É un mantra che rimbomba da vent’anni: ogni volta che la Lega vince ricompaiono sempre le stesse interpretazioni che tendono a ridurre il fenomeno in termini sia di contenuti che di interesse geografico e temporale: un sussulto passeggero che però dura da quattro lustri. Senza originalità si ripetono le stesse menate: è un voto di protesta, un moto di rigetto dell’immigrazione di una società chiusa e opulenta, è la reazione di un popolo di evasori fiscali, è una manifestazione di egoismo, un rigurgito provincialista contro le meraviglie della globalizzazione, un gorgoglio della pancia, e altre pirlate simili. Tutte molto politicamente corrette ma scorrette – anzi sbagliatissime – sul piano della lettura della realtà.
Questa volta ci si mette anche Francesco Alberoni che, sul “Corriere” di lunedì scorso, tira fuori – buon ultimo – la trovata della flatulenza subalpina: “La Lega è l’espressione della popolazione che vive nelle valli e nelle zone pedemontane di tutto l’arco alpino.” Si concede anche toni di autentico lirismo romantico restringendo ulteriormente il riferimento geografico del movimento alla “stupenda fascia fra i laghi Maggiore, di Varese e di Como”. La Lega sarebbe insomma un fenomeno turistico, il prodotto delle pulsioni sub-politiche dei crotti della Valsolda, simpatico folclore paesano a metà fra Piero Chiara e Antonio Fogazzaro. Come a dire che togliendo l’Inverna e il Tivàn la barca della Lega si impigrirebbe in una bonaccia pregna di umori lacustri e di effluvi di frittura di arborelle.
Ma non è la sola immagine originale (si fa per dire) che ci dona il professore. Con molto garbo butta anche lì che si deve solo ringraziare Bossi che, concependo “un progetto politico nuovo”, ha in qualche modo placcato e disinnescato “un disagio diffuso che si esprimeva in diffidenza, in rancore, in fantasie di secessione e di indipendenza”. Così gli ha intessuto un elogio mortale, descrivendolo come un campione di moderazione, come un pompiere di fuochi separatisti, ripetendo quasi legittimandola con la sua autorevolezza l’accusa più sanguinosa che gli indipendentisti più radicali – dentro e fuori dalla Lega – fanno al Senatùr: quella di essere diventato la guardia bianca dell’unitarismo italiano, il più sicuro garante del patriottismo tricolore, una sorta di pifferaio di Hameln che libera la città dai topi secessionisti. Cioè tutto il contrario di quel che c’è nel primo articolo dello Statuto della Lega Nord per l’indipendenza della Padania.
Così in un colpo solo fa incazzare Bossi e i suoi detrattori, i fedelissimi alla linea e gli assalitori di campanili. E dimostra come, ancora oggi, dopo venti anni di diagnosi sbagliate e di previsioni sbriciolate, commentatori, intellettuali, pensatori e maestri di pensiero abbiano capito poco del fenomeno leghista. Che non è un fastidio umorale di frequentatori di sale di bigliardo pedemontane ma la parte visibile di una ebollizione sociale che sta un poco alla volta coinvolgendo l’intera Padania, i cui cittadini (non solo quelli lacustri) si stanno convincendo - con i tempi lunghi dei bifolchi di pianura e di montagna - che la secessione sia la sola soluzione.
Oppure gli stessi “acuti osservatori” hanno capito benissimo quello che sta succedendo ma sperano ancora che qualcosa lo impedisca o cercano di esorcizzarlo negandolo. Alla fine però gli incendiari più pericolosi sono quelli che fanno finta di non vedere i focolai dell’incendio.
Gilberto Oneto
Pubblicato da Libero in data 1° luglio 2009
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