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  1. #11
    the dark knight's return
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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    Lo Stato - La "Romanità"
    di Julius Evola

    In linea di principio, nella dottrina politica fascista ogni ideologia societaria e democratica fu superata. Allo Stato venne riconosciuta una preeminenza rispetto a popolo e a nazione, cioè la dignità di un potere sovraelevato solo in funzione del quale la nazione acquista una vera consapevolezza, ha una forma e una volontà, partecipa ad un ordine supernaturalistico. Mussolini ebbe ad affermare (1924): «Senza lo Stato non vi è nazione. Ci sono soltanto degli aggregati umani, suscettibili di tutte le disintegrazioni che la storia può infliggere loro» - e: «Solo lo Stato da l'ossatura ai popoli» (1927). Aggiunse, precisando: «Non è la nazione a generare lo Stato. Anzi la nazione è creata dallo Stato che da al popolo... una volontà e quindi una effettiva esistenza». La formula «Il popolo è il corpo dello Stato e lo Stato è lo spirito del corpo» (1934) riporta, se adeguatamente interpretata, all'idea classica di un rapporto dinamico e creativo fra «forma» e «materia» (corpo), lo Stato è la «forma» concepita come forza organizza-trice e animatrice, secondo l'interpretazione data a «materia» e «forma» dalla filosofia tradizionale, partendo da Aristotile.

    Viene dunque respinta la concezione svuotata di uno Stato il quale dovrebbe limitarsi a tutelare le «libertà negative» dei cittadini come semplici individui empirici, a «garantire un certo benessere e una relativa pacifica convivenza comunitaria», in essenza riflettendo o seguendo passivamente le forze della realtà sociale e economica concepite come quelle primarie. Così si è anche all'opposto dell'idea di una pura burocrazia della «pubblica amministrazione», secondo la immagine ingigantita di ciò che può essere la forma e lo spirito di una qualche società privata a fini puramente utilitari.

    Quando presso questa concezione di base il fascismo affermò il trinomio ~T~ «autorità, ordine e giustizia», è innegabile che esso riprese la tradizione che formò ogni più grande Stato europeo. Si sa poi che il fascismo rievocò, o cercò di rievocare, l'idea romana come suprema e specifica integrazione del «mito» del nuovo organismo politico, «forte e organico»; la tradizione romana, per Mussolini, non doveva essere retorica e orpello, ma «un'idea di forza» oltre che un ideale per la formazione del nuovo tipo di quell'uomo che avrebbe dovuto avere nelle sue mani il potere. «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento. È il nostro simbolo, è il nostro mito» (1922). Ciò attestò una precisa scelta delle vocazioni ma anche una grande audacia: era come un voler gettare un ponte su uno iato di secoli, per riprender contatto con l'unico retaggio veramente valido di tutta la storia svoltasi su suolo italiano. Una certa continuità positiva però non si stabilì che limitatamente al significato dello Stato e dell'autorità (dell'imperium, in senso classico) e anche in relazione all'etica virile e ad uno stile di durezza e di disciplina che il fascismo propose all'Italiano. Un approfondimento delle ulteriori dimensioni del simbolo romano - dimensioni spirituali in senso proprio, di visione del mondo - e la precisazione della romanità a cui propriamente ci si doveva riferire, nel fascismo ufficiale non ebbero però luogo; gli elementi che potevano intraprenderlo o erano inesistenti o non furono utilizzati.

    Il presente brano è stato tratto da Area privata
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

  2. #12
    the dark knight's return
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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    Il partito unico
    di Julius Evola

    Dopo questa parentesi riguardante la contingenza storica, torniamo all'esame strutturale del regime fascista. Se dal nostro punto di vista non crediamo dunque che la «Diarchia» rappresentò in via di principio un assurdo, vi è però da accusare una situazione duale più generale nell'insieme delle strutture e, nei riguardi di essa, il nostro giudizio deve essere diverso. Infatti, per la sua stessa natura, un movimento rivoluzionario di Destra dopo una prima fase deve tendere a ristabilire la normalità e l'unità su un nuovo piano mediante adeguati processi dì integrazione.

    Così in primo luogo è da rilevare il carattere ibrido dell'idea del cosidetto «partito unico», in quanto nel nuovo Stato esso assunse il carattere di una istituzione permanente. A tale riguardo bisogna separare l'istanza positiva che stava alla base di tale idea e indicare in quale più adeguato quadro essa avrebbe dovuto agire, dopo la conquista del potere.

    Il vero Stato - occorre appena dirlo - non ammette la partitocrazia dei regimi democratici, e la riforma parlamentare, di cui fra poco ci occuperemo, rappresentò indubbiamente uno degli aspetti positivi del fascismo, Però la concezione di un «partito unico» è assurda; appartenendo esclusivamente al mondo della democrazia parlamentare, l'idea di «partito» solo irrazionalmente può essere conservata in un regime opposto a tutto ciò che è democratico. Dire «partito», per un altro lato, significa dire parte e il concetto di partito implica quello di una molteplicità, per cui il partito unico sarebbe la parte che vuole divenire il tutto, in altri termini la fazione che elimina le altre senza, per questo, cambiare natura e elevarsi ad un piano superiore, appunto perché continua a considerarsi sempre come un partito. Il partito fascista dell'Italia di ieri, in quanto ad esso si dette un carattere istituzionale e permanente, rappresentò pertanto una specie di Stato nello Stato, con la sua milizia, i suoi federali, il Gran Consiglio e tutto il resto, a pregiudizio di un sistema veramente organico e monolitico.

    Nella fase della conquista del potere un partito può avere un'importanza fondamentale come centro cristallizzatore di un movimento, come organizzazione e guida di esso. Dopo questa fase, il suo sussistere come tale oltre un certo periodo è assurdo. Ciò non deve essere pensato nei termini di una «normalizzazione» nel senso deteriore, con una corrispondente caduta della tensione politica e spirituale. L'esigenza «rivoluzionaria» e rinnovatrice del fascismo poneva anzi il compito di una adeguata azione continua generale e, in un certo modo, capillare sulla sostanza della nazione. Ma allora è in una forma diversa che le forze valide di un partito debbono sussistere, non disperdersi, restare attive: inserendosi nelle gerarchie normali e essenziali dello Stato, eventualmente ridimensionandole, occupando le posizioni-chiave di esso e costituendo, oltre ad una specie di guardia armata dello Stato, una élite portatrice in grado eminente dell'Idea. In questo caso, più che di un «partito» sarà il caso di parlare di una specie di «Ordine». È la stessa funzione che in altri tempi ebbe la nobiltà quale classe politica, fino al periodo relativamente recente degli Stati centro-europei.

    Il fascismo tenne invece a mantenersi come un «partito», per cui si ebbe, come abbiamo detto, una specie di duplicazione delle articolazioni statali e politiche quasi in sovrastrutture che sostenessero e controllassero un edifìcio privo di stabilità, in luogo di una sintesi organica e di una simbiosi: perché lo iato non era funzionalmente superato, ad esempio, col dichiarare - come si dichiarò - che il «partito» e la stessa milizia fascista dovevano essere «al servizio della nazione». Ciò non può essere raccolto come un elemento valido del sistema del fascismo, anche se non è lecito ipotizzare il futuro in relazione agli sviluppi che il regime avrebbe anche potuto avere qualora forze maggiori non ne avessero provocato il franamento, ed anche se si deve riconoscere il valore dell'obiezione che l'esistenza di forze, le quali non seguivano il nuovo corso, ovvero che lo seguivano solo passivamente, rendeva pericolosa ogni affrettata evoluzione nel senso normalizzatore anti-duale dianzi accennato. E quel che successe dopo ben venti anni di regime è, a tale riguardo, abbastanza eloquente.

    Però proprio con riferimento a quest'ultimo punto v'è da rilevare il fatto che la concezione del «partito» fascista risentì delle origini di esso, cioè della solidarietà intrinseca del concetto di partito con l'idea democratica, per la mancanza di un criterio rigorosamente qualitativo e selettivo. Anche dopo la conquista del potere il partito fascista tenne ad essere un partito di massa; si aprì, invece di quintessenziarsi. Invece di far apparire l'appartenenza al partito come un difficile privilegio, il regime quasi l'impose a ciascuno. Chi è che, ieri, non aveva la «tessera»? E, anche, chi poteva permettersi di non averla qualora intendesse svolgere determinate attività? Donde la fatale conseguenza di innumeri adesioni esteriori, conformistiche o opportunistiche, con effetti che sùbito si manifestarono al momento della crisi, mentre una controprova retrospettiva è costituita dai non pochi «fascisti» di ieri, anche non semplici privati, ma scrittori o intellettuali, che successivamente hanno cambiato bandiera cercando di mettere in ombra il loro passato, rinnegandolo, ovvero dichiarando cinicamente di essere stati, allora, in malafede. In origine nel comunismo sovietico e nello stesso nazio-nalsocialismo la concezione del «partito» (mantenuta anche in tali movi-menti) ebbe invece caratteri assai più esclusivistici e selettivi. Nel fascismo invece l'idea di un «partito di massa» prevalse pregiudicando la funzione positiva che il partito poteva eventualmente continuare ad avere.

    Dal nostro punto di vista lo sbocco positivo in congiunture del genere, la controparte positiva del concetto rivoluzionario di «partito unico» in un quadro istituzionale normalizzato e integrato, deve essere invece pensata nei termini di una specie di Ordine, spina dorsale dello Stato, partecipe, in una certa misura, dell'autorità e della dignità che si raccolgono al vertice - indivisibile - dello Stato.

    A tanto dovrebbe condurre l'esigenza del passaggio dalla fase di conquista del potere da parte di un movimento di risollevamento nazionale e politico alla fase in cui la stessa energia si manifesterà come forza naturale motrice, formatrice e differenziatrice dell'elemento umano. In genere, proprio i residui «partitici» furono d'ostacolo per uno sviluppo completo e ardito del regime fascista nel senso di una vera Destra mentre, sul piano pratico, ad essi si debbono varie interferenze dannose: come quando, per un lato, meriti di partito, specie con riferimento alla fase attivistica e insurrezionale (ad esempio, l'essere stati squadristi), furono considerati validi per l'assegnazione di cariche e funzioni che richiedevano invece specifiche qualificazioni e competenze, sia pure presso ad una formazione mentale «fascista», e come quando, per converso, si fu lieti di accogliere nel partito uomini di un certo nome se davano la loro adesione al fascismo, senza troppo curarsi se questa loro adesione fosse soltanto formale, se nell'intimo fossero agnostici o addirittura antifascisti (come fu il caso per non pochi membri della Accademia d'Italia, istituita dal fascismo).

    Il presente brano è stato tratto da Area privata
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  3. #13
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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    La Famiglia quale unità eroica. Riscoprirne il concetto più alto e originario.
    di Julius Evola

    Uno dei pericoli che minacciano le correnti di reazione contro le forze di disordine e di corruzione che stanno devastando la nostra civiltà e la nostra vita sociale, è di andare a finire in forme poco più significanti, se non di addomesticamento borghese. E' stato denunciato più di una volta il carattere di decadenza che il moralismo presenta di fronte ad ogni superiore forma di legge e di vita.

    In realtà, affinché un "ordine" abbia valore, esso non deve significare né routine né spersonalizzante meccanicizzazione. Bisogna che esistano delle forze originariamente indomite, le quali conservino in una qualche maniera e misura questa loro natura anche presso la più rigida aderenza ad una disciplina. Solo allora l'ordine è fecondo. Con una immagine, potremmo dire che allora accade come per una miscela esplosiva o espansiva, la quale appunto quando è costretta in uno spazio limitato sviluppa la sua estrema efficacia, mentre nell'illimitato quasi si dissipa. In tal senso Goethe ha potuto parlare di un "limite, che crea" ed ha potuto dire che nel limite si dimostra il Maestro. Occorre poi appena ricordare che nella visione classica della vita l'idea di limite - pèras - si confondeva con quella stessa di perfezione e si poneva come il più alto ideale non solo etico, ma perfino metafisico.

    Queste considerazioni potrebbero essere applicate a vari domini. Veniamo qui ad un caso particolare: quello della famiglia.

    La famiglia è una istituzione che, erosa dall'individualismo dell'ultima civiltà cosmopolita, minata alle basi dalle premesse stesse del feminismo, dell'americanismo e del sovietismo, si vorrebbe ricostruire. Ma anche qui si pone l'accennata alternativa. Le istituzioni sono come forme rigide nelle quali una sostanza originariamente fluente si è cristallizzata: è questo stato originario che si deve ridestare, quando le possibilità vitali inerenti ad un determinato ciclo dl civiltà appaiono esaurite. Solo una forza che agisca dall'interno, come un significato, può esser creatrice. Ora, a quale significato si deve riferire la famiglia, in nome di che si deve volerla e preservarla?

    Il significato usuale, borghese e "perbene" di questa istituzione è noto a tutti, e qui vale meno l'indicarlo, quanto il rilevare che assai scarso sostegno esso potrebbe fornire ai fini di una nuova civiltà. Potrà esser bene tutelarne i residui esistenti, ma è inutile nascondersi, che non è di questo che si tratta, che questo è un "troppo poco". Se si vuole trovare una delle non ultime cause della corruzione e della dissoluzione familiare sopravvenuta nei tempi ultimi, essa può esser indicata appunto nello stato di una società, ove la famiglia si è ridotta a non significare nulla più che questo: convenzione, borghesismo, sentimentalismo, ipocrisia, opportunismo.

    Anche qui, solo col riportarsi direttamente e risolutamente non allo ieri, ma alle origini, noi possiamo trovare ciò che veramente ci occorre. E queste origini, a noi dovrebbero essere accessibili. In modo particolare, se la tradizione nostra, romana, della famiglia, è fra quelle che han portato ad espressione il concetto più alto e originario di essa.

    Secondo la concezione originaria, la famiglia non è una unità né naturalistica, né sentimentale, ma essenzialmente eroica. E' noto che l'antica denominazione di pater deriva da un termine, che designava il duce, il re. L'unità della famiglia già per questo appariva dunque come quella di un gruppo di esseri virilmente stretti intorno ad un capo, che ai loro occhi appariva rivestito non di un bruto potere, bensì di una maestosa dignità, incutente venerazione e fedeltà. Questo carattere resta senz'altro confermato, se si ricorda che nelle civiltà indoeuropee il pater - oltreché il duce - è colui che in tanto esercitava una potestà assoluta sui suoi, in quanto era in pari tempo assolutamente responsabile per i suoi di fronte ad ogni superiore ordine gerarchico - era anche il sacerdote della sua gens, colui che più di ogni altro la rappresentava di fronte al divino, il custode del fuoco sacro il quale nelle famiglie patrizie era simbolo di una influenza sovrannaturale invisibilmente congiunta al sangue e trasmettentesi con questo stesso sangue. Non molli sentimenti o sociali convenzionalismi, ma qualcosa fra l'eroico e il mistico fondava dunque la solidarietà del gruppo familiare o gentilizio, facendone una sola cosa secondo rapporti di partecipazione e di virile dedizione, pronta ad insorgere compatta contro chi la ledesse o ne offendesse la dignità. Con ragione il De Coulanges. come conclusione dei suoi studi in proposito, ebbe dunque a dire che la famiglia antica era una unità religiosa, prima di esser una unità di natura e di sangue.

    Che il matrimonio fosse un sacramento già assai prima del cristianesimo (come p. es. la rituale confarreatio romana), e cosa forse già nota ai lettori. Meno lo è però l'idea, che questo sacramento non valeva come cerimonia convenzionale o formula giuridico-sociale, quanto come una specie di battesimo che trasfigurava e dignificava la donna portandola a partecipare della stessa "anima mistica" della gente del suo sposo. Secondo un rito indoeuropeo, assai espressivo come simbolo, prima che di esso, la donna doveva essere di Agni, il fuoco mistico della casa. Ora, non è diverso il presupposto originario, per cui lo sposo si confondeva col Signore della donna, e si stabiliva quel rapporto, di cui la borghese fedeltà non e che il derivato decadente e depotenziato. L'antica dedizione della donna che tutto dà e nulla chiede è espressione di un eroismo essenziale, assai più mistico o "ascetico", vorremmo dire, che non passionale e sentimentale e, in ogni caso, trasfigurante. All'antico detto:
    Non vi è rito o insegnamento speciale per la donna. Che essa veneri il suo sposo come il suo dio, ed essa otterrà la sua stessa sede celeste.
    fa quasi riscontro, in un'altra tradizione, la concezione secondo la quale la Casa solare dell'immortalità, oltrechè ai guerrieri caduti sul campo di battaglia e ai capi di stirpe divina, era riservata alle donne morte nel dare alla luce un figlio: in ciò essendo considerata un'offerta sacrificale cosi transumanante, quanto quella stessa degli eroi.

    Ciò potrebbe già condurre a considerare il significato stesso del generare, se un tale soggetto non dovesse condurci troppo lontano. Ricorderemo solo l'antica formula, secondo la quale il primogenito era considerato come figlio non dell'amore, ma del dovere. E questo dovere era, nuovamente, di carattere sia mistico sia eroico. Non si trattava solo di creare un nuovo rex per il bene e le forze del ceppo, ma anche di dare alla vita chi potesse assolvere quell'impegno misterioso di fronte agli avi e a tutti coloro che fecero grande una famiglia (nel rito romano, spesso ricordati in forma di innumerevoli imagini portate nelle occasioni solenni) di cui il fuoco familiare perenne era l'equivalente simbolico. Per tal via, in non poche tradizioni troviamo formule e riti, i quali ci fan nascere l'idea di una vera e propria generazione cosciente, di un generare non con un oscuro e semi-conscio atto della carne, ma col corpo e in pari tempo con lo spirito, dando - in senso letterale - la vita ad un nuovo essere, per il quale, in ordine alla sua funzione invisibile, veniva persino detto, che per sua virtù gli avi saranno confermati nell'immortalità e nella gloria.

    Da queste testimonianze, che sono alcune fra le tante che facilmente possono esser raccolte, promana una concezione dell'unità familiare che, come sta di là da ogni mediocrità borghese conformista e moralista e da ogni prevaricazione indvidualistica, in ugual misura sta di là dal sentimentalismo, dalla passionalità e da tutto ciò che è bruto fatto o sociale, o naturalistico. Un fondamento eroico è quello che può dare la più alta giustificazione alla famiglia. Comprendere che l'individualismo non è una forza, ma una rinuncia. Nel sangue, riconoscere una salda base. Articolare e personalizzare questa base con forze di obbedienza e di comando, di dedizione, di affermazione, di tradizione e di solidarietà diremmo persino guerriera e, infine, con forze di intima trasfigurazione. Solo allora la famiglia tornerà ad essere una cosa vivente e possente, cellula prima ed essenziale per quel più alto organismo, che è lo stesso Stato.

    Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite
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  4. #14
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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    Il mito Marcuse
    di Julius Evola

    Il caso Marcuse è interessante come per esempio del modo con cui ai nostri tempi si forma un mito. Oggi anche in Italia si fa un gran parlare di Marcuse: ciò è di rigore, per essere à la page, in certi ambienti "intellettuali" in margine alla cafè society, mentre altrove il mito comincia già a declinare. Così in Germania dopo che Marcuse era stato inserito, senza però che lui lo avesse voluto , nella formula delle tre M (Marx, Mao, Marcuse) del "movimento studentesco", sembra che recentemente sia stato fischiato.

    La forza del mito Marcuse sta nell'aver cristallizzato un confuso impulso di rivolta che, privo di principi, ha creduto di trovare in lui il suo filosofo senza curarsi di veder chiaro, di separare il positivo dal negativo in uno studio serio. In realtà, Marcuse può aver dato un contributo valido alla critica della civiltà moderna, presentandosi però, a tale riguardo, solo come l'epigono di un gruppo di pensatori che già da tempo l'avevano iniziata: senza però che il Marcuse offa qualcosa di consistente come controparte, tanto da poter servire da bandiera.

    Si sa che Marcuse ha dipinto un crudo quadro della "società industriale più avanzata" tecnologica e della "civiltà dei consumi" denunciandone le forme di livellamento, di asservimento e condizionamento oppressivo, un sistema di dominio che per essere anodino, per non ricorrere al terrore e all'imposizione diretta, per realizzarsi invece nel segno del benessere, del massimo soddisfacimento dei bisogni e di un'apparente democratica libertà non ha un carattere meno "totalitario" e distruttivo di quello proprio ai sistemi comunisti. Il risultato è un "uomo a una dimensione", meglio sarebbe a dire: a due dimensioni, perché quella che gli manca è propriamente la terza dimensione, la dimensione della profondità. Il Marcuse porta la sua analisi anche su domini particolari e mostra, per esempio, che il "funzionalismo" oggi ha investito lo stesso campo del pensiero speculativo e scientifico, togliendo al sapere ogni carattere metafisico, inserendo tutto in una "razionalità" strumentalistica, elastica e omnicomprensiva, tanto da venir a capo di ogni forza centrifuga e anticonformista.

    Con tutto ciò il Marcuse non ha detto nulla di veramente nuovo. Gli antecedenti di una tale critica trovano già in un De Tocqueville, in un J.S. Mill, in un A.Siegried, nello stesso Nietzsche. L'idea della convergenza distruttiva del sistema comunista e di quello democratico americano noi stessi l'avevamo indicata nel libro Rivolta contro il mondo moderno uscito nel 1934 in Italia, nel 1935 in Germania. Si era anche parlato di due forme, omologabili, di "totalitarismo" livellatore, l'una "verticale", definita da una pressione diretta esercitata da un potere visibile, l'altra "orizzontale", dovuta al conformismo sociale.

    Si può dire che Nietzsche aveva previsto fin dal principio del secolo lo sviluppo accusato dal Marcuse, nelle brevi, incisive frasi dedicate all'"uomo ultimo": "prossimo è il tempo del più spregevole degli uomini, che non sa più disprezzare se stesso", "l'ultimo uomo della razza pullulante e tenace". "Noi abbiamo inventato la felicità, dicono, ammiccando, gli ultimi uomini", essi hanno abbandonato "la regione dove la vita è dura". Ma che diverso sfondo sta dietro a queste formulazioni di un vero e ribelle aristocratico dall'altra statura! Il contributo specifico del Marcuse si riduce all'esame accurato delle forme specifiche per via delle quali la civiltà tecnologica del benessere è stata un allevamento sistematico di questa razza dell'"uomo ultimo". Inoltre è positiva, nelle sue argomentazioni (sebbene, per ovvie ragioni, non sempre ben marcata), la demitizzazione dell'ideologia marxista: la civiltà tecnologica elimina la protesta proletaria marxista; elevando sempre più il livello materiale della vita della classe operaia, appagandone sempre più i bisogni e il desiderio di un benessere borghese essa l'inghiotte e l'incorpora nel "sistema".

    Tutto ciò sembra portare in una via senza uscita. Da un lato Marcuse parla di un mondo che tende a divenire quello di una amministrazione totale che assorbe gli stessi amministratori, che dunque si autonomizza (già W. Sombart aveva parlato del "gigante scatenato" riferendosi agli sviluppi involontari dell'altro capitalismo). Dall'altro lato, egli dice che non è più il caso di parlare di "alienazione" perché abbiamo un tipo umano che si è adeguato esistenzialmente alla sua situazione facendo coincidere ciò che è con ciò che vuol essere, per cui manca ogni punto di riferimento per avvertire una "alienazione". La libertà in un senso non mutilato, diversa da quella ancora ammessa dal "sistema", sarebbe da pagare con un prezzo assolutamente esorbitante e assurdo. Nessuno pensa a rinunciare ai vantaggi della civiltà del benessere e dei consumi per una idea astratta delle libertà. Così si dovrebbe forzare l'uomo ad essere "libero".

    Allora, su quale sostanza umana si può contare e quali sono le idee che si possono invocare per la "contestazione globale", per il "Grande Rifiuto"? Qui nel Marcuse tutto diviene inconsistente. Egli non vorrebbe attaccare la tecnica ma auspica un uso diverso di essa; ad esempio, per andar incontro a popoli e strati sociali diseredati e in miseria. Egli non sia accorge che ciò, in fondo, date le premesse, sarebbe far loro un pessimo servizio: si eliminerebbe la loro "protesta", assorbendoli nel "sistema". In effetti, si vede che il "Terzo Mondo" nel liberarsi e nel "progredire" altro non fa che prendere per modello e per ideale il tipo di società industriale progredita avviandosi così verso la stessa trappola. Da qui, anche, l'illusione dei maoisti: ci si ferma alla fase "eroica" di una rivoluzione che vuol fare tabula rasa, come se tale fase potesse venire eternizzata e come si potesse infondere nelle masse il disprezzo costante per il "putrido benessere delle civiltà imperialiste", qualora esso fosse realizzabile (d'altronde la Cina non è soltanto quella delle Guardie Rosse scalmanate nemiche delle sovrastrutture politiche; ma anche quella che sta industrializzandosi, fino a possedere la bomba atomica: tutte cose che il Marcuse fa rientrare in una "civiltà repressiva"). In Russia si è visto come quella fase "eroica" a poco a poco abbia dato luogo ad una tecnocrazia nella quale, la prospettiva del "benessere" alla borghese viene utilizzata come stimolo.

    Ha certamente ragione il Marcuse quando dice che bisognerebbe "ridefinire e ridimensionare i bisogni" escludendo quelli parassitari che propiziano il crescente volontario asservimento dell'uomo, e che si dovrebbe arginare la superproduzione. Ma per opera di chi e in nome di che cosa? Arrestare il "Gigante scatenato", contenere il "sistema", sarebbe possibile soltanto partendo da un potere superiore, da un potere politico sovraordinato all'economia, cosa il cui solo pensiero farebbe inorridire il Marcuse, nemico giurato di ogni forma di totalitarismo.

    Il Marcuse tiene a far sapere che per lui "la liberazione della società opulenta non è un ritorno ad una salubre, vigorosa povertà, alla pulizia morale e alla semplicità". Ciò che invece propone è assai simile ad una inconsistente fantasticheria (col complesso ossessivo della "pacificazione" ad ogni costo), perché egli di valori superiori quali punti di riferimento motivazionali non ne riconosce nessuno. Per convincersene basta leggere il suo libro meno noto, Eros e civiltà. Da esso risulta inequivocabilmente che l'unico uomo da lui concepito è quello di Freud, un uomo determinato costituzionalmente dal "principio del piacere" (Eros, libido) e da quello che della distruttività (Thanatos); che ogni etica che non sia quella del soddisfacimento di tali impulsi avrebbe un carattere "repressivo" e diverrebbe dell'interiorazione, nel cosiddetto "Super-io" (il tiranno interiore), delle inibizioni esterne e di quelle legate a complessi ancestrali. Il Marcuse traccia tutta una sociologia che deduce appunto all'uomo freudiano ogni struttura politico-sociale, in termini che talvolta sono veramente farneticanti.

    In nome di che cosa si chiederebbe dunque il "Grande Rifiuto", dato che ogni principio eroico e ascetico viene stigmatizzato e colpito con aberranti interpretazioni freudiane? L'ideale della "personalità" per il Marcuse, che si oppone agli psicanalisti "revisionisti" (Jung, Fromm, Adler, ecc.) non è forse quello di un "un individuo infranto che ha interiorizzato e utilizzato con successo la repressione e l'aggressione" (sic)? Un esempio per tutti. L'Hendrich aveva parlato di un'armata che continuava a combattere "senza pensare a vittorie o a un futuro piacevole, per un'unica ragione, perché il compito del soldato è combattere e questa è l'unica motivazione che abbia un significato…è un'altra prova della volontà umana". Ebbene, per il Marcuse si tratterebbe del colmo dell'alienazione, della "perdita completa di ogni libertà istintuale e intellettuale", "la repressione divenuta non la seconda ma la prima natura dell'uomo" in una parola, una "aberrazione".

    Ogni commento è superfluo. Libertà e felicità per il Marcuse fanno tutt'uno, freudianamente, con la soddisfazione delle richieste della propria immutabile natura istintuale, l'elemento "libido" stando naturalmente in primo piano Tutto ciò che il Marcuse sa prospettare è uno sviluppo della tecnica che dia all'uomo una quantità crescente di tempo libero, non soggetto al "principio della prestazione"; allora egli potrà portare i propri istinti non a quei soddisfacimenti diretti che sarebbero catastrofici per una società ordinata ma a soddisfacimenti vicarianti o trasposti, in termini di giuoco, di immaginazione, di un ordinamento "orfico" (panteistico-naturalistico con sfumature rousseauiane) o "narcisistiche" (estetizzanti - questa è la terminologia usata). Sono più o meno gli stessi campi marginali che Freud aveva indicato, nei termini di una compensazione e in fondo di una evasione, nel caso dell'individuo. Il Marcuse non tiene conto del fatto che la società tecnologica ha già pensato a organizzare sistematicamente queste occupazioni del "tempo libero", offrendo all'uomo le forme standardizzate e stupide che si legano allo sport, alla televisione, al cinema, alla cultura da rotocalchi e da Reader's Digest e simili.

    Trarre da tutto questo una bandiera valida per il "Grande Rifiuto" è naturalmente ridicolo. Ciò da cui dipende tutto il resto è la concezione dell'uomo. Quella freudiana, seguita dal Marcuse, è aberrante. Così se si fa il bilancio del mito , il risultato è più o meno questo: una rivolta legittima, ma senza una controparte positiva e senza speranze. Così l'anarchia è l'unico sbocco logico. Forse per questo il Marcuse ha finito con l'essere fischiato a Berlino, certamente dai radicali della protesta. Scaduta la "protesta" di tipo marxista e operaio resta la rivoluzione del nulla. E' significativo che negli ultimi disordini in Francia presso alle bandiere rosse comuniste siano apparse le bandiere nere degli anarchici, come è significativo che in siffatte manifestazioni, ma non solamente in Francia, si siano verificate forme di puro scatenamento selvaggio e distruttivo. Inutile, pertanto, farsi illusioni ottimistiche nei riguardi della così spesso feticizzata "gioventù", studentesca o no, se la situazione di base non cambia. Una rivolta senza quei principi superiori che lo stesso Nietzsche aveva nel suo modo evocato nella parte valida del suo pensiero, a tacere dei contributi degli esponenti di una rivoluzione di Destra, porta fatalmente all'emergenza di forze di un ordine ancor più basso di quelle della sovversione comunista, anche se questa cerca di strumentalizzarle. Con l'affermazione eventuale di ques6te forze, tutto il ciclo di una civiltà condannata si chiuderebbe, se non sorge un potere superiore se non si riafferma l'immagine di un superiore tipo umano.

    Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    L'ermetismo e la critica allo spiritualismo contemporaneo. Il problema del cattolicesimo.
    di Julius Evola

    Chiudo questa parentesi, forse non del tutto priva di un interesse generale retrospettivo. Tornando alla serie dei miei libri, quelli usciti subito dopo il periodo de La Torre riguardano di nuovo il dominio delle discipline tradizionali e esoteriche. Si tratta di La tradizione ermetica, pubblicata nella sua prima edizione nel 1931 presso l'editore Laterza, e di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, uscito nella prima edizione nel 1932 presso l'editore Bocca.

    La materia del primo libro l'avevo cominciata a trattare in alcuni saggi di Introduzione alla Magia. In parte, la conoscenza diretta della letteratura ermetica la dovetti al Reghini, il quale mi prestò o segnalò antichi testi, mentre in precedenti articoli egli aveva indicato alcune chiavi per la comprensione del simbolismo ermetico-alchemico. Inoltre sapevo della materia attraverso gruppi francesi, soprattutto attraverso quello facente capo alla rivista Le Voile d'Isis (la quale poi divenne la guénoniana Études Traditionnelles).

    Come nel caso dei Tantra, il mio metodo fu di rifarmi alle fonti originarie e di raccogliere il più vasto materiale possibile con una seria documentazione, per poi esporre una sintesi dell'insegnamento secondo il punto di vista " tradizionale ". Il titolo completo dell'opera era c La tradizione ermetica nella sua dottrina, nei suoi simboli e nella sua Arte Regia ". A dire il vero, fu l'ermetismo alchemico a costituire l'effettiva materia del mio studio. Si tratta di quella letteratura che, partendo da origini mitiche, ebbe già espressioni precise nel periodo alessandrino, in testi greci e siriaci. La corrispondente tradizione fu ripresa dagli Arabi, e in gran parte pel tramite di essi passò nell'Occidente europeo avendo una particolare fioritura nei secoli XVI e XVII e successive promanazioni fino al tempo in cui nacque la chimica scientifica.

    Nel loro aspetto esteriore tutti i testi di questa plurisecolare corrente trattano di operazioni chimiche e metallurgiche, soprattutto della fabbricazione dell'oro e della produzione della pietra filosofale e dell'elixir dei saggi. Arte ieratica e arte regia, era stata denominata la disciplina, nel suo aspetto pratico e operativo. Essa era stata esposta impiegando un simbolismo e un gergo cifrato impenetrabili pel profano. ma anche miti tratti dall'antichità classica. Alla cultura moderna è sembrato ovvio trattarsi, qui, di una chimica allo stato infantile, superstizioso e mitologizzante, senz'altro superata dalla chimica scientifica, e d'interesse solo per la storia delle scienze. Tuttavia con ciò si considerò come non esistente quel che numerosi autori ermetici ripetutamente e esplicitamente avevano dichiarato, ossia che le loro esposizioni non erano da prendersi alla lettera, che il loro, era un linguaggio segreto (tanto che - essi dicevano - era come se essi scrivessero solo per loro stessi e per coloro che già sanno), che i principi della loro arte segreta potevano essere compresi solo per bocca di un Maestro o per una improvvisa illuminazione. Inoltre era evidente che tutta la concezione basale dell'universo, della natura e dell'uomo di questi autori era assolutamente diversa da quella che doveva far da fondamento alla scienza moderna, che essa s'identificava invece con quella dello gnosticismo, della teurgia, della magia e delle antiche scienze sacre: apparteneva sostanzialmente ad un altro mondo spirituale.

    Intrapresi dunque uno studio sistematico per mettere in luce il vero contenuto interno della tradizione ermetico-alchemica. In realtà, si trattava di una scienza iniziatica esposta con un travestimento chimico-metallurgico. Le sostanze di cui parlavano i testi erano simboli per forze e principi dell'ente umano o della natura assunta sub specie interioritatis e nei suoi aspetti iperfisici. Le operazioni riguardavano_ la trasformazione iniziatica dell'essere umano. L'oro alchemico rappresentava l'essere immortale e invulnerabile, pensato però negli stessi termini dell'accennata teoria dell'immortalità condizionata: non come una realtà data ma come qualcosa di eccezionalmente realizzabile mediante un procedimento segreto. Nell'insieme, ci si trovava di fronte ad una cosmologia e ad uno speciale sistema di simboli e di tecniche.

    Ciò, per quel che riguardava il nucleo più autentico e essenziale della tradizione in parola, separato dalle scorie e dagli elementi secondari o accessori. Fra le scorie, rientravano le speculazioni, le opere e le fatiche di coloro che, per incomprensione, avevano preso alla lettera i simboli e si erano dati a operazioni fisiche in un più o meno disordinato sperimentare e provare, nei termini, appunto, di una chimica allo stato infantile e prescientifico. Ma dai veri " figli di Ermete " costoro erano stati chiamati sprezzantemente " bruciatori di carbone ", profani che avevano " messo a rovina " la vera scienza.

    Quanto agli aspetti secondari, in essi poteva rientrare la possibilità di operare effettivamente sulla materia, magari su metalli da trasformare, ma per una via del tutto diversa da quella della scienza e della tecnica moderne, cioè " passando da dentro " e in base a capacità non-normali strettamente condizionate dall'avvenuta trasformazione interiore, scopo primo e precipuo dell'Arte.

    Già in vista di tale aspetto apparivano perciò inadeguate anche quelle interpretazioni c psicologiche " e psicanalitiche che successivamente dovevano essere date al simbolismo alchemico. Non si trattava di processi dell'inconscio, di imagini della libido o dell'affioramento involontario e coatto degli " archetipi " di Jung, sul piano irrealistico e soggettivo della psiche umana; si trattava invece di operazioni con poteri reali, in base a un sapere preciso. Lo studio in tale quadro fu il carattere distintivo della mia trattazione.

    Ma a parte l'esegesi dell'ermetismo alchemico dal punto di vista iniziatico, a me interessava presentarlo anche ne: termini di una tipica testimonianza di una delle due grandi linee tradizionali: dì quella regale, attiva e virile, opposta alla linea sacerdotale o ascetico-contemplativa. Infatti nell'ermetismo alchemico stava in primo piano l'istanza pratica, operativa, il primato dell'" arte ", quindi dell'azione, lo " sperimentalismo " esteso al piano dello spirito. Era già significativa la designazione più in uso di tale disciplina: Ars Regia, cioè arte regale. Ma soprattutto gli orizzonti realizzativi erano caratteristici. Secondo tutti i testi, la Grande Opera alchemica comprende tre fasi principali, contrassegnate da altrettanti colori - il nero, il bianco e il rosso: la nigredo, l'albedo e la rubedo. La nigredo, o opera al nero, corrisponde più o meno all'uccisione dell'Io fisico, alla rottura della chiusura della comune individualità. L'albedo, o opera bianco, è l 'apertura estatica, l'esperienza della luce, però con un carattere passivo, per cui essa viene chiamata anche regime della Donna o della Luna. Lo stadio finale e perfetto, la rubedo, o opera al rosso, comporta però il superamento di tale fase, la riaffermazione della qualità virile e dominatrice, per cui nei testi si parla del superamento della Donna, del regi-me del Fuoco e del Sole. Il rosso, da molti autori ermetici viene messo esplicitamente in relazione con quello della porpora regale o imperiale.

    Più tardi, nel 1932, curai, per le edizioni Laterza, una riedizione commentata dell'opera di un ermetista italiano del '600, Cesare della Riviera, intitolata Il mondo magico de gli Heroi (fra l'altro, dedicata ad un principe di casa Savoia). A parte la significativa, diretta assimilazione dell'" eroe " all'adepto ermetico, in essa è interessante la messa in relazione del fine ultimo e segreto dell'Ars Regia con la conquista del "Secondo Legno di Vita", il che vale quanto dire col superamento, mediante un'azione che evita il crollo titanico 0 luciferico, dello sbarramento del luogo da cui, secondo il mito biblico, Adamo era stato bandito affinché non estendesse il proprio potere anche sull'Albero della Vita.

    Il complesso dei testi da me esaminati costituiva dunque una testimonianza preziosa del continuarsi, come una vena sotterranea, di una tradizione rifacentesi al particolare ramo della tradizione primordiale che attirava maggiormente il mio interesse, anche in seno ad una civiltà in cui era venuta a predominare una religione che, come il cristianesimo, rappresentava una forma exoterica dell'opposto orientamento. Fra le ragioni dell'accennato travestimento alchemico dell'insegnamento io pertanto indicavo non solo quella generica e intrinseca, per via della quale le " dottrine interne " tradizionali - l'esoterismo - furono sempre tenute segrete, ma anche il fatto della reale antiteticità. dell'ideale iniziatico ermetico rispetto ai valori religiosi cristiani. Se si fosse semplicemente trattato i una mistica sui generis, di una dottrina soteriologica della rinascita e dell'estasi (come alcuni hanno preteso), quella precauzione sarebbe stata superflua. L'ermetismo alchemico continuò, in realtà, una tradizione di spiritualità precristiana e non-cristiana. Anche la parte rilevante che in essa ebbe la mitologia pagana (dèi e vicende di dèi, dati come simboli dei principi, degli stati e delle operazioni dell'Ars Regia) è, a tale riguardo, significativa.

    C. G. Jung ebbe a segnalare, di sua iniziativa, il mio libro come una delle opere essenziali sull'argomento. Oggettivamente, credo che fino ad ora esso resti la trattazione più completa dell'ermetismo alchemico dal punto di vista interno e tradizionale. Il libro uscì in seconda edizione presso Laterza nel 1948, e nel 1962 in traduzione francese per le edizioni Chacornac, col testo pressoché immutato, essendo stata solo aggiunta qualche altra citazione. In effetti, il materiale documentario dato nel libro era solo una parte di quello da me raccolto da una quantità di testi; il resto aveva dovuto essere sacrificato per esigenze editoriali.

    Un anno dopo La tradizione ermetica, nel 1932, usciva, per le edizioni Laterza, un altro mio libro, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, avente per sottotitolo " Analisi critica delle principali correnti moderne verso il sovrannaturale ". L'argomento l'avevo già cominciato a trattare in saggi usciti sulle riviste L'Italia Letteraria e La Torre, non senza una certa relazione, anche, con le confusioni, dovute in parte ad ignoranza e in parte a malafede, dimostrate da coloro che, come già al tempo di Imperialismo pagano, mi accusavano di essere un " teosofo ", un " massone " e simili, a causa dell'interesse da me dimostrato anche per gli insegnamenti sapienziali tradizionali. Il Guénon aveva già riconosciuto la necessità di tracciare precise linee di demarcazione proprio a difesa di tali insegnamenti, e in due delle sue prime opere, L'Erreur spirite e Le Théosophisme, aveva denunciato gli errori e le confusioni dello spiritismo e della teosofia moderna, indicando il carattere spurio e deviato di tali correnti. Io ripresi questa stessa esigenza, facendola però valere anche nei riguardi di altre tendenze e movimenti contemporanei.

    In questo libro, in una certa misura, spostai intenzionalmente il piano della trattazione. Volli rivolgermi ad un pubblico più vasto, affrontando in prima linea il problema della difesa della personalità umana di fronte alle seduzioni e ai pericoli del " sovrannaturale ". La tesi principale da me sostenuta era che nell'epoca moderna esiste, appunto, un " pericolo spiritualistico " facente da controparte a quello " materialistico ". Stretti dalla morsa del materialismo, del razionalismo, del praticismo e dell'attivismo della civiltà ultima e più non trovando, d'altra parte, adeguata soddisfazione nella religione dominante, in molti nostri contemporanei si è di nuovo svegliato un impulso incoercibile verso l'" aldilà ", verso il sovrasensibile, specie se presentato come un dominio di possibili esperienze vissute. Un tale dominio è stato quasi sempre scambiato semplicisticamente con quello del " sovrannaturale ".

    È un grave equivoco, dovuto alla mancanza di veri principi. Ripresi l'insegnamento secondo il quale la personalità umana con le sue facoltà normali e con l'esperienza del mondo fisico e della natura ad esse corrispondente occupa una posizione intermedia; è situata fra due opposte regioni, l'una inferiore e l'altra superiore alla condizione che le è propria: l'infranaturale e il subpersonale da un lato, il vero sovran-naturale e il superpersonale dall'altro, tali domini non essendo però da concepirsi in termini teorici astratti ma con riferimento a stati reali e a potenze dell'essere. " In tutto quel che non è più naturale vi sono due domini distinti, anzi opposti ", affermavo. Da qui, la duplice possibilità di un autotrascendimento discendente (verso il basso, verso il prepersonale, il subpersonale e l'inconscio) e di un autotrascendimento ascendente (verso l'alto, verso ciò che sta effettivamente al disopra della chiusura - sotto vari riguardi anche difensiva e protettiva - della comune personalità umana). Ora, nella gran parte delle forme dello spiritualismo contemporaneo si tratta proprio di " aperture verso il basso ", quindi di una direzione regressiva che, ove si vada oltre le semplici teorie, può solo dar luogo a contatti con forze oscure, con l'effetto di un ulteriore indebolimento della compagine spirituale dell'uomo moderno, già per tanti versi incrinata.

    L'opposta direzione veniva da me formulata nei seguenti termini: " una via ad esperienze tali che, lungi dal ridurre la coscienza, la trasformino in supercoscienza, che lungi dall'abolire la distinta presenza a sé così facile da conservarsi in un uomo sano e sveglio fra le cose materiali e le attività razionali, la innalzi ad un grado superiore in modo da non alterare i principi della personalità ma invece da integrarli". Solo la via ad esperienze del genere - concludevo - è quella verso il vero sovrannaturale. Nota alla " dottrine interne " del mondo della Tradizione, essa è l'opposto di ogni regressione estatica e di ogni apertura verso il sub-intellettuale e l'inconscio.

    Fissato così il punto essenziale di riferimento che, del resto, come si ricorderà, da me era stato già indicato diversi anni prima, nel periodo filosofico, nel mio libro analizzai varie correnti contemporanee per separare il positivo dal negativo sia dal punto di vista dottrinale che da quello pratico. Di tale analisi, qui è il caso di riferire solo qualche singolo aspetto.

    Considerai anzitutto lo "spiritismo" e le "ricerche psichiche " (o metapsichica). Il primo, unitamente alla medianità e ad analoghe vie evocatorie, a prescindere dalle mistificazioni, costituisce un caso tipico di c apertura verso il basso ", verso prodotti di dissociazioni psichiche, residui larvali e influenze oscure d'ogni genere, a parte torbide emergenze del subcosciente. Quanto alla "metapsichica" o " parapsicologia ", in essa accusavo l'errore di applicare il metodo scientifico dei semplici accertamenti sperimentali dall'esterno ad un dominio, dove esso può solo cogliere delle banalità - identici fenomeni " extra-normali ", sempre che siano autentici, potendo avere cause quanto mai diverse e un significato sia "subpersonale " che " super-personale ". Inoltre queste ricerche si applicano necessariamente quasi sempre ad un materiale spurio, privo di interesse spirituale, essendo evidente che nessuna figura superiore, nessun adepto o asceta si presenterà mai a farsi osservare o misurare dai metapsichici e a produrre per loro dei " fenomeni " controllabili.

    Seguiva la critica della psicanalisi, qui soprattutto di quella di indirizzo freudiano (il completamento di essa con una critica, anche, di quella dello Jung fu dato, come ho accennato, in un esteso saggio della seconda edizione di Introduzione alla Magia). Seppure per un altro verso, anche nella psicanalisi è evidente lo spostamento regressivo del centro di gravità verso il fondo irrazionale e sub-personale dell'essere umano, con l'attribuzione ad esso di una preeminenza e del carattere di forza essenziale motrice della psiche. Rispetto a ciò, la sessualizzazione freudiana di questo substrato in termini soprattutto di libido appariva solo come una deviazione secondaria. Sottoliniavo piuttosto come la terapia psicanalitica comporti una morale alla rovescia, cioè l'abdicazione della persona di fronte a ciò che in lei è natura e istinto, al fine di eliminare le tensioni logoratrici e spesso patogene di un essere interiormente scisso (esula, dagli orizzonti della psicanalisi freudiana, la nozione di un principio spirituale autonomo e sovrano - per essa, una tale nozione è perfino patologica - essa viene ridotta a quella del cosidetto super-Io "). Dunque, di nuovo, un caso di polarizzazione regressiva. Un punto particolare da me indicato era però che la psicanalisi è figlia dei tempi. Se la sua concezione dell'uomo è assurda e grottesca se riferita ai rappresentanti di una umanità normale, essa si attaglia a ciò che, per involuzione, l'uomo occidentale è sempre più divenuto nei tempi ultimi. La messa in evidenza dell'inconscio, di un sottosuolo psichico torbido, nella sua potenza e influenza di là dalle forme illusorie di una pseudopersonalità; con una completa tacitazione della zona superiore, del supercosciente, caratterizza l'orizzonte mutilo e, in un certo modo, demonico della psicanalisi quale visione generale. Essa tuttavia resta un indice segnaletico della situazione esistenziale dell'umanità ultima.

    I due capitoli successivi di critica alla teosofia anglo-indiana (Blavatsky, Besant - ciò che il Guénon ha chiamato, più che teosofia, tale termine avendo augusti antecedenti, le théosophisme) e all'antroposofia steineriana avevano un carattere maggiormente teoretico, di separazione di alcuni insegnamenti tradizionali autentici dalle distorsioni da essi subite in tali sette, nelle teorie delle quali è, inoltre, rilevante l'influenza di pregiudizi tipici della mentalità occidentale moderna e, in particolare, anglosassone (evoluzionismo, umanitarismo, democrazia). Forse avrei dovuto essere più severo (così pensò anche il Guénon) nei riguardi dell'antroposofia, e avrei dovuto svolgere alcune utili considerazioni supplementari circa il " caso " costituito dalla persona del suo fondatore, Rudolf Steiner. A tale proposito il paradosso è che lo Steiner era partito dalla giusta esigenza di una " scienza spirituale ", cioè di una disciplina che applicasse al sovrasensibile e alle tecniche pel contatto con esso gli stessi principi di positività, di chiarezza e di esattezza delle scienze naturali moderne (gli stessi principî che in Introduzione alla Magia avevamo detto essere propri al metodo iniziatico in genere). Ciò malgrado, nell'antroposofia quasi tutto si era ridotto ad un orgia di visionarismo e di pseudo-chiaroveggenza, di divagazioni di ogni genere, il tutto inquadrato in un pedantesco sistema. Questo caso poteva anche esemplificare il pericolo di certe tecniche mentali; quando ci si sforza di realizzare il cosidetto " pensiero libero dai sensi " e anche di sciogliere l'imaginazione dalle abituali condizionalità, si crea inevitabilmente un " vuoto ". E se per crisma, per naturale dignità o per un collegamento effettivo con una adeguata " catena " non si dispone di una vera difesa, quel vuoto viene occupato da " complessi autonomi ", da influenze psichiche producenti appunto l'accennata fantasmagoria visionaria, con l'aggravante dell'associarsi ad essa, per via della stessa natura dello stato in cui ci si è messi, della parvenza di una assoluta certezza e verità. Già attraverso le esperienze personali fatte a suo tempo con l'aiuto di droghe, ciò mi era risultato ben chiaro. Questo è il retroscena occulto di gran parte della antroposofia steineriana. Inoltre nello Steiner per la fisima di una " iniziazione individuale " o " dell'Io ", nel senso di una via che l'individuo - qualunque individuo - potrebbe percorrere da solo, senza difese (e nello Steiner vi è l'assurda e frivola presentazione di una tale via come quella di una superiore " iniziazione moderna ", del tutto ignota all'antichità e all'Oriente, resa possibile solo dalla venuta storica del Cristo), gli accennati pericoli a cui si trova esposto chi si mette davvero a praticare aumentano. Il fanatismo degli antroposofi è solo il riflesso di questo cedimento intimo, di questa inavvertita loro possessione.

    Un ulteriore capitolo del libro trattava del misticismo in quei casi in cui il fattore estatico rappresenta qualcosa di distruttivo per la personalità formata (come ho detto, soprattutto essa ho avuto in vista in questa mia opera). Nel considerare l'episodio di Krishnamurti e la teoria dell'assoluta liberazione che egli era passato a bandire dopo essersi emancipato dalla tutela dei teosofi (che in lui avrebbero voluto preparare un " veicolo " per la manifestazione di un nuovo Messia), indicavo i pericoli più generali che, nel senso di un incentivo all'anarchia, alla distruzione di ogni forma e legge interna, presenta il proporre simili teorie ad un tipo umano che, come quello occidentale moderno, è fin troppo propenso a scambiare per libertà l'evasione, l'insofferenza verso ogni disciplina. Per giunta, non mancavano, in Krishnamurti, riferimenti ad una equivoca mistica della " Vita " da liberare (in opposto al liberarsi dalla vita) quasi nello stesso senso dell'irrazionalismo di un Bergson, di un Klages e di molti altri figli dei tempi. Ciò mi diede l'occasione di indicare la funzionalità della Tradizione, sfuggente del tutto a Krishnamurti, il quale aveva cominciato col non capire e col buttare in mare la propria tradizione di indù, invitando gli Occidentali a fare altrettanto. Nella prefazione alla seconda edizione del libro, uscita nel 1949, sempre presso Laterza, mettevo in risalto i seguenti punti: " 1) Non bisogna scambiare l'essere di là da una tradizione con l'essere al di qua di essa, come ne è il caso per gli individualisti, le " menti critiche " e ì liberi pensatori moderni: 2) Bisogna riconoscere sotto quali condizioni un limite impietra e sotto quali altre un limite può invece proteggere; 3) Quando quel che vale per il " più che umano " viene applicato all'individuo umano e soprattutto a quello di oggi, si cade nella più pericolosa delle deviazioni e delle incomprensioni, cosa per la quale noi non intendiamo assumere alcuna responsabilità ". Si poteva citare anche il detto: " Vi sono verità simili ad una lama affilata: feriscono, se non sono tenute nel fodero ".

    Come si vede, a poco a poco venivano precisati i correttivi alle teorie astratte del mio primo periodo, pur senza abbandonare le posizioni essenziali. Nell'accennata seconda edizione di Maschera e Volto aggiunsi anzi un nuovo capitolo in cui venivano considerati specificamente anche pericoli in precedenza accennati, il titolo di esso essendo " Il primitivismo, gli ossessi e il superuomo ". Da un lato, era indicata la direzione regressiva propria alle tendenze contemporanee verso il primitivismo, con riferimento, in parte, al mondo delle popolazioni selvagge, ma anche ai cosidetti moderni " ritorni alla natura "; dall'altro lato, era però indicata proprio la linea del superuomo nietzsehiano e dostojewskiano, la quale può condurre al crollo costituito dall'ossesso se nel punto-limite non si ha una rottura esistenziale di livello e un cambiamento di polarità l'innesto della dimensione della " trascendenza " presa nel senso " olimpico " e non dualistico, teistico-religioso). Tale ordine di idee doveva essere sviluppato ulteriormente nel mio libro che, fino a questo momento, è il più recente, cioè in Cavalcare la Tigre (1961).

    Così non a caso questo capitolo precedeva l'ultimo, intitolato " La magia nel mondo moderno ", nel quale l'esame si portava sugli affioramenti, in alcuni autori e gruppi moderni, di insegnamenti che, in via di principio, si rifacevano alla " magia " nel senso specifico, spirituale e positivo, già spiegato parlando del " Gruppo di Ur ". Qui ci si trova di già ad un livello diverso da quello delle altre tendenze criticate. Trassi alcuni riferimenti essenziali da Eliphas Levi, da Giuliano Kremmerz (creatore, in Italia, di una "catena" denominata Myriam che svolse la sua attività dalla fine del secolo scorso) e da Gustav Meyrink, autore di romanzi nei quali, peraltro, un sapere esoterico si affaccia spesso in una purezza raramente riscontrabile altrove (per questo, anche se non facendo apparire il mio nome, io in sèguito tradussi tre di tali romanzi: La notte di Valpurga, Il Domenicano Bianco e L'Angelo della finestra d'occidente; essi uscirono tutti e tre presso l'editore Bocca). Da tale corrente era indicata "la via pagana al risveglio " dell'integrazione della personalità in base ad una ascesi attiva, libera dai miti religiosi e dalle preoccupazioni moralistiche, con riaffermazione del principio dello sperimentalismo. Così le riserve che qui feci non toccavano l'essenziale; esse riguardavano, ad esempio, il limite proprio alle cosidette forme " cerimoniali " (cioè usanti soprattutto riti e formule, con una oggettivazione quasi realistica di entità e di poteri) o l'inclinazione " occultistica ", cioè il malvezzo del parlare oscuro, ex cathedra e ex tripode, con tono di mistero e con paroline a metà. Ma, in genere, qui si poteva incontrare l'esigenza essenziale: " la possibilità suprema,,, di trasmutare la personalità umana caduca in quella di un semidio partecipante all'immortalità olimpica " - corrispondente alla via all'autotrascendenza ascendente, quindi alla via verso il vero sovrannaturale.

    La riserva principale da me formulata era però di un altro genere. Ricordai che una simile via è stata sempre accessibile solo a pochi. Spesso il neo-spiritualismo ha fatto, degli insegnamenti esoterici da esso volgarizzati, un mero surrogato delle religioni, anzi qualcosa di più comodo, data la mancanza di dogmi e di ogni vincolo positivo. Così, dicevo con sarcasmo, si era giunti a dottrine del superuomo e dell'adeptato professate in ambienti di donne fuori uso e di mezzi-uomini, pensionati, umanitaristi e vegetariani - a parte l'altra direzione, quella della americanizzazione dello yoga e dei metodi " occulti " ridotti a mezzi per divenire dei " caratteri dominatori ", per curare la salute, per assicurarsi la via del successo e via dicendo. Tutti questi sottoprodotti stanno evidentemente non al disopra ma al disotto del livello di una religione positiva regolare. Dicevo: " Esiste, sì, il diritto di accedere ad una verità più alta di quella delle religioni positive, a carattere exoterico e devozionale ", alla verità, appunto, affacciatasi negli autori da me per ultimo considerati. Ma questo " è un diritto aristocratico, il solo diritto che la plebe non potrà mai usurpare, né oggi, né in una qualsiasi altra epoca del mondo ", perché condizionato dalla capacità di un " superamento assoluto ". Per la grandissima maggioranza, oggi si tratta piuttosto di avere il senso di un necessario limite e di una necessaria difesa di fronte ad orizzonti ampliati di là dalla visione materialistica del mondo; quindi, anche della capacità del singolo " di chiudere con calma tante porte che luciferinamente si socchiudono e si socchiuderanno sopra di lui e sotto di lui ". " La personalità oggi è nel più dei casi solo un compito, qualcosa di inesistente, a che sia il caso di tendere a quel che sta di là da essa ". Avendo in vista, in questo mio libro, un più vasto pubblico, tutto ciò doveva essere detto.

    A metà di Maschera e Volto un capitolo dal titolo " I ritorni al cattolicesimo " può essere stato, per alcuni, motivo di sorpresa, perché per la prima volta nei miei scritti in esso si trovavano alcuni apprezzamenti positivi nei riguardi del cattolicesimo. Distinsi due forme, nei ritorni di oggi al catto-licesimo. La prima era propria a dei falliti, a coloro che, dopo un vano intellettualismo, dopo l'inutile ricerca di una via, dopo delusioni dolorose, si sono ravvicinati al cattolicesimo essendo attirati dal suo aspetto di sistema saldo e imperituro. In tali casi - dicevo - il tutto " si riduce però ad un puro fatto di sentimento e al bisogno di scaricarsi di un peso ormai divenuto insostenibile, di trovare infine una autorità, una forma data che sospenda la ricerca, l'incertezza, l'intima insoddisfazione ". Così in questi casi il contenuto oggettivo e il valore intrinseco della tradizione cattolica non entravano che accessoriamente in quistione. Se un'altra tradizione avesse presentato gli stessi caratteri di stabilità e di autorità con un analogo complesso di mezzi di grazia, essa avrebbe servito egualmente bene allo scopo. Naturalmente, " ritorni " di tale tipo erano privi di interesse. Essi stessi avevano un carattere regressivo, evasionistico.

    Io considerai però anche una opposta possibilità, rifacendomi soprattutto ad alcune vedute di René Guénon. Il Guénon era partito dall'idea di una unità interna, trascendente, delle grandi religioni positive, che interpretò come adattazioni varie, condizionate dal carattere specifico di dati popoli, di date aree e di dati periodi storici, di un insegnamento unico riguardante il sovrannaturale. A tale riguardo doveva distinguersi l'exoterismo dall'esoterismo. È exoterismo tutto ciò che è di pertinenza specifica di una singola tradizione nella sua conscritto, oltre ad avere in vista la gran massa. L'esoterismo coscritto, oltre ad avere in vista la gran massa. L'esoterismo riguarda invece la dimensione interna nella quale una data tradizione comunica con la Tradizione al singolare, su di un piano superdevozionale, intellettuale e metafisico. Su tale piano è pertanto possibile scorgere l'identità sostanziale di simboli, riti e esperienze nelle tradizioni " exotericamente " più diverse. Una scala poteva essere stabilita solo in base alla misura in cui tale identità è più o meno percepita.

    Il nuovo del mio libro era la disposizione a riconoscere questa dimensione " tradizionale " al cattolicesimo. Non potevo però non fare anche alcune precise riserve. Anzitutto vi era da distinguere fra cristianesimo delle origini e cattolicesimo, dando meno valore al primo che non al secondo. Del cristianesimo in sé, in altri libri, anche in Rivolta, dovevo continuare ad indicare gli aspetti negativi e problematici, specie nel quadro storico, cioè considerando quel che esso ha rappresentato di antitetico rispetto al mondo classico-romano e alla sua visione della vita. Da un altro lato, riconobbi al cristianesimo originario il valore di una possibile via disperata e tragica della salvazione: con riferimento sia all'uomo appartenente alla massa dei diseredati e dei senza-tradizione alla quale a tutta prima si rivolse eminentemente la predicazione cristiana, sia, più in generale, ad uno speciale tipo umano. " L'alternativa di una eterna salvezza o di una eterna perdizione da decidersi una volta per tutte su questa terra, esasperata da imagini impressionanti dell'aldilà e dall'idea dell'imminente venuta del Giudizio Universale... era un modo per suscitare, in alcune nature, una estrema tensione la quale, se unita ad una certa sensibilità pel sovrannaturale, poteva anche dare i suoi frutti " : se non in vita, forse in punto di morte o nel post-mortem.

    Quanto al cattolicesimo, io lo concepii come l'opera di influenze invisibili o " provvidenziali " che, di là dalla materia prima del cristianesimo, avevano creato, rettificandola in varia misura, una struttura con tratti " tradizionali " : qui entrando propriamente in quistione l'elemento positivo e gerarchico, il corpus dei riti, dei simboli, dei miti, di una certa parte degli stessi dogmi. A tale stregua, in astratto, il cattolicesimo rivestiva l'aspetto di un particolare modo di apparire della Tradizione e, sempre in astratto, era data la possibilità di integrarne i contenuti di là dal piano semplicemente religioso, in termini metafisici e intellettuali. È in tale quadro che presentai la seconda, eventuale forma di un ritorno al cattolicesimo, forma, allora, non più regressiva e fallimentare. In tale caso il cattolicesimo si presentava non come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza e si doveva prescindere da tutto ciò che il cattolicesimo è praticamente, dal suo livello sempre più abbassatosi e dall'inesistenza, in esso, di una salda " dottrina interna ". Come conclusione di una analisi necessariamente sommaria, io scrivevo: " Pei migliori, pei nonspezzati, il ritorno al cattolicesimo in tanto può avere un valore positivo, in quanto costituisca il primo passo in una direzione, la quale deve necessariamente portare oltre il cattolicesimo in senso stretto, verso una tradizione veramente universale, unanime e perenne, ove la fede possa integrarsi in realizzazione; il simbolo, in via di risveglio; il rito e il sacramento, in azione di potenza: il dogma, in espressione simbolica di una conoscenza assoluta e infallibile, perché non-umana, e come non-umana vivente negli " eroi " e negli "asceti ", in coloro che si sono sciolti dal vincolo terrestre ".

    Questa più alta possibilità era, naturalmente, più che problematica. Si capiva da sé che su tale linea gran parte dei contenuti specifici cristiani del cattolicesimo era o da " ortopedizzare " o da eliminare del tutto, che la pretesa di unicità, di esclusività e di superiorità del cristianesimo era da respingersi, come era da respingersi il mito del Cristo storico quale " figlio di Dio " espiatore e redentore dell'umanità, quindi figura non paragonabile a nessun altro creatore di religioni o ad un " avatar " divino: che la dimensione simbolica e esoterica della gran parte degli insegnamenti doveva essere considerata come la sola essenziale. L'elemento intellettuale e metafisico avrebbe dovuto consumare quello emotivo, sentimentale e devozionale che, sostanza originaria del cristianesimo, costituisce pur sempre l'irriducibile sottofondo dello stesso cattolicesimo.

    D'altra parte non avevo difficoltà a riconoscere che "di fronte a tante confusioni e deviazioni " spiritualistiche " il cattolicesimo può ancora mantenere un significato ". Inoltre, " che persone, le quali non hanno conosciuto altro che le vanissime costruzioni della filosofia profana e della cultura plebeo-universitaria e che le contaminazioni dei vari estetismi, individualismi o romanticismi contemporanei si " convertano " al cattolicesimo e con ciò si dimostrino almeno capaci di entrare in un ordine di maggiore serietà interiore: che tali persone facciano così, a noi - agli autori di Imperialismo Pagano - non può che sembrare desiderabile. Ciò è già qualcosa, è meglio di nulla. La fede e l'obbedienza non nel senso sentimentalistico, passivo-feminile, ma nel senso virile, eroico e sacrificale è già cosa ben più alta e difficile di tutte le " affermazioni " di un malo individualismo ".

    Queste frasi ribadivano la posizione nettamente antilaica, lontana da ogni volgare anticlericalismo, che è stata sempre propria al mio orientamento. In effetti, personalmente per il più umile e incolto sacerdote cattolico io ho sempre avuto maggior considerazione che non per un qualsiasi noto esponente della "cultura" e del pensiero moderno (con inclusione, però, degli esponenti di certa filosofia cattolicheggiante).

    Il Guénon aveva già impostato il problema della integrazione "tradizionale" del cattolicesimo non solo sul piano individuale, ma anche su quello generale; dalla soluzione positiva di esso egli aveva fatto dipendere (in La crise du monde moderne) la possibilità di una rinascita dell'Occidente. Naturalmente, simili avances non avevano avuto séguito alcuno, per quel che riguarda gerarchie cattoliche dotate dì autorità. Il Guénon poteva anche dire che " il fatto che i rappresentanti attuali della Chiesa cattolica capiscano così poco della loro dottrina non deve essere motivo per dimostrare, noi, la stessa incomprensione ". Ma ciò non cambiava in nulla le cose: chi eventualmente capisce di più " resta un outsider.

    La direzione positiva, da me accennata, di un ritorno al cattolicesimo era dunque riservata a qualche individuo isolato, dotato di una special qualificazione, che però non poteva conta: .e su di un vero sostegno, che anzi, se come praticante regolare fosse entrato nell'orbita del cattolicesimo, doveva star bene attento a non farsi insensibilmente piegare dalla corrente " psichica " corrispondente a tale tradizione presa non in astratto ma nella sua concretezza. In effetti, in quello che vien chiamato il " corpo mistico del Cristo " è ormai da vedersi, piuttosto, una corrente psichica collettiva agente in un senso meno sovrannaturale e trascendente che non vincolante, sì da paralizzare ogni più alta vocazione.

    Di passata, posso accennare che negli anni del '30 feci io stesso alcune esplorazioni personali trascorrendo un breve periodo in incognito in monasteri di Ordini che valgono eminentemente come i rappresentanti della tradizione ascetico-contemplativa cattolica - i Certosini nella loro sede centrale, i Carmelitani e i Benedettini della regola antica. Feci la stessa vita dei monaci e presi contatto coi patres preposti alla formazione spirituale dei novizi. Raccolsi informazioni anche presso i Cistercensi di Heiligenkreuz, in Austria. Delle forme superiori, intellettuali della tradizione contemplativa, non vi era quasi più nulla da trovare. La base era l'elemento liturgico-devozionale in uno sviluppo ipertrofico. Le cariche " psichiche " di quegli stessi monasteri mi sembrarono tutt'altro che favorevoli per un'opera anche segreta, individuale, di realizzazione di contenuti metafisici nel quadro cattolico. Del livello del cattolicesimo ufficiale di oggi - livello barrocchiano, moralistico, socializzante e politicizzante, fiaccamente paternalistico, aborrente i " medievalismi " - è poi superfluo parlare.

    Tornando a Maschera e Volto, il riconoscimento degli aspetti "tradizionali" del cattolicesimo era peraltro limitato al piano specifico dei problemi trattati nel libro (la difesa della personalità, i pericoli dello "spirituale", il senso del vero sovrannaturale); per il resto, come ho detto, si trattava di una considerazione sul piano astratto, soltanto dottrinale. Perciò restava impregiudicato il giudizio sulla funzione storica avuta in Occidente dal cattolicesimo quale erede, malgrado tutto, del cristianesimo, in antitesi con l'altro polo, con quello di una spiritualità a carattere non sacerdotale-contemplativo, ma regale e attivo. I punti precisi di riferimento, a tale riguardo, dovevano essere fissati nella mia opera principale, di morfologia delle civiltà e di filosofia della storia, con notevole divergenza dalle vedute del Guénon.

    Maschera e Volto forniva dunque dei criteri per un orientamento e per una discriminazione oggettiva nel campo del neo-spiritualismo. Il libro avrebbe dovuto eliminare anche, una volta per tutte, ogni equivoco nei riguardi delle posizioni da me difese, che non erano né " teosofiche ", né " occultistiche ", né " massoniche " o simili. Invece le cose poco cambiarono. Gli esponenti della cultura profana non avevano nemmeno una lontana idea di differenze essenzialissime di rango; tutto ciò che cadeva fuori dal loro campo e delle loro routines di una " stupidità intelligente " (per usare una felice espressione dello Schuon), era immerso come in una notte, in cui tutte le vacche sono nere. D'altra parte, specie Maschera e Volto mi fece nemico l'opposto campo, appunto quello dei neo-spiritualisti, dei teosofisti, degli antroposofi, degli spiritisti e simili, ai quali non avevo risparmiato le più severe critiche, di cui avevo indicato gli errori, le falsificazioni e le divagazioni. Vero è che costoro non erano nemmeno in grado di capire; dato il loro livello intellettuale, per essi esposizioni basate su di un serio apparato culturale e critico, erano inaccessibili e fastidiose, tanto essi erano usi alle volgarizzazioni e ai più piatti adattamenti richiesti da esigenze sentimentali o dal gusto per l'inusitato e per l'" occulto ". La via giusta - tenersi lontani sia dalle divagazioni spiritualiste, sia dai trivi e dalle convenzioni della cultura ufficiale pur seguendo il metodo, i criteri di seria informazione e di critica oggettiva di questa - era la meno ripromettente. Proprio ciò ha limitato la diffusione dei miei libri sugli accennati argomenti. Ma è su questa linea che io mi sono sentito tenuto ad assolvere un compito, compito avente invero pochi antecedenti.

    Il presente brano è stato tratto da Julius Evola unofficial webSite
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    Se può interessare stavamo riportando, su Rivoluzione Conservatrice, i titoli degli articoli di Julius Evola rivista per rivista. Ecco il collegamento: http://politicainrete.it/forum/movim...il-barone.html
    Ultima modifica di Lucio Vero; 08-04-12 alle 23:14

  7. #17
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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    Un argomento nuovo vedo..

  8. #18
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    Predefinito Re: Barone Giulio Cesare "Julius" Evola

    Citazione Originariamente Scritto da Richard Gecko Visualizza Messaggio
    Come nel caso dei Tantra, il mio metodo fu di rifarmi alle fonti originarie e di raccogliere il più vasto materiale possibile con una seria documentazione, per poi esporre una sintesi dell'insegnamento secondo il punto di vista " tradizionale ".
    Beh, non proprio...

    Evola non attinse mai dalle "fonti originarie" e come studioso di dottrine tantriche, benché meritevole di stima e rispetto, aveva due grossi handicap:

    1) Non conosceva il sanscrito (dunque attinse da testi già tradotti dal sanscrito all'inglese) e per forza di cose i suoi studi non furono esenti da errori ed equivoci di natura linguistica, specie nel momento in cui setacciava tali studi attraverso il filtro delle proprie interpretazioni personali (che lui definisce "tradizionali").

    2) Da quel che mi risulta, Evola non ha mai messo piede in India e non ha mai potuto condurre ricerche sul campo, cosa che invece fu di primaria importanza per studiosi ben più autorevoli nella materia che concerne i Tantra, come Arthur Avalon (Sir Woodroffe).
    Ultima modifica di Zed; 26-05-12 alle 09:57
    ...

    Chi coltiva un pensiero raccoglie un'azione, chi coltiva un'azione raccoglie un'abitudine, chi coltiva un'abitudine raccoglie un carattere, chi coltiva un carattere raccoglie un destino.

 

 
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