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    the dark knight's return
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    Predefinito Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civiltà

    E io urino sulla vostra "civiltà", Massimo Fini
    La cultura superiore. Piscia sui cadaveri dei nemici uccisi, piscia sui prigionieri, dopo averli denudati, derisi, fotografati, portati in giro in carriola per renderli più ridicoli, piscia sui loro simboli religiosi. Pisciano i soldati della cultura superiore, quasi spurgo simbolico del marciume del mondo cui appartengono, ma non sanno più combattere. Per questo il più potente, moderno, sofisticato, tecnologico, robotico esercito che abbia mai calcato la scena, dopo dieci anni di occupazione sta perdendo la partita in Afghanistan ed è costretto a pietire dal nemico una qualsiasi ‘exit strategy’ che mascheri la vergognosa sconfitta. Che oltre, e prima, che militare è morale.

    I Talebani sono feroci e crudeli in battaglia, certo, ma non pisciano sui nemici uccisi, non pisciano sui prigionieri ma li trattano, finché conservano questo status, con rispetto e, se sono stranieri, come ospiti. Possono uccidere, e uccidono, ma non torturano. Hanno conservato il senso di sé e della propria e altrui dignità, valori prepolitici, prereligiosi, di cui la cultura superiore si è completamente svuotata. Hanno provato a corromperli in tutti i modi, i Talebani, ma non ci sono riusciti. Sulla testa del Mullah Omar, il loro capo indiscusso, pende una taglia di 25 milioni di dollari, ma in dieci anni non si è trovato un solo afghano disposto a tradirlo per una cifra che è enorme in sé e quasi inconcepibile da quelle parti. Nella cultura superiore uomini ricchi e potenti si vendono per un soggiorno in albergo, per un affitto, per un viaggio in aereo, per una nota spese mentre le donne, libere donne non oppresse dalla necessità, si fan comprare per 1.000 euro o poco più.

    La Cia è arrivata al ridicolo di offrire agli anziani capi tribali afghani, che han molte mogli, il Viagra. A questi livelli si è abbassata la cultura superiore. Gli occidentali son sempre pronti ad accusare i propri nemici di perpetrare stupri (nel caso dei Talebani cosa ridicola, esclusa proprio dalla loro sessuofobia) ma non fanno che proiettare, come si dice in psicoanalisi, la propria ombra. Se i Talebani sono sessuofobi, gli occidentali sono sessuomani, ma non per un eccesso di virilità, bensì per il suo contrario, per impotenza, per estenuazione e son costretti a volare a Phuket per trarre, violando bambine, dal loro membro floscio, oltre che piscio, una goccia di sperma.

    Gli occidentali, affogati nella grascia del benessere, non sono più abituati al combattimento in senso proprio. Il sudore e la ferocia del corpo a corpo gli fa orrore, la vista del sangue, se non è televisivo, li manda in deliquio. Appena possono i loro soldati evitano il combattimento. Usano quasi esclusivamente i caccia e i bombardieri contro un nemico che non ha aerei né contraerea ed è quindi inerme. E se in qualche caso vengono coinvolti in uno scontro ravvicinato, e subiscono le pesanti perdite che quotidianamente, con tranquilla coscienza, infliggono agli altri, lo sentono come un affronto, una slealtà, una vigliaccata, qualcosa di cui sdegnarsi, un atto illegittimo e immorale. Per la cultura superiore è morale invece che aerei-robot colpiscano e uccidano teleguidati a diecimila chilometri di distanza da piloti che non corrono alcun rischio, nemmeno quello di infangarsi le scarpe. Dall’altra parte ci sono, all’opposto, uomini, armati quasi solo del proprio corpo, del proprio coraggio, della feroce determinazione a difendere i propri valori, giusti o sbagliati che siano, e che, per questo, si implicano totalmente. Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha detto: “Se potessi farei combattere solo i robot per risparmiare le vite dei nostri soldati”. Ma è il combattente che non combatte a perdere ogni legittimità, ogni dignità e onore. Questa è la cultura superiore. Io ci piscio sopra.
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Biografia
    Massimo Fini, di padre toscano e madre russa, è nato sul lago di Como il 19/11/1943. Dopo la laurea a pieni voti in giurisprudenza, ha lavorato come impiegato alla Pirelli, copywriter, pubblicitario, bookmaker, giocatore di poker. Arriva al giornalismo nel 1970 all' "Avanti", dove segue come cronista i più importanti fatti di criminalità politica di quegli anni (omicidio Calabresi, morte dell' editore Feltrinelli, processo per la strage di Piazza Fontana). Alla fine del 1972 passa, come inviato, all' "Europeo" di Tommaso Giglio e Oriana Fallaci. Nel giugno del 1979 lascia l' "Europeo" perchè occupato dai socialisti di Claudio Martelli e la Rizzoli è in mano a Bruno Tassan Din che verrà poi condannato a 15 anni di reclusione e vive per qualche tempo di collaborazioni. Nei primi anni '80 è animatore, insieme al fondatore Aldo Canale, del mensile di politica e cultura "Pagina" in cui si sono formati alcuni dei più noti intellettuali e giornalisti d' oggi, da Ernesto Galli della Loggia a Paolo Mieli, da Giuliano Ferrara a Pier Luigi Battista a Giampiero Mughini. Nel 1982 entra al "Giorno" di Guglielmo Zucconi e Pier Luigi Magnaschi, come inviato ed editorialista, cominciando una solitaria battaglia contro la partitocrazia. In una lettera aperta a Claudio Martelli, allora vicesegretario socialista, gli predice il crollo del sistema e la fine del PSI. Ma bisognerà aspettare ancora 10 anni. Come inviato viaggia in Europa, (Germania ovest ed est, Gran Bretagna, Spagna, Polonia, Francia, Ungheria, Bulgaria, Turchia), negli Stati Uniti, in Unione Sovietica, in Egitto, in Israele, in Libano, in Giordania, nell' Iran di Khomeini, in Sudafrica. Nel 1985 rientra all' "Europeo" come inviato ed editorialista e vi tiene per 11 anni la principale rubrica del giornale, "Il Conformista". Nel 1992 lascia "Il Giorno" per L' "Indipendente" di Vittorio Feltri e contribuisce, come prima firma del giornale, alla trionfale cavalcata dal quotidiano che passa, nel giro di un anno e mezzo, dalle 19 mila alle 120 mila copie, fatto unico nella storia del giornalismo italiano del dopo guerra. Quando Feltri lascia l' "Indipendente" si rifiuta di seguirlo al "Giornale" di Silvio Berlusconi.

    Attualmente lavora per Il "Fatto Quotidiano",Il "Gazzettino" e dirige il mensile "La Voce del Ribelle" con la collaborazione di Valerio Lo Monaco. Ha partecipato, insieme a Daniele Vimercati, alla rifondazione del "Borghese", storico settimanale fondato da Leo Longanesi. Nel suo deambulare alla ricerca di spazi liberi ha collaborato con quasi 100 testate.

    Ha pubblicato: 'La Ragione aveva Torto?' (Camunia 1985, ripubblicato da Marsilio in edizione tascabile nel 2004); 'Elogio della guerra' (Mondadori 1989 e Marsilio 1999); 'Il Conformista' (Mondadori 1990); 'Nerone, 2000 anni di calunnie' (Mondadori 1993); 'Catilina, ritratto di un uomo in rivolta' (Mondadori 1996); 'Il denaro, "sterco del demonio"' (Marsilio 1998); "Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina", (Marsilio 2000); "Nietzsche, L' apolide dell' esistenza" (Marsilio 2002), "Il vizio oscuro dell' Occidente" (Marsilio 2003) ; "Sudditi" (Marsilio 2004); "Il Ribelle dalla A alla Z" (Marsilio 2006); "Ragazzo. Storia di una vecchiaia" (Marsilio 2007); "Il dio Thot " (Marsilio 2009); "Senz'anima" (Chiarelettere 2010); "Il Mullah Omar" (Marsilio, aprile 2011), biografia controcorrente del leader dei Talebani.
    E' stato anche attore e autore dell' opera teatrale "Cyrano, se vi pare"per la regia di Eduardo Fiorillo.

    Al suo pensiero si ispira anche la piece antimodernista "Cassandra" interpretata da Elisabetta Pozzi.

    E' divorziato ed ha un figlio, Matteo.
    Biografia - Massimo Fini
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Posto fisso: le ragioni di Monti
    I giovani devono abituarsi a non avere un posto fisso nella vita. E poi diciamo anche: che monotonia averlo per tutta la vita. È bello cambiare”. Questa frase di Mario Monti ha suscitato polemiche e ironie (“è un discorso snob”).

    È chiaro che il premier tira l’acqua al suo mulino perché il governo deve varare una riforma del lavoro dove il posto fisso e garantito a vita non ci sarà più, però la sua notazione è assolutamente valida dal punto di vista esistenziale e psicologico. Scrive Nietzsche: “Amleto chi lo capisce? Non è il dubbio, ma la certezza che uccide”. I Paesi scandinavi, dove l’esistenza scorre garantita, lineare, prevedibile ‘dalla culla alla tomba’, hanno il più alto tasso di suicidi in Europa, cinque o sei volte superiore al nostro Sud dove sono in parecchi a doversi inventare ogni giorno la vita per far quadrare il pranzo con la cena. La necessità aguzza l’ingegno, la sicurezza lo ottunde.

    Quando ero in Pirelli, alla fine degli anni Sessanta, ho assistito alla cerimonia che ogni anno l’azienda organizzava per gli “anziani Pirelli”, impiegati e operai che dopo quarant’anni di servizio andavano in pensione lasciandosi docilmente seppellire anzitempo. Era una cerimonia, nonostante tutti gli sforzi della Pirelli per renderla potabile, o anzi forse anche a causa di questo, di una tristezza senza pari, da film del primo Olmi, quello de Il posto (appunto). Si leggeva su quei volti l’asfissia. Per 40 anni erano stati garantiti, ma per 40 anni avevano vissuto nelle stesse stanze, negli stessi luoghi, visto le stesse facce, fatto gli stessi discorsi. “Una cosa da fare rincretinire un uomo per quanto può rincretinire” dice cinicamente lo stesso Adam Smith che pur è un primigenio fautore del lavoro parcellizzato e della catena di montaggio.

    Cambiare quindi è vitale. Ma bisogna avere delle chance di poterlo fare, pur assumendosi qualche rischio. E la società di oggi è molto meno “aperta” di quella di ieri e non solo nel campo del lavoro. Oggi quelle che una volta erano strade e anche autostrade si sono ridotte a stretti viottoli. A mio parere la situazione non è particolarmente drammatica, come si strombazza per i giovani che non trovano il primo lavoro (intanto son giovani, beati loro, mi cambierei all’istante con un ventenne disoccupato), ma per gli uomini di mezz’età che lo perdono. Soprattutto per quelli che appartengono al ceto medio, borghese, intellettuale.

    Giorni e nuvole, il bel film di Soldini, racconta la storia di un manager cinquantenne di un’azienda di Genova, troppo morbido, troppo umano. L’azienda va così così e vi entra un socio con meno scrupoli che licenzia il manager e un bel mucchietto di operai. Costoro – siamo a Genova, una città che conserva una tradizione operaia – riusciranno in qualche modo a cavarsela attraverso la rete di solidarietà proletaria. Il manager (Albanese nel film) no. Manda curriculum su curriculum, inutilmente. Nessuno oggi assume un uomo di 50 anni. Perché nella società attuale, con i rapidissimi cambiamenti tecnologici, diventiamo tutti presto obsoleti. Albanese, per sopravvivere, rinuncia allora a qualsiasi ambizione e si mette a far lavoretti d’occasione, si improvvisa tappezziere. Ma non ha il know how, gli manca la manualità necessaria.

    Per questo trovo assai interessante l’iniziativa di Edibrico, una casa editrice di giornali di bricolage, che ha sponsorizzato gratuitamente l’insegnamento ai bambini, in varie sedi, di quella manualità che abbiamo quasi tutti perduto. Altro che farli chattare, già a due o tre anni, compulsivamente sull’iPhone. Della manualità, e non solo per sport, avremo presto tutti estremo bisogno. Quella manualità che consentiva all’uomo di Neanderthal di costruirsi empiricamente una stranissima, complicata ma efficacissima lancia (gli serviva per uccidere i mammuth) che oggi nessuna tecnologia sarebbe in grado di riprodurre. L’uomo Sapiens Sapiens deve fare qualche passo indietro.

    Massimo Fini

    Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2012
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Denaro sterco del nulla
    Nella società attuale l’impresa è centrale. Perché qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema. Ecco perché in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.
    L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti. E qui c’è già una stortura. Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti. E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire). Ma, per la verità, il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.
    Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese. Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli“schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era. Perché, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati. La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).
    Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale. Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perché ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame. Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).
    Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma. Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce. All’inizio è oro o argento o bronzo. Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale. Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto. Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.
    Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perché fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza. E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.

    Massimo Fini

    Il Fatto quotidiano, 28 gennaio 2012
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Olimpiadi, ormai un circo. E questa povera Italia non se le può permettere
    Mario Monti sembra orientato a rinunciare alla candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020. Sono d’accordo con professore. Le Olimpiadi di Roma del 1960 furono le più belle dell’epoca moderna e le ultime a dimensione umana, simbolizzate dall’arrivo trionfale, a piedi nudi, dell’etiope Abede Bikila nella maratona. Gli atleti non erano anabolizzati, gonfiati, costretti ad allenamenti ossessivi che portan via la giovinezza, i nuotatori non si depilavano come dei travestiti. Erano dei ragazzi normali. Il pesista O’Brien, che a Roma arrivò secondo dopo aver vinto le Olimpiadi di Helsinki e di Melbourne, era alto poco più di un metro e ottanta, non sacrificava la sua vita agli allenamenti, semplicemente era uno che lanciava il peso più lontano degli altri. L’assegnazione della sede non era condizionata da sordidi calcoli politici. Roma fu scelta per la sua magica cornice che poteva offrire e che offrì. Eravamo appena agli inizi del boom, usciva "La dolce vita" di Fellini, ma non eravamo ancora involgariti dal benessere e sufficientemente ingenui per farci affascinare da quelli che erano ancora dei Giochi. Sarebbe bene non sciupare quel ricordo che le Olimpiadi del 2020, se assegnate a Roma, non potrebbero che offuscare e rovinare.
    Oggi le Olimpiadi sono un baraccone, indecoroso non molto diverso da un Circo Barnum dove si esibiscono il nano Bagonghi o la donna cannone. Accanto all’atletica e il nuoto sono state via via inserite, per compiacere questo o quel Paese, discipline assurde, ridicole, forse ci troveremo anche il "lancio del nano" sport molto popolare in Australia.
    Roma, che nei secoli ha assorbito tutto, è oggi una città al limite, soffocata dal suo stesso turismo e da un parco automobili che è il più esteso d’Italia. L’altro giorno sono passato per Fontana di Trevi. La Fontana non si vedeva, completamente sommersa dai turisti, mentre quelli che stavano un pò più indietro scattavano foto a manetta, non si capisce a che, forse ai sederi di cui era davanti. Le Olimpiadi darebbero a Roma il colpo di grazia.
    In un’Italia corrotta fino al midollo sarebbe il festival degli appalti gonfiati, taroccati, mafiosi, degli affari sporchi, delle "cricche". Ai mondiali di calcio del 1990 per la ristrutturazione delle stadio di San Siro, che non ne aveva alcun bisogno, erano stati preventivati 30 miliardi, diventarono 170, col bel risultato di rovinare, con quella tettoia che chiude il passo alla luce, uno dei campi, con Wembley e il Prater, migliori d’Europa, mentre l’archistar Gregotti ha costruito a Genova uno stadio geniale dai cui spalti, in ampi settori, non si vede il campo.
    Infine c’è la questione finanziaria. Se la candidatura di Roma fosse accettata dovremmo anticipare otto miliardi di euro. Non pare proprio il momento. Anche perché negli ultimi anni molte di queste mega-manifestazioni, non solo le Olimpiadi, si sono risolte in un bagno economico. Secondo il presidente del Coni, Gianni Petrucci, la candidatura di Roma sarebbe il segnale che "l’Italia rialza la testa". Cerchiamo di rialzarla, la testa, in altro modo, ritrovando un’etica pubblica che abbiamo perduto, e non con exploit d’immagine inutili e dannosi.
    In quanto alle Olimpiadi avrebbero dovuto chiudere i battenti da tempo, da quelle di Atene del 2004, concludendo così, nella loro sede storica, un ciclo cominciato nel 1896. Perché dello spirito di De Coubertin non hanno conservato nulla ma proprio nulla.

    Massimo Fini

    Il Gazzettino, sabato 28 gennaio 2012
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    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Schettino e De Falco
    La cosa più rabbrividente nella tragedia della Concordia non è il naufragio col suo strascico di morti e di dispersi, ma la telefonata fra il capitano di Fregata Gregorio De Falco, a capo della Capitaneria di Livorno, e il comandante Francesco Schettino. Perché non c’è spettacolo più osceno, pornografico di un uomo, di qualsiasi uomo, ma in particolare di un comandante di nave, ‘secondo solo a Dio’ quando è in plancia, che, per paura, di colpo si smaschera, si cala le braghe e si umilia e si fa umiliare in quel modo, davanti al mondo intero.

    Gli errori, l’imprudenza, la leggerezza del comandante Schettino appaiono evidenti. Ma l’errore, cioè una valutazione sbagliata, proprio perché tale va al di là della volontà di chi lo compie, anche se poi dovrà pagarne giustamente tutte le conseguenze legali. Ma non è necessariamente un’onta. Ci sono stati assi del volante che, per un eccesso di spericolatezza, hanno ucciso degli spettatori (penso, per esempio, a una Mille Miglia di tanti anni fa), ma non per questo sul loro nome è rimasta l’ombra della vergogna. La colpa veramente imperdonabile del comandante Schettino è un’altra: aver abbandonato la nave prima che tutti i passeggeri – quelli almeno per i quali si poteva fare ancora qualcosa – fossero stati tratti in salvo. Perché questa è una decisione che è dipesa solo dalla sua volontà, non da un’errata valutazione, sempre possibile. Prima della legge un codice d’onore antichissimo, ancestrale, e l’intera storia della navigazione dicono che il comandante deve essere l’ultimo ad abbandonare la nave che affonda e, se del caso, inabissarsi con essa (e, a volte, anche se non è il caso, come fece il comandante del Titanic, Edward Smith, che rifiutò di essere tratto in salvo, e che ne seguì l’inevitabile sorte – ma erano altri tempi, altra gente, altre tempre, altra classe: dopo il mayday, e non è leggenda, non è film, è storia, l’orchestra continuò a suonare e i passeggeri a ballare).

    Con quell’abbandono Francesco Schettino non ha perso solo gli alamari del comandante, ha perso la faccia, ha perso la dignità, ha perso l’onore. E l’onta indelebile di quell’abbandono lo seguirà per tutta la vita. Non potrà più guardare in faccia nessuno senza avvertirne il disprezzo. Ma non mi ha convinto nemmeno l’atteggiamento del capitano De Falco. De Falco, standosene seduto in capitaneria (giustamente il comandante Amato, che ebbe Schettino come ottimo primo ufficiale, ha ricordato un vecchio detto: “I marittimi si dividono in due categorie: quelli che vanno per mare e rischiano e quelli che stanno a terra e giudicano”), maramaldeggia sadicamente su un uomo finito. De Falco, si scrive, non vuole passare da eroe. Non si fa vedere in televisione, non parla. In compenso fa parlare la moglie che dichiara all’inviato del Corriere della Sera: “Sa qual è la cosa più preoccupante? Che in Italia chi fa semplicemente il proprio dovere, come ha fatto mio marito, diventa un eroe”. Ma questa è l’apoteosi dell’autoesaltazione, espressa in termini retorici, dell’eroismo.

    Perché non esiste solo una retorica della grandezza, esiste anche una retorica della modestia o piuttosto della falsa modestia. E la retorica, di cui i media italiani hanno fatto in questi giorni uso a piene mani (soprattutto la retorica dei ‘buoni sentimenti’), come avvertiva Alberto Savinio in un preveggente e prezioso libretto, “Sorte dell’Europa” del 1943, “è un male endemico nel nostro paese, è il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura e una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure”.

    Massimo Fini

    Il Fatto Quotidiano, 21 Gennaio 2012
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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    La fuga di Schettino? Una vicenda un po' troppo italiana
    C’è un nome che da una settimana mi gira ossessivamente nella testa e non riesco a togliermelo dalla mente. È quello di Francesco Schettino. La trentatreesima vittima della tragedia della Costa Concordia, nonostante, a differenza delle altre, sia vivo. Ma sarebbe stato molto meglio per lui essere morto. Gli errori, la leggerezza, l’imprudenza del comandante Schettino appaiono evidenti. Ma l’errore, cioè una valutazione sbagliata, proprio perché tale va al di là della volontà di chi lo compie, anche se poi dovrà pagarne tutte le conseguenze penali. Ma non è necessariamente un’onta. Ci sono stati assi dell’automobilismo che, per un eccesso di audacia, hanno causato morti fra gli spettatori, ma non per questo sul loro nome è rimasta l’ombra della vergogna.
    La colpa veramente imperdonabile del comandante Schettino è un’altra: aver abbandonato la nave prima che tutti i passeggeri - quelli almeno per i quali era ancora possibile - fossero messi in salvo. Perché questa decisione è dipesa solo dalla sua volontà, non da margini di errore. Ora, non solo la legge, ma il codice d’onore della marina, oltre che l’intera storia della navigazione, dice che il comandante deve essere l’ultimo ad abbandonare la nave che affonda e, se del caso, inabissarsi con essa (e a volte anche se non è il caso, è la storia del comandante del Titanic, Edward Smith, che rifiutò di essere tratto in salvo, ma erano altri tempi, altra gente, altra tempra; dopo il mayday, e non è leggenda, non è film, è storia, l’orchestra continuò a suonare e i passeggeri a ballare).
    Con quel suo abbandono, addirittura col rifiuto di risalire a bordo come gli intimava la Capitaneria di porto di Livorno, Francesco Schettino non ha perso solo gli alamari del comandante, che quando è sulla nave "è secondo solo a Dio", ha perso la faccia, ha perso la dignità, ha perso l’onore. Lo spettacolo più orribile, più del naufragio, più degli stessi morti, è stata la conversazione tra il capitano, Gregorio De Falco, al comando della Capitaneria di Livorno e il comandante Francesco Schettino. Perché non c’è nulla di più osceno, di più pornografico, di un uomo che, per paura, si cala di colpo le braghe e si umilia e si fa umiliare in quel modo, davanti al mondo intero. L’onta indelebile di quell’abbandono lo seguirà per tutta la vita. Non solo non potrà più guardarsi allo specchio, ma non potrà più guardare in faccia nessuno, senza avvertirne il disprezzo.
    Detto questo lo stesso totalitario accanimento dei media su Francesco Schettino - cui anch’io sto dando fiato - è sospetto. Sembra che la stampa abbia approfittato dell’occasione per sparare su un facilissimo capro espiatorio, senza nulla rischiare. Bisogna ricordare a noi stessi che l’intera storia della classe dirigente italiana, con la quale siamo stati tanto spesso indulgenti e prodighi di giustificazioni, è fatta di gente della pasta di Francesco Schettino. Dalla borghesia che, dopo che i fanti-contadini, che lei stessa aveva mandato alla guerra, ruppero le righe a Caporetto stufi di farsi ammazzare per lorsignori e in omaggio alla strategia omicida dell’attacco frontale del generale Cadorna, fugge nelle retrovie, in un indecoroso guazzabuglio di suppellettili. Al Re e Badoglio che, sempre con un cospicuo seguito di bauli, abbandonano Roma in balìa dei tedeschi; a Mussolini che, dopo tanta retorica sulla "bella morte" che aveva indotto i giovani fascisti a sacrificare la vita per Salò, scappa travestito da soldato tedesco, fino ai più recenti episodi, dalle lettere di Aldo Moro o della fuga di Craxi che, per paura della prigione, ripara in Tunisia da dove infanga il suo Paese, di cui pur era stato presidente del Consiglio, e con ciò anche se stesso. Se questi sono gli esempi della classe dirigente è difficile pensare che soprattutto nella società di oggi, ai livelli più bassi della catena di comando, ci siano soggetti diversi da Francesco Schettino.

    Massimo Fini

    Il Gazzettino, 20 gennaio 2012
    "Cecchi ...Paone ha dichiarato che ci sono due gay in squadra. Prandelli mi ha detto che mi facevate questa domanda. Se ci sono dei froci i problemi sono loro, io spero non ce ne siano".
    Antonio Cassano 99

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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Gli interessi dell’Italia e la «guerra preventiva» degli Usa all’Iran
    Un giovane scienziato iraniano, Mostafa Ahmadi-Roshan, 32 anni, che lavorava al sito nucleare di Natanz, il più importante del Paese, è stato assassinato a Teheran da un commando in motocicletta che ha fatto saltare la sua auto, una Peugeot 405.
    Con lui sono morti l’autista e un passante. Le autorità iraniane, anche se non al più alto livello, hanno accusato i servizi segreti di Stati Uniti e Israele di essere gli autori dell’attentato. È difficile dar loro torto. Nel giro di poco più di un anno è il quarto scienziato iraniano impegnato nel programma nucleare che viene ucciso, e sempre con le stesse modalità: commando in motocicletta. Non può essere una casualità. Del resto Mossad e Cia ci hanno abituato ad azioni molto «disinvolte», per dir così, che calpestano ogni legalità internazionale e, a volte, la stessa sovranità di Paesi alleati (caso Abu Omar, rapito a Milano da agenti Cia, portato nella base Usa di Aviano e da lì trasferito nell’Egitto dell’alleato Mubarak, per esservi torturato). Ci chiediamo cosa sarebbe successo a parti invertite, se quattro scienziati israeliani fossero stati uccisi a Tel Aviv da agenti stranieri. Come minimo un putiferio diplomatico e mediatico e forse peggio. Ci chiediamo, con un certo sgomento, fino a dove voglia spingersi l’aggressività israelo-americana nei confronti dell’Iran. Si sa per certo che sono pronti da almeno due anni piani di attacchi militari (forse anche con atomiche tattiche) ai siti nucleari iraniani, e che esercitazioni in questo senso sono state svolte dagli israeliani partendo dalla base Usa di Decimomannu, in Sardegna.
    La questione, com’è arcinoto, è quella del nucleare iraniano. Questione che, a lume di logica, appare incomprensibile. L’Iran, a differenza di Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, accetta le periodiche ispezioni dell’Aiea che non hanno mai trovato che nei siti iraniani l’uranio sia stato arricchito oltre il 20% che è il limite necessario, e consentito, per gli usi civili e medici (per la Bomba bisogna arrivare al 90%). Che cosa si vuole ancora dall’Iran? Che voglia farsi l’atomica è un puro processo alle intenzioni, che ricalca quella teoria della «guerra preventiva» che Obama sembrava voler abbandonare. Eppure il Consiglio di Sicurezza dell’Onu continua a emanare sanzioni contro la repubblica islamica e Washington sta cercando di forzare la mano alla Ue e ai singoli Paesi europei perché ne vengano varate delle nuove. Ora, l’Italia è il secondo partner commerciale dell’Iran e il suo interscambio petrolifero col Paese degli ayatollah è del 14% (mentre per la Francia, che sta facendo la voce grossa, come in Libia, è solo del 3%). Ha detto, mi pare molto saggiamente, il presidente della Camera di Commercio iraniana, Mihammad Nahavandian; «Considerando la crisi economica in Europa, è un peccato perdere le opportunità di investimento in un mercato emergente come l’Iran. Queste misure ingiustificate finiranno per portare a perdite reciproche».
    L’Italia ha o no il diritto di difendere i propri interessi nazionali, o dovrà sottostare per sempre a quelli americani e all’eterno ricatto morale di Israele che, per lo sterminio di 65 anni fa, si sente autorizzato a tutto, anche ad ammazzare cittadini stranieri sul loro territorio?

    Massimo Fini

    Il Gazzettino, 13 gennaio 2012
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  9. #9
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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Lo scontro tra destra e sinistra non ha senso.
    L'Italia spezzata si intitola l'ultimo libro di Bruno Vespa, gran cerimoniere della politica nostrana. E in effetti l'apparenza è questa. Da più di dieci anni le classi dirigenti del centrodestra e del centrosinistra si azzuffano in modo feroce, sono protagoniste di lotte al coltello, non passa giorno che non si accusino reciprocamente di 'regime',

    adesso non si fidano nemmeno più, quasi fossimo un Paese sudamericano, della regolarità delle elezioni e vanno alla riconta delle schede, caso unico nella storia dell'Italia repubblicana e democratica che non si verificò nemmeno in momenti cruciali come il referendum sulla monarchia e l'aut aut del 1948.

    Eppure l'Italia di oggi non ha alcuna ragione di essere 'spezzata'. Non si tratta di scegliere fra comunismo e il cosiddetto 'mondo libero', fra fascismo e democrazia. Non ci sono più le Br e il terrorismo rosso, i neofascisti sono ridotti a minigruppuscoli patetici. La sinistra, anche quella radicale, ha accettato il libero mercato . Nessuno mette in discussione che il modello di sviluppo occidentale, industrialista, tecnologico, economicista, basato sul meccanismo produzione-consumo, sia, pur con tutti i suoi difetti, 'il migliore dei mondi possibili'. In politica economica le diversità delle scelte si riducono a sfumature, perchè i margini di manovra del governo, di qualsiasi governo, sono ridotti al minimo dipendendo da fattori globali totalmente fuori dal controllo di un singolo Paese. Attualmente, avendo le classi dirigenti degli Anni Ottanta (che avevano come uomini di punta l'esule di Hammamet, il 'martire' Andreotti, il 'Dottor Sottile' tuttora in pista) fatto una dissennata politica di dissipazione delle risorse collettive che ci ha portato ad accumulare un enorme debito pubblico, la sola cosa che si può fare è quella di sempre: tosare ulteriormente il ceto medio. Perchè solo qui c'è ancora un pò di 'trippa per gatti', poichè i grandi patrimoni hanno sempre avuto la possibilità di svicolare e ancor più ce l'hanno oggi, in epoca di integrazione economica mondiale, con le società 'off shore' totalmente fuori controllo, mentre i poveri sono poveri e non si può cavar sangue dalle rape.

    In politica estera sia la destra che la sinistra sono atlantiste e nessuno si sogna di mettere in discussione l'alleanza con l'America e nemmeno la Nato. Da noi persino il movimento No Global si è rapidamente trasformato in un New Global, nell'idea cioè che il modello di sviluppo occidentale, sia pur un pò umanizzato, debba essere esportato in tutto il mondo, con i suoi schemi mentali, la sua concezione dei diritti individuali, dichiarati, poichè sono i nostri, universali le sue istituzioni, la sua democrazia.

    E allora perchè questo clima da guerra civile in italia, quando per il cittadino comune che governi la destra o la sinistra non cambia nulla come hanno ampiamente dimostrato le varie 'alternanze' dal 1994 in poi. Qualcuno può ragionevolmente sostenere che sia migliorato qualcosa, nella sua vita, col governo Prodi? Son la stessa cosa. Le indecorose zuffe fra destra e sinistra cui, sempre più stanchi e schifati, assistiamo quotidianamente non son che lotte per il potere fra oligarchi all'interno di una classe di privilegiati - l'unica vera classe rimasta su piazza - quella politica, con i suoi adentellati economici e mediatici, il cui interesse primario oltre a quello di spartirsi il bottino, è di autotutelarsi come abbiamo visto fare mille volte. Sono costoro che giocano la vera partita. Noialtri, tutti, non siamo che spettatori. E se sugli spalti, o in piazza, c'è chi parteggia con passione per la destra o per la sinistra, non lo fa per ragioni concrete, di contenuto, ma per motivi irrazionali e sentimentali per cui si tifa Milan o Inter, Roma o Lazio, Verona o Chievo.

    Da "Il gazzettino" del 08/12/2006
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    Antonio Cassano 99

  10. #10
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    Predefinito Re: Massimo Fini: giornalista controcorrente a difesa della vera Europa e della civil

    Se l'inverno fa paura allora l'Italia ha perso il contatto con la realtà

    Se l'inverno fa paura allora l'Italia ha perso il contatto con la realtà - Massimo Fini

    In questi giorni quasi tutti i telegiornali hanno aperto con il freddo che ha investito l’Italia per le correnti che provengono da est. Il metereologo è diventato il protagonista. Uno di questi servizi titolava: «Neve a Milano, tre gradi sotto zero». Vivo a Milano da più di sessant'anni e da noi l’inverno, soprattutto da fine dicembre a metà febbraio, è sempre stato freddo. Le temperature oscillano, di giorno, da più uno a meno uno e naturalmente la notte scendono. Ma ci sono state anche parecchie annate in cui di giorno faceva meno sette. Noi ragazzini giocavamo tranquillamente al pallone (correndo ci si riscalda, semmai il problema ce l’aveva il portiere che saltellava davanti alla porta in attesa di un tiro che gli scaldasse le mani, spesso nude perché eravamo poveri e non potevamo permetterci i guantoni). A Milano la neve qualche annata arriva, in qualche altra no. Quando c’era per noi era una festa. Si giocava a palle di neve, fra di noi e, se facevamo le elementari, anche con i genitori che ci venivano a prendere. Si era allegri. Il freddo e la neve erano il nostro habitat naturale, come la nebbia. A mia memoria non ricordo che le scuole siano mai state chiuse per neve (magari, ci avrebbero regalato una bigiata collettiva e autorizzata, ma certamente non l’avremmo sprecata standocene rinchiusi in casa). Fa eccezione l’inverno del 1985 quando vennero giù tre mesi di neve. La città si paralizzava: si vedevano gli autobus arancioni, vuoti, fermi di traverso in mezzo alla strada. Fu bellissimo. Non solo per il silenzio, ma un silenzio ovattato, accogliente, non quello metafisico, da quadro di De Chirico, della Milano d’agosto, ma perché gli uomini, e non le automobili, erano ridiventati i protagonisti della propria città. Poiché le abituali attività quotidiane erano diventate difficili si era ricreata fra la gente, che di solito manco si salutava, una solidarietà spontanea. Ci si aiutava, ci si dava una mano. Rischi veri non ce n’erano, bastava fare attenzione dove si mettevano i piedi. L’unico pericolo erano i lastroni di ghiaccio che venivan giù dai tetti, ma camminavamo, liberi, in mezzo alla strada perché non c’erano le macchine.

    Adesso di uno spruzzo di neve si fa un dramma, fa notizia la bora a Trieste (ma quando mai a Trieste non c’è stata la bora?). Credo che a noi italiani farebbe molto bene una guerra. Per recuperare una gerarchia fra le cose che devono preoccupare e quelle che sono irrilevanti e, se si vuole, anche una gerarchia dei valori. Bambino nella Milano sventrata del dopoguerra vedevo i tram zeppi fino all’inverosimile, con la gente sui predellini aperti e qualcuno attaccato, dietro, al filo del troller. Chi era scampato ai bombardamenti angloamericani e ai rastrellamenti tedeschi non si preoccupava certo di poter cadere dal tram e farsi la bua. Oggi, in una situazione analoga, arriverebbe la polizia e magari anche Equitalia a multare chi non è riuscito a pagare il biglietto.

    Il benessere ci ha reso nevroticamente tremebondi. Ci assicuriamo su tutto (la casa, gli incendi, i terremoti, la vita) e poi ci riassicuriamo sull’assicurazione (una specie di "future" esistenziale). Tutto ciò che esce dalla norma, che non esiste perché, grazie a Dio, la vita è caos, ci manda in fibrillazione. Tutto diventa un problema. Se c’è un inverno tiepido com’è stato, fino a ieri, quello di quest’anno è a rischio il business degli impianti sciistici perché manca la neve. Ma se poi finalmente la neve arriva, una spruzzatina a Milano diventa un dramma, una notizia da prima pagina.

    Massimo Fini

    Il Gazzettino, venerdì 3 febbraio 2012
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

 

 
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