e “Seme inquieto” alla Burgess, terre di Narnia di lewisiana memoria e resistenza umana incarnata dagli uomini dell’Antica Leggenda: cristiani combattenti e cristiani oranti, cristiani contrabbandieri e cristiani amanti.
    Sorprendente che, da un autore e per un libro così, all’incontro organizzato all’istituto scolastico san Giuseppe dal Centro Culturale Pier Giorgio Frassati e dall’Associazione per le attività educative e culturali (AEC), siano accorsi per passaparola molti giovani. Al punto che si è dovuto aprire il teatro del collegio san Giuseppe per accogliere il numeroso pubblico accorso. A sentire e a vedere chi? A sentire e a vedere l’io narrante di un padre, medico e scrittore. E poi uno dice che la famiglia non ha più appeal (o, almeno, così dicono a Repubblica). Mentre perfino a Torino, tra i barbari che custodiscono certi territori, pare sia ancora chestertonianamente appurato che la famiglia è il test della libertà («perché è l'unica cosa che l'uomo libero fa da sé e per sé»).
    "Dodici" (un libro) più nove (figli) fa una famiglia benedettina e una compagnia libera | Tempi


    Libreria Theseus

    Dello stesso autore consiglio pure il bellissimo romanzo “Polvere”

    Totus tuus network - Polvere


    Giovanni Donna d’Oldenico - Polvere

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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    e se la Chiesa di Roma on fosse affatto l'unica vera interprete e custode del cristianesimo ?

  8. #8
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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    Citazione Originariamente Scritto da DanielGi. Visualizza Messaggio
    e se la Chiesa di Roma on fosse affatto l'unica vera interprete e custode del cristianesimo ?
    "Tu es Petrus
    et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam
    et portæ inferi non prævalebunt adversus eam.
    Et tibi dabo claves regni cælorum."



    O felix Roma, O felix Roma nobilis.
    O felix Roma, Roma felix Roma nobilis.
    Sedes es Petri, qui Christi vicem gerit,
    Sedes es Petri, qui apostolus est pacis.
    Pontifex te cum erimus omnes nos
    Pontifex es magister qui tuos confirmas fratres.
    Pontifex te cum erimus omnes nos
    Pontifex es magister qui tuos confirmas fratres.
    Pontifex fundamentum ac robur nostrum,
    Hominumque piscator pastor es gregis ligans terram et coelum.
    Petre, tu es Christi es Vicarius super terram,
    Rupes inter fluctus, tu es pharus ac veritas.
    Tu Christi es caritas, tu es unitatis custos,
    Promptus libertatis defensor; in te auctoritas.
    Petre, tu es Christi es Vicarius super terram,
    Rupes inter fluctus, tu es pharus ac veritas.
    Tu Christi es caritas, tu es unitatis custos,
    Promptus libertatis defensor; in te auctoritas.
    O Roma nobilis, O Roma felix nobilis




    When I’m sixty-four – The Beatles
    Enrico Leonardi
    Il nuovo “strano” CD di Paul McCartney, “Kisses on the bottom” presenta, accanto ad alcuni inediti, varie interpretazioni di canzoni degli Anni Trenta.
    La notizia non ha colto di sorpresa i fan dell’ex Beatle: infatti non è la prima volta che Paul si cimenta con canzoni del bel tempo che fu.
    Quando scrisse la prima versione di “When I’m sixty-four”, McCartney aveva sedici anni e suo padre Jim cinquantasei o giù di lì, ma le due storie sono più intrecciate di quanto si creda. I primissimi Beatles utilizzavano questa canzone in stile rétro come intermezzo scherzoso al “Cavern” di Liverpool quando saltava la corrente (forse per i versi “mending a fuse/ when your lights have gone”: “riparando un fusibile/ quando va via la luce”).
    La canzone fu poi inserita nel disco più psichedelico dei Beatles, il famosissimo “Sgt. Pepper’s lonely hearts club band” (1967). Si tratta in apparenza di un testo molto semplice: in una lettera scritta ad una ragazza, il cantante le chiede se se la sente di amarlo per sempre, anche nella vecchiaia. Tratteggia un elenco di situazioni tipiche della terza età: i nipotini, le vacanze all’Isola di Wight, la cura del giardino, i lavoretti domestici… “Avrai ancora bisogno di me, mi preparerai da mangiare, quando avrò sessantaquattro anni?”.

    In che contesto nasce “When I’m 64”
    Il padre di Paul, James McCartney detto Jim, era un musicista dilettante: suonava il pianoforte, e aveva un proprio gruppo, la Jim Mac’s Jazz Band. Il piccolo Paul crebbe in un ambiente caloroso e amorevole, ricco di musica, e fu molto influenzato dal padre nella propria educazione musicale, tanto da conservare un’attrattiva per le musiche da varietà stile Anni Trenta, che sentiva suonare in casa. Il travolgente fascino di Elvis Presley, l’incontro con John Lennon e la passione per il rock non riuscirono a cancellare queste radici così tenaci. Ecco il sedicenne Paul mettersi al pianoforte del padre, e improvvisare sullo stile di quelle arie cadenzate e simpatiche così gradite alle persone di mezza età: “When I get older, losing my hair, many years from now…”

    L’affetto per il padre
    Paul, incidendo “When I’m 64” a breve distanza dal 64esimo compleanno del padre, rende omaggio al magistero paterno: fu Jim ad incoraggiarlo a cantare nel coro della chiesa locale, e ad apprendere a suonare degli strumenti musicali. Pur ricco e famoso, il “Beatle” mantenne una gratitudine affettuosa per il padre; oltre a inserire nel repertorio dei Beatles canzoni melodiche o stile vaudeville (da “Till there was you” a ”Your mother should know”) incise un motivo originale di Jim, “Walking in the park with Eloise”, nel CD “Wings at the speed of sound”.

    L’angoscia del tempo che passa
    Il tema della canzone appare straordinario: si tratta di una “proposta di matrimonio a lungo termine” (la voce di Paul - che duetta deliziosamente con i clarinetti in controcanto - nell’incisione è stata accelerata artificiosamente, per farla apparire quella di un adolescente, e le “campane tubolari” suonate da Ringo possono ben essere delle “wedding bells”), che vorrebbe sfidare in nome dell’amore “per sempre” le difficoltà inevitabili della convivenza: “mine for evermore”.
    Invecchiare insieme viene vista come l’unica possibilità di esorcizzare il tempo che passa : non a caso vi è un’altra citazione: “and if you say the word…”: THE word è la parola chiave della vita, la parola “amore”.
    “Rinunciare alla durata equivale a rinunciare all’amore… Ogni dichiarazione d’amore è una dichiarazione d’eternità” (A. Finkielkraut, in “Tempi”, 25 gennaio 2012).
    Resta quel rovello del pensiero della vecchiaia in piena giovinezza.
    Come dice il Card. Angelo Scola nel “Te Deum 2011”: “Il tempo che passa è il più grande interrogativo. Perché il rumore del tempo che passa è il rumore della morte”. E più avanti: “Attenti, c’è un test del fatto che la vita è dono: se non la doni il tempo te la ruba”. (“Tempi”, 11 gennaio 2012)
    Nel film di animazione “Yellow submarine”, incubo multicolore dell’utopia psichedelica degli anni Sessanta, la canzone “When I’m 64” occupa uno spazio particolare. Siamo nel “Mare del tempo”: i quattro Beatles, presi con il loro sottomarino giallo in un vortice temporale, dapprima rimpiccioliscono fino all’infanzia, poi invecchiano a velocità vertiginosa, con immense fluenti barbe bianche. Parte qui la canzone, e una scritta recita: “64 anni corrispondono a 33.661.440 minuti… ma anche un solo minuto è molto lungo”: e qui vengono scanditi 60 secondi, anzi 64 perché ci si riconnette al “sixty-four” del titolo. E un bacio d’amore tra un uomo e una donna dietro i vetri di una finestra suggella il finale.
    Un amore che potrebbe non bastare. Perché senza significato non vi è tempo, come dice T. S. Eliot.


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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    "Pippi" contro i 68ottini
    di Vito Punzi
    A dieci anni dalla sua scomparsa non sarà inutile ricordare la scrittrice svedese Astrid Lindgren, il cui nome viene abbinato con troppa facilità all’invenzione di una letteratura per l’infanzia critica rispetto al modello tradizionale di famiglia: la sua Pippi Calzelunghe, il personaggio creato nel lontano 1945, con l’anticonvenzionalità e l’insubordinazione che la distingue, è stata vista a lungo, e soprattutto in Italia, come il modello insuperato di un’infanzia "emancipata", perché protagonista di «modi di essere diversi da quello tradizionalmente imposto e codificato» (così Concita De Gregorio).
    A lungo si è voluto far credere che la scrittrice intendesse mettere in discussione quella prima, complessa realtà educativa e sociale che è la famiglia. Quello rappresentato da Pippi, secondo la vulgata progressista, sarebbe un modello voluto per segnalare come indifferente, se non contraria al libero sviluppo delle facoltà di un bambino, la presenza di un padre e di una madre accanto al proprio bambino. In realtà, la Lindgren non aveva nulla a che fare con tutto questo. Alcuni passaggi della sua biografia, insieme ad alcune sue dichiarazioni rilasciate nei caldi anni Settanta in Germania lo dimostrano.
    Dopo la nascita della sua Karin, nel 1937, la scrittrice svedese decise di trascorrere alcuni anni da casalinga, proprio per essere accanto alla figlia. Così commentava lei stessa alcuni decenni dopo quella scelta: «Una donna ha il diritto di avere un proprio lavoro, di essere autonoma e di guadagnare denaro, ma se ha figli dovrebbe amarli al punto di decidere di passare con loro almeno i primi anni della loro vita. Non dovrebbe pensare: ‘che peccato, essere così legata ai propri figli!"».
    La stessa idea del personaggio Pippi le venne nel 1941, assistendo la figlia, costretta a letto da una malattia. In Germania, dove le sono state dedicate almeno un centinaio di scuole, il successo è stato enorme (oltre 20 milioni di suoi libri venduti), fin dall’uscita del primo libro dedicato a Pippi Långstrump, pubblicato nella Repubblica Federale nel lontano 1949.
    Ma fu proprio dalla Germania Ovest che giunsero le più forti critiche al "modello Pippi". Protagonisti i sessantottini, che nel contesto delle spietate critiche alla fiaba (un genere troppo lontano dalla realtà, si diceva) arrivarono ad accusare la svedese di trasformare il «bisogno di protesta proprio dei bambini in fantasticherie favolistiche, ingabbiandolo nelle pagine dei suoi libri». Chiaro, in tempi di cupa difesa dell’ideologia "realista" un mondo come quello di Bullerby non poteva essere tollerato.
    Ancor più violenti furono gli attacchi subiti dalla Lindgren nel 1978, quando le fu assegnato il prestigioso Premio dei Librai Tedeschi per la Pace. In una Germania scossa dagli omicidi compiuti dai terroristi della RAF (le brigate rosse tedesche) poteva essere tollerata solo una letteratura per l’infanzia che fosse intrisa di forte critica sociale. Per questo motivo i media dominanti arrivarono a chiedere che almeno non le fosse concesso di tenere il discorso di ringraziamento, com’era ed è tuttora secondo protocollo, nella Paulskirche di Francoforte. Alla scrittrice svedese venne tuttavia concesso di pronunciare l’orazione e lei la intitolò significativamente "Mai con la violenza". «Da dove partire?» si chiedeva allora la Lindgren. E quale poteva essere la sua risposta se non: dai bambini. E attenzione, non c’era nulla di ingenuo in quel suo porre al centro i piccoli.
    La sua infatti, alla faccia delle letture "anarchiche" che si sono volute applicare alla sua opera, era anzitutto una preoccupazione educativa: «Un bambino che riceva amore dai propri genitori», così un passo dal suo discorso del 1978, «e che a sua volta impari ad amarli ne guadagna un rapporto amorevole rispetto al suo ambiente e quest’atteggiamento non potrà non accompagnarlo per l’intera sua esistenza». Nessun cedimento dunque, nessuna delega a terzi (Stato, Partito o altro): la famiglia è il luogo del "calore umano", della "sapienza", della "disciplina". Parte integrante della vita familiare erano per lei anche le regole da rispettare: «Un’educazione libera, non autoritaria», proseguiva la Lindgren nel suo intervento, «non significa che si debbano abbandonare i figli, che si debba concedere loro di fare ciò che vogliono. Non significa che debbano crescere senza norme, anche perché sono essi stessi a chiederle». Sarà un caso che da anni, in Italia, le sue opere risultino pressoché introvabili?
    La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online: "Pippi" contro i 68ottini

    Affinità e differenze tra Papa Benedetto XVI e G.K. Chesterton
    Una lettura chestertoniana del pontificato di Benedetto XVI
    di Paul De Maeyer
    ROMA, martedì, 7 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Andrea Monda, professore della Pontificia Università Lateranense, nel suo prossimo saggio che verrà pubblicato a metà marzo dalla casa editrice Lindau “Benedetta umiltà. Le virtù semplici di Joseph Ratzinger”, dà una lettura “chestertoniana” del pontificato di Benedetto XVI.
    ZENIT lo ha intervistato.
    Che relazione c’è tra Chesterton e Joseph Ratzinger?
    MONDA: Il giovane Joseph Ratzinger ha letto e apprezzato diversi libri di Chesterton e infatti qua e là, sia prima che dopo l'elezione pontificia, emergono citazioni dirette o indirette dell'opera dell'inventore di padre Brown. Ma quello che ho cercato di fare nel libro non è tanto una ricostruzione filologica di queste citazioni, quanto un piccolo ragionamento che si sviluppi, partendo dalle due figure del pensatore inglese e del teologo e pontefice bavarese, attorno ad alcuni: il buon senso, la buona vita e il buon umore.
    Nell'immaginario collettivo e mediatico, Papa Benedetto XVI non è associato all'umorismo, questa vulgata corrisponde alla verità?
    MONDA: Raramente un'immagine “vulgata” rende ragione della complessità della vita. La verità è che Ratzinger, come ogni uomo, è un mistero, una realtà complessa spesso malridotta dall'immagine che prevale nei mass-media; è da qui che è scaturita in me l'esigenza di scrivere un libro che dia maggiore spessore e prospettiva ad un quadro che altrimenti risulta piatta, bidimensionale: il Papa dei “no”, il Papa tedesco arcigno difensore del rigore della norma morale... Quello che c'è di vero in tutto questo è che Joseph Ratzinger è una persona seria. Ma, attenzione, dice bene Chesterton quando ricorda, con il suo tipico gusto per il paradosso, che “serio non è l'opposto di divertente, l'opposto di divertente è non divertente, noioso”. Ecco il Papa è una persona seria, che prende sul serio il Vangelo e ogni uomo che incontra, una persona seria e quindi anche divertente, che conosce il valore del buon umore, dell'umorismo e del sorriso.
    E' in questo gusto del paradosso il punto di contatto tra Chesterton e Benedetto XVI?
    MONDA: Si è no. Senz'altro sì: trattandosi di due persone di grande acume e intelligenza, i loro ragionamenti non sono piatti ma scoppiettanti, a volte spiazzanti, che esigono una flessibilità anche nell'intelligenza dell'interlocutore, insomma pretendono interlocutori adeguati, alla loro altezza. Al tempo stesso sia Chesterton sia il Papa non sono due intellettuali che si accontentano di sfornare frasi paradossali, arguzie o giochi di parole. Il loro ragionamento non è un fuoco d'artificio ma la ricerca di avere un rapporto con l'altro (anche con chi è distante, chi non crede, chi è “nemico” della fede) senza tradire l'adesione alla propria fede che è innanzitutto vissuta, praticata e quindi predicata.
    Qual è il rapporto tra i due e il buon senso, la vita buona e il buon umore?
    MONDA: I tre aspetti sono tra loro collegati e in tutti e tre i casi si può notare un analogo comportamento dello scrittore e del pontefice. Riguardo al buon senso: per Chesterton esso è riscontrabile nelle favole dei bambini le cui “morali” sono valide ancora oggi, e fa l'esempio di Cenerentola che ha lo stesso significato del Magnificat del Vangelo di Luca: “ha esaltato gli umili”. Lo scrittore inglese procede controcorrente rispetto alla tendenza dell'uomo occidentale moderno e contemporaneo, magari perbene e rispettabile, che ritiene il buon senso come il superamento del mondo dell'infanzia, pieno di amene fantasie irreali, per entrare nel mondo della ragione e magari della scienza sperimentale, vista come unica fonte di verità (ma purtroppo non di significato).
    Anche Papa Ratzinger procede controcorrente: per lui il buon senso è quello che emerge dal Vangelo e dalla fede cristiana e cioè nel paradosso del dare la vita per amore. Tutto ciò appare come una voce fuori dal coro, perché il “coro” della modernità e della contemporaneità ha relegato il cristianesimo nella stessa stanza delle favole dei bambini, un luogo antico e polveroso in cui magari era piacevole starci durante l'infanzia, ma del tutto superfluo nel momento in cui si raggiunge la maturità e l'autonomia.
    E per quanto riguarda la buona vita?
    MONDA: Il rapporto dialettico che sta a cuore al Papa non è solo quello di verità/falsità ma anche quello di gioia/noia. La vita buona per Benedetto XVI anche qui, come nel caso del buon senso, è quella che scaturisce dall'adesione al Vangelo. E lo stesso dicasi per Chesterton. E in tutti e due i casi, la vita che così scaturisce è “buona”, ma non è affatto tranquilla ma anzi assomiglia quasi ad una battaglia. La vita buona è il desiderio profondo che anima e agita il cuore di ogni uomo. “Qualsiasi tipo di uomo sia” scrive Chesterton, “egli non basta a se stesso, sia nella pace che nella sofferenza. Tutto il movimento della vita è quello di un uomo che cerca di raggiungere un qualche luogo e che lotta contro qualcosa”. Il Papa gli fa eco quando ricorda che “soltanto l'infinito colma il cuore dell'uomo”, vivere bene non vuol dire essere persone “per bene”, ma significa cogliere e accogliere la vita come avventura. La vita buona non è un accomodamento facile, non è aver trovato la formula per tenere insieme tutto nella propria giornata dell'uomo occidentale indaffarato e segnato dall'attivismo. No, la buona vita è arrendersi a Cristo, segno di contraddizione. Da questa resa nasce la vita della fede come avventura, come incontro non con un'idea, una formula ideologica (che sarebbe pura idolatria, stato-latria o ego-latria alla fine poco cambia) ma l'incontro con una Persona. Solo un incontro con Qualcuno più grande può rendere felice l'uomo.
    Infine, il buon umore, forse lo humour dell'inglese Chesterton è lo stesso del Papa tedesco?
    MONDA: Da un certo punto di vista sì, perché in entrambi i casi l'umorismo affonda le radici nell'umiltà. Non è un caso che anche a livello etimologico le due parole nascano da humus, terra. Chi è “terra terra”, chi non si innalza in superbia, è ad un tempo umile e dotato di umorismo, perché conosce l'ironia e l'autoironia, perché avverte magari confusamente che esiste un mondo più grande del proprio io e, oltre questo mondo, Qualcuno ancora più grande. Il mondo moderno da questo punto di vista offre segnali sconfortanti perché non c'è più il buon umore ma la rabbia, non c'è l'ironia ma il sarcasmo, non c'è il sentimento ma il risentimento. Ma una società che perde il senso dell'umorismo, si prepara al suo funerale. Chesterton e Ratzinger, in diversi tempi e modi, gridano però verso questa follia che avvolge la vita degli uomini occidentali e ricordano a tutti che esiste una possibilità per la gioia, non per il piacere, che è sempre più piccolo dell'uomo e sotto il suo controllo, ma per la gioia, che è sempre un mistero grande. La gioia, scrive Chesterton nella pagina finale del suo capolavoro Ortodossia: “è il gigantesco segreto del cristiano”. Ed è il segreto anche di Benedetto XVI che, con il suo sorriso, timido e impacciato, ma fermo, paziente, con la forza di un'intelligenza pulita, nitida, onesta, pacata, e con l'energia di una fede vissuta senza fronzoli con l'abbandono di un bambino, sfida ogni giorno le tentazioni degli uomini suoi contemporanei verso le pigrizie e le scorciatoie, le ideologie e le idolatrie che sempre si rinnovano in un cuore che vive nel malumore e nel risentimento. Da questo punto si può definire Benedetto XVI come Papa della gioia, forse la parola più ricorrente nei suoi discorsi da quando è stato eletto, perché, come ha affermato nel recente libro intervista Luce del mondo: “Tutta la mia vita è stata attraversata da un filo conduttore: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti”. Ecco qua, in una frase tutto Ratzinger e, se ci pensiamo bene, tutto Chesterton. Fede, gioia, ragione. Buon senso, buona vita, buon umore.
    ZENIT - Affinità e differenze tra Papa Benedetto XVI e G.K. Chesterton

    “Il legame tra liturgia e serena e gioiosa mondanità - chiesa e osteria - è sempre stato considerato tipicamente cattolico, e lo è per davvero".
    Joseph Ratzinger






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    Predefinito Re: Scrittori conservatori

    La favola del Vate muto e poi guarito
    Tradotto per la prima volta il romanzo che D’Annunzio scrisse in francese nel 1930, ormai confinato al Vittoriale. Ambientato in un Medioevo fantastico, voleva riavvicinare Francia e Italia
    di Giordano Bruno Guerri
    Dopo le prime tre - Le Martyre de Saint Sébastien, La Pisanelle e Le Chèvrefueille – le dit du sorde et muet qui fut miraculé en l’an de grace 1266 fu la quarta opera di Gabriele d’Annunzio scritta «nel più potente francese di Francia», come sottolineò in una lettera a Guido Treves. La favola, il fableau, venne composta nel 1930 e pubblicata nel 1936, in poche copie di pregio, tanto che oggi è conosciuta soltanto agli studiosi. Se ne occupò Gianfranco Contini nel 1947; se ne è occupato, meglio e recentemente, Giorgio Zanetti, nel Meridiano Mondadori Prose di Ricerca. Ben venga dunque la traduzione, la prima integrale, di Matteo Veronesi (Aragno, pagg. 192, euro 15).
    D’Annunzio s’identifica con Guerri de Dampnes, un chierico sordomuto amico e discepolo di Brunetto Latini. L’autore immagina di venire miracolato dopo aver visto piangere re Luigi IX, futuro santo.



    Nel giorno della Purificazione infatti Guerri riesce a insinuarsi tra la folla che assiste alla cerimonia religiosa nella Sacra Cappella del Palazzo di Giustizia, un antichissimo edificio di origine romana. In quell’incomparabile gioiello architettonico, d’Annunzio/Guerri d’improvviso sente piangere il Re e allo stesso tempo recupera il dono della parola, con la quale accompagna il canto dei fedeli.
    Da questo episodio, Guerri de Dampnes diventa il protagonista di una vera e propria chanson de geste. Spirito avventuroso, insofferente ai freni della vita comune e alle consuetudini dei suoi simili, parte per l’Oriente, verso la remota Tartaria, dove vive una principessa guerriera, Aigiairn, che concederà la sua meravigliosa bellezza a chi saprà vincerla in combattimento. Tutti quelli che hanno tentato la conquista sono stati battuti. Guerri attraversa paesi e pericoli, supera montagne e avversità per raggiungere la donna favoleggiata, che conquisterà con la sola arma della seduzione e dell’amore.
    Trascurando gli episodi minori, nel succedersi degli eventi il libro rappresenta le tre esperienze fondamentali della vita e dell’opera di d’Annunzio: l’Arte, descritta come forza tanto miracolosa da conferire la parola ai muti; l’Eroismo, potenza del sacrificio che trasfigura la morte; l’Amore, che spinge l’uomo all’avventura e alla conquista. Cui sono continue similitudini tra la biografia dannunziana e la finzione letteraria, tra il poeta e il suo alter ego; l’eroe mutilato è in dissidio con il Potere a causa dell’amore che prova per la sua terra, in un’evidente trasposizione letteraria dell’impresa fiumana. Guerri poi segue l’armata che Guillaume “Fierebrace”, fedelissimo di re Luigi, ha raccolto per conquistare la Spagna. Interamente posseduto dal desiderio di gloria, vuole morire in un atto di conquista e infatti ottiene una morte eroica espugnando una città. Mentre esala l’ultimo respiro, Guerri sussurra: «Nulla è così bello come è bella la morte».
    Se consideriamo che l’opera appartiene a un d’Annunzio ormai confinato al Vittoriale, riusciamo a comprendere nell’opera il «senso di diffusa malinconia, di nostalgia che penetra le cose», come sottolineò Antonio Bruers già nel 1938. Tuttavia è anche un d’Annunzio che non rinuncia alla battaglia. Soprattutto è lampante che avere atteso il 1936 per dare alle stampe un’opera scritta in francese antico, va ben oltre la volontà di evidenziare le comuni radici latine di Francia e Italia. Non a caso nel frontespizio si sottolinea che il libro è dedicato «aux bons chevaliers latins de France et d’Italie», proprio come d’Annunzio aveva intestato un appello dell’agosto 1935, nel tentativo di riavvicinare i due popoli, nel pieno di una crisi politico-diplomatica.
    In una lettera del 9 ottobre 1933 d’Annunzio, buon profeta, con grande anticipo aveva messo in guardia Mussolini verso un uomo «dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce e di colla»; ora quell’ex imbianchino, Adolf Hitler, minaccia l’Europa e per d’Annunzio il mito altero della letteratura cede il posto alle esigenze dell’attualità. Le sorti del libro e del suo protagonista appaiono inequivocabilmente legate a quelle politiche di una nuova possibile alleanza latina, alternativa alle tentazioni filotedesche di Mussolini. Così, un libro che potrebbe sembrare un ripiegamento dell’anziano poeta verso il passato, è in realtà un altro sussulto di ribellione, una nuova testimonianza dell’insopprimibile sogno politico del Comandante e della sua completa disapprovazione dell’unione con la Germania nazista. La morte gli evitò, se non altro, di assistere alla firma del Patto d’Acciaio e alle tragedie della Seconda guerra mondiale.
    La favola del Vate muto e poi guarito - Cultura - ilGiornale.it





    Il Legionario fiumano e i buoni cavalieri latini
    di Gabriele D'Annunzio
    Dopo il volgere di quindici anni, dopo la nobile guerra senza tregue e la mia troppo lunga avventura adriatica compiuta nel fraterno martirio, dedico questa sorta di favola volta a volta corale dialogata danzante «ai buoni cavalieri latini di Francia e d'Italia», per arditamente contrapporre una luminosa testimonianza d'amore a certe ombre importune. Se l'insegna del più grande dei Lusignano, del perfetto modello della cavalleria franca nell'Oriente latino, accompagna l'offerta del mio poema ove si raddolcisce il rude verso epico delle origini, non è che per rievocare i giovani francesi morti fra Brenta e Piave, i combattenti del Monte Tomba, le retroguardie di Bassano e di Monfenera; non è che per rievocare i giovani italiani ebbri del sacrificio intero di se stessi per difendere la montagna di Reims in vista delle sante torri.



    «È per lealtà serbare».
    Il corpo dell'insegna è la Spada dalla lama diritta e dall'impugnatura incurvata verso l'alto, del tutto affine a quelle che si veggono raffigurate sui sigilli dei cavalieri d'Occidente.
    Lo spirito dell'insegna è certo questa sentenza, ch'io prediligo più breve nella sua forma pressochè bilingue: Per lealtà serbare.
    Tale è ancora scritta a Venezia sulla facciata del palazzo dei Corner di Piscopia, che avevano avuto l'onore d'ospitare Pietro da Lusignano re di Cipro venuto con le sue tre galere incontro al bucentauro dogale nel mare mistico sposo.



    «Guareschi non criticava solo i "trinariciuti" ma qualunque cosa andasse contro l'umano»
    Intervista a Walter Muto, che per Marietti 1820 ha pubblicato “Guareschi, l’umorismo e la speranza” per «suscitare la curiosità dei lettori per la sterminata e profonda produzione» di Giovannino, che aveva capito che «per fare grande un Paese occorre appoggiarsi su grandi ideali e su una Speranza che non muore».
    Di Carlo Candiani
    «Vorrei suscitare la curiosità dei lettori per la sterminata e profonda produzione di Giovannino Guareschi». Così in quarta di copertina scrive Walter Muto, presentando il suo libro “Guareschi, l’umorismo e la speranza”, piccola antologia commentata, edita da Marietti 1820. «La mia passione per Guareschi arriva dalla lettura delle sue opere, prima di tutto quel "Mondo piccolo" di don Camillo e Peppone, e poi le altre pubblicazioni come "Racconti familiari"». Così commenta l’autore del saggio a tempi.it. «Poi, qualche anno fa per il Meeting di Rimini, insieme a Carlo Pastori, Paolo Gulisano ed Enrico Beruschi, abbiamo messo in piedi un spettacolo dedicato a Giovannino, e sempre più ho voluto approfondire la sua figura, come scrittore, uomo anche di satira politica, che ha pagato con il carcere alcune sue denunce, nei primi anni dell’Italia post-fascista. È con la lettura di “Italia provvisoria”, una sorta di documentario personale pubblicato da Rizzoli proprio nell’immediato dopoguerra, tra una latente guerra civile, il referendum e le elezioni del ’48, che mi è venuta voglia di mettere insieme tutte le mie riflessioni».

    La prima parte del libro è dedicata al Guareschi in bilico tra le sue peripezie durante la guerra, gli interventi sull’attualità politica e la sua figura di scrittore.
    Guareschi è sempre stato personaggio pubblico: attraverso le pagine prima del “Bertoldo” e poi del “Candido” dava i suoi giudizi pungenti, spesso nella sintesi dei suoi disegni e poi, naturalmente, anche con racconti. Non aveva paura di raccontare verità scomode, che gli procurarono grane e furenti polemiche. I presunti conflitti di interesse di Einaudi e poi la pubblicazione di lettere “top secret” autografe di De Gasperi gli costarono più di anno di carcere.

    Il libro, poi, indaga sull’umorismo dello scrittore, sulle sue radici. Con un approfondimento su “Mondo piccolo”.
    Qualcosa che non è stato valorizzato abbastanza, è questo “climax” profondamente cattolico. Ho voluto entrare anche nelle ragioni teoriche che Guareschi esprime nella premessa di “Italia Provvisoria” e di una conferenza che tenne a Lugano, nel 1951, che non venne mai pubblicata. Lì risulta lampante che l’umorismo di Guareschi è cristiano, fa parte da un annuncio evangelico: “Non fare agli altri, quello che non vorresti fosse fatto a te”, cioè puoi contestare un costume sociale, ma mai la persona.

    Nel libro, lei fa un curioso parallelismo tra Guareschi e Flannery O’Connor, scrittrice americana, cattolica, autrice di racconti molto originali e mai scontati.
    È stata una suggestione che mi è venuta in mente leggendo una prefazione da una raccolta di racconti di Guareschi, dove si faceva un brevissimo confronto tra un racconto e l’opera della O’Connor.



    Poi ho voluto approfondire e, nonostante la diversa nazionalità, mi ha colpito il fatto che in alcune delle storie di Giovannino e praticamente in tutti i racconti dell’americana il soprannaturale, la Grazia, fa un ingresso nelle vicende umane sempre realista, verosimile, non è mai un intervento spettacolare od horror. Entra nella vita degli uomini e costringe al suo riconoscimento. Spesso in Guareschi questo passaggio è rappresentato dal Grande Fiume, il Po, che ad un certo punto diventa il protagonista e l’uomo deve far fronte a qualcosa che non è governabile dalle sue mani.

    Scrittore, umorista, autore di satira, caricaturista e vignettista, uomo dai mille interessi, Guareschi in questi anni è come rimasto etichettato e sommerso dai luoghi comuni delle ideologie.
    L’esempio lampante è stata la realizzazione di un documentario dal titolo “La rabbia”, a cura sua e di Pasolini. L’intenzione, un po’ schematica, era di far commentare fatti di cronaca sociale da destra e da sinistra. Non ebbe molto successo a suo tempo. Qualche anno fa, quando è stato riproposto restaurato ad un Festival, è apparso solo il commento di Pasolini. L’integrale probabilmente sarebbe stato politicamente troppo scorretto. A Guareschi è stata data più volte l’etichetta di fascista e di monarchico (monarchico lo era, in ogni caso), era comunque un uomo scomodo: criticava qualunque cosa che andasse contro l’umano, sia che venisse da destra che da sinistra. Non dimentichiamo che è stato in un lager nazista per quasi due anni. Certo si scagliò con veemenza dialettica contro “i trinariciuti” , non tanto perché fossero di sinistra, ma perché, come diceva, «versano il cervello all’ammasso», seguendo le direttive del Partito. Ecco, lui criticava questo costume.

    Alla fine il libro si conclude con i ringraziamenti a lei, autografati dai figli di Guareschi, Carlotta e Alberto.
    È stato un grande piacere, mi sono confrontato molto con Alberto, un uomo che ha passato la settantina, che continua a diffondere l’opera di suo padre. Ha allestito una mostra permanente a Roncole Verdi. I due fratelli sono stati molto gentili nell’aiutarmi a reperire la documentazione.

    Il suo libro, come accennava, è il risultato degli approfondimenti sulla figura di Guareschi, che ha sperimentato negli spettacoli, che sta portando sui palchi teatrali. Come reagisce il pubblico?
    Il pubblico reagisce sempre bene, perché Guareschi “rimane”, le persone di una certa età, ma anche i più giovani sono, alla fine, soddisfatti. Noi, in scena, approfondiamo di più l’aspetto del Guareschi famigliare, partendo dall’esperienza del lager e citiamo brani estrapolati da “Zibaldino”, “Il Corrierino delle famiglie” e “Osservazioni di uno qualunque”. Come scrivo nelle ultime righe del mio piccolo saggio: «Gli uomini hanno dimenticato che per fare grande un Paese occorre appoggiarsi su grandi ideali e su una Speranza che non muore. Che in Giovannino non è morta. Grazie a Dio».
    «Guareschi non criticava solo i "trinariciuti" ma qualunque cosa andasse contro l'umano» | Tempi



    Papini, l’oscurantista illuminato
    di Redazione
    Nel 1913 Giovanni Papini, nichilista e futurista, coniò l'espressione «cattolici belve» sulle pagine di Lacerba, in un articolo contro Domenico Giuliotti, Federigo Tozzi e la rivista da loro animata, La Torre, megafono del cattolicesimo più reazionario, tradizionalista e orgogliosamente campanilista. Dieci anni dopo anche Papini era diventato un cattolico belva e con Giuliotti firmava addirittura un libro. In mezzo c'era stata la plateale e scandalosa conversione, a suo dire motivata anche dal primo conflitto mondiale. Proprio gli orrori della «guerra sola igiene del mondo», da lui tanto invocata, avevano risvegliato in lui l'urgenza di accostarsi alla cupola di San Pietro. Certo che il carattere, o il caratteraccio, di Papini, la sua vocazione a provocare, a far polemica e rumore, erano rimasti quelli di gioventù. Ora la violenza era però al servizio del Cattolicesimo romano.
    Papini e Giuliotti scrissero insieme il Dizionario dell'Omo Salvatico, ora ripubblicato da Il Cerchio (pagg. 373), prima riedizione dopo la storica Vallecchi del '23. I due intendevano dare alle stampe un'intera enciclopedia, ma non andarono oltre le prime due lettere dell'alfabeto. Padre spirituale dell'opera, come di ogni cattolico belva, fu León Bloy, autore di una furiosa Esegesi dei luoghi comuni.



    I nemici erano gli illuministi che credevano nelle enciclopedie, i massoni, i democratici in genere e i socialisti in particolare. Non mancava qualche simpatia per i fascisti appena arrivati al potere, dato che avevano comunque ristabilito l'ordine, ma l'adesione era con riserve. Ne uscivano peggio «i cattolici chiocciole» che tendono a nascondersi, a vergognarsi della loro religione, e vengono a patti con la civiltà moderna.
    I toni del dizionario sono accesi, il linguaggio spesso scurrile, senza concessioni al politicamente corretto, anzi con qualche tocco di omofobia. Gran parte delle voci del dizionario oscurantista furono scritte dal punto di vista dell'Omo Salvatico, una specie di satiro leggendario che dimora nei boschi, fugge la civiltà e indossa pelli di belve. La strada per la rivista Il Selvaggio di Mino Maccari e per il movimento strapaesano era aperta.


 

 
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