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Discussione: Il Culto delle Yoginī

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    Predefinito Il Culto delle Yoginī

    Il mistero delle donne sacre Khmer

    le Devata di Angkor Wat e Yogini di Chaunsat

    di Kent Davis


    Angkor Wat, il tempio del 12° secolo


    Questo studio è motivato dal desiderio di spiegare il motivo della massiccia presenza di raffigurazioni femminili, le Devata, nel tempio di Angkor Wat.

    Comprendere chi siano queste donne Khmer ci permette anche di riconsiderare la vera finalità del tempio e capire il ruolo femminile nello sviluppo di questa straordinaria civiltà.

    Per 150 anni, gli studiosi hanno spiegato semplicemente le Devata come presenze accessorie "per intrattenere il re del cielo" o "Decorare le nude pareti di arenaria".
    Le nostre ricerche indicano che queste figure hanno un ruolo molto più profondo ed importante della semplice decorazione: non si tratta solo di danzatrici ma di vere e proprie divinità.


    Quindi è lecito pensare che la ragione principale per la costruzione di Angkor Wat (in lingua khmer: Tempio della città) potrebbe essere stata quella di onorare queste donne e festeggiare il loro contributo fondamentale all'impero Khmer. Proprio loro, infatti, sono state la chiave per mantenere armoniosa la società khmer, contribuendo alla sua prosperità economica.

    L'argomento di questo articolo è il paragone tra Devata e Yogini, le vibranti divinità femminili dell'India, un confronto che può risultare illuminante per comprendere i misteri delle donne di Angkor Wat.



    Angkor e la civiltà Khmer

    Angkor Wat, il famoso tempio indù del 12° secolo, che ora si trova in piena giungla della Cambogia,non è solo la più grande struttura religiosa nel mondo. Questo tempio Khmer ha una particolarità: per quasi 1.000 anni, ha custodito le immagini sacre di oltre 1.796 donne.

    Il fatto sconcertante è che nessuno sa chi fossero e quali valori di spiritualità o di governo rappresentassero. Perché tutte queste donne siano state scelte a dominare questo magnifico complesso con la loro presenza rimane un mistero.
    Ogni ritratto femminile ad Angkor Wat è nettamente diverso dagli altri, con una miriade di differenze: posizione del corpo, delle mani (mudra), etnia, gioielli, vestiti, capelli e collocazione.

    Non è rimasta quasi nessuna documentazione scritta che spieghi come la civiltà Khmer sia sopravvissuta attraverso i secoli. Il miglior racconto è quello del diplomatico cinese Zhou Daguan, che visitò Angkor Wat 150 anni dopo la sua costruzione.

    Daguan non fa mistero del suo interesse per le donne Khmer. Infatti riporta dettagliatamente la loro importanza nella conduzione degli affari, il gran numero di donne che vivevano nel palazzo (senza tralasciare un'occhiata a quelle che facevano il bagno seminude). Nonostante il suo affascinante racconto, una delle tante domande cui Daguan non risponde è: "Perché i Khmer popolano i loro più grandi templi con queste immagini ?"

    Alcuni indizi si possono trovare in India, dove hanno avuto origine molti aspetti della civiltà Khmer.

    In queste pagine quindi analizziamo le tradizioni delle Yogini indiane.
    Non è noto se la religione Khmer, al tempo di Angkor Wat, avesse tradizioni simili incentrate su divinità femminili. Tuttavia, è chiaro che i templi Khmer propongano una netta preminenza di figure sacre femminili mentre quelle maschili sono quasi assenti. Alcuni templi indiani Yogini presentano questa stessa caratteristica.

    Esamineremo quindi un tempio indiano che, come Angkor Wat, propone prevalentemente immagini femminili: il Tempio di Chaunsat Yogini a Bheraghat Jabalpur, nell'India centrale.



    Devata raffigurata nel Bakkan, la parte più alta e più sacra del tempio di Angkor Wat.


    Che cosa è una Yogini?


    L'espressione Yogini, utilizzata in entrambe le tradizioni indù e buddhista, ha molteplici significati.

    In primo luogo, può fare riferimento a una donna umana che si dedica a perseguire la conoscenza spirituale e l'illuminazione attraverso la pratica dello Yoga. Un praticante maschio è chiamato Yogi. Attraverso la sua pratica, una Yogini può acquisire determinati poteri soprannaturali compreso quello di controllare le funzioni corporee (vale a dire battito cardiaco, fertilità, resistenza al dolore o al freddo e metabolismo) o anche la capacità di volare.


    La parola Yogini in sanscrito devanagari


    Il percorso di una yogini può comprendere la pratica del Tantra (in sanscrito = tessere), una filosofia religiosa incentrata sull'interazione tra le forze maschili e femminili dell'universo incarnate da Shakti e Shiva.

    La parola Yogini può anche riferirsi a personificazioni di aspetti della natura, che si manifestano dalla Dea Madre Divina, o Devi (raffigurata in un'immagine qui a fianco). Queste Yogini includono le dieci Mahavidyas (chiamate anche Grandi Saggezze o dakini) che rappresentano tutta la gamma della divinità femminile, dal bello e delicato al violento e terrificante.
    In alcune scuole dello Yoga e del Tantra, queste potenti manifestazioni servono come modello da emulare per le Yogini umane.

    Un'altra definizione caratterizza Yogini come aspetti della dea indù Durga, che è un'altra forma di Devi.
    Durante una battaglia per salvare l'universo, Durga emanò otto Yoginis per raggiungere il suo obiettivo. In alcuni sistemi sono chiamate Màtrikà. Più tardi i testi moltiplicano le Yogini da 8 a 64 per rappresentare l'intera gamma di forze nel mondo che controllano fertilità, malattia, abbondanza, vegetazione, vita e morte.



    Lakshmi (ricchezza/soddisfazione materiale), Parvati (potere, amore, soddisfazione spirituale) e Saraswati (apprendimento/ arti, soddisfazione culturale) in un'unica manifestazione di Devi. Dipinto di V.V. Sagar.


    In sostanza si può dire che le Yoginis incarnano la gamma delle donne, da umane a divine, che rappresentano, il controllo o cercano di controllare le potenti forze della natura, compresa la vita stessa.

    Le immagini nei templi Yogini dell'India e coloro che hanno seguito per più di un millennio queste pratiche spirituali sono tutti, in qualche modo, legati alla tradizione Yogini.


    I primi racconti degli europei sulle Yogini erano concentrati sui loro aspetti terribili: come scrisse Miranda Shaw in "Dee buddhiste" o David Gordon White in "Bacio delle Yogini" e "Yoginis, divinità o ... folletti?"

    Nella sua relazione del 1862-1865 per la Soprintendenza Archeologica dell'India, il direttore generale Alexander Cunningham, a proposito del tempio yogini di Khajaraho, ha scritto: "Chaonsat Yogini sembra essere il più antico tempio di Khajaraho. Unico per posizionamento è anche il solo in granito, mentre per tutti gli altri sono state utilizzate le cave di arenaria sulla riva orientale del fiume Kane. Le Joginis o Yogini, sono folletti femmina che obbediscono a Kali, la terribile dea della distruzione.
    Quando si svolge una battaglia, si dice corrano freneticamente per il campo con le loro ciotole per raccogliere il sangue degli uccisi, che tracannano con piacere. Nel Chandrodaya Prabodha sono chiamate "spose dei demoni che danzano sul campo di battaglia."
    "Per questa loro connessione con la dea Kali che beve sangue, è probabile che il tempio originariamente potrebbe essere stato dedicato a Siva, ipotesi che è in parte confermata dalla posizione di un piccolo santuario di Ganesha sullo stesso costone roccioso immediatamente di fronte l'ingresso. Ma poichè i bramini del posto affermano che la dedica di un tempio alle Yogini garantisca la vittoria a chi lo costruisce, è possibile che questo tempio mantenga il suo nome originale".



    Sri Dhanendri - foto di Raju-Indore.

    Vans Kennedy nella sua "Mitologia indù" (p. 490) cita i nomi di sei Yogini: Brahmi, Maheswari, Kaumari, Vaishnavi, Varahi, Mahendri, tutte chiamate da Siva a divorare la carne e bere il sangue del grande Daitya Jalandhara.

    "Da questo punto di vista, ci si potrebbe aspettare di trovare numerosi templi dedicati alle Yogini, in quanto molti condottieri sarebbero stati disposti a propiziarsi la vittoria in questo modo. Ma poiché questo è l'unico santuario di queste dee che ho trovato, sono propenso a dubitare della tradizione, e ad attribuire il tempio a Durga o Kali, la consorte di Siva."


    La donne di Angkor Wat possono essere Yogini?

    In contrasto al nulla tramandato sulle donne di Angkor Wat, note anche come Devata o Apsara, è rimasta una notevole quantità di informazioni scritte per quanto riguarda le Yogini dell'India.

    Le Devata risultano tutte certamente molto più riservate nel loro comportamento e quindi potrebbero rappresentare solo gli aspetti più dolci del pantheon Yogini.

    Le donne di Angkor Wat non mostrano attributi orribili o soprannaturali. In realtà appaiono del tutto normali, prive di zanne, aloni, occhi in più, ali o altre caratteristiche terribili e fantastiche.
    Nessuna, infatti, appare come Sakti, la manifestazione femminile di un dio, a volte visto con la testa di animale, cinghiale, toro, cavallo o leone.

    Né le donne di Angkor Wat sfoggiano collane o coppe fatte di teschi umani, oppure scheletri o armi tra i loro ornamenti.

    Tutte le Devata di Angkor Wat sono in piedi in posa dignitosa con entrambi i piedi ben saldi a terra. Nessuna è seduta. Solo un paio assumono posizioni che possono essere associate alla danza.

    Eppure, raffigurate in un tempio, le donne di Angkor Wat, sembrano condividere qualcosa di divino con le loro sorelle Yogini. Alcune mostrano posizioni delle mani (mudra) simili, gioielli e ornamenti associati con piante e fiori dalla natura. Come gli ammiratori hanno osservato per secoli spesso sono molto attraenti.

    Le donne di Angkor Wat sembrano rappresentare solo un rapporto armonioso con la natura, mentre le Yogini indiane evocano maggiormente l'intera gamma della creazione, compresi gli aspetti violenti.



    Angkor Wat: Devata dalla parete est del Gopura Occidente.

    Forse c'è una connessione tra questi due gruppi di donne straordinarie, ma non è immediatamente evidente. Un buon punto di partenza è quello di esaminare i templi Yogini indiani, utilizzando l'esempio specifico delle Yogini Chaunsat di Bheraghat Jabalpur.
    Gioia e dolore hanno il confine incerto...

  2. #2
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    Predefinito Re: Devata e Yogini

    I Templi Yogini


    In India i bramini hanno a lungo ritenuto che Sangam, la confluenza di due fiumi, sia un luogo particolarmente sacro perché la commistione di due corsi d'acqua è considerata più efficace a lavare via i peccati.

    Questo è il motivo per cui Bheraghat, dove si incontrano il Narbada e il Saraswati è un luogo di balneazione particolarmente santo.

    Alto su una collina nei pressi della congiunzione dei due fiumi si trova il tempio circolare Yogini, il cui chiostro protegge il tempio di Gauri Sankara dedicato a Shiva.




    La pianta del tempio Yogini a Bheraghat mostra il chiostro circolare con le 84 nicchie e il Gauri Sankara centrale, tempio dedicato a Shiva.

    La forma circolare è inusuale per i luoghi braminici, ma è la forma corretta per i templi dedicati alle Yogini Chaunsat (vale a dire 64 Yogini). Altri due templi Yogini di questa forma sono Hirapur e Ranipur-Jharial. Un quarto tempio yogini, Khajaraho, è oblungo. Tutti sono a cielo aperto.

    Il santuario originario centrale fu eretto nel 1155 dC, il che lo rende contemporaneo ad Angkor Wat (1116-1150 dC). E' stato costruito dalla Regina Kalachuri Alhanadevi durante il regno del figlio Narasimhadeva.

    Nel tempio compaiono solo due statue maschili.




    Il tempio centrale Gauri Sankara a Bheraghat, foto di Raju-Indore.




    Le statue del tempio Yogini Bheraghat

    Le statue nelle nicchie del chiostro di Bheraghat si mostrano in due posizioni: in piedi e sedute. Molte sono danneggiate e alcune sono scomparse del tutto. La maggior parte sono divinità a quattro braccia che, come hanno osservato gli antichi scrittori: "sono particolarmente notevoli per il formato del seno".

    Le prime relazioni caratterizzano la maggior parte di queste immagini come "Yoginis o demoni femminili che servono Durga". Il tempio è, quindi, comunemente conosciuto come Yogini Chaunsat o "sessantaquattro Yogini".



    Il tempio Yogini Bheraghat, nel 1875 circa.


    Otto figure sono identificate come Ashta Sakti, o energie femminili degli dei. Tre sembrano personificare i fiumi. Tutte le figure sedute sono Yoginis, ognuna è molto ornata e fatta di arenaria grigia.

    Quattro figure femminili danzanti (n. 39, 44, 60 e 78] sono fatte di pietra arenaria violacea e sono molto meno ornate. Uno (n. 44) si pensa sia la dea Kali. Le altre sembrano essere altre forme di questa divinità.

    Shiva e Ganesh [n. 15 e 1] sono le uniche due figure maschili.

    Le statue di questo chiostro circolare possono essere divise in cinque gruppi distinti: Saktis, comunemente nota come Ashta-Shakti 8 statue
    Fiumi: Gange, Jumna e Saraswati 3
    Dee danzanti: Kali, ecc 4
    Dei: Shiva e Ganesh 2
    Yoginis, o yogini chaunsat, (57 intatte, 7 perse) 64
    Totale 81
    Due ingressi [= 3 spazi] 3
    Totale 84 nicchie



    In alto la sezione delle nicchie dove le 64 Yogini danzano intorno a Shiva, custodito nel tempietto centrale


    Le statue delle Yogini nel tempio Gauri Sankara a Bheraghat.
    Notate le notevoli dimensioni dei seni. Nell'immagine qui sotto la veduta frontale di una di queste 64 Yogini.


    Devata e Yogini

    Un raffronto tra le raffigurazioni di:
    una Yogini del tempio indiano di Gauri Sankara a Bheraghat
    (qui a fianco a destra);
    in basso, a sinistra: una Devata di Angkor Wat;
    in basso a destra una Yogini del tempio indiano di Hirapur situato nel distretto di Balaghat, nello stato federato del Madhya Pradesh, nell'India centrale.

    Vedi le immagini delle Devata: Devata del tempio di Angkor Wat in Cambogia

    Vedi le immagini delle Yogini di Hirapur: Yogini del tempio indiano di Hirapur



    Il mistero delle donne sacre Khmer le Devata di Angkor Wat Cambogia, Yogini nel tempio Gauri Sankara a Bheraghat India
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  3. #3
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    Predefinito Re: Devata e Yogini

    L'origine del Culto delle Yogini è molto antica e oscura e si tende a farla risalire a contesti rurali e tribali localizzati La curiosa rappresentazione di molte Yogini con testa di animale potrebbe essere attribuita alla fusione del Culto della Dea Madre con l'animale totemico del Clan o Tribù.

    L'argomento è molto complesso e difficile da dibattere in poche righe; uno dei lavori più autorevoli è probabilmente quello di Vidya Dehejia, Yogini Cult and Temples - A Tantric Tradition. Un altro volume che tratta l'influenza dei culti tribali nella genesi dell'Induismo è Tribal Roots of Hinduism di S. K. Tiwari, purtroppo un'edizione zeppa di errori di battitura, grammatica e punteggiatura che rende penosa la lettura di questo testo sicuramente di grande interesse per i temi trattati.

    Nel testo di Donaldson Tantra and Sakta Art of Orissa, da me altrove citato, l'autore esplora i culti Yogini, Dakini e Sakini, spesso associati a scuole ascetiche, o pratiche tribali, di magia e stregoneria.

  4. #4
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    Predefinito Il Culto delle Yoginī


    Il Culto Yoginī: Mitologia e Affiliazione Tantrica




    Interno del Tempio Yoginī, Hirapur



    Le origini del Culto Yoginī sono abbastanza oscure, come V. Dehejia ha mostrato, ed è un culto che ha connessioni profonde con le tradizioni rurali e tribali. ‘Volendo cercare le origini delle Yoginī, pare che dobbiamo rivolgerci ai semplici culti di villaggio e alle Grama-devata, le dee locali’, ognuna delle quali presiedono per il benessere del villaggio. Gradualmente sembra siano state trasformate, Dehejia continua, e in aggiunta:

    Furono consolidate in un potente raggruppamento numerico di sessantaquattro (qualche volta di ottantuno, altre di quarantaquattro), acquisendo di conseguenza un carattere totalmente diverso. Fu il Tantrismo che elevò queste divinità locali, donando loro nuova forma e vigore quale gruppo di dee che potevano elargire poteri magici ai loro adoratori. La filosofia, i rituali e il culto di queste divinità, assieme ad altre originariamente non-Brahmaniche, sono state raggruppate nella categoria Tantra, dando loro legittimazione nell’Induismo successivo.

    E’ probabilmente dovuto a quest’origine localizzata il fatto che non ci siano due liste identiche di nomi di Yoginī e che, tra gli Yoginī-Pītha sopravvissuti, ci sono solo poche figure comuni che possono essere identificate da un tempio all’altro, cioè, ciascun ‘gruppo di Yoginī scolpito in ogni santuario rappresenta una tradizione indipendente e localizzata’.

    Quantunque il termine Yoginī permetta un differente numero d’interpretazioni, è la sua associazione con la magia e la stregoneria, e i supposti poteri occulti acquisiti per mezzo dei riti esoterici, come notato da Dehejia, che appare principale tra la popolazione in generale e che è enfatizzato soprattutto nei testi letterari che evidenziano la soggezione e il terrore con cui erano percepite. Si credeva, per esempio, che le Yoginī avessero il potere di trasformare gli esseri umani in animali e uccelli per mezzo di un cordone magico, come nella storia della cortigiana Anangasena (in effetti una Yoginī) e il principe Uttamacaritra nel Uttamacaritrakathanaka, o come narrato in numerosi racconti nel Kathasaritsagara, nel Rajatarangini di Kalhana, e nel Malatimadhava di Bhavabhuti. In queste storie le Yoginī, con le Dākinī e le Sākinī, avevano l’abilità di muoversi nell’aria. A gruppi usualmente visitavano i cimiteri e veneravano Bhairava con formule magiche. Formazioni circolari come i Chakra e i Mandala, la nudità e il consumo di carne umana sembrano essere stati considerati una parte integrale dei loro riti. Sebbene queste Yoginī-streghe formino una categoria separata da quella delle Yoginī dei Yoginī-Pītha, nella parlata popolare e persino in vari testi sono spesso interconnesse, inspirando un profondo senso di paura e terrore nella persona comune che generalmente si riferisce a loro con ‘toni sommessi’, o per nulla, credendo che si possa essere maledetti per un buon numero di ragioni. Un timore simile appare anche nei testi precedenti riguardo le Apsara che, sebbene generalmente affascinanti e associate ad avventure amorose, parimenti potevano cambiare la loro forma, erano particolarmente note per la loro irascibilità, e erano svelte nell’emettere maledizioni.







    Il Brahmanda Purāna, che incorpora il ben noto poema Lalita-Sahasranama, conclude la sezione con l’ammonimento che chiunque perda il senno impartendo il poema a un non iniziato, sarà maledetto dalle Yoginī! Incorrere nella maledizione delle Yoginī, come notato da Dehejia, è ritenuto un destino peggiore della morte. Secondo il Jnanarnava Tantra (13.4) la persona che trasmette conoscenza sacra e segreta a un non iniziato diventerà cibo per le Yoginī.

    Dehejia postula quattro tradizioni maggiori associate al culto delle Yoginī, come palesato nei Yoginī-Pītha: (1) Yoginī come aspetto della Devī; (2) come divinità accompagnatrici della Grande Dea; (3) come accolite della Grande Dea: le Mātrkā; (4) come Dee patrone dei Kaula.

    Nella prima tradizione (1) basata su un’analisi delle liste di sessantaquattro Yoginī contenute in diversi testi Puranici, le Yoginī erano considerate aspetti variabili della Grande Dea che, attraverso queste Yoginī, manifestava la totalità della sua presenza, come in una lista nello Skanda Purāna. Tra questi nomi possiamo ricordare Durga, Gauri, Katyayani, Śivadhuti, Camunda, Mahamaya, Bhramari, Bhagavatī, Śivā, Sankaraprya, Tripurā, Bhadrā, Mahābhadrā, Santikari, Vedarthajanani, ecc. Questo appare analogamente riflesso nel Phetkarini Tantra il quale dichiara che Devī, nella sua forma di Smasana-Kalika, deve essere adorata assieme al circolo delle Yoginī, e seguita da Mahakala. Ciò è vero anche nel Chandi Purana dell’Orissa, scritto da Sarala Dasa nel quindicesimo secolo, il quale dichiara che le sessantaquattro Yoginī erano state create da differenti parti del corpo della Devī – dalla sua voce, sudore, ombelico, fronte, guance, labbra, orecchie, membra, unghie delle dita, grembo e anche dalla sua collera. Lo Skanda Purāna, nella sezione Arunachalamahatmyam, ci dice ugualmente che Devī creò il circolo delle Yoginī dal suo stesso corpo per aiutarla a combattere il demone Mahisa mentre il Devī Bhāgavata Purāna, descrivendo Manidvīpa (dimora della Devī Bhuvaneśvarī), include una lista di nomi dei sessantaquattro aspetti della Devī, cui si riferisce come sessantaquattro kāla. Sembra evidente, come inoltre evidenziato da Dehejia, che questa assimilazione delle Yoginī alla Grande Madre avvenne in uno stadio molto successivo rispetto alla originale emergenza del concetto delle Yoginī nei Yoginī-Pītha. Come tale appartiene a uno stadio durante il quale la venerazione di queste dee era diventata ‘così inoppugnabile che la tradizione ortodossa ammise la necessità di incorporarne il culto nel suo sistema’.







    Nella seconda tradizione (2), secondo cui Yoginī è usato per determinare dee minori come accompagnatrici della Devī o come sue attendenti, secondo Deheja il concetto molto probabilmente evolve dalla precedente tradizione di Śiva con una schiera di Gana come accompagnatori, questi Gana essendo spesso descritti o raffigurati con corpi umani e teste di vari uccelli e animali. Nel Kāśī-khanda dello Skanda Purāna circa metà delle sessantaquattro Yoginī ha testa di animale o uccello mentre nel (Tantrico) Kaulajnananirnaya, in risposta alla domanda di come le Yoginī vagano in terra, Śiva elenca le forme che assumono, includendo la colomba, l’avvoltoio, il cigno, il gufo, la gru, il pavone, lo sciacallo, il caprone, il bue, il gatto, la tigre, l’elefante, il cavallo, il serpente e la rana. Le Yoginī sono parimenti rappresentate in sculture e dipinti con teste di uccello o animale. Nel Yasastilaka di Somadeva (CE 939), il testo si riferisce a loro come Mahāyoginī che servono la temuta dea Chandamārī (Chāmundā). Quando discendevano al calar della notte, attraversando il cielo a una velocità tale da scarmigliare le ciocche dei loro capelli, il loro avvicinarsi era annunciato dallo scampanellio e dal risonante tintinnio di una miriade di piccole campanelle che decorano i loro Khatvānga:

    I motivi ornamentali sulle loro guance erano dipinti col sangue, lambito dai molti serpenti che adornavano le loro orecchie. Sopra le loro teste decorate con teschi umani si libravano avvoltoi giganti che schermavano i raggi del sole. Scintille sprizzavano dal terzo occhio sulla loro fronte. I volti di queste Yoginī erano veramente terribili da guardare poiché esprimevano arroganza, emettendo un tremendo e terrificante suono phetkara.







    Nel Lalita-Sahasranama del Brahmanda Purāna, ‘Colei che è servita da 64 crore (1 crore = 10 milioni) di Yoginī’ è uno dei mille titoli della Dea mentre il Kālī Tantra descrive Kālī (Syama) come accompagnata da mille Yoginī. Il Mahabhagavata Purāna (59.63) descrive ugualmente le Yoginī come servitrici e funzionarie di Kālī mentre nel Kalika Purana diversi gruppi di Yoginī sono elencati come attendenti di varie forme della Devi. Nell’ultimo testo (61.21-2) è specificato che Mahisamardini deve essere sempre meditata come costantemente racchiusa da otto Śakti (Yoginī); Ugrachanda, Prachanda, Chandogra, Chandanayika, Chanda, Chandavati, Chāmundā e Chandi. Altrove (62.50-2) è detto che le otto belle Yoginī (Ugrachanda, ecc.) devono essere venerate, e anche le sessantaquattro Yoginī, e le dieci miloni di Yoginī, come anche le nove Durga. Più avanti (63.35-116), otto Yoginī sono assegnate a ognuna delle altre sette forme della dea (Vaisnavi, Bhadrakali, Ugrachanda, Raudrani, Ugratara, Kausiki e Kālī/Tara) mentre dodici Yoginī sono assegnate a Śivaduti; ‘queste dodici Yoginī di Śivaduti sono sempre lì, ovunque la dea stessa vada. Così come le Yoginī delle altre (dee) sono sempre loro accompagnatrici.’ Altrove nel Kalika Purāna (67.6-13) ci sono liste di Ksetrapala e Nayaka che devono essere adorate assieme alle Yoginī e Nayika o Mātrkā, suggerendo una relazione tra le Yoginī della Devi con i Bhairava di Śiva mentre nel Isanasiva Gurudeva Paddhati un gruppo di sessantaquattro Kanya sono propiziate come Gananayika.







    Che le Yoginī come accompagnatrici della Devi avevano uno status più elevato e persino più grande rispetto ai Gana di Śiva è evidente dal fatto che avevano braccia multiple, sono accompagnate da attendenti, e sono dotate di cavalcatura (veicolo) come nel caso delle divinità. Nel Agni Purāna (52.1-9), per esempio, dove le Yoginī al servizio della Devi sono divise in otto gruppi che risiedono nelle otto direzioni, è dichiarato che devono essere rappresentate con aventi otto o quattro braccia e possono brandire armi a loro scelta. Sebbene il numero delle Yoginī che servono come attendenti alla Devi varia da testo a testo, a un certo punto il numero venne convenzionalizzato in sessantaquattro, benché i loro nomi, descrizioni e attributi non sembrano essere stati standardizzati. Questo concetto delle Yoginī come divinità attendenti della Devi, secondo Dehejia, ‘sembra sia apparso come significato dell’incorporazione di queste dee nel recinto ortodosso’.

    La terza tradizione (3), che fa derivare le sessantaquattro Yoginī dalle Astamātrkā, è menzionata nel Agni Purana (146.3-21). Di conseguenza, sono divise in gruppi di otto ognuno dei quali descritto come appartenente alla famiglia (Kula) di una o dell’altra delle otto madri, o come nate da una Mātrkā. Ancora, come notato da Dehejia, un tale concetto sembra essere comparso con l’assimilazione delle Yoginī nell’ortodossia. Che divenne una tradizione accettata è evidente in numerosi testi, compreso il commentario al Lalita-Sahasranama di Baskararaya e due racconti dal Khatasaritsagara. Nella prima storia di quest’ultimo testo, Chandrasvamin vide una cerchia di Mātrkā guidato da Narayani. Avevano con loro numerosi doni da offrire a Bhairava, che stavano attendendo impazientemente. Bhairava, signore del gruppo delle Mātrkā, arrivò appena dopo che Narayani aveva spiegato il motivo del suo ritardo. Le Mātrkā offrirono i loro doni a lui che poi iniziò a danzare e a divertirsi con le Yoginī, suggerendo che le Mātrkā comprendevano le Yoginī oppure che il termine Yoginī è usato come sinonimo di Mātrkā. La seconda storia, raccontata da Kandarpa, contiene un episodio in cui una schiera di Yoginī emerse apparentemente da un gruppo di Mātrkā, sebbene nella seconda parte del racconto l’aspetto umano di strega sia enfatizzato, come il volare nell’aria. Numerosi altri testi, parimenti, suggeriscono che i termini Yoginī e Mātrkā erano occasionalmente usati come sinonimi, come nella sezione Arunachalamahatmyan dello Skanda Purāna alle ‘Madri della cerchia delle Yoginī’, o l’Agni Purāna (52.1-13) che, dopo aver citato le sessantaquattro Yoginī, dichiara che Bhairava deve essere adorato al centro delle Mātrkā, mentre nel Kularnava Tantra (8.32), Bhairava è descritto al centro delle Yoginī, circondato dal mandala delle Mātrkā. Nel Kalika Purāna (63.86-8) le Astamātrkā sono elencate come le otto Yoginī di Kausiki. Nel descrivere la venerazione di Durga nel Brahmavaivartta Purāna (2.64.75-90), le Yoginī sono separate ma associate con le Mātrkā, le Navadurga e i Bhairava. Dopo aver venerato la Devi con sedici ingredienti, le otto accompagnatrici (Ugra-Chanda, ecc.) della dea, su un fiore di loto con otto petali, dovrebbero essere venerate, e poi nel centro dovrebbe adorare gli otto Bhairava e nel cuore del loto nove Mātrkā. ‘Poi il saggio dovrebbe venerare le sessantaquattro Yoginī, offrire sacrifici e onorare la dea’.







    Nel Tantrasara, dove le parole Yoginī, Yaksini e Nayika sono usate come sinonimi, ci sono diversi gruppi di Yoginī, solitamente combinate in numero di otto, anche se lo specifico gruppo di sessantaquattro è menzionato una sola volta. L’intera Yoginī-sādhanā di questo testo è citata nel Bhutadamara Tantra.

    Nel Linga Purāna (82.95-7), è riportato che le Yoginī accompagnano le Astamātrkā, sebbene il loro numero specifico non sia menzionato. Nel Padma Purāna (VI.18.110-29) le sessantaquattro Yoginī, comprese le Mātrkā, sono attendenti di Śiva convocate a divorare le carni del demone Jālandhara, decapitato dal dio. Dopo aver concesso loro benefici durante la battaglia, Śiva venne raggiunto da Pārvatī, e nel giubilo disse alle Yoginī: ‘Bevete il sangue sul tronco di Jālandhara’. Udendo queste parole furono molto liete e,

    Dopo aver mangiato la carne, il midollo e bevuto il sangue, le Yoginī danzarono con gioia e, vedendo il loro divertimento, Śiva ne fu compiaciuto. Prendendo la sua forma Bhairava, egli bevve il sangue con loro. Il gruppo di Yoginī aveva zanne affilate e corpi enormi. Persino oggi, in questo momento, stanno afferrando la carne e perciò il demone Jālandhara, ucciso in battaglia, non si rialza.


    Continua...

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    Predefinito Re: Il Culto delle Yoginī

    aspettando la continuazione:

    “L’ATTENZIONE RIVOLTA ALLE DEE YOGINI NEI TESTI PERSIANI E ARABI”

    In Performing Ecstasy: The Poetics and Politics of Religion in India,

    ed. Pallabi Chakrovorty e Scott Kugle (forthcoming).

    a cura di Carl W. Ernst

    Università del Nord Carolina - Chapel Hill



    Quando il viaggiatore Italiano Pietro della Valle si fermò nella città dell’India occidentale di Cambay nel 1624, ebbe l’occasione di visitare un tempio fuori città che era il ritrovo di numerosi Yogi. Rimase affascinato da queste pratiche particolari, da quel momento le cercò ininterrottamente fuori dell’India occidentale e meridionale. Dopo averle descritte dettagliatamente nelle sue memorie, aggiunse una lunga relazione sulle loro pratiche:

    “compiono gli esercizi spirituali e d’apprendimento secondo i loro costumi (li riunii in un libro che tradussi in Persiano e lo intitolai Damerdbigiaska, un repertorio raro). Gli esercizi intellettuali e d’apprendimento consistono nell’arte della divinazione, nei segreti delle erbe e in altre cose naturali, nella magia e negli incantesimi; ad essi si dedicano molto vantandosi di destare gran meraviglia. Io includo qui i loro esercizi spirituali, perché secondo il libro suddetto, pensano che da questi esercizi, preghiere, digiuni e varie superstizioni giungano le Rivelazioni; in realtà, si accordano col Diavolo, che appare e li inganna in forme diverse, preavvertendoli di qualche evento futuro. In verità, talvolta hanno rapporti carnali con lui, non credendo, o almeno non professando, che si tratti del Demonio; pensano che siano degli esseri Immortali, Spirituali, delle Invisibili Donne, il cui numero ammonta fino a quaranta [sic]. Esse sono conosciute e distinguibili in varie forme, nomi e comportamenti, sono venerate come Divinità e adorate in molti luoghi con dei rituali strani… E le Scienze dei Gioghi [Jogi o Yogi] ed i loro esercizi spirituali, specialmente quelli dall’atteggiamento curioso, più superstizioso che comune, di predire con la pratica respiratoria, hanno permesso di compiere moltissime e sottili osservazioni, dalle quali ho tratto delle prove autentiche, e anche più di esse, che riporto nel Libro citato sopra, il quale sarà una rarità in Italia, e, se converrà, un giorno soddisferò il curioso facendone una traduzione.”[1]

    La relazione di “della Valle” riguardante i testi Persiani di Yoga e contenente le tecniche respiratorie per invocare le divinità femminili e per la divinazione, è di una curiosità impressionante. Quale tradizione Yogica Indiana incarnerebbe questo libro? In quali circostanze scrisse in Persiano questi libri di Yoga tecnico che includono le invocazioni rivolte agli spiriti femminili? Come potrebbe un traduttore preparare il lettore Persiano a questo tipo di soggetto? Quale disciplina Islamica avrebbe potuto meglio presentare lo Yoga e le Divinità femminili?

    “Della Valle” fu fluente in Turco, Arabo e Persiano; cosicché il suo piano di tradurre il lavoro dal Persiano all’Italiano avrebbe prodotto il primo studio europeo di un'interpretazione di Yoga Islamico. È straordinario che, nonostante la sua critica teologica agli Yogi, si rese conto che la divinazione e le pratiche respiratorie da loro eseguite fossero efficaci. Sotto quest’aspetto, la sua ambivalenza rivaleggia con quella di molti studenti Musulmani di Yoga. Sfortunatamente “della Valle” sembra non avere adempiuto a questo progetto di traduzione, perché si limitò solamente ad una breve corrispondenza della sua raccolta di manoscritti Orientali con altri studiosi Europei.[2] Il testo Persiano appena descritto fu tra i codici che portò in Italia; l'elenco dei suoi manoscritti orientali fu gentilmente donato al Vaticano nel 1718 dal successore di “della Valle”, Rinaldo de Bufalo, che descrisse questo testo come “un libro magico, tradotto dall’Indiano al Persiano.”[3] Questo lavoro è ancora conservato nella biblioteca del Vaticano.[4]

    Qual è l’origine del testo di “della Valle”? Il titolo che gli dette, sembra completamente alterato.[5] Ciononostante, è possibile ricostruire il titolo di questo manoscritto, facendo il paragone tra le sei occorrenze del titolo con la descrizione di un’altra copia conservata ad Islamabad: il titolo originale deve esser stato Kamru bijaksa, o “Il seme delle sillabe di Kamarupa”.[6] Ciò che sorprende è che la copia di “della Valle” sembra copiata per uso personale nel giugno del 1622, due anni prima del suo arrivo in India. Questa copia fu trascritta nella città di Lar, centro abitato esteso della Persia meridionale, in cui “della Valle” soggiornò per alcuni mesi intavolando dei dibattiti scientifici e teologici con gli studiosi Sciiti Persiani.[7] In altre parole, questo trattato Persiano di respirazione Yogica e di tecniche divinatorie, circolava liberamente nei circoli intellettuali dell’Iran. Della Valle ne apprese qui l’esistenza, e ne acquistò una copia per sé. Si preparò così all’incontro con gli Yogi già prima del suo arrivo in India.

    In base a queste conoscenze, è più che allettante collegare questo trattato al testo Yogico largamente conosciuto nei circoli Islamici col titolo di Amritakunda o “La Vasca del Nettare”, un testo di Hatha Yoga, il cui manoscritto originale in Sanscrito è andato perduto, ma che fu tradotto due volte in Persiano, in Turco Ottomano e in Urdu da una versione Araba.[8] “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” circolava apertamente in Iran prima della traduzione della “Vasca del Nettare”; infatti, quest’ultima è citata nell’enciclopedia Persiana del quattordicesimo secolo (il Nafa'is al-funun di Amuli).[9] Le pratiche descritte nel libro di “della Valle”, in particolar modo la divinazione effettuata col controllo del respiro come pure le quaranta e rotte divinità femminili (un impreciso ricordo delle sessantaquattro Yogini), coincidono significativamente al contenuto dei capitoli II e IX della “Vasca del Nettare”. Un esame del manoscritto Persiano di "della Valle" sorregge alcune di queste supposizioni. Il testo contiene una descrizione delle sessantaquattro maghe (e non le quaranta rievocate nelle sue memorie) corrispondenti al culto delle sessantaquattro Yogini; la loro guida è chiamata Kamak Dev, in lei riconosciamo Kamakhya (in Sanscrito Kamaksa) Devi, la feroce dea Tantrica dell’Assam, citata da Muhammad Ghawth Gwaliyari come fonte d’insegnamenti tantrici nella sua traduzione Persiana della “Vasca del Nettare”. Altre somiglianze includono frequenti riferimenti all'acqua della vita (8b, 18b, 19a, 20b, 23a, 28a), ai rituali dell’oblazione (homa) e alla recitazione dei mantra (japa) (37b, 38a, 41b), all’uso dei mandala (38a, 40b), alla visualizzazione dei diagrammi associati ai cakra, al respiro soli-lunare (10b), alle cinque respirazioni per ogni elemento (11a) e all’invocazione delle Yogini, alcune delle quali hanno dei nomi uguali a quelli trovati nella “Vasca del Nettare”. La principale differenza è che “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” fornisce un numero d’esempi almeno dieci volte superiore, divenendo simile ad un gran ricettario per occultisti.

    Un collegamento esplicito con “La Vasca del Nettare” è suggerito da una parziale, anche se non titolata versione del “Seme delle sillabe di Kamarupa”, trovata in un singolo manoscritto.[10] Questa copia contiene soltanto del materiale sulla divinazione compiuta col respiro e corrisponde al II capitolo del testo Arabo della “Vasca del Nettare”; inoltre, è quasi conforme ad una sezione del manoscritto di “della Valle” (11a-14a). Differisce per essere ulteriormente suddivisa in sei sezioni: 1) incantesimi, 2) domande e risposte, 3) risultati delle buone predizioni, 4) segni della morte, 5) amore ed odio 6) respiro e posture. La prima linea del manoscritto comincia con la seguente frase: “Questa è una copia della versione Indiana (hindawi) del “Bahr-ul-Hayat“ (L’Oceano della Vita) e fu presentata in Persiano. Nella lingua Indiana la chiamano Ahrat [cioè, l’Amritakunda).” Questo commento suggerisce che il curatore di questa versione riconobbe “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” rigorosamente connesso all’Oceano della Vita, essendo il titolo della traduzione Persiana della “La Vasca del Nettare” di Muhammad Ghawth. Mentre è indubbia la solidità storica sulla relazione esistente tra le differenti traduzioni Persiane, “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” è una probabile descrizione d’alcune tradizioni divinatorie e Yogiche trovate nella “Vasca del Nettare”, ma presentate qui in maniera molto elaborata.

    In ogni modo, non conosciamo l'origine del “Seme delle sillabe di Kamarupa”. Il titolo suggerisce un epicentro delle sillabe seme, le unità fondamentali del mantra, le quali giocano un ruolo così importante nelle tradizioni Yogiche e Tantriche. L'allusione a Kamarupa, nel titolo, rafforza il suo collegamento con l'origine mitica della conoscenza esoterica, associata alla regione dell’Assam. L’autore fornisce delle minime informazioni sul testo, tranne un ritornello costante della sua smisurata importanza.

    Così dichiara il traduttore del libro: “In India vidi molti trattati completi su ogni scienza. La maggior parte dei loro libri sono in versi. Memorizzano meglio i versi perché la loro natura vi è più incline. Trovai un libro intitolato “Kamrubijaksa” (Il Seme delle sillabe di Kamarupa). È uno dei loro libri preferiti. Hanno una gran fede in esso e contiene due tipi di scienza. Una è la scienza dell'immaginazione magica (wahm) e della disciplina (riyadat). Non hanno alcuna scienza più grande e più potente di questa. Stando a questa scienza, affermano cose che l’intelletto non accetta; ma loro credono in essa, e fra di loro è abituale. Per ognuna di queste cose allegano e mostrano migliaia di prove e dimostrazioni. Circa questa scienza, si è dato un sommario, affermano.

    L’altra scienza è chiamata s[v]aroda [vale a dire, divinazione]. I loro saggi studiosi osservano il respiro: se la respirazione è rilassata, compiono delle osservazioni; ma se il respiro è faticoso, lo evitano strenuamente.

    Hanno raggiunto la perfezione in questo dominio. La gente comune in India non sa niente di ciò, ma non è privata di questo segreto, né ne sa qualcosa di particolare. Chiamano questa scienza della [lettura] del pensiero (in Arabo damir)» (fols. 2a-2b)..

    Al pari della versione Araba della “Vasca del Nettare”, siamo qui confrontati con un libro potente che è dichiarato essere della più alta autorità in India, sebbene sia segreto e conosciuto da pochi. Il traduttore Persiano ritorna frequentemente sui due temi principali che conferiscono all’opera la sua autorità scritturale ed un carattere esoterico ed ignoto.

    In un passo scrive:

    “Questo libro è conosciuto in tutta l'India e fra gli Indù nessun libro è più nobile di questo. Chiunque impara questo libro e ne conosce l’interpretazione, è considerato un grande studioso ed un uomo saggio. Chiunque sia occupato con la teoria e la pratica di questo libro viene servito, è chiamato Yogi ed è rispettato grandemente. È servito proprio come noi rispettiamo i Santi, i maestri e gli educatori” (15b).

    Il traduttore parla d’informazioni raccolte da informatori bramini riguardanti sia la pratica del più “grande nome” di Dio (40b), sia l’invocazione della dea Lakshmi per le relazioni sessuali (43b). Inoltre, testimonia d’aver sperimentato queste tecniche con successo. In molte occasioni il traduttore cita un altro testo simile che era in circolazione all’epoca, denominato “I trentadue versi di Kamak Dev”: si tratterebbe di una composizione poetica in distici rimati Hindi Doha (Doha è un genere di poesia della lingua Hindi e Urdu), i cui versi sono trascritti in caratteri Persiani (26b, 27a, 29a). [11]

    Il traduttore sottolinea la sua difficoltà di traduzione: “Lo tradussi dalla lingua Indiana al Persiano faticosamente. Poi lo consegnai ad un gruppo di bramini e di studiosi che lo confrontarono, lo corressero e lo spiegarono. (16a).” Nonostante l’avvertimento del collegio dei saggi sull’uso della terminologia letteraria Araba, in altre occasioni il traduttore confessa che il materiale di cui si occupa è più che oscuro. Dopo aver traslitterato un lungo passaggio di lingua Hindi in caratteri Arabi dichiara: “Presentai questi versi ad un gruppo di studiosi Indiani, bramini e Yogi, ma non seppero spiegarlo, né comprendere le sue parole strane e difficili” (27a). Perciò, non è chiaro se si tratti di un singolo testo o di una selezione di versi proveniente da una fonte orale trascritta.

    La struttura del libro non è per niente chiara. La prima parte del libro è divisa in quattro sezioni: il modo di porre le domande (4a), la lettura del pensiero (5b), l’individuazione dei segni della morte (6b), l’amore e l’odio (8b). Poi, viene un’intestazione a grandi lettere che sembra essere una divisione maggiore o un’iterazione: "Il Libro dell'Immaginazione Magica, dalle Scritture dei Saggi dell'India" (14b). Solo due altre sezioni seguono: una tratta il respiro e l'immaginazione magica (16a), l’altra si occupa del culto della Yogini (30b) occupando quasi l'ultima metà del libro.

    Come si relaziona questo testo ai temi Islamici? “La Vasca del Nettare” postula che i famosi Yogi Indiani corrispondano ad Elia (ﻉ), Giona (ﻉ) e Khidr (ﻉ). “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” che è in antitesi soltanto ai mantra Hindi trasmessi da questi tre Profeti Musulmani, ne aggiunge un altro proveniente da Abramo (ﻉ). Questo testo, in ogni caso, fornisce una nuova equipollenza: il seme mantra Sanscrito hrim (scritto in caratteri Arabi rhin) è adesso identificato all’attributo Divino Arabo rahim, "il misericordioso." Ram e Rahim, costituisce una variante esoterica interessante nel comune gioco di parole sui nomi di Dio tra gli Indù ed i Musulmani. Gli esseri spirituali minori chiamati in Hindi "la dodicesima parte del diametro della luna" (indu-rekha), sono resi in Persiano col termine di angelo (firishta) (53b). Il testo mostra che lo Yoga era praticato disinvoltamente e abitualmente nella società Islamica. Pronosticando col respiro, per esempio, si apprende che un individuo dovrebbe avvicinarsi “al Qadi [Giudice islamico] o all’Amir [termine Arabo per Sovrano]” solamente per un giudizio o per un processo quando il respiro della narice destra è favorevole. Rapporti informali riferiscono di maghi Musulmani che compiono riti magici in un cimitero Musulmano o Indù (47b), in una Moschea o in un Tempio spopolato (49b), e occasionalmente recitano un versetto del Corano, specialmente il versetto del Trono (Ayatu-l-Kursi) (Corano, 2: 255), normalmente dopo la preghiera del tramonto. È riferito che un Musulmano del Broach (un distretto situato nella parte meridionale dello stato Indiano del Gujarat), invocò con successo la partecipazione di una dea Yogini (una delle otto dee femmina create per prestare assistenza alla dea Durga) ai riti insieme ai suoi devoti (talvolta le Yogini sono forme-figure di questa divinità capace di subire decine di milioni di trasformazioni) (37a). L’invocazione alla dea è inserita complessivamente in una cornice Islamica. L’invocazione è rivolta ad Allah e l’encomio al suo Profeta (ﺺ):

    “Preghiamo e adoriamo che Allah arrechi migliaia di arti e di meraviglie dalla segretezza dell’inesistenza al cortile dell’esistenza, Egli adornò la corte sublime di corpi luminosi, Egli fece le dimore degli Esseri spirituali, Egli dispose la manifestazione del mondo sublunare con una varietà di piante e minerali, Egli fece la residenza ed il soggiorno degli animali, Egli scelse fra tutti gli animali l’umanità, creandola nella migliore forma al grido: “Invero creammo l'uomo nella forma migliore” (Corano, 95: 4), “Sia benedetto Allah, il Migliore dei creatori!” (Corano, 23: 14). Molte benedizioni e saluti innumerevoli siano sulla Guida [cioè, il Profeta Muhammad (ﺺ)] pura e santa del mondo, il migliore tra i figli di Adamo, le benedizioni e la pace di Dio siano su di Lui e su tutti Loro.”

    Alla fine è citato un hadith del Profeta (ﺺ) ed alcune allusioni mistiche forniscono il quadro religioso adatto per le pratiche magiche (55a). Queste pratiche rimangono sostanzialmente ambigue, comunque. "Se qualcuno a cui viene aperta questa porta ne farà richiesta, diverrà un Profeta; se è un buono, diverrà un santo, e se è un cattivo, diverrà un mago" (55a). In pratica, si può affermare che per il lettore medio Persiano, “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” rientra nella categoria delle scienze occulte, e la sua origine Indiana serve solamente a migliorarne il fascino esoterico. Il testo impiega termini Arabi classici sia per l’astrologia magica (tanjim), sia per la convocazione degli spiriti (ihdar) (30b, 37b) e per il soggiogamento (taskhir) dei demoni, delle fate e dei maghi.[12] Islamizzato, il testo diventa familiare al Musulmano anche quando sono utilizzate delle tecniche per invocare gli spiriti delle dee Yogini dell’India. I canti liturgici o i Mantra degli Yogi funzionano come incantesimi, “afsun”, un termine Iraniano dal significato magico. Sono riconoscibili anche delle tecniche magiche che usano un’unghia ottenuta da un osso (51a) impiegato atrocemente da una bambola del tipo vudù (51b). Un altro metodo, utilizza un pettine ottenuto dalla mano destra di un cane arrabbiato ucciso con un ferro all’interno di un’area adibita alla cremazione (48b-49a).

    Il ritratto religioso ed il tipo di saggezza Indiana che affiora dalle pagine di questo manoscritto è davvero stravagante. Si appoggia innanzi tutto all’autorità di Kamakhya, una leggendaria dea dell’Assam (Kamarupa) descritta più dettagliatamente qui di seguito:

    “Kamak è una donna immateriale e longeva appartenente alla categoria degli esseri spirituali che gli Indù chiamano dev. Questa Kamak Dev si trova nella città di Kamru, in una grotta nel mezzo delle montagne. I suoi seguaci penetrano in questa caverna ed alcuni di loro la vedono. Ogni giorno le portano del cibo in abbondanza dalla città che ripongono dinanzi all’ingresso della grotta prima di ritornarsene indietro. Quando si recano in un'altra occasione, non la vedono [la rimanenza]. È detto che i servitori di Kamak non l’abbiano raccolta, e questo è vero. Ho visto molte persone che sono andate in quel luogo, e li sentii confermare questo fatto. La spiegazione data è più che sufficiente, cosicché questa scienza non sarà ritenuta indegna e vista con disprezzo, perché si tratta di una grande scienza. Adesso io, giacché esperto, mi impegno a chiarirla e a spiegarla interamente.” (10a)

    Altrove, descrive che questa grotta sia accessibile solo ai maghi delineandone le dimensioni farsang (parasanga) per farsang: " Quando qualcuno entra in quella caverna, si dirige nell’oscurità fino alla sua fine. Vede delle lampade ed un luogo pulito, fragrante, bello.” (15a) Kamru è descritta come una terra lontana, "si troverebbe su di un’isola al termine dell’India e nel mezzo del Mare Cinese, " essa è la fonte di molte attività esotiche e sensazionali. È detto che la grotta di Kamakhya abbia vicino una roccia da cui sgorghi un fluido bianco (34b-35a).[13] Kamakhya stessa è citata come una fonte per l’apprendimento dei dettagli della pratica Yogica. Il punto essenziale della sua narrazione è di prendere contatto con le sessantaquattro Yogini.

    L'adorazione delle divinità femminili note come Yogini sembra aver raggiunto il suo apice in India tra il 9no e il 12mo secolo, ma continuò diffusamente fino al 18mo secolo. [14] Vidya Dehejia ha descritto a lungo il ritrovamento di un tempio all’aperto in cui queste divinità erano onorate. [15] “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” descrive le Yogini come la chiave per la conoscenza di tutte le cose. All’inizio della sezione sul respiro, è narrato che le sessantaquattro donne proferiscono:

    “Per ordine di Dio, il Grande ed il Maestoso, che un giorno ci concesse questa scienza, noi non parleremo di questa scienza. Per Dio, il cui comando si estende ai 18.000 mondi, questo è un giuramento, questa è la scienza dell'immaginazione magica, qualunque cosa avvenga sulla terra e nel cielo è posseduta dai figli di Adamo. Noi riveliamo ogni cosa, tutto quello che accade nel mondo è conosciuto e reso manifesto colla scienza dell'immaginazione.” (16a)

    Ed ancora raccontano,

    “Per ordine di Dio l’Altissimo, grazie all’insegnamento imperioso che ci hanno dato, tra la Luna ed il Sole si può sapere qualunque cosa accada nel mondo. Noi insegniamo una scienza che ci permette di sapere chi viene, da dove viene e che cosa vuole. Inoltre, questa scienza allunga la vita e rende l’uomo quasi immortale.” (17a)

    Il potere delle Yogini rende il veleno innocuo, cura l'ammalato, rimuove il desiderio e permette di controllare tutte le persone e le cose del mondo. Questi “Esseri spirituali” (in Persiano ruhaniyan) sono invulnerabili alla spada e al fuoco, i loro capelli e le loro unghie non possono essere tagliati, parlano a distanza e si spostano in un istante (23b). Ognuna delle 64 Yogini ha un posto particolare in India. Esse si recano in luoghi divertenti a festeggiare, vestite d’oro e gioielli. Indossano corone e ghirlande. Sono riverite dai Deva. Non morirebbero anche se diventassero anziane, e si ammaleranno solo prima del Giorno del giudizio. Hanno l’aspetto di una ventenne (30b-31a). Questi esseri sono i più adorati nell’Induismo ed i devoti gli dedicano degli idoli. “Proprio come noi rispettiamo i Profeti (ﻉ) e i Santi; così gli Indù hanno riposto la fede in loro” (31a). Molti dei loro nomi sono noti, anche se la scrittura Persiana lascia molte ambiguità: Tutla, Karkala, Tara, Chalab, Kamak, Kalika, Diba, Darbu (31b), Antarakati (44b, 46b), Chitraki (56a), Ganga Mati (45a), Sri Manohar (45a), Katiri (30a), Parvati (49b), Suramati (44b), Susandari (44b), Talu (30a). Vidya Dehejia ha indicato che le due liste di nomi delle Yogini sono le stesse. La cosa essenziale è il numero canonico delle Yogini raggruppate in gruppi di 7, 8, 9, o 64.[16] Qualche volta gli adepti possono avere delle relazioni sessuali con le Yogini (39a), ma in altri momenti le considerano come delle sorelle e delle madri (46b). “Lei è la Yogini e tu sei lo Yogi” (48a). I benefici derivanti dalla loro compagnia includono denaro (44b) e cibo (48b).

    Il testo descrive chiaramente le pratiche religiose Indiane relative al tempio della dea Kamakhya (stato dell’Assam) e delle Yogini in modo originale. I bramini sono citati nel “Seme delle sillabe di Kamarupa” e nella sua interpretazione, ma solo come fonte occasionale d’informazioni. Si tratta di un modello testuale circoscritto, ma su cosa si basa? Nei termini delle categorie che sono oggi disponibili, potremmo probabilmente affermare che questo testo riflette le pratiche cultuali del tempio delle Yogini associate al tantrismo Kaula. [17] Abbiamo anche qualche connessione con i Nath o i Kanphata Yogi; infatti, Matsyendranath è solitamente considerato l’introduttore del culto delle Yogini tra i Kaula, e il nome di Gorakhnath è invocato una volta (51a) nel testo.[18] Di là dalle indicazioni generali, noi troviamo molti passaggi che lo collegano alla tradizione Indù casualmente. Questo testo assume un sistema di nove cakra, contrariamente ai sette cakra comuni alla maggior parte delle scritture Yoga dei Nath (19b, 20a, 25a).[19] Degli esercizi di concentrazione e di meditazione sono dati per elevare la Shakti dall’ombelico lungo la colonna spinale (17b, 18a, 28a). Si trova anche un elenco sui poteri supernormali (Siddhi) (54a).[20] Mantra occasionali contengono la frase “Krishna avatar” (48b, 53a). Una parte tratta del tempio di Mahakala situato ad Ujjain (antica città della regione del Madhya Pradesh e sede del festival religioso Indù del Kumbh Mela) in cui vivono numerosi Siddha o maghi (24b, 37a). La storia del tempio di Mahadev dove il Signore Shiva bevve il veleno che emerse durante il frullamento dell’oceano di latte permettendo la produzione del nettare dell’immortalità, è narrata lungamente (31b-32b).

    Mentre lunghi resoconti sono forniti sul tempio della dea Kamakhya, nulla è detto sui sacrifici animali compiuti in quel luogo oggi. L’insegnamento fondamentale del “Seme delle sillabe di Kamarupa”, si basa sull’utilizzo del respiro per divinare e per convocare le Yogini al fine di ottenere i doni richiesti; la meditazione dell’Hatha Yoga è sicuramente collegata a queste pratiche.

    Dal punto di vista dello studio Yogico, uno degli aspetti più sorprendenti del testo, è la presenza di numerose ed evidenti rappresentazioni alfabetiche Sanscrite, disegnate certamente da un copista Persiano estraneo a questi caratteri. Alcune di queste parole e frasi somigliano a delle annotazioni irrilevanti incorporate nel testo principale, e per difetto assomigliano nello stile ai numerali Arabi. Altre lettere Sanscrite sono disegnate e visualizzate accuratamente in un formato grande.

    Le istruzioni per la visualizzazione sono le seguenti:

    “Si prende questa lettera e nel mezzo si traccia un altro carattere alfabetico, che richiama la Shakti dall’ombelico tramite l’immaginazione magica tirandola su, in modo tale che questo carattere alfabetico e la prima lettera siano nello stesso posto.* Immaginale nel centro della testa e fissale col cuore.” (16b)

    La copiatura dei caratteri Indiani è qui in contrasto con la tradizione della “Vasca del Nettare”, in cui i mantra Sanscriti sono solamente traslitterati (con vari gradi di successo) in caratteri Arabi.

    “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” è certamente ricco di terminologia Indiana, ma un vocabolo in particolare presenta un punto interrogativo. Si tratta del termine Arabo-Persiano wahm, solitamente espresso dal vocabolo “immaginazione, ” ma che io traduco qui in “immaginazione magica”. Questo nome ha un significato altrettanto cruciale nella “Vasca del Nettare”, dove "l’immaginazione magica" forma l’argomento principale del capitolo VII. In quest’ultimo testo, diviene un termine generico per i poteri mentali e magici. “È chiamato in vari modi: credenza, certezza, opinione, immaginazione magica, pensiero, fantasia e fantastico… Una preghiera esaudita, l’influenza al fascino dei talismani, i talismani, i nomi [divini], l’incantesimo, la predizione e la santità, sono tutti [attivati] dall’immaginazione magica che è il lavoro del cuore” (VII.1). Il discorso Islamico ordinario assegna a wahm il significato peggiorativo di "illusione" o "pregiudizio." Wahm ha anche altri significati tecnici nella filosofia Aristotelica: “Facoltà estimativa” (Lat. aestimatio, Gk. sunesis, phronesis) e “immaginazione compositiva” (Gk. phantasia logistike). Ma wahm nel senso di “immaginazione magica” presuppone una corrispondenza con alcuni termini Indiani non dichiarati come bhavana, dharana, o kalpana. Nel “Seme delle sillabe di Kamarupa” è definita “la conoscenza dei respiri” (16a), e nell'introduzione del traduttore, l'immaginazione magica si collega al vocabolo “disciplina” (riyadat), che è la traduzione Araba-Persiana per eccellenza di Yoga.

    Si tratta della spiegazione religiosa più prolissa del “Seme delle sillabe di Kamarupa” che rimane tuttavia ambigua. La presenza delle dee Indù in un testo circolante nei circoli Musulmani complica la faccenda. La storia teologica Islamica ha dimostrato che le pratiche spirituali coinvolgenti le dee hanno sempre attirato l’anatema su quei Sufi la cui fedeltà all’Islam era divenuta dubbia. Nel famoso incidente del cosiddetto romanzo “I versetti Satanici”, Salman Rushdie riferisce che il Profeta Muhammad (ﺺ ) avrebbe permesso l’invocazione delle tre dee del paganesimo Meccano citate nel Corano, anche se questo riferimento fu in seguito espunto. Nonostante la veridicità della relazione, è chiaro che le molteplici divinità non sono tollerabili nella teologia Islamica tradizionale. Eppure il sofisticato Neoplatonismo dei Musulmani Illuminativisti in Iran (paragonabile al Platonismo Cristiano di Marsilio Ficino durante il Rinascimento Italiano) permise la traduzione e l’assimilazione di temi “pagani”, divinità, e pratiche, senza che si percepisse il senso di una diversità sostanziale. [21] Un simile procedimento di traduzione accadde pure tra i Musulmani Indiani, ma con considerazioni pratiche più elevate. La conoscenza della divinazione e l’accesso agli spiriti femminili chiamati jogini (Yogini), furono considerati utili dai sovrani Musulmani durante le spedizioni militari in Gujarat alla fine del sedicesimo secolo.[22] Infatti, i governanti Musulmani s’interessarono allo Yoga e alla divinazione più d’ogni altro settore della società, e sotto quest’aspetto la cultura degli spiriti femminili ebbe un posto di rilievo accanto all’astrologia e alle altre arti occulte dimostrandosi utile sulla scena politica e militare.[23]

    È molto difficile separare la pratica religiosa dalla magia. Il traduttore del “Seme delle sillabe di Kamarupa” attinse liberamente dai vocabolari Islamici connessi al magico; per lui non c’era una chiara distinzione tra lo status di mago e di santo. È ugualmente difficile separare nel testo gli elementi Indù da quelli Musulmani. Sotto quest’aspetto è possibile confrontarlo con un testo Devanagari sui presagi discusso da Simon Digby; secondo quest’ultimo, l’opera circolava nei circoli Musulmani dell’India occidentale e proveniva da un originale Persiano a sua volta tratto da un precedente testo Jain sui presagi. Il carattere divinatorio del testo, Digby lo mette in relazione ad "un ambiente ingrato, in cui l’uomo fu tormentato da problemi culturali, dal desiderio di progresso, dalle società d’affari, dagli inganni e dalle astuzie dei rivali, dalle cause legali, dagli esiti dei viaggi, dalla riuscita del matrimonio e dal successo dei figli dalla nascita all’età adulta."[24] “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” ha un’ascendenza ugualmente complicata, ma c'è una certa sovrapposizione in termini di preoccupazioni che esso applica. Il traduttore del testo ha certamente una lunga esperienza di quest’insieme di pratiche che considerò di gran beneficio pratico. Le divinazioni effettuate col respiro sono proprio concise e poco poetiche come le predizioni dei testi di Digby; per esempio, " Se qualcuno viene e dice, “Vado a combattere, ” o “Sto per fare un viaggio, ” se il suo respiro passa dalla [narice] sinistra, permettetegli di andare, è buono " (4a). Queste domande sono in diretta connessione con la salute, la morte, la guerra, lo stato sociale e le incertezze perenni della vita. Il testo fornisce metodi pratici atti ad influenzare la gente e gli eventi, specialmente nelle prime sezioni del lavoro. I metodi di concentrazione e di visualizzazione hanno cura particolarmente nella seconda metà del testo di superare la magia astratta collegandola alle tradizioni esoteriche elevate che si relazionano al culto delle Yogini e all’Hatha Yoga. Sotto quest’aspetto, può essere confrontato coi numerosi manuali di preghiere Arabe compilati dai maestri Sufi, e circolanti tra i loro discepoli dal 17mo al 18mo secolo in India, i quali contenevano un miscuglio simile d’obiettivi, dal lenimento delle malattie al conseguimento di stati spirituali avanzati. In entrambi i testi Yogici, e nei lavori Sufi, la ripetizione mantrica di certe formule per uno specifico numero di volte si relaziona alla realizzazione del risultato. Varrebbe la pena di tradurre qualche manuale, rivelare le pratiche e gli obiettivi personali con opportuni esempi. In alcuni casi, l’eccessivo numero di ripetizioni del professionista, indica che una persona deve impegnarsi seriamente e lungamente per essere in grado di eseguire questi esercizi. Qualcuno suggerisce che queste pratiche meditative erano utilizzate proprio come oggi usiamo i computer e la rete Internet.

    Il traduttore del “Seme delle sillabe di Kamarupa” conclude questa presentazione proclamando ripetutamente e solennemente la suprema autorità del testo ed il suo riserbo. Ritenne che il contenuto del testo non contravvenisse in alcun modo le convenzioni Islamiche religiose che permeano la letteratura Persiana. Possiamo supporre che il presente testo non creò nessun problema di natura dottrinale agli studiosi Sciiti della Persia meridionale. Infatti, furono proprio loro a trascrivere “Il Seme delle sillabe di Kamarupa” per il loro interlocutore Cristiano, Pietro della Valle. Un testo del genere si sottrae alle categorie tipiche della teologia Islamica, forse perché il concetto religioso che lo sostiene è pratico, e non riguarda la purezza dottrinale. Il traduttore osservò costantemente il parallelismo tra la funzione di "esseri spirituali" incarnata dalle Yogini da un lato, e dai santi Sufi dall’altro lato. La prefazione indica che una più vasta teologia naturale assegna alla scienza dello Yoga e "dell’immaginazione magica", lo status di rivelazione speciale fatta da Dio alle Yogini, perché "qualunque cosa esista in terra e in cielo è di dominio dei figli d’Adamo."



    --------------------------------------------------------------------------------

    [1]The Travels of Pietro della Valle in India, dalla Vecchia Traduzione inglese del 1664 di G. Havers, ed. Edward Grey (London: Hakluyt Society, 1892), I, 106-8.

    [2]C. Micocci, "Della Valle, Pietro," Dizionario Biografico degli Italiani (Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, 1989), vol. 39, pp. 764-68.

    [3]Ignazio Ciampi, Della vita e delle opere de Pietro Della Valle il pellegrino (Roma: Tipografia Berbèra, 1880), p. 181, no. 52.

    [4]Ettore Rossi, Elenco dei manoscritti persiani della biblioteca Vaticana, Studi e Testi, 136 (Città del Vaticano: Biblioteca Apostolica Vaticana, 1948), pp. 47-49.

    [5]Il titolo Damerdbigiaska dato nel suddetto passaggio è altrove traslitterato come Kamardinjaska. L’edizione Italiana di “della Valle” è intitolata diversamente Kamerdbigiaska, “poiché la copia Persiana non cura le consonanti o le vocali” (ibid., I, 108, n. 2). Gli sforzi coraggiosi di Lach e di van Kley di vedere nel testo di "della Valle" un trattato Jain (Damerdbigiaska sarebbe una corruzione di Digambara) non convincono, sebbene riconoscano a “della Valle” questo riferimento; vedere Donald F. Lach e Edwin J. van Kley, Asia in the Making of Europe, vol. III, A Century of Advance (Chicago: University of Chicago Press, 1993), p. 658.

    [6]Kamak Dev, Kamar deni maka [sic], MS 1957-1060/18-1, National Museum, Islamabad, contenente sei capitoli è citato da Munzawi, IV, 2178, titolo no. 3944, MS no. 11777. Io devo la ricostruzione del termine bijaksa a David White dell’Università di California “Santa Barbara”. La somiglianza tra le lettere K, D e U in una precipitosa e scarabocchiata scrittura Persiana aiuta a spiegare la confusione, insieme a tipiche metatesi di S e K (bijaska al posto di bijaksa) nella rappresentazione delle parole Hindi nella scrittura Persiana.

    [7]Vedere Rossi, pp. 33-38, 44, 67-68, per i testi Persiani di “della Valle” sulle dispute astronomiche e religiose. Questi includono (pag. 35-36) la traduzione Persiana fatta da "della Valle" di un’opera Latina sulle teorie astronomiche di Tycho Brahe che compose in Goa nel 1624.

    [8]Vedere i miei articoli "The Islamization of Yoga in the Amrtakunda Translations," Journal of the Royal Asiatic Society, Series 3, 13:2 (2003), pp. 199-226; and “Situating Sufism and Yoga,” Journal of the Royal Asiatic Society, Series 3, 15:1 (2005), pp. 15-43.

    [9] I riferimenti sono forniti da Ernst, "Islamization."

    [10]India Office, Ashburner 258, fols. 7a-10b. Vedere E. Denison Ross e Edward G. Browne, Catalogue of Two Collections of Persian and Arabic Manuscripts Preserved in the India Office Library (London: Eyre and Spottiswode), 1902), p. 157.

    [11]In un punto (26a) il traduttore afferma, “Sappi che i trentadue versi nella lingua Indiana sono stati trasmessi dai detti di Kamak. Ebbene, Kamak ne scelse alcuni di quelli e ne aggiunse altri ad essi, e questo poema è detto Kamak baray tajanka (?).”Altrove aggiunge, “Questo è un commentario sui trentadue versi di cui alcuni sono scritti nella lingua Indiana. In esso sono citate molte pratiche, vi sono scienze sconosciute e meravigliose che tutti i professionisti dell’immaginazione magica (wahm) ed i maghi approvano e sono soddisfatti” (29a). Una volta (15b) disse, “A dire il vero composero questo libro in 85 versi, e lo poetarono nella lingua Indiana.”

    [12] Prima del 12mo secolo, i termini yogin e yogini designavano in primo luogo i maghi, secondo David Gordon White, Kiss of the Yogini: "Tantric Sex" in Its South Asian Contexts (Chicago: The University of Chicago Press, 2003) and, p. 221.

    [13] Attualmente, il santuario di Kamakhya nell’Assam si caratterizza per un flusso d’arsenico rosso che nel pensiero tantrico corrisponde al mestruo della dea; vedere David Gordon White, The Alchemical Body: Siddha Traditions in Medieval India (Chicago: The University Of Chicago Press, 1996) pp. 195-6.

    [14] White, Kiss, p. 8.

    [15]Vidya Dehejia, Yogini Cult and Temples: A Tantric Tradition (New Delhi: National Museum, 1986).

    [16] White, Kiss, p. 60.

    [17]Dehejia, pp. 30, 36; White, Kiss, p. 22.

    [18]Dehejia, pp. 74-75.

    [19] Mette in risalto che non esiste un sistema unico ed universale di cakra; vedere White, Kiss, p. 222.

    [20]Vedere Eliade, Yoga, p. 88, n.

    [21]Lo studioso Persiano Mulla Zayn al-Din di Lar da cui Pietro della Valle ottenne il manoscritto il “Seme delle sillabe di Kamarupa” nel 1622, apparteneva ad una setta che riteneva il sole, la luna e le stelle delle intelligenze, e le venerava come angeli di un ordine superiore in grado di intercedere presso Dio e di chiedere la sua protezione" (J. D. Gurney, "Pietro della Valle: The Limits of Perception," BSOAS XLIX [1986], p. 113).

    [22] al-Ulughkhani, Zafar ul Walih, traduz. Lokhandwala, I33 (testo Arabo, p. 417), e I77 (testo Arabo, p. 470), narra di un Musulmano del Deccan di nome Hasan, che fu uno specialista in queste arti.

    [23] Vedere mio articolo, "“Accounts of Yogis in Arabic and Persian Historical and Travel Texts,” forthcoming in Jerusalem Studies in Arabic and Islam, vol. 32, Yohanon Friedmann Festschrift Volume (2007).

    [24]Simon Digby, "Illustrated Muslim books of omens from Gujarat or Rajasthan," in Indian Art and Connoisseurship: Essays in Honour of Douglas Barrett, ed. John Guy (Middleton NJ: Indira Gandhi National Centre for the Arts and Mapin Publishing Pvt. Ltd., 1995), pp. 342-60.
    ci si rivede, forse.

  6. #6
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    Predefinito Re: Il Culto delle Yoginī

    ci si rivede, forse.

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    Predefinito Re: Il Culto delle Yoginī


    Il Culto Yoginī: Mitologia e Affiliazione Tantrica (2)




    Tempio Sessantaquattro Yoginī, Bheragath



    La quarta tradizione (4), che associa il culto Yoginī con la setta Tantrica conosciuta come i Kaula, è basata da Dehejia sullo scrutinio dei testi Tantrici. Testi che riferiscono al culto altamente esoterico delle Yoginī, come lei segnala, ‘raramente contengono dichiarazioni definitive sul culto, neppure sono espliciti riguardo la posizione tenuta da queste dee con il cultus’:

    Le Yoginī Namavali (liste dei nomi) risaltano isolate, né precedute né seguite da qualsiasi verso esplanatorio sulla venerazione o lo status di queste divinità. I Tantra che citano le Yoginī ripetono che questa è una conoscenza molto segreta, nascosta, che deve essere divulgata solo agli iniziati.

    Il Kularnava Tantra, per esempio, ci informa in numerose occasioni che ‘quelli che seguono il cammino Kaula sono i favoriti delle Yoginī mentre coloro che si vi oppongono incorreranno nella loro maledizione. Persino quelli che deridono i Kaula saranno maledetti dalle Yoginī, che pare fossero viste dai Kaulika come loro dee patrone’, come evidente nel verso seguente (8.76): ‘Quelle persone stolte che biasimano i seguaci della via Kaula, loro le Yoginī distruggeranno.’ Altri testi Kaula contengono riferimenti similari, compreso il Sri Matottara Tantra il quale dichiara che i seguaci della via Kaula diventano particolarmente cari alle Yoginī, e il Kaulajnananirnaya il quale indica che le benedizioni delle Yoginī cadono sui loro seguaci, e le loro maledizioni sui nemici del Chakra Kaula.







    Il Kaulajnananirnaya, parlando delle diverse scuole Kaula esistenti, ci informa che la sua dottrina è quella della scuola fondata da Matsyendranatha e conosciuto come Yoginī Kaula. Il nome stesso di Matsyendranatha è avvolto nel mistero. Secondo il Kaulajnananirnaya era originariamente un brahmano di nome Visnusarman che proveniva da Chandradvipa, Bengala. Era nato nel giorno di Gandanta Yoga e così fu gettato in mare dai suoi genitori. Un pesce lo ingoiò, e mentre si trovava nella sua pancia trascrisse discussioni segrete tra Śiva e Gauri sul Dhyana-yoga e il Jnana-yoga. Quando Śiva si accorse di questo lo chiamò ‘Vipra’ e gli diede il nome di Matsyendranatha. Altrove nel testo è riportato che una volta Bhairava e Bhairavī andarono a Chandradvipa e furono raggiunti da Kartikeya in guisa di un discepolo. Questi rubò loro il segreto Kulagama Śastra perché lo odiava. Bhairava recuperò la scrittura catturando il pesce con la sua rete e aprendone il ventre che la conteneva. Di nuovo lo stesso trucco fu ripetuto:

    Questa volta il pesce che aveva ingoiato il testo era troppo grosso per essere catturato con la rete. Così Bhairava dovette abbandonare la forma di brahmano e adottare quella di pescatore. Questo pescatore non era altri che Matsyendra, un’incarnazione di Bhairava-Śiva.

    Nella versione bengalese della leggenda, Matsyendra è identificato con Minanatha. Nella forma di pesce apprese il segreto del Dhyana-yoga e del Jnana-yoga mentre Śiva lo stava rivelando a Gaurī. Ad ogni modo, attraverso la maledizione di Gaurī lo dimenticò mentre era in compagnia di 1600 donne di Stri-rajya. Goraksa, suo discepolo, liberò il suo guru da queste donne recitando il ruolo di una danzatrice. Dai vari resoconti delle leggende di Matsyendranatha, V. W. Karambelkar deduce che inizialmente coltivò una forma di Shivaismo yogico ma in seguito s’innamoro di un nuovo culto segreto che era praticato in compagnia di donne. Goraksa, non amando questo nuovo culto, costrinse il suo guru ad abbandonarlo e lo riportò al suo originale Shivaismo.







    Il Kaulajnananrnaya dichiara che ci sono otto vie speciali per praticare la Vidya e la prima di queste è frequentare la cerchia delle Yoginī, perciò l’intero culto segreto è chiamato Yoginī. Le otto Vidya sono numerosi Mantra per propiziare le Yoginī nell’ottenimento delle Siddhi. Le Yoginī sono Sahaja, Kulaja e Antyaja, concepite internamente ed esteriormente e sono in numero di sessantaquattro. Il Yoginī Kaula di Matsyendra riporta della venerazione del circolo mistico, composto da 4, 8, 12, 64 e più angoli al cui centro vi è Śiva. Le sessantaquattro Yoginī sono, molto probabilmente, ‘altrettante sfacettature rappresentanti il numero uguale di manifestazioni di Śakti abbraccianti Śiva’. Il Sri Matottara Tantra, ugualmente un testo Kaula, si occupa estensivamente delle Yoginī e termina ogni capitolo con la dichiarazione che sta esponendo la conoscenza segreta delle Yoginī mentre la copia successiva del Matottara, conosciuta come Goraksa-Samhita, termina i suoi capitoli dichiarando che sta esponendo la dottrina segreta Yoginī del Matottara, che appartiene alla tradizione Kaula. Persino il Kularnava Tantra, nei versi conclusivi, come notato da Dehejia, sembra riferirsi a se come un trattato sulle Yoginī e, in un passaggio, assegna a loro persino una funzione dal significato cosmico: ‘A quelle Yoginī eterne sulla cui gloria i tre mondi sono stati costituiti, a loro io mi inchino, a loro io prego’.
    Il più delle volte, comunque, le Yoginī sono invocate solo in connessione con i riti del dharma Kaula. Nel Kularnava è detto che quanti fanno distinzioni di casta nel Kula-Chakra diventano cibo per le Yoginī, ‘e quelli che hanno la capacità per tale Chakra Puja e che ancora non eseguono questo rituale, saranno distrutti dalle Yogini’.







    Il Kularnava Tantra menziona raramente qualsiasi numero specifico riguardo le Yoginī anche se il suo decimo capitolo, secondo Dehejia, contiene una chiara allusione alle sessantaquattro Yoginī e un verso riferente alla venerazione degli otto kula e delle sessantaquattro (presumibilmente Yoginī). Il Kaulajinananirnaya contiene un solo riferimento alle Yoginī come sessantaquattro in numero mentre il Sri Matottara Tantra fornisce i dettagli di due circoli di sessantaquattro Yoginī e un circolo di ottantuno Yoginī. Nel Kularnava Tantra ci viene detto del Astastaka-puja o la venerazione di otto gruppi di otto che poteva richiedere sessantaquattro giorni o poteva essere eseguito in un solo giorno. Il termine Astastaka (otto volte otto) appare anche nel Agni Purāna in riferimento alle sessantaquattro Yoginī mentre il Kularnava Tantra ancora riferisce del gruppo Astastaka delle Yoginī o agli otto circoli di Yoginī. Diversi lavori Kaula distinguono Bhairava come leader delle Yoginī ed è frequentemente visualizzato al centro del cerchio di Yoginī mentre altri testi, come il Srividyapithamatsarah, il Guhyasiddhikrama e il Varahi Tantra menzionano la presenza di Śiva in mezzo alle Yoginī. Considerando tutte queste importanti evidenze, Dehejia conclude che le Yoginī formavano un gruppo di dee intimamente connesse con il culto Kaula, e più in particolare con il ramo Kaula conosciuto come Yoginī Kaula:

    Visualizzate generalmente in numero di sessantraquattro, le Yoginī erano divise in otto Kula o gruppi di otto, e ritratte come formanti un cerchio attorno a Śiva come Bhairava. Erano invocate dai sadhaka Kaula per proteggere i seguaci della via Kaula, e adorate allo scopo di ottenere una varietà di abilità magiche. I templi delle Yoginī devono essere stati costruiti da questi credenti Kaula.

    Altri studiosi, contrariamente, associano il culto Yoginī a diverse sette Śaiva come i Mattamayura e gli Amardaka del Śaiva Siddhanta che enfatizzano la venerazione di Uma assieme a Śiva e, nel caso della setta Amardaka, la venerazione di Bhairava, essendo Amardaka uno dei nomi di Kala-Bhairava. In una tradizione preservata nel Brahmayamala, Śiva comunicò la conoscenza della sadhana Tantrica a un certo Srikanta che compose 12.500 versi nel ‘anustub chhanda che spiegò ai suoi discepoli. Il primo beneficiario di questa tradizione tantrica fu una persona chiamata Bhairava che la diffuse ad altri Bhairava. L’ultimo Bhairava la diede a un brahmano chiamato Devadatta che viveva nella terra di Odra’. Gli Acharya del culto Bhairava che avevano ottenuto grande merito spirituale erano così riconosciuti come Bhairava, erano considerati identici allo stesso Shiva ed eseguivano la sadhana con un omologo femminile al loro fianco.

    Un mito che racconta l’emergenza degli otto Bhairava da Śiva compare nel Vamana Purāna (44.20-40) col resoconto della battaglia tra Śiva-Bhairava e il demone Andhaka. Subito dopo essere stato colpito alla testa da una mazza brandita da Andhaka, quattro torrenti di sangue zampillarono da Śiva e da questi nacquero Vidyaraja, Kalaraja, Kamaraja, Somaraja, Svacchandaraja, Lalitaraja, e Vighnaraja che, con Śiva-Bhairava, costituivano otto forme. In diversi Purāna e Tantra come l’Agni Purāna (313.7-12) e il Tantrasara, gli otto Bhairava sono Asitanga, Ruru, Chanda, Krodha, Unmatta, Kapala, Bhisana e Samhara. In numerosi Agama e Yamala, come il Rudrayamala, il numero è aumentato a sessantaquattro, composto da otto gruppi di otto ciascuno, con a capo di ogni gruppo uno di quelli appena nominati. Come indicato da J. N. Banerjea, ‘sono i guardiani o consorti delle sessantaquattro Yoginī menzionate nei testi’. Non c’è dubbio, come accentato da B. C. Pradhan, ‘che come Bhairava, l’aspetto terrifico di Śiva, si moltiplicò in sessantaquattro, Chāmundā, l’aspetto terrifico della Śakti, si moltiplico anche lei in sessantaquattro Yoginī’, mentre L. K. Panda è dell’opinione che il culto Yoginī ‘è una parte del culto Bhairava, una forma di Śivaismo tantrico’, e il circolo delle sessantaquattro Yoginī evolve dalla scuola Śaiva Siddhanta. Che la Yoginī fosse la controparte femminile di Bhairava sembra comprovato nel Jayadrathayamala, una parte del Brahmayamala, che include il nome Bhairavī-dākinī tra le liste di divinità Śakta.

    Bhaiava è ugualmente popolare con la setta Tantrica dei Kāpālika ed è invariabilmente invocato con la sua consorte Chāmundā, entrambi di apparenza terrifica, e associati a pratiche e rituali raccapriccianti. Contrariamente ai numerosi testi Kaula, comunque, non abbiamo testi Kāpālika sopravvissuti così la maggior parte delle nostre informazioni riguardo alle loro attività e i loro rituali devono essere raccolte da altre fonti, per la maggior parte ostili verso la setta. In molti casi, infatti, il contatto con un Kāpālika era considerato avere un effetto inquinante. I loro rituali erano frequentemente eseguiti nei cimiteri, come indicato, dove le Yoginī sono a volte incluse come accompagnatrici di Chāmundā/Kālī. L’associazione delle Yoginī con i Kāpālika sembra essere confermata nel Yasastilaka dove, citate come Mahā yoginī, erano le attendenti di Chandamari, nel cui tempio (Mahābhairava) i Kāpālika vendevano carne tagliata dal loro corpo; e nel Malatimadava (I.15) dove la yoginī Saudamini, che ha ottenuto poteri miracolosi (siddhi), si dice abbia praticato il voto Kāpālika a Sriparvata (noto centro Kāpālika in Andhra Pradesh). Le Yoginī a volte accompagnano Chāmundā/Kālī in battaglia, come nel Śiva Purāna (2.5.33.35-45) dove sono annoverate nel seguito di Bhadrakālī nella sua battaglia contro Sankhacuda. Nel Linga Purāna (106.1-28), dopo la sconfitta del demone Daruka, le Yoginī danzarono con Kālī tra i fantasmi.

    Sebbene non abbiamo testi Kāpālika, il lavoro Kanphata, Goraksa-siddhanta-samgraha, ci dona alcune leggende riguardo la storia dell’incontro di Shankara con un infido Kāpālika di nome Ugra-Bhairava in cui questi non è elogiato ma neppure condannato, probabilmente a causa della vicina rassomiglianza con le pratiche Tantriche degli aderenti Kāpālika e Kanphata. In questo lavoro è affermato che Śiva rivelò anche la dottrina Kāpālika. L’autore cita dal Sabara Tantra una lista di dodici saggi cui fu rivelata la dottrina Kāpālika. Questi dodici saggi avevano dodici discepoli che divennero gli originari promotori della via Kāpālika. La risposta al perché la via Kāpālika fu rivelata si trova in un mito che riguarda i ventiquattro Avatara di Vishnu. Intossicati dall’orgoglio, questi iniziarono a spaccare la terra, spaventando gli animali selvatici, opprimendo città e villaggi, ecc. mentre Krishna era occupato in emozioni adultere. Śiva (Natha), molto arrabbiato per queste azioni malvage, assunse la forma di ventiquattro Kāpālika. Nella battaglia conseguente i Kāpālika decapitarono gli Avatara, e portarono i teschi nelle loro mani. Fu in questo modo che la nacque la scuola Kāpālika.

    Non solamente i Kāpālika propiziavano Bhairava attraverso diversi tipi di sacrifici, in più lo imitavano ricostruendo ritualmente i suoi exploit mitologici. Di particolare importanza è il mito di Śiva che decapita la quinta testa di Brahmā. Commettendo Brahmanicidio (tagliando la testa di Brahmā) Śiva divenne un Kapālin. Per espiare il suo peccato Bhairava doveva portare il teschio di Brahmā. La penitenza che Śiva scontò divenne il modello della penitenza Mahāvrata per l’uccisione di un Brahmano, come descritta nel Kurma Purāna (II.30.12-16).







    Il Mahāvrata dei Kāpālika, la penitenza principale prescritta per la rimozione del peccato dell’uccisione (accidentale) di un brahmano come mostrata nella Vishnu Smriti (I.1.6,-15) comprendere il dimorare in una foresta per dodici anni, mendicare la carità proclamando la propria azione, e portando (su un bastone) il teschio della persona uccisa. Attraverso la loro imitazione ripetitiva del compimento Mahāvrata di Śiva, gli asceti Kāpālika ‘diventavano ritualmente ‘omologhi’ con il dio e partecipavano di, o gli venivano concessi, alcuni dei suoi attributi divini, specialmente gli otto poteri magici (siddhi)’. Un importante aspetto della comunione rituale con Śiva-kapālin, come suggerito da Lorenzen, sembra essere stato l’identificazione del teschio da mendicante del devoto con il teschio di Brahmā; ‘come indica il loro nome, questa ciotola ricavata da un teschio era il loro marchio’. Riferimenti a ciò appaiono in numerosi lavori sanscriti, compreso il Prabodachandrodaya (III.12-13) dove il Kāpālika descrive se stesso come uno che ‘mangia in un teschio umano’ e dicendo che ‘la conclusione del nostro digiuno è compiuta bevendo il liquore distribuito nel teschio di un brahmano’, e nel Moharajaparajaya (IV.23) dove il Kāpālika asserisce ‘Nara-kapālin dichiara che chi mangia carne umana nel teschio di un uomo nobile ottiene invariabilmente la posizione di Śiva (Śiva-sthana)’. Ugra-Bhairava, il Kapalika oppositore di Shankaracharya nel Sankara-digvijaya (XI.11), rivendica che Girisa (Śiva) ha a lui detto che raggiungerebbe la meta finale se ‘offrirebbe nel fuoco sacrificale sia la testa di un saggio onnisciente sia la testa di un re mentre numerosi testi giuridici specificano che il Mahāvratin dovrebbe tenere il teschio del brahmano che ha ucciso come ciotola per mendicare’.

    Ugualmente associata agli asceti Kāpālika è il Khatvanga (mazza con un teschio alla sommità) come menzionato nella penitenza per l’uccisione di un brahmano. Nell’Agamapramanya (circa CE 1050) di Yamunacharya, siamo informati che le caratteristiche dei Kāpālika comprendono il cospargersi il corpo con le ceneri, indossare una corona e diversi ornamenti alle orecchie e al collo, e portare un Kapāla e una mazza. Secondo i Kāpālika chi realizza il vero significato delle sei insegne (il cordone sacro, le ceneri, la corona, karnika, kundala e rucaka) e medita sul Sé, localizzandolo mentalmente nell’organo femminile, ottiene la suprema beatitudine. Nel Chandacausika (decimo secolo) di Ksemisvara, Dharma, nella forma di un Kāpālika, è descritto come decorato con ceneri e ossa umane mentre impugna una mazza e un kapāla. Egli asserisce che sta per ottenere alcuni poteri magici: ‘controllo su uno spirito entrato in un corpo, possesso della saetta e di formule e disegni magici, unione con una demonessa, e la conoscenza dell’alchimia (dhatuvada) e dell’elisir di lunga vita (rasayana)’.

    Nel Yasastilaka (I.15) la Morte è rappresentata come un Kāpālika e lo scheletro di una bella donna serve come mazza. Nel racconto del brahmano Chandrasvamin e il Kāpālika dal Kathasaritsagara (XVIII.171D6), il Kāpālika, che era arrivato per chiedere l’elemosina mentre il brahmano era fuori, gettò il suo sguardo sulla moglie del brahmano che immediatamente ebbe la febbre e morì la sera stessa. Quando il brahmano ritornò a casa trovò la moglie sulla pira funeraria ormai divampante. Il Kāpālika si avvicinò al fuoco con un risonante damaru (tamburo doppio) in una mano e un khatvanga penzolante dalla sua spalla. Egli attenuò le fiamme della pira gettandovi sopra della cenere e la moglie si alzò illesa. Il Kāpālika prese colei che era stata ottenuta per mezzo dei suoi poteri magici (siddhi) e la portò in una grotta sulle rive del Gange. Il marito li seguì. Il Kapalika depose il khatvanga e si rivolse a due fanciulle prigioniere nella caverna: ‘Lei senza la quale io non potrei sposarvi, sebbene vi ho ottenuto, è in mio possesso; e così il mio voto è stato compiuto’. In quel momento Chandrasvamin prese il khatvanga e lo lanciò nel fiume. Senza la magia del suo bastone il Kāpālika era senza potere. Cercò di fuggire ma fu ucciso da una freccia avvelenata scagliata da Chandrasvamin.

    In aggiunta al kapāla, il khatvanga e il damaru, una campanella è a volte portata dal Kāpālika, o pende dal suo khatvanga, come nella descrizione di Unmatta-Bhairava nel commentario di Dhanapatisuri sul Sankara-digvijaya (XV.28) di Madhava dove tiene un kapāla nella sua mano sinistra e una tintinnante campanella nella mano destra mentre canta ‘O Sambhu-Bhairava! Aho, Kalisa’. La campanella, naturalmente, lo accosta ai fuori casta e al girovagare espiatorio di Śiva.







    Il Kāpālika è associato, persino più del Kaula, con i cimiteri, corpi e teschi. Nel Parsvanatha-carita ( un lavoro Jain), per esempio, la dea Kālī elogia un Kāpālika che raccoglie teschi per lei. Quando ottiene 108 teschi si dice che lei ‘realizzi i suoi propositi’.
    Rituali nei cimiteri con un corpo al centro di un mandala appaiono in diversi lavori, come la versione di Jambhaladatta del Vetalapanchavimsati o la descrizione nel Harshacharita del Mahākālahrdaya (potente incantesimo) intrapreso per soggiogare un Vetala, dove l’ascetico Bhairavacharya è descritto in un grande cerchio di cenere:

    Seduto sul petto di un corpo che giace supino, unto con pasta di sandalo rosso e adornato con ghirlande, abiti e ornamenti tutti rossi, lui con un turbante nero, unguenti neri, amuleti neri, e vestiti neri, aveva iniziato un rito al fuoco nella bocca del corpo, dove una fiammella ardeva.

    Nel commentario del Takkayagapparani, i sadhaka seguaci di Mayanavasini, nell’adorare Kali, indossavano l’abbigliamento di Bhairava ed erano chiamati Bhairava nei testi. Selezionavano le teste più sensibili tra loro che poi decapitavano e offrivano alla devi come fiori (sira puspa), ammucchiati come montagne.

    Così, anche se il culto Yoginī può essere eventualmente associato in particolare con, o integrato nella, setta Tantrica Kaulachara, è anche affiliato con altre sette Tantriche e Shivaite, comprese le precedenti sette Kāpālika e Mattamayura, così le sue origini rimangono ancora oscure. E’ curioso, comunque, che il patrocinio reale sembra essere cessato proprio quando l’influenza e la popolarità Kaulachara stavano iniziando a essere largamente accettate in tutta l’India settentrionale, In Orissa per esempio, entrambi i Chausat-Yoginī Pitha risalgono al decimo secolo, prima dell’avvento dei Kaulachara, e coincide con la diffusa comparsa di rituali sessuali associati in particolar modo agli aderenti Kāpālika. Nell’undicesimo secolo, con i Kaulachara che pare abbiano soppiantato i Kapalika in popolarità, stadi sequenziali del rituale sessuale sono eliminati a favore di motivi erotici indipendenti mentre solo figure singole di Yoginī o dakini sono comprese nel programma iconografico dei templi Shaiva.


    Liberamente tratto da: Tantra and Śakta Art of Orissa
    di T. E. Donaldson, 2002

    V. Dehejia Yoginī Cult and Temples
    R. T. H. Griffith Hymns of the Atarvaveda
    K. R. van Kooij Kālikā Purāna
    R. Nagaswamy Tantric Cult of South India
    Agni Purāna
    Brahmavaivartta Purāna

    P. Pal Tantrasara
    Padma Purāna
    V. W. Karambelkar Matsyendranatha and his Yoginī Cult
    V. V. Mirashi The Śaiva Acharya of the Matta Mayura Clan
    S. N. Rajaguru Invocatory Verses from Inscriptions
    B. C. Pradhan Śakti Worship in Orissa
    J. N. Banerjea Development of Hindu Iconography
    L. K. Panda Śaivism in Orissa
    N. N. Bhattacharyya History of Śakta Religion
    D. Lorenzen Kāpālikas and Kālāmukas
    Kūrma Purāna

    K. K. Handiqui Yasastilaka
    Harsacarita

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    Predefinito Re: Il Culto delle Yoginī


    Yoginī e Yaksinī






    Yaksinī


    I testi Kaula suggeriscono indirettamente l’esistenza di una connessione implicita tra le Yoginī e le Yaksinī, divinità associate agli alberi, alla natura e alla fertilità. Dal primo secolo a. C. abbiamo rappresentazioni scultorie di Yaksinī, come quelle etichettate chiaramente come Yaksī nello stupa di Bharhut, con una gamba e un braccio avvinghiati al tronco di un albero mentre con l’altro braccio afferra una fronda fiorita piegandola verso il basso. Si credeva che le Yaksinī risiedessero nelle foreste, e che il loro tocco potesse produrre la fioritura o la fruttificazione di un albero (quale abilità poeticamente estesa a tutte le donne). Il Kulārnava Tantra riporta che le Yoginī del Kula risiedono negli alberi conosciuti come Kulavrksa, e che questi alberi dovevano essere avvicinati con atteggiamento di venerazione. Sono specificate otto varietà di alberi Kula con l’ammonimento di non tagliarli, di non coglierne le foglie o di non dormire sotto di essi. Il Kaula Saktanandatarangini riporta anche di Yoginī Kula risiedenti negli alberi Kula. L’implicazione sembra essere che le Yoginī Kula erano in qualche modo connesse con o derivate dal concetto delle Yaksinī. Curiosamente, anche senza investigare i testi Kaula, Coomaraswamy credeva che le sessantaquattro Yoginī originariamente dovessero essere state Yaksinī.

    Il Kaula Uddisa Tantra, un trattato di magia, contiene un capitolo intitolato Yaksinī Sādhanā che ci dice che le Yaksinī possono essere avvicinate come sorella, madre o moglie. Queste Yaksinī, che possono assumere forme mutevoli (nanarupadhara), sapranno, quando adorate in maniera appropriata, esaudire tutti i desideri del devoto. Il capitolo termina con una serie di versi sulla venerazione della Yaksinī come moglie, con istruzioni al sādhaka per preparare un giaciglio coperto da fiori sul quale adorare la Yaksinī che arriverà nella notte per condurre il sādhaka nei piaceri dell’amore. Lo stesso approccio basilare è descritto in una raccolta di manoscritti Kaula intitolati Yoginī Sādhanā Prayoga, e altri chiamati Yogini Sādhanā, che per la maggior parte sembrano derivati dal Bhutadamara Tantra. In questi è specificato che la Yogini può essere adorata come madre, sorella o moglie; quando venerata come moglie la Yogini trasformerà il sādhaka nel più importante dei re (rajendrah sarvarajaram). In almeno una di queste versioni i termini Yoginī e Yaksinī sono usati intercambiabilmente, e lo stesso testo specifica anche che la venerazione durante il giorno è appropriata per i riti Daksina Marga, mentre la venerazione Vamamarga (che comporta la letterale rappresentazione di tali rituali) dovrebbe essere eseguita di notte.




    Yaksinī


    Altre evidenze indirette riguardo alla relazione tra Yoginī e Yaksinī vengono dalla trattazione nei Tantra Hindu della dea giainista Padmāvatī, una divinità tantrica il cui culto era intrapreso per acquisire diverse capacità magiche. Il Yoginī Tantra chiama Padmāvatī una Yoginī e cita il mantra di Padmāvatī per prevedere il futuro attraverso i sogni. Il Mahāyaksinī Tantra riporta questo mantra di Padmāvatī riferendovisi come astamahasiddhi-yaksinī-prayoga, indicando che Padmavati è una Yaksinī e anche che le otto principali siddhi (poteri magici) devono essere acquisiti attraverso la venerazione delle Yoginī.

    Di particolare rilevanza è il manoscritto intitolato Yaksinī Prayoga che elenca un’intera serie di Yaksinī, descrivendo per ognuna il metodo d’invocazione e accostamento. Queste Yaksinī sono considerate dee di non meno importanza: possono accordare ai loro adoratori poteri magici compresi il muoversi nell’aria (akasa-gamana), immortalità (rasayana), visione a distanza (duradarsana) e altre abilità parallele a quelle derivate dalla venerazione di quelle dee Kaula, le Yoginī.



    Yaksinī



    Liberamente tratto da: Yoginī Cult and Temples
    di Vidya Dehejia

  9. #9
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    Predefinito Re: Il Culto delle Yoginī


    Il Culto delle Sessantaquattro Yoginī





    Tempio Yoginī - Bheraghat


    Il Culto delle Sessantaquattro Yoginī emerse come un’importante manifestazione del principio Śakta nel periodo del primo medioevo. Difatti, l’origine di questo culto è avvolta nel mistero ma indubbiamente ha una lunga storia propria e ha avuto largo seguito, con diffusione nell’India orientale, centrale e settentrionale. Gli archeologi, gli storici, gli indologi, i filosofi e i sapienti religiosi hanno cercato di studiare seriamente il significato delle Yoginī, e hanno proposto diverse teorie riguardo alla loro origine, crescita e sviluppo. Sfortunatamente, finora nessun consenso è emerso a spiegare in modo soddisfacente il mistero del culto. La ragione principale dietro la sua oscurità può essere la non disponibilità di testi autentici e la discontinuità di pratiche tantriche e dei riti esoterici.

    La letteratura, vedica e post-vedica, spesso menziona i nomi di alcune Yoginī ma mai registra il loro raggruppamento in numero di sessantaquattro come culto. Infatti, Yoginī si sviluppò come culto dal VI-VII secolo d.C., quando la fioritura combinata di Śaktismo, Tantrismo e Śivaismo influenzò il mistero religioso dell’India. Attraverso il processo di trasformazione e approvazione popolare, le Yoginī si moltiplicarono in sessantaquattro manifestazioni e congiuntamente furono conosciute come Sessantaquattro Yoginī.
    I resti dei templi Yoginī, edificati in diverse parti dell’India tra l’VIII e il XII secolo d.C., indicano chiaramente che gli esponenti e i seguaci del culto esoterico compirono seri sforzi per renderlo popolare come espressione estrema del Tantrismo Śakta. I templi ipetri delle Sessantaquattro Yoginī scoperti finora sono distribuiti in Orissa, Madhya Pradesh, Uttar Pradesh e Madras. Di questi, quattro furono scoperti prima del 1875 dagli architetti stranieri Cunningham, Beglar e Macpherson e si trovano a Bheraghat e Khajuraho in Madhya Pradesh, Ranipur-Jharial in Orissa e Coimbatore a Madras. In seguito resti di templi ipetri delle Yoginī furono notati a Sahadol in Madhya Pradesh (alcune statue di Yoginī sono conservate nel museo Dhubela del distretto di Chhatrapur), a Mitauli e Dudhai nel distretto Lalitpur e a Lekhari nel distretto Banda dell’Uttar Pradesh, e a Hirapur vicino Bhubaneswar in Orissa. Tutti questi templi ad eccezione di quello a Khajuraho sono di struttura circolare. La forma ovale del tempio Yoginī di Khajuraho è dovuta all’inadeguata larghezza del crinale su cui fu eretto. Tutti questi templi, eccetto quello a Bheraghat, hanno ognuno sessantaquattro nicchie per custodire le immagini di sessantaquattro Yoginī. Sorprendentemente, a Bheraghat il totale delle immagini custodite arriva a settantotto.




    Yoginī - Ranipur


    In assenza di testi pertinenti l’origine delle Yoginī, dobbiamo dipendere dai resoconti puranici e dalle leggende. Il Markandeya Purāna, uno dei primi Purāna, rivela un’interessante storia sull’origine della Grande Dea e delle Yoginī come Mātrkā. Questa narra che gli Dei crearono le loro controparti femminili per assistere Durgā nell’uccisione del re dei demoni Raktavirya, alleato di Sumbha. Il demone aveva il potere di moltiplicarsi in demoni di uguale statura e valore quando il sangue colante dalle sue ferite toccava il terreno. Le controparti femminili degli Dei furono impegnate nel bere le gocce di sangue prima che toccassero il suolo, e in questo modo il pauroso demone fu ucciso.
    Il Mahābhāgavata Purāna riporta che descrivendo la residenza di Kālī, Mahādeva spiegò che è una città vasta con un pozzo avente quatto ingressi nelle quattro direzioni; nel mezzo, su un trono di leone, è seduta la Dea circondata da sessantaquattro Yoginī e sessantaquattro Bhairava cui è affidata la protezione della città. Il Mahābhāgavata Purāna innalza così lo status di Kālī a preminenza. Il Rajatarangini e il Vatalapanchavimsati riportano storie interessanti riguardo alle origini delle Yoginī.




    Yoginī - Ranipur


    Il Matsya Purāna indica una leggenda molto singolare riguardo all’origine delle Mātrkā. Gli Dei e le Dee del paradiso erano terribilmente indeboliti dal conflitto con un potente demone chiamato Andhaka, invulnerabile ai loro attacchi. Un giorno progettò di rapire Pārvatī mentre si trovava sul monte Kailash con Śiva. Quando il nemico si presentò ai cancelli Śiva, furiosamente adirato, intraprese la battaglia contro di lui. Andhaka era dotato del potere che gli garantiva, qualora fosse rimasto ferito in battaglia, la nascita d’innumerevoli demoni dalle gocce del suo sangue che cadevano al suolo. Quando Śiva scagliò la sua arma Pāśupata contro il demone ferendolo gravemente, sorsero dal sangue che cadeva dalle sue ferite al suolo numerosi demoni pari a lui. Una volta decapitati, rinascevano dal loro stesso sangue, moltiplicandosi. Il Dio (Śiva), non avendo altra possibilità, dovette creare centinaia di Madri Divine. Queste Mātrkā bevvero tutte le gocce di sangue dei demoni con estremo piacere. Dopo che il demone Andhaka fu ucciso, le Madri assunsero apparenze terrifiche e intrapresero una campagna di distruzione dell’universo. Śiva, lo stesso creatore delle Madri, fallì nel tentativo di controllarle e pregò Narasimha il quale apparve immediatamente con la sua mazza incrostata del sangue di Hiranyakasipu, la sua lingua guizzante fuori dalla bocca come una scintilla, con i suoi lunghi denti e zanne, gonfio di potente energia e ruggente come le nuvole rombanti, scosso dal pauroso vento che soffia al momento della distruzione dell’universo, tuonante come gli oceani, con la sua bocca spalancata, con unghie dure come fulmine, con gli occhi scintillanti di rosso come il sole bruciante dal fuoco della furia, indossando meravigliosi gioielli e abiti e diffondendo il suo lustro su tutto l’universo, splendente come il fuoco divampante, con il suo volto bello e luminoso.
    In modo da soggiogare le Madri create da Śiva, Narasimha creò a sua volta trentadue Madri dall’aspetto più potente e formidabile, pronte a creare o distruggere l’intero universo. Le Madri precedenti non poterono sostenere l’ira emanante dagli occhi di queste nuove Madri, e con loro presero rifugio in Narasimha, che indicò a tutte le Madri di nutrire e sorvegliare l’universo come gli uomini e gli animali fanno con i loro piccoli; avrebbero assistito la grande Madre nella creazione e nel sostentamento dell’universo.




    Antaraki Yoginī


    Il racconto del Matsya Purana è di grande importanza riguardo alle origini delle Yoginī. Nelle diverse liste delle Yoginī trovano menzione i nomi di molte Madri. Dato che questo particolare Purana fu composto nel VII – VIII secolo d.C., di conseguenza il culto delle Yoginī era già comune nella società dell’epoca. Un'altra fonte mostra che le Yoginī erano anticamente esseri umani, donne o sacerdotesse possedute dalle dee, e nel corso del tempo furono elevate alla posizione di divinità.
    Il Culto delle Sessantaquattro Yoginī, con la sua filosofia e le pratiche occulte e segrete, è stato sistematizzato da Matsyendranātha (VIII – X secolo d.C.) nel suo famoso Kaulajnananirnaya. Matsyendranātha è un nome importante nella storia dei movimenti religiosi dell’India medievale, e conosciuto come Avalokitesvara in Nepal, dove è venerato come Bhrngapada. E’ Luipa in Tibet, uno tra gli Ottantaquattro Siddha. Il culto segreto di Matsyendra era praticato in compagnia di donne in un circolo conosciuto come Yoginī Kaula o Matsyendra-Kaula. Questa peculiare conoscenza segreta era chiamata Mahat Kaula e Siddhamrta nelle ere precedenti. Si dice che Matsyendranatha abbia esposto il suo Yoginī Kaula segreto in Kamarupa, dove ogni donna era una Yoginī. Lo scopo definitivo del Kaula è lo stato in cui la mente e la visione si fondono nell’oggetto da realizzare. Il Soubhagya Bhaskara descrive Kula come Śakti e Akula come Śiva, l’unione dei due è Kaula e il processo per stabilire questa relazione è il Kaulamarga. Śiva, l’Akula, è rappresentato nei templi Yoginī con padronanza e beatitudine supreme, con l’organo maschile eretto simboleggiante la completa cessazione della triplice agitazione di coscienza, respiro e seme. L’immagine riecheggia la riconciliazione dell’impassibilità dello Yoga con il liricismo del sesso. E’ rilevante menzionare che Śiva, l’Akula, è la figura centrale nei templi Yoginī dove erano in voga le pratiche Kaula-Kāpālika. Matsyendranatha ha proposto un tipo di monismo, dove Kula è infine identificato con Akula Śiva e si cerca il potere attraverso la mediazione delle Yoginī. Egli è più interessato all’esaltazione delle Śakti attraverso i mantra e i rituali per l’ottenimento di poteri come Pasastambhana, Nigrahanugraha, Marana, Krasti, Vasikarana, Jarapaharana, Anekarupadharana, Yoginīmelan ecc. Secondo il Kaulajnananirnaya ci sono otto vie speciali per praticare la Vidya e la prima di queste è associarsi ai circoli delle Yoginī. L’intero culto segreto prende il nome Yoginī e le otto Vidya hanno il fine di propiziare queste Yoginī per il raggiungimento delle Siddhi.




    Matsyendranath



    Bibliografia
    H. C. Das, Tantricism: A Study Of Yoginī Cult
    R. K. Sharma, Temple of Chaunsath Yoginī of Bheraghat
    R. C. Hazra, Studies in the Upapuranas
    N. N. Bhattacharya, History of the Śakta Religion
    Markandeya Purāna
    Mahābhāgavata Purāna
    Matsya Purana
    Skanda Purana
    Kaulajnanirnaya



    Liberamente tratto da: Iconography of Śakta Divinities
    di H. C. Das
    Ultima modifica di Zed; 26-03-12 alle 13:30

  10. #10
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    Predefinito Re: Il Culto delle Yoginī

    errata corrige: le due immagini di Yoginī sono del complesso di Ranipur e non di Bheraghat come indicato
    Ultima modifica di baba; 18-03-12 alle 22:51

 

 
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